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La giornata è quando si vede il sole

di Marco Rovelli


“Arriverà la fine del tempo, sì o no?”
“Può essere. Ma non finirà la vita.”
“Come no? C’è l’inizio, o no?”
“Non ci credo, all’inizio.”
“Come non credi nell’inizio?”
“No.”
“…e qualcosa che ha un inizio ha una fine.”
“Appunto, io non credo all’inizio. L’uomo si illude di poter arrivare a un’origine, a qualcosa che è là, da cui è nato tutto, senza rendersi conto che tutto è già qui davanti.”
“Pensa al big bang. Il big bang è l’inizio, no? E il big bang è scritto nel Corano. Nel Corano si dice che la creazione è nata con la condensazione di tutti i gas.”
“Hassan, non mi convertirai!”
“No, verrà un giorno! Arrive un jour! Viene il giorno che ti converti!”
“Suona come una minaccia, Hassan.”
“Un filosofo ha detto: Una persona che ha una grande scienza va direttamente a Dio, poca scienza allontana da Dio.”
“Era la sua maniera di glorificarsi, no?”
“…come si chiamava quel filosofo… Non ricordo il nome adesso. Quante cose mi scordo… Mi dispiace, tutti i miei libri, tutti i libri che ho a casa mia… Ma qui non c’è mai tempo per leggere. Rientri a casa stanco, prepari da mangiare, vai a dormire… Vorresti leggere un po’, ma non ce la fai… Non c’è tempo per leggere, qui. Sempre lavorare. Non c’è tempo.”
Non c’è tempo. La fine di questo tempo senza tempo, Hassan non riesce a vederla. Non viene mai il settimo giorno, o il venerdì della creazione, il giorno del riposo e del respiro. C’è un fiume uniforme di ore impastato di calce e ricoperto di mattoni. Hassan lavora nei cantieri edili, e la sua è una storia ordinaria, assolutamente normale. È un normale moderno proletario, o sottoproletario, le definizioni le lasciamo da parte, in attesa di una riparametrazione. È certo che le centinaia di migliaia di Hassan sono unità produttive decisive per le sorti dell’economia italiana, per quel che resta delle sue sorti progressive. L’edilizia tira, è uno dei pochi settori produttivi che cresce, e crescendo dà respiro al Prodotto Interno Lordo del paese. Il respiro che gli dà è precisamente quello che toglie ai mille e mille Hassan.
Dal 1999 al 2005 il settore dell’edilizia ha incrementato la sua produttività del 23 per cento, a fronte di un aumento complessivo del PIL dell’8,6 per cento. Negli ultimi cinque anni gli investimenti nell’edilizia sono stati di 138 miliardi, il 10 per cento del PIL. E le aziende edili arrivano quasi al 30 per cento sul totale delle imprese italiane. Sono le microimprese a far gonfiare il dato, quelle microimprese dove trabocca il lavoro nero migrante e che prosperano grazie all’attuale legislazione sugli appalti: dai committenti il lavoro viene scaricato a valle, in una lunga catena di subappalti, ogni volta trattenendo una quota di profitto, fino ad arrivare appunto alle microimprese che, per avere anch’esse la loro parte di profitto, usufruiscono largamente di quella che una volta si chiamava “esercito industriale di riserva”. I clandestini, o potenziali tali.

Anche se non ha tempo di leggere i suoi libri, Hassan è in grado di leggere lo sfruttamento che gli si scrive nella carne. Eppure lui non è un clandestino. È regolare, con regolare permesso di soggiorno, da quattro anni. Ma il regolare non è che un potenziale clandestino. Non può permettersi di perdere il lavoro, altrimenti addio permesso di soggiorno. E allora deve chinare il capo, e accettare ogni condizione di lavoro. Hassan legge nella sua carne la potenza del dispositivo messo in opera dalla legge Bossi-Fini, dalle leggi sul mercato del lavoro, dalla legislazione sugli appalti, dall’assenza di controlli efficaci sull’impiego di lavoro nero.
Hassan non è stato schiavizzato sui monti siciliani costretto a tenere le pecore dormendo tre ore per notte e mangiando solo pane secco, come è accaduto a un ragazzo che ho conosciuto in Sicilia. Non è caduto da un tetto e abbandonato sul ciglio della strada in fin di vita, come è accaduto a un ragazzo marocchino che ho conosciuto a Milano. Non è stato minacciato con la pistola di andarsene senza reclamare i soldi dovuti, come è accaduto a dei ragazzi eritrei che ho conosciuto in Puglia, o a dei ragazzi marocchini che ho conosciuto a Reggio Emilia. Quella di Hassan è una schiavitù ordinaria.

Quando è arrivato in Italia, passando la frontiera a Ventimiglia mentre per i doganieri era l’ora di cena, era l’ottobre del 2002. Gli avevano detto che si preparava una sanatoria, era l’occasione di mettersi in regola, da un anno stava in Francia senza permesso, faceva il muratore ma da clandestino, anche se fare il muratore clandestino in Francia è sempre meglio che farlo in Italia. Però l’Italia adesso offriva una possibilità. Non avrebbe comunque messo a frutto la sua laurea in biologia, ma a quello Hassan ci aveva già rinunciato. È subito sceso in Sicilia. Sua cugina è sposata con un italiano; abitano in provincia di Agrigento. Anche Lampedusa è in provincia di Agrigento. Hassan è stato nella sua Lampedusa per sei mesi. Dopo tre mesi ha trovato lavoro in una stalla. Lavoro nerissimo, clandestino appunto. Quattrocento euro al mese, tutto il giorno, anche sabato e domenica, per tre mesi di seguito. Nella stalla ci dormiva, un piccola stanza di quattro metri quadrati con lettino fornello e bagno ricavata in un angolo vicino all’entrata. Dare da mangiare alle vacche, mungere a mano, pulire. Erba, latte, merda, Hassan aveva a che fare con gli elementi primordiali del ciclo della vita. Forca e carriola, tirar su il concime, portarlo fuori, su un camioncino, disperderlo nei campi del padrone. Hassan stava lì tutto il giorno, il mangiare glielo portavano, erano pure bravi che gli portavano carne hallal, così gli restava tempo anche per lavorare nei campi, potare gli olivi, zappare, costruire muri e muretti. A disposizione.

Era lì che aspettava, la clandestinità coincide del resto con l’attesa, l’attesa di una luce e di un nome che non vengono mai, e se vengono vengono come viene la grazia. Aspettava di essere messo in regola, Hassan, sua cugina gli aveva trovato un altro padrone, un padrone virtuale che lo aveva assunto. Per avere il permesso di soggiorno ho dovuto pagare quasi tremila euro, dice Hassan. Duemila euro al finto padrone, e ottocento allo Stato italiano. Le cose si sommano, non stiamo parlando di mele e di pere, qui sempre di taglieggiamento si tratta. Il finto padrone Hassan non lo ha mai visto, gli ha fatto i documenti come domestico, come badante di suo padre. Hassan ha preso i documenti, li ha messi in una busta, alla posta, ha fatto il vaglia di ottocento euro, ha mandato tutto a Roma. Intanto continua a lavorare nella stalla. Quando gli arriva il permesso, il 31 marzo, saluta e se ne va. Ha lavorato tre mesi ed è già in perdita di milleseicento euro.

Hassan torna nei cantieri, prima Modena e poi La Spezia. In Italia ti sfruttano di più, dice. Qui ci sono più clandestini a lavorare nei cantieri. E capita spesso che il padrone non ti paghi. In Francia è difficile. E là non ci sono la discriminazione e il razzismo come qui.

Sono preoccupato, dice Hassan, e non pensa più ai suoi libri, ma alla fame. A casa ho in carico due figli, la moglie, mia madre. Devo accettare qualsiasi tipo di lavoro. Anche nero. Adesso sto lavorando in nero. E quelli che lavorano con me sono clandestini.
Quando lavori regolare, invece, ti danno l’assegno. Se inizi il lavoro il primo del mese, ti pagano il 15 dell’altro mese, a trenta giorni. Il mezzo nero, quello è diffusissimo: ti iscrivono a Inail e Inps, ma non alla cassa edile. Non essere iscritto alla cassa edile significa non avere ferie, tredicesima, malattia. Mettiamo che ti ammali, l’Inps paga solo dopo il terzo giorno. E mettiamo che ti infortuni sul lavoro – e questo capita spessissimo nei cantieri – l’Inail ti paga solo il 60 per cento dell’assicurazione sugli infortuni, il resto dovrebbe pagarlo la cassa, ma tu la cassa non ce l’hai… A Spezia, ad esempio, sui 3500 uomini adulti immigrati, dei quali la grande maggioranza sono muratori, solo 1200 sono iscritti alla cassa edile. Ma tante volte non sei pagato dalla cassa edile anche se sei iscritto: è capitato a un sacco di amici miei, dice Hassan, il loro padrone non versava i soldi alla cassa. Un amico mio ci ha perso quattromila euro.

Sui ponteggi, nel pieno centro della città, sono in quattro, tutti marocchini. Prima tolgono l’intonaco vecchio – stonacano –, poi rovesciano i sacchetti di calce bastarda nella betoniera, che mescola e partorisce l’intonaco nuovo, che loro portano sul ponteggio. Finita l’intonacatura c’è da pitturare. Prendono da trenta a quaranta euro a giornata. La giornata va dalle sette e mezzo fino a quando non vedi più la cazzuola. Quand’è la giornata? Quando si vede il sole. È il destino del clandestino, la sua vita è regolata dal venire della notte. Nei cantieri del Nord, o nei campi del Sud, è il sole a regolare la vita di questi uomini. Sono come le piante, questi uomini neri, agli occhi dei cittadini che vivono regolati dagli orologi. Uomini di un’altra epoca, per cui viene naturale provare un odio razziale se reclamano di esistere come persone e non solo come oggetti di natura.

Se gli chiedi quali sono i problemi, Hassan pare che reciti una lezione, punto per punto, come fosse un ordine appreso giorno dopo giorno. E lo è, in effetti.
La lingua è la prima cosa, dice. Se non parli italiano non ti fanno lavorare, perché la comunicazione in un cantiere è importante. Devi conoscere i nomi degli attrezzi: Cazzuola, Martello, Livello, Bolla, Gomma. Immaginare un linguaggio significa immaginare una forma di vita. (Sarà un caso che Wittgenstein ha iniziato le sue Ricerche filosofiche sul linguaggio partendo proprio dall’esempio di un cantiere?).
La seconda cosa, dice, i pensieri: e anche se trovi lavoro hai sempre pensieri. Posso avere i soldi alla fine della giornata? Posso avere il permesso? I genitori che ti chiamano, come stai? E la casa. I clandestini non possono fare un contratto per la casa. Ce ne sono tanti che abitano in otto, dieci persone. Paghi 150 euro al mese a testa, magari, e li paghi in nero al padrone di casa, oppure a quello che è regolare e ha fatto il contratto, che lui così non paga l’affitto e ci guadagna pure su. E se non paghi alla fine del mese ti mandano via, ma se il padrone non ti paga? Capita spesso, che il padrone non ti paghi quando sei nero. Magari ti dà cinquanta euro oggi, cento domani, venti euro domani l’altro, poi arriva la fine del mese e devi avere ancora centinaia di euro, il lavoro è finito, e lui non ti cerca più e non si fa più trovare, e allora capisci che quei soldi non li vedrai più.
Terza cosa il razzismo, dice. Quando lavoro con due italiani, per esempio, e siamo tutti allo stesso livello, i lavori duri devo farli io, non si discute. Sono io che devo scavare col piccone, sono io che devo tirare la carrucola, sono io che devo portare il cemento o la sabbia dal primo piano fino al quinto. Non è che ti dicono per piacere. Anzi, ho sentito, Oh asino, vai a tirare la carrucola!
Del resto, il 70 per cento degli stranieri sono inquadrati al primo livello contrattuale, come manovali. Ci sono aziende che hanno solo manodopera straniera, e sono tutti inquadrati come manovali. È ovvio che non costruisci un palazzo senza specializzati e senza capocantiere, ma certi palazzi è come se fossero edificati dagli angeli…
Quarta cosa, la discriminazione. Vai a cercare lavoro all’agenzia, a Obiettivo Lavoro, a Generali Industriali, a Manpower, loro ti danno i fogli da compilare, ti dicono: Guardi, in questo momento c’è crisi, non c’è lavoro. Ma quando ci va un italiano lo mandano subito a lavorare. Obiettivo Lavoro mi ha mandato al cantiere navale, con altri tre compaesani, gli italiani li hanno messi al settore dove fanno le barche, invece noi ci hanno messi a tagliare il ferri con il flessibile senza darci nemmeno i guanti e gli occhiali.

L’enumerazione è finita, ma i problemi eccedono qualsiasi ordine. Gli affetti, poi, le più intime relazioni, sono l’eccedenza assoluta. Non c’è considerazione, per l’intimità di una macchina produttiva.
In Marocco Hassan ha due bimbi di cinque e di due anni, e li vede due volte all’anno, ad agosto e a Natale, quando torna per un paio di settimane. Non può fare diversamente. L’intimità – che per lui si chiama ricongiungimento familiare – gli è negata. Per far venire in Italia la sua famiglia dovrebbe avere, oltre al contratto d’affitto, un reddito annuale di novemilaseicento euro all’anno, e soprattutto un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Eccola qui, la grande ipocrisia, per essere assimilato a una persona (parola che equivale a “cittadino”), un immigrato deve avere un contratto che nemmeno gli italiani, ormai, riescono a ottenere. Le cose, si badi bene, stavano così prima della Grande Legge Schiavistica Bossi-Fini, era già la Turco-Napolitano a prevederlo.

Ma con chi protesti, se nessuno ti ascolta, se non hai voce? Chi vuole ascoltare la voce di una macchina che non porta voti di cinque anni in cinque anni, ma tutt’al più ne può togliere? Per i corpi ridotti a macchine produttive tutto fa problema, anche le cose minime, e neppure per le cose minime puoi protestare. La pioggia, ad esempio. Quando piove non si dovrebbe lavorare, in un cantiere. Invece si lavora, e per quel giorno tu in busta paga vedi solo i 5 euro e 85 che l’Inps paga come giorno di non lavoro. Prendi 7 euro e 34 in meno rispetto a un giorno di lavoro, e il padrone così ha un giorno di lavoro gratuito. Ma non puoi protestare, perché se protesti non ti fa più lavorare, e tu immigrato devi lavorare, se no non ti rinnovano il permesso di soggiorno. E se protesti troppo, ti picchiano, conosco tanti casi del genere, ma anche chi viene picchiato se ne sta zitto, tanto più se è clandestino, che se va in questura intanto lo rimandano al paese. Figuriamoci poi l’orario di lavoro, protestare per quello è inimmaginabile, non si conosce tempo, il tempo di un immigrato è tempo per il lavoro, resta la notte, se va bene, e la notte è fatta per dormire.

“Arriverà la fine del tempo? Sì o no?”

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(pubblicato su il maleppeggio – n° 2 – febbraio 2007; foto di Vito Carta)

9 COMMENTS

  1. doloroso. Tanto più doloroso quanto più ci si sente in colpa, e ci si sente in colpa perchè viviamo in questo paese, e lo sappiamo tutti quello che succede, sì certo uno dice: io non sfrutto nessuno, io non ho mai fatto … appunto non abbiamo mai fatto nulla. Lucia

  2. ottimo e scritto bene.
    Quando il contenuto esiste, anche la forma diventa spesso buona.
    Al contrario un’ottima forma alle volte permette di trattare anche contenuti pessimi e inquetanti.
    Mentre quando la forma è infame e ha pure un contenuto infame e vacuo, diventa indifendibile … e non serve tirare in ballo celine e company, serve solo a rendere il tutto più idiota e ridicolo.
    Scusa marco se uso il tuo bellissimo pezzo per continuare una mia polemicuzza contro ogni forma di propaganda razzista che si travesta da letteratura:-)
    geo

  3. #Rovelli
    – È un normale moderno proletario, o sottoproletario, le definizioni le lasciamo da parte, in attesa di una riparametrazione. È certo che le centinaia di migliaia di Hassan sono unità produttive decisive per le sorti dell’economia italiana, per quel che resta delle sue sorti progressive.
    #Lorenz
    – Ecco, di questo c’è bisogno su NI.

    Di questo c’è bisogno, qui come altrove. Finirla con l’artificio tardorelativista delle “culture”, delle “distanze”, dell’esotismo che ci permette di farne un’estetica e mai niente di più.
    – Chi vuole ascoltare la voce di una macchina che non porta voti di cinque anni in cinque anni, ma tutt’al più ne può togliere?
    Poca scienza allontana dall’ascolto, e fa parlare di “buonismo”.

  4. Oggi siamo tutti un po degli Hassan. Stiamo arretrando, non è un mistero! Oggi i call center pagano ancora meno. C’è bisogno di pulizia, di tanta pulizia. Arriverà la fine di questa classe politica, a prescindere dai “colori più o meno stinti”? Bel testo.

    Un saluto
    Marco

  5. @giorgia – concordo; può essere che il contenuto dia senso alla forma, ma il contrario ahimé a meno che non si sia Joyce … il pezzo mi è piaciuto.

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.