Lingua Sovrana – 3 / (Non)Violenza e Sacrificio (la Notte e l’Esposizione della Lingua)
di Marco Rovelli
A. Ovunque regnano “gentilezza d’animo, simpatia, amor di pace, fiducia e tutto quanto si potrebbe aggiungere ancora” – scrive Benjamin [26] -, là è possibile la sospensione del rapporto mezzi-fini – e gli uomini si possono affidare a ‘mezzi puri’. La lingua dell’amicizia, allora, è l’unico luogo dove è possibile risolvere i conflitti in maniera non violenta. La conversazione è “l’esempio più calzante” di questi mezzi puri.
Ma quando Benjamin parla di non-violenza, non bisogna pensare al satyagraha. La non-violenza è, per Benjamin, affine alla pura violenza – la “violenza divina”[27]. La non-violenza è ciò che precede la caduta nel linguaggio rappresentativo. La non-violenza è la condizione edenica nella lingua pura. Occorre dunque andare oltre la funzione rappresentativa del linguaggio, se si vuole tentare di articolare la nobilissima lingua prelapsaria – la lingua della ‘vocazione’. Oltre il rapporto mezzo-fine. Non più il linguaggio come segno, dunque, come mediazione. Al suo posto, il linguaggio come manifestazione. Benjamin fa l’esempio della collera. Nessuna mediazione, qui. La collera si mostra. Agisce senza cercare un fine. La sua purezza risiede proprio nel puro fatto di mostrarsi. Come la folgore della violenza divina. Si mostra, e il suo mostrarsi è il mostrarsi del pre-giuridico: della decisione che sta al di qua del diritto. Una decisione sovrana – precedendo e fondando il diritto – non può essere né legittima né illegittima, visto che è quella stessa decisione che fonda la possibilità di stabilire ciò che è legittimo e ciò che è illegittimo: essa è, ed è performativa. Come fonda il diritto, la violenza divina può distruggerlo, con un’altra decisione sovrana[28]. Così, la violenza che si mostra nella collera senza fine è l’apparire della violenza divina che distrugge il diritto.
Una comunità di amici è dunque doppiamente fuorilegge. Essa è tale nell’uso del mezzo puro della lingua – nella conversazione che fa a meno del diritto; nella collera che distrugge il diritto. E nella collera, ciascuno si assume la propria ‘responsabilità’. Non c’è criterio possibile per stabilire quando questa collera sia giusta o meno. In questa collera, ognuno si espone al rischio – alla notte del non-sapere.
(Noi viviamo nel trionfo della rappresentazione. E’questo, la società dello spettacolo. “Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione”[29]. Non sarà che è tanto più necessaria la collera di una banda di amici – di amici banditi – quanto più comunicativo – spettacolare – si fa il linguaggio? La collera come vocazione).
Ognuno si espone al rischio, si diceva. E questa decisione di esporsi non può che essere folle. L’amicizia non conosce giudizio, né diritto. Essa non asservisce l’evento a un criterio, ma ‘gli rende giustizia’ nella sua irriducibilità. Leggiamo ancora Derrida: “L’istante della decisione è una follia, dice Kierkegaard. E’ vero soprattutto riguardo all’istante della decisione giusta che deve anche squarciare il tempo e sfidare le dialettiche. E’ una follia. Una follia perché una tale decisione è a un tempo superattiva e subita, mantiene qualche cosa di passivo, perfino d’inconscio, come se colui che decide non fosse libero se non di subire la sua stessa decisione e come se questa gli giungesse dall’altro”.[30]
Qui si potrebbe aprire un’altra deriva – sulla necessità, sul desiderio – sulla necessità del desiderio. Ma lasciamo questa deriva a un ignoto a-venire. Per adesso limitiamoci a constatare che la decisione è sempre una “decisione d’urgenza e di precipitazione, che agisce nella notte del non-sapere e della non-regola”[31]. Notte del non-sapere, dice Derrida, con espressione consapevolmente batailleana.
B. Dunque. L’amicizia è lo spazio ludico dove la lingua si espone in quanto tale, in quanto factum loquendi – dunque in quanto miracolo e meraviglia – mostrando il suo mondo e i suoi limiti – e l’atto di questo mostrare, come scrive Wittgenstein, coincide con il mistico. In questo eccesso (in questo ‘trasmodare’ dove il linguaggio si disarticola in atto, si fa vocazione pura, senza fine) la lingua rammemora e rifonda la lingua di Dio. Qui il linguaggio riposa nel senza fondo dell’evento – nell’evento ritrovando la sua Origine – che è ovunque.
L’esposizione della lingua è un sacrificio. Per Bataille il sacrificio – “questione ultima”, “chiave di ogni esistenza umana”[32] – si fa ‘segno’ del movimento senza origine né scopo dell’universo, della sua eccedenza costitutiva, e insieme della lacerazione che è il proprium dell’uomo, il quale a questo universo – e al suo movimento senza senso – appartiene integralmente. Di questo movimento esuberante – di questo eccesso, di questa dépense – il sacrificio è ri-presentazione, un ‘segno’ coscientemente messo in atto dall’uomo il quale ogni volta rifonda la sua intimità con la natura.
Il sacrificio, essendo perdita senza misura, offerta senza ritorno, senza impiego, è il primo modo in cui l’uomo tenta di articolare il (non)senso – l’unsinn – che è l’inesprimibile chiamato da ogni parola. Con una formula: se il sacrificio è l’atto linguistico primario, il NIENTE è il factum.
Il sacrificio è la prima figura del silenzio, il primo modo di rappresentare quel “vuoto” che sta allogato al cuore della “vita”[33], e con essa inestricabilmente confuso. Dunque vita e vuoto (in quanto dati dell’esperienza, al contrario di essere e nulla, che sono nozioni astratte scindibili solo arbitrariamente[34]) sono l’ambiguità costitutiva, i due contrari non riducibili entro i quali si compie il movimento senza fine dell’esistenza umana. In mezzo a questo vuoto, da questo scarto – prende forma l’umano – e la sua lingua.
[26] Walter Benjamin, Per la critica della violenza, in Id., Angelus novus, cit., p. 18.
[27] Per un’analisi accurata di questo snodo concettuale, Jacques Derrida, Forza di legge, cit., pp. 121-127.
[28] Benjamin contrappone la violenza degli dei del mythos greco (in quanto violenza che fonda il diritto) alla violenza del Dio ebraico (che distrugge il diritto).
[29] Guy Debord, La società dello spettacolo, Stampa Alternativa 1976, p. 3.
[30] Jacques Derrida, Forza di legge, cit., p. 81.
[31] Ibidem.
[32]Georges Bataille, Il limite dell’utile, Adelphi, Milano, 2000, p. 135.
[33] Georges Bataille, Sacrifices, in Œuvres Complètes, vol. I, Gallimard 1971, p. 93. Scrive Bataille in questo testo, significativamente intitolato Sacrifices: “…vita e vuoto si confondono e si mescolano come amanti, nei movimenti convulsivi della fine. La passione bruciante non è più accettazione e comprensione del nulla: ciò che si chiama nulla è ancora cadavere: ciò che si dice splendore è il sangue che si versa e si coagula”.
[34] Ibidem, p. 96. “Il tempo non è sintesi dell’essere e del nulla se essere e nulla non si trovano che nel tempo e non sono che nozioni arbitrariamente separate. Là infatti non vi sono essere e nulla separati, c’è il tempo.”
La collera, la rabbia, sentirsi vivi. Bravo Marco, anche se è complicato.
Credo che quello che stai cercando di pensare sia una sorta di soggettività adamitica, che precede la ferita della storia e la prosa della cronaca. E’ un pensare poetante, ricco di suggestioni, capsco che su questo sentiero trovi Heidegger, e Benjamin, e Bataille. Percepisco l’intensità del tuo domandare e ammiro la scrittura che ne è la traccia. Dopo di che, lasciando perdere Bataille su cui ci siamo già scannati, credo che dovremmo assumere la dimensione storica più di quella edenica come dimensione dell’operare, altrimenti il pensiero resta pura evocazione. Per l’uomo decaduto che noi siamo, nemmeno la lingua della poesia è puramente epifanica.
Sì, Valter, è più o meno quello che immagino. E, al fondo, trovo che la verità si espone in questa lingua che si manifesta, e non comunica nulla. Il sacrificio lo intendo così, come esposizione di una lingua pura (meglio, come sua ripresentazione – impossibile). E la poesia, la collera, l’amore, una passeggiata chiaccherando alla luce della luna – sono tutte, in questo senso, forme sacrificali, che espongono quel taglio, quella ferita/verità che è l’uomo.
Poi, hai ragione, io qui mi limito a pensare la forma – e tutto questo andrebbe pensato storicamente, strappato a questa astrazione astorica, formale. Scrivevo già ad Adinolfi che una genealogia manca. Bisogna fargli posto. Ovvero istituire una relazione con questa struttura formale del linguaggio. Per dirla figuralmente, forse bisognerebbe pensare questa sfera che rotola, e pensarla in relazione con l’ambiente circostante, con le rocce, con i boschi, con il cielo, con le città che attraversa… Muta continuamente il detto, il dire rimane irriducibile, ma mutando i termini della questione muta pure la questione stessa. La genealogia sarà forse, allora, il succedersi delle rappresentazioni figurali, mitiche – ognuna delle quali espone la questione del limite del linguaggio a suo modo. Questo legittimerebbe anche i sorvoli temporali millenari, da Dante a Bataille…
caro Marco, tu pendi per mano e porti in giro per terreni scoscesi, scabri e di rara bellezza. Ho perso la mano quando dici: “se il sacrificio è l’atto linguistico primario, il NIENTE è il factum.”
Pensi al potlach? Ma anche nel potlach non c’è un vero niente.
Invece un altro collegamento che mi viene, a mio parere molto interessante, quando accenni al “mistico” è questa citazione di un grande fisico del Novecento, Wolfgang Pauli:
“Contro la rigorosa separazione delle attività dello spirito umano in camere stagne, in atto dal diciassettesimo secolo, io considero l’aspirazione a un superamento dei contrasti, quale potrebbe essere una sintesi della comprensione razionale con l’esperienza mistica unitaria, come il mito espresso o inespresso di questo nostro tempo” (Fisica e conoscenza, Boringhieri, Torino 1964, p. 132. Pauli andrebbe riletto in molte parti, non solo strettamente fisiche. Spero di ritornarci. Ciao a.
ovviamente “prendi” e non “pendi”. a.
no, non pensavo al potlatch (magari quello potrebbe essere un abbrivio per un’ulteriore riflessione), ma semplicemente ri-dicevo che la lingua è il puro gesto di relazione con l’Unsinn. (in una sorta di equazione con la definizione batalleana di sacrificio, che cito nlle note, “il sacrificio non è NIENTE”).
Attendo che tu continui a introdurmi nell’universo della fisica, di cui sono, ahimé, abissalmente ignorante…
Il dono è l’impossibile stesso ma su di esso si regge tutto il possibile degli scambi e della comunicazione ( minore)- e qui c’è Mauss.
Il dono non è l’impossibilità dell’impossibile perchè non c’è dono proprio e quindi nemmeno un impossibile ” stesso”- e qui c’è derrida di Donare il tempo.
Il tempo è la confisca di un dovere che non si dà se non a chi a saputo ” crearlo” per la ” prima volta” e con esso tutta la trama delle restituzioni speculari ( con il senso economico in eminenza) – e qui c’è il diplopico bastione di Lacan e Nietzsche.