La caccia
di Marco Rovelli
La sezione è ancora quella del Pci. Uno stanzone con del materiale vario accatastato in fondo, vicino alla porta, dall’altro lato un vecchio tavolo, con a sinistra una bandiera del Pci, aperta, dispiegata, e a destra una televisione. Davanti alla televisione, o meglio sotto, ché la televisione è poggiata su un ripiano a due metri da terra, è seduto un vecchio iscritto al partito. Io gli siedo accanto, ai piedi una stufetta elettrica, e lui smette di guardare la tv, ci mettiamo a parlare, e mi racconta di quando il suo maestro se ne andò a Varese che lui aveva quattordici anni e gli aveva lasciato la forgia, e lui doveva sostenere la clientela di tutti i contadini della zona, e fare falci zappe e roncole per tutti.
La casa del popolo di Rosarno è intitolata a Peppe Valarioti, che ne era segretario nel 1980, quando lo ammazzò la ‘ndrangheta. A cinquanta metri da qui c’è anche una piazza che gli è stata intitolata: e non lontano da quella piazza un paio d’anni fa hanno ucciso un ucraino che ripartiva per il suo paese con un pulmino, come d’uso i suoi connazionali gli avevano affidato i soldi da portare alle famiglie, quei soldi guadagnati nelle campagne raccogliendo arance e mandarini, conviene far così, mandarli col pulmino ché la commissione della Western Union è più alta e il pulmino i soldi li porta direttamente a casa, ma le voci corrono, e in questa zona sono velocissime, tanto veloci che le cose qui si sanno prima che accadano, così l’ucraino lo hanno aspettato che era buio e stava per partire, dev’essere andata che gli si sono presentati davanti con una pistola e lui ha fatto resistenza, così la pistola ha declinato il suo verbo e lui è caduto al suolo, crepato, accanto al nome di Peppe Valarioti, crepato anche lui per una pistola mafiosa, in un ristorante, accanto al suo compagno sindaco Peppino Lavorato, che per festeggiarlo, la notte di capodanno dopo il suo insediamento, gli avevano regalato una pioggia di fuoco, cinquantanove attentati in una notte, fucili mitragliatori che sparavano contro le serrande dei negozi, contro i vetri del comune, contro i portoni delle case, e poi il botto finale, con Peppe Valarioti, giovane intellettuale, crepatogli in faccia, al tavolo di un ristorante, un’altra pietanza da offrire all’altare del sacrificio.
Io ho paura, mi dice Giuseppe (c’è un’eccedenza di Giuseppi qui, la tradizione resta ancora nei nomi, almeno), Ho paura perché non sono da solo, perché c’è la mia famiglia con me. Un giorno davanti alla sezione hanno appeso delle teste di vitello mozzate, e qui il senso di queste cose ce l’abbiamo chiaro.
Quando hanno ucciso Valarioti la gente aveva paura anche di pensare. C’erano trecentocinquanta iscritti alla sezione, allora, e dopo l’omicidio, in questo stanzone erano in quattro. Uno di loro era il vecchio compagno che guarda la televisione, il vecchio compagno che tutti chiamano mastro Melo.
Avevo quattordici anni, dice mastro Melo, Non un mese in più non un mese in meno. E oggi a quello di trent’anni, anche di quaranta, lo chiamano “u’ figghiolu”. Ma quale figghiolu, dice mastro Melo, figghiolu ero io a quattordici anni, quello a trent’anni è vecchio! Oggi c’è corruzione, dice mastro Melo. Non mi piace affatto.
Rosarno, dove la famiglia Pesce che è la cosca più potente del luogo ha fatto pure l’impianto di condizionamento in chiesa, comincia da qui, dalla casa del popolo Peppe Valarioti, e proprio dietro l’angolo, affacciato su piazza Valarioti, c’è l’ambulatorio di Medici Senza Frontiere, dove forse era andato a visitarsi anche l’ucraino ammazzato lì vicino. Quelli di MSF, prima, stavano nel palazzo dell’Azienda Sanitaria Locale, ma poi li hanno cacciati, La cittadinanza non li vuole qui, dicevano, Hanno paura per l’igiene, le mamme vengono qui con i bambini e si trovano tutti questi neri, non è igienico, loro hanno paura, giustamente hanno paura. La paura è reciproca, signora mia. Solo che per i neri è elevata alla milionesima potenza.
Lo sport più praticato dai giovani di Rosarno è la caccia al nero. Dove “nero” non designa un subasahariano, ma indica indistintamente – senza discriminazione – un africano: di pelle scura o chiara è lo stesso. Il lunedì mattina, sugli autobus che portano a scuola, i ragazzi si fanno i reportage dei rispettivi pestaggi, sono motivi di vanto, di onore, a misurare il valore, tante croci sul petto. Ci sono delle tecniche, per linciare un nero. Anzitutto, evidentemente, essere in gruppo. Poi appostarsi nei luoghi strategici, dove sei obbligato a passare se vuoi andare da un punto all’altro del paese. Luoghi come via Carrara, via Roma, via Convento. Su via Convento, ad esempio, c’è un muraglione da dove si ha a portata di sasso chiunque passi di sotto. Ma anche sul corso (il corso, nei paesi come Rosarno, non ha un altro nome: è il corso e basta) – anche sul corso ci sono i presìdi, si aspetta che passi un nero per dargli la caccia. Appena due mattine fa, dice Antonino (ha i capelli alle spalle, un maglione colorato, un giubbotto di pelle scamosciato – pure io quando cammino, mi sento dire drogato, frocio, come sei combinato…), un ragazzino maghrebino correva, terrorizzato, lo rincorrevano in tre, con delle verghe in mano, l’ho fatto salire in macchina e l’ho portato via. E lo stesso ha fatto qualche tempo prima Giuseppe con un ragazzo algerino, a inseguirlo erano dei ragazzi più giovani di lui, avranno avuto dodici o tredici anni.
Io, quando li vedo passare, mi metto sul ciglio della strada, e lancio un sasso in aria, un bel sasso grosso, così gli faccio vedere che non ho paura, che sono pronto a reagire. Così mi dice Michael James, liberiano, che ho già incontrato all’ex zuccherificio di Rignano, vicino a Foggia, dove raccoglieva i pomodori, e che incontro di nuovo all’ex cartiera di via Spinoza, un posto che il miglior scenografo hollywoodiano saprebbe difficilmente restituire in tutto il suo scenario apocalittico, entri e ti trovi in mezzo a una cortine di fumo, e l’abbaglio di fuochi in mezzo a questo lucore tagliato da fasci di luce che entrano dalle feritoie del tetto coperte da plastica gialla ondulata, come fosse una cattedrale della desolazione, questa è la vera, realissima wasteland che nessuno spettacolo illumina, fuochi per cucinare accanto alle baracche di assi di legno inchiodate, con pareti di cartone e plastica e ancora cartoni fissati a far da tetto, fissati da scarpe, sassi e stivali.
Sul grande muro in fondo al capannone ci sono scritte, e numeri di telefono. Tra le scritte,
Procrastination is a thief of time
By Goding King, Prisoner of conscience mess.
A giugno dell’anno scorso sono entrati nella cartiera, hanno bruciato le baracche, le fiamme sono arrivate fino al tetto. Un’altra volta dei ragazzini , “bad guys” hanno detto i ragazzi della cartiera, sono entrati in macchina nel cortile, Ve ne dovete andare, hanno gridato, agitavano le pistole, e anche stavolta le pistole hanno declinato il loro verbo ad altezza d’uomo, nessuno però stavolta è caduto sui detriti.
E se qualcuno fosse caduto, si sarebbe trattato di un regolamento di conti tra questa gente clandestina e dunque portatrice di colpa, gente che la propria innocenza deve dimostrarla. Come è successo quando hanno fatto in piazza la festa per la fine del ramadan, un vero e proprio gesto politico, un gesto forte, una manifestazione d’esistenza. A notte se ne sono andati a gruppetti, per non restare soli, ma qualcuno è stato costretto a fare un tratto di strada da solo, gli pareva che non ci fosse nessuno alle spalle, e invece sono sbucati all’improvviso, loro sì davvero uomini neri, clandestini, gli si sono parati davanti e gli hanno detto Negro di merda devi andartene di qua, e giù botte, il ragazzo (anche lui un nero di quelli chiari) è rimasto a terra, il viso coperto di sangue, qualcuno ha chiamato la polizia, e la polizia al nero chiaro gli ha detto, Ma tu che ci facevi in giro a quest’ora?
Il terzo giorno d’ospedale, il ragazzo, appena ha avuto un po’ di forze per alzarsi dal letto, è scappato. Ché il clandestino, per la legge, è lui.
Sono clandestini, senza di loro le arance resterebbero sugli alberi. Di loro hanno bisogno i padri, ma di loro hanno bisogno anche i figli, che nelle loro figure espiatorie trovano il bersaglio ideale della loro cultura modellata dalla mafiosità, che di sacrifici si nutre, come Peppe Valarioti sacrificato su un tavolo di ristorante, quella mafiosità che fa cultura, che sempre più spesso fa rispondere, alla domanda Cosa vuoi fare da grande? – Il boss.
(Pubblicato su Carta del 31 marzo 2007)
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Dopo la pubblicazione mi è arrivato un sms di Antonino: “Giusto ieri hanno aggredito un nero in strada rubandogli 2000 euro; l’hanno trovato che si rotolava per terra disperato. a presto.”
che dire di fronte a questo, Marco? Rabbia e pugno chiuso come prima reazione non bastano. E’ così anche a Gioia Tauro, Lamezia, Paola, eccetera eccetera? Cambiare la mentalità è un lavoro di lungo periodo, come si comincia? Educando i maestri della scuola elementare in modo diverso, prima di tutto. Ma certo non son io a sapere come. Ciao a.
“Cambiare la mentalità è un lavoro di lungo periodo, come si comincia?”
forse e purtroppo, picchiando più forte.
e dopo, solo dopo, le parole.
bravo marco.
un bacio
la fu
Terribile come testo.
Penso che i maestri facciano molto, ma è difficile cambiare una mentalità acquisita nella famiglia. Viene di una paura legata all’ignoranza.
Nella mia scuola media, si sente parole razziste a volte. Dobbiamo reprimerle e anche aprire i cuori per altre culture.
Penso alla poesia: Léopold Senghor, Aimé Césaire.
Penso alla calligrafia araba, cinese…
Mai smettere di raccontare. Di dirla tutta.
Bravo Marco
Grande sensibilità, la tua Marco.