Puntualmente successe
di Nicolò la Rocca
Al comune ci arrivai presto, distava solo due isolati da casa mia. I convenevoli durarono poco e consistettero più che altro in una stretta di mano. Ma sembravano molto rispettosi nei miei confronti: ero il pupillo dell’assessore regionale Adragna e tutti sapevano cosa dovevo fare… Veramente io, ufficialmente, ero nessuno: dovevo vagare per i corridoi, una ronda quasi senza soluzione di continuità. Dovevo farmi vedere, insomma. Ero l’occhio dell’assessore Adragna, quindi della cosca. Tutti ne erano perfettamente consapevoli e si comportavano di conseguenza. Sapevo ciò che sarebbe successo e, difatti, puntualmente, successe. Per esempio: al comune c’era un impiegato che si occupava di distribuire agli uffici la carta per le stampanti. La cosa seguiva tutto un iter che bisognava assorbire. Lui, quando arrivava la nuova fornitura, faceva un giro dei corridoi del comune con tra le braccia le risme impilate a mo’ di agnello sacrificale. Giusto il tempo di farsi avvistare dai colleghi. Poi slittava nel suo ufficio, l’ufficio tessere, e confinava il materiale appena ricevuto nel suo armadio. Infine si dileguava. Sarebbero stati i colleghi a doversi preoccupare di rincorrerlo per farsi distribuire le risme che toccavano ai loro uffici. E non era mai un’impresa facile. Il ragioniere Di Palma, così si chiamava l’incaricato delle risme, era bravissimo a infilarsi nei crocicchi che si coagulavano di continuo nei corridoi, davanti alla macchina del caffè, in adorazione del Giornale di Sicilia che campeggiava quotidianamente sulla scrivania dell’usciere, oppure messi alla pecorina davanti al sindaco. Per completezza di cronaca, bisogna precisare che a volte Di Palma si assentava per un attimo che poteva durare tre, quattro ore. Per fortuna ciò accadeva raramente. Il corridoio era troppo affascinante. L’impiegato comunale, quello senza santi – o meglio col santo poco conosciuto- doveva aspettare, pazientemente, che le meticolose conversazioni che si svolgevano in quei capannelli si spegnessero, per poter chiamare Di Palma e implorarlo di consegnargli la risma d’ordinanza. Ma tutti sapevano che le conversazioni non si arrestavano mai; nulla si crea nulla si distrugge, le conversazioni fluttuavano senza sosta; sì, a volte rischiavano di evaporare sulla bocca dell’ultimo che aveva parlato, o di essere inghiottite e basta, insieme alle caramelle alla menta che tutti ruminavano con passione; e invece arrivava provvidenziale un rutto superstite che contribuiva a rimettere in circolo le caramelle, la chiacchierata e la teoria di Einstein. Allora l’assembramento si sfaldava e si riformava a pochi metri, con nuovi soggetti: ma non cambiavano gli argomenti, ed era sempre garantita la presenza del ragioniere Di Palma.
C’erano, come per magia, degli impiegati che ottenevano la carta per l’ufficio per mano dello stesso Di Palma; alcuni addirittura prima che Di Palma avesse compiuto il suo giro dei corridoi con le risme impilate. Erano gli amici degli amici, o gli amici diretti di Di Palma. Ognuno di loro gli aveva fatto un favore: così, consegnare loro la risma d’ordinanza come un cagnolino ubbidiente, a vita, era il suo modo di sdebitarsi.
In questo gioco complicato io ero la mina vagante. E a me piaceva vagare. Minchia come mi piaceva.
A me, questo stronzo di Di Palma, le risme le dava senza risparmiarsi, senza nemmeno aspettare che gliele chiedessi. A me, tra l’altro, quella cazzo di carta, non avendo un ufficio, non essendo un impiegato, non serviva. Ma la prima cosa che aveva fatto Di Palma, quando avevo messo piede nei corridoi del comune, era stata consegnarmi cinque risme. Non si sa mai, mi aveva detto dedicandomi delle pacche affettuose sulle spalle. La cosa andò avanti per giorni: mi offriva le risme, poi mi parlava del figlio iscritto in ingegneria, che era bravissimo ed era l’orgoglio del padre. A metà mattinata, quando andavo a trovarlo nel suo ufficio, spalancava il Giornale di Sicilia, si raspava la punta del naso sfregandola accuratamente con le unghie, contemplava per qualche secolare secondo le sue dita, come ipnotizzato, si stirava tutto e iniziava a leggere. Somigliava, in quella posizione, ingobbito sulle pagine del giornale che occupavano l’intera scrivania, a mio padre quando calava la testa sulla tazza del latte.
Per questo per un po’ mi fece tenerezza.
Ma la mia pazienza era quella che era: non so come successe, un giorno gli sputai in faccia con la massima sfacciataggine:
“Compa’, se vuoi ti posso aiutare io”.
“Come, Luigi?”
“Ti dicevo: oggi sono arrivate le risme”.
“Sì?”
“Le distribuisco io, oggi. Ti faccio riposare”.
“Ma… ma…” Balbettò impotente.
“Niente ma. Oggi me ne occupo io. All’assessore gliel’ho già detto”.
Vidi che spalancava gli occhi e si guardava intorno come se temesse di vederselo materializzare lì da un momento all’altro.
“E allora?” Domandò arretrando sulla sedia, arrivando a spalmarsi con le spalle contro la parete. Il pomo di Adamo era una pallina di flipper che faceva su e giù con speciali effetti sonori.
“Allora soccu”. Il passaggio al dialetto è il momento che apprezzo di più.
“Vuoi farlo tu il giro delle risme, allora?” Domandò ormai completamente fuori di sé. Il respiro spezzato aveva dato alla domanda un tono disperato.
“Di Palma! Ma che minchia hai?!” Urlai ridendo, ma sconquassando comunque l’ufficio.
“Niente niente”, singhiozzò abbassando il capo e svelandomi pietosamente la sua chierica.
“Solo per oggi”. Mentii.
“Sì… Sì… Grazie..” E uscì dall’ufficio come un cane bastonato.
Nei giorni seguenti, siccome Di Palma per non incrociarmi non si faceva vedere più nel suo ufficio, gli altri impiegati cominciarono a richiederle a me, le risme. Così, quando lo intercettai, lo pregai di consegnarmi le chiavi dell’armadio. Sembrava che dovessi occuparmene una tantum, in sua assenza; ma siccome ormai non c’era mai, tacitamente mi incaricai io delle risme, a tempo indeterminato.
Avevo distrutto un uomo.
Bel racconto Nicolò.
Lineare nella sua logica evoluzione, scritto con un linguaggio accurato e fluido, nel suo procedere ostinato echeggia qualcosa di Buzzati, almeno per me.
AD MAIORA
bello bello.
io imparo.
testo aciutto, senza fronzoli. il dialogo è la parte migliore. la frase finale mi sembra troppo didascalica.
Anche io sono per i dialoghi…..più spazio ai dialoghi, please!
Leonida ha ragione, la frase finale non ci sta…..
solo perchè è triste.
Carissimo Nick finalmente ti rileggo! Che devo dirti ancora che già non ti ho detto? Sei così sfacciatamente bravo con o senza ultima frase… :o)) A quando la tua seconda fatica?
Ciao e non sparire di nuovo ok?
pepe