A gamba tesa/ prima parte
Né con le BR né con lo stato, delle cose.
di
Francesco Forlani
Colpirne uno per educarne mille, dicevano sinistri gli assassini dei movimenti, della poesia gaia e rivoluzionaria, autenticamente sovversiva degli anni settanta e dei metropolitani, indiani. L’ideatore di Striscia la notizia, in un’intervista riportava come per lui, parafrasando il braccio armato della stella, a cinque punte, si trattava, con la televisione di colpirne mille per educarne uno.
In letteratura ci troviamo spesso con ostinati avanguardisti , presi tra covi e nicchie, a confortare la propria solitudine con un’idea, una certa idea, d’avanguardia amata. Dall’altra i Baricchiani, i salonisti, i fieri, i festaioli intrattenitori, massacrano ogni riflessione che sia seria sulla letteratura sciorinando cifre e “approcci” quantitativi da logica maschilista e macha del “ chi ce l’ha più lungo, il codazzo al botteghino”. E poi ci siamo noi che non vogliamo colpire nessuno né tanto meno educare. Cercare di capire anche se ai limiti dell’incazzatura.
Come se per “sdoganare”il fallimento di una cultura, quella degli ultimi vent’anni quanto più antiletteraria e anti romanesque si possa immaginare, bastasse spostare di qui per mettere lì, cambiare le voci, del capitolato, per continuare a portare in processione la salma della letteratura facendo finta e fingendo davanti “al grosso pubblico” che la mummia respiri. E che non sia mai esistita Caporetto.
Nel mio ultimo viaggio, perché ogni volta che ci ritorno col passare del tempo andare a Caserta non è una gita, ma una trasumananza, ho scoperto che gli unici ed ultimi bastioni di resistenza della piccolissima via principale, via Mazzini, il negozio di dischi del mio amico Giampaolo e la libreria anarchica, chiudevano bottega, appendevano le chiavi al chiodo. Al posto loro sorgeranno molto probabilmente altri due negozi di scarpe o di abbigliamento, il che non mi sorprende per un casertano che se di una cosa ha un terrore “farouche” è la propria nudità.
E se è vero quel che credo di sapere, ovvero che tantissime librerie chiudono per lasciare il posto a negozi di “prodotti” mi chiedo cosa possa mai farmene io delle cifre sbattute nelle terze pagine di oggi (ieri) del post coitum della fiera del libro, sugli ingressi record al salone. Come in un racconto assurdo partorito da Cortazar, il numero degli ingressi paganti non corrisponde a quello dei lettori appagati. Ma allora se uno non legge cosa ci fa là dentro? Va a vedersi gli scrittori. Ed ecco che ormai si parla di flop o di successo di un incontro attribuendo a una visione più che a un’altra il valore salvifico per un popolo sempre più ignorante. Guai a dire allora che il pubblico, il lettore, non capisce una cippa anche se in cuor proprio, tutti, gli editori in primis e in seconda battuta gli autori, sanno che ormai un libro si vende con la fotografia primo piano in quarta, cui il libro fa da accessorio. Perché il pubblico, l’acquirente non è automaticamente un lettore. Magari ce ne fossero lettori, e magari fossero tanti.
Ora tutto questo si sa, lo si sapeva, anche noi lo sappiamo quando ci passiamo tra le mani le carte di millantato credito messe sul tavolo insieme a quella maledetta caraffa d’acqua, ormai ingiallita e stantia, che è la stessa che gira da vent’anni sui tavoli dei dibattiti faticosi e fatiguantes per onorare l’oscuro assessore alla cultura di un buco del culo del mondo o il finto neo liberal signorotto di una nuova impresa umanista. Ah gli umanisti, terroristi dell’umano e poetically stravaccati, ma correttamente, col sedere sulle poltrone dei micropoteri e le mani sul culo di una semi idea.
Ma sì, ma no, ma chi l’ha detto che tutto va bene, qui va malissimo, dicono gli uni. E gli altri ma no, ma sì, ma no, ma chi l’ha detto che tutto va male, qui va benissimo. E quando tutto va bene si festeggia n’est ce pas?
Tanti SMS con, Franzo, ci vediamo alla festa Minimum, Francesco ci becchiamo verso mezzanotte al caffè Liber (festa minimum fax). Ehi Furlen, mi dice un’amica carissima, ho voglia di vederti, dai, vieni alla festa, quella sulla Dora (ndr Caffè Liber, festa Minimum fax.) Allez on y va! Si va. E si arriva salvo poi volersene andare quasi subito e restare perché non appena la musica si impossessa di te e balli, (di me e ballo) non pensi più alla tua estraneità, ma abiti uno spazio infinito, in una bolla d’aria senza rete.
Eppure, appena giunto al liber, alla festa minimum fax, al locale sulla Dora, il benvenuto non era tardato ad arrivare e non parlo di qualche mezza tacca di critico letterario o scriba incontrato – ad uno gli ho perfino detto che avremmo potuto essere amici- ma di un amico vero talento della scrittura accompagnato da una blondasse, che si presentava più o meno così:
sono critica d’arte
sono una romanziera
sono una cubista.
In verità non so se abbia detto “faccio” la cubista, definizione che in mezzo a quanti che facevano gli scrittori, non mi avrebbe sconvolto più di tanto. Le ho anche detto che quindici anni fa avevo conosciuto una ragazza che si presentava con lo stesso CV, ma in più fotografa e sempre in più non te le diceva tutte insieme, ma un po’ alla volta, anno dopo anno. Ornela Vorpsi.
In verità il dramma dell’umile balzacchiano che abita in me era altrove, c’est à dire nel fatto che nonostante alla ragazza sulla Dora, dorata, le accordassi con il beneficio del dubbio e del possibile, lo statuto di scrittrice, e lo stesso come critica d’arte, quel che mi riusciva difficile credere era che facesse la cubista. Non c’aveva il fisico. Come del resto il fatto che nonostante ci fosse della buona musica gli invitati non ballassero. Questi si che sono segni. Nonostante ci siano bellissimi libri nessuno li legge e per legge post brigatista il fatto che non siano venduti significa che non esistono.
Del resto gli autori non dicono, sai diecimila lettori hanno letto il mio romanzo, no, per carità, essi dicono, il mio libro ha venduto diecimila copie.
Lo hanno letto? Chiedi e l’altro ti risponde: come cazzo posso saperlo! Ma poi la cosa è davvero importante? Certo che ci sono degli scrittori che amano i lettori come per esempio i fumettari, che al proprio lettore dedicano, in una fiera del libro con i controcoglioni come Angoulême, anche mezzora, dietro al banchetto per fare un disegno dedica al “benefattore”.
E non parlo di giovanissimi talenti (per me è un genio) come Paolo Cossi, che lo fa, ma di Mattotti o José Muñoz che ho visto coi miei occhi rispettare il proprio “pubblico”. Altro che quelle ridicole, inutili dedicazze “con amicizia”, con affetto, e poi giù con l’illeggibile firma.
E quando si fanno degli incontri letterari tra uno e diecimila esiste la cifra cinquanta. Cifra tonda e perfetta come quella, per difetto, dei presenti alla lettura alla Casa della Poesia, a Milano, qualche settimana fa, o per eccesso nella lettura, a mio parere magicamente “intima” dei Persecutori, all’Hiroshima mon amour, con un immenso Paolo degli Yo Yo Mundi, che in un’atmosfera da cave parigina anni cinquanta, ha omaggiato Boris Vian e non ha disertato l’incontro.
Perché poi chiunque abbia varcato la soglia di una storica cave di st Germain de Pres, quella di Vian, Greco, Sartre, Camus , sa che oggettivamente più di quaranta cinquanta persone non c’entrano. Provate anche coi locali storici del jazz parigino, il duc des lombards, per esempio, quello di Coltrane, Miles Davis, Chet Baker. Arrivati a cinquanta non si respira più. Perché i templi del jazz, del teatro o della cultura sono piccolissimi, quasi dei monolocali, come la Camera verde a Roma, o Lo spazio libero a Napoli.(Esiste ancora?)e tantissimi altri. Per fortuna!!
Qui termina la prima parte. Adesso mi fermo, sono le due, non ho sonno ma devo dormire. La seconda parte di questa mia nota balzacchiana la vorrei dedicare al Circolo dei lettori di Torino, perché Valeria aveva ragione, quando diceva che è un luogo che può vivere e respirare, ed è quello che ho visto in occasione del bellissimo , bellissimo perché semplice, litcamp torinese lo scorso sabato. Cosa di cui sarò per sempre grato a effe, del blog herzog, organizzatore con altri due eroi della giornata, dunque effeffeeffe. Buonanotte.
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si aspetterà la seconda parte, dunque.
ritrovo in questo scritto il senso delle tue parole, a torino: la pretesa di democrazia letteraria.
come se la modernità avesse accordato a tutti il permesso di scrivere, senza censura, senza valutazione, senza neppure quel minimo di comune senso del pudore.
mi vengono in mente certi scritti di george mosse sulla creazione del consenso: alle grandi parate militari e all’edificazioni di stadi, di luoghi in cui riprodurre e ricomporre le folle a tesitmonianza della grandezza dello stato, si sono via via sostituendo i grandi eventi pseudoculturali per favorire l’aggregazione.
il salone letterario come esempio di una nuova mistica nazionale.
brunella
E’ il punto di vista di uno scrittore: lucido, ironico.
Ma hai pensato alla poverina lettrice (come io) che cerca il suo autore amato, gli occhi sbarrati, le guance rosse?
Ma hai pensato, quando fai una dedica alla felicità del richiedente?
Hai pensato all’ autore infortunato che propone il suo bébé libro e che capisce la sua posizione umiliante?
Hai pensato agli scrittori che rimangono abbandonati, davanti al mucchio dei libri, condannati alla bottiglia d’acqua minerale insipida, condannati a vedere autori più fortunati fare la smorfia?
Quello che non mi è chiaro, nelle due categorie che proponi (e che sostanzialmente condivido), è perché i secondi debbano essere “baricchiani”. Non mi sembra che Baricco sia più presenzialista o fieristico di altri. In compenso, mi sembra che agli avanguardisti tristi Baricco opponga, oltre che qualche Mojito, anche un tentativo di analisi teorica della mutazione in atto (parole sue), e cioè “I Barbari”, sul quale non ho letto alcuna analisi (non dico “alcuna analisi seria” né “alcuna analisi favorevole”: dico “alcuna analisi”). Per inciso, Baricco sembra scettico sulla possibilità che la mutazione in corso possa essere intercettata o indirizzata con lo strumento dei festival, delle fiere, ecc. (magari lui alle fiere ecc. ci va, ma l’argomento resta).
Poi, hai ragione su tutta la linea a voler essere nè con gli avanguardisti tristi né con i salonisti frivoli.
E’ la dimensione “consensuale” che mi terrorizza proprio perchè dati alla mano, finita la grande maratona lettura abbuffata, delle pagine appena lette non resta più nulla. E’ l’entertainement , l’invasione/evasione, che mi fa paura e per fare paura a uno come me che fa cabaret, radio, e fino a poco tempo fa slam, capirai quanto possa fare “paura” a un normalissimo cittadino delle lettere. Perchè non ripensare a delle forme culturali più di “prossimità”. Librerie di quartiere – lo stato deovrebbe versare un contributo alle librerie per i librai dovrebbe esistere un ticket come per i medicinali- potenziamento delle straordinarie biblioteche civiche, azioni sul campo, e non parlo di costosissimi e inutilissimi atelier di scrittura per lo più tenuti da mezze tacche, no, no, dico un’azione radicale, continua, nel tempo e nello spazio. I buoni libri ci sono e se ci sono buoni libri ci sono anche buone idee. E se provassimo a rinunciare alle figure di “animatori/operatori culturali, come se la letteratura fosse un immenso e terrificante club med? per riprendere quella di scrittori? se invece di parlare di Politica culturale parlassimo di cultura politica?
effeffe
Ne parlai qui con (contro) Scurati, a Sumo: http://www.radio.rai.it/radio2/sumo/view.cfm?Q_EV_ID=213957
cliccate su “ascolta”.
caro Gianni,
tra l’altro nel pezzo ti citavo come uno di quegli scriba che si fanno un paio d’ore di trasporto in treno, autobus (col furlen in taxi) per incontrare una decina di lettori in una biblioteca civica vicino a Rho, per onorare la lettura.
Sono queste le cose che ci salveranno, o caro Gianni.
Energia e generosità. Cose che ho colto, sperimentato, sentito sabato scorso al circolo del lettore di Torino durante il Litcamp, ma non voglio anticiparvi nulla.
effeffe
testo coraggioso e schietto il tuo, caro Francesco,
questa sfrenata corsa dello scrittore verso il successo non deve essere finalizzata alla fama,
deve essere il valore in sè della cultura ad appropriarsi di noi, a muoverci, ad arricchirci.
ho letto un bell’articolo di Ermanno Olmi proprio oggi sulla provincia di Lecco, ne riporto un breve stralcio:
“La lettura di un libro deve trasformare e rinnovare gli uomini, se non è inutile. I libri non parlano da soli: devono scuotere il lettore.”
@ Gianni, ti citavo in una parte che ho estromesso e che faceva così
Certo che ci sono degli scrittori che amano i lettori come per esempio i fumettari… I nomi? Certo che ve li faccio, uno su tutti, Gianni, che ho seguito una volta a una presentazione con una decina di lettori vicino a Rho. Un’ora di treno, spostamento nella biblioteca civica. Le biblioteche civiche. Quelle si che ci salveranno.
@ Girolamo
hai ragione e infatti dico i Baricchiani, cui seguono i fieristici ecc ecc tentando di identificare gli obbiettivi di queste diverse e per certi versi contigue tribù- parlare di comunità non mi sembra appropriato- che propongono la visione del mondo da noi non condivisa. Una visione diciamo “marketing” si può dire?
L’approccio quantitativo ammesso da tutti come l’ultima delle ovvietà -una casa editrice è un’impresa, non dimentichiamocelo, ci dicono, anche se noi non ce ne dimentichiamo punto -è tutto fuorchè ovvio.
La dimensione “mercato” l’unica per cui “le cifre” d’affari prendono il sopravvento su ogni dimensione soggettiva dello scambio- un consumatore, un cliente, un pagante, sono clienti, consumatori, paganti di cui a nessuno frega una cippa in quanto a identità- si traduce nella vera e unica diserzione culturale, quella dello stato, sotto gli occhi di tutti.
Qualche giorno fa mi immaginavo Marx ed Engels proporre il Manifesto a qualche editore e negozirne i diritti d’autore a cinque sei per cento…
E poco importa che le istituzioni siano latitanti, è tutta la machinerie culturale che sta perdendo i pezzi. Le scuole, le università, il servizio pubblico, la televisione di stato. E allora non dico Pavese, Fortini, Pasolini, – anche se lo penso- ma Fellini (federico).
Ma voi ve la immaginate oggi una battaglia come quella che fece Fellini contro le interruzioni pubblicitarie?
Chi lo ascolterebbe? Nessuno.Tutti in piazza a ballare sulle note dei Modena City Ramblers, Club med della sinistra radicale, fare agitare a tutti il fazzoletto rosso nelle piazze in cui l’unica luce accesa e sinistra è quella della Giostra del Ridicolo
effeffe
C’è da dire che poi, però, Fellini le girò pure le pubblicità… ;-)
certo ma non s permise mai di interromperle con un suo film :-)
effeffe
cinquanta per cinquanta fa cinquanta
volendo c’è la rima con la fanta
li sposti li raddoppi e li scompigli
restano gigli – prima di svenire.
un beau geste
no digest
allons Fantas
effeffe
che spirito meraviglioso!
:-)
Bonsoir
@te
una miriade di baci
tra le incazzature
effeffe
“Lo stato dovrebbe versare un contributo alle librerie per i librai dovrebbe esistere un ticket come per i medicinali”. Invitiamo Moore e il gioco è fatto. Dopo la sanità, avremo anche la letteratura migliore del mondo. Alla faccia di quei pipernoidi protoamerikkkani.
Scusate se mi intrometto, ma l’epoca della tecnica che produce feticci letterari o simulatori di vite bastarde e originali (Bukowski, Fante, Capote ecc..) non è questa? cosa volete trovare nell’organizzazione e nelle dicerie da Fiera (“affluenza incredibile a Torino”) che rappresentano un vuoto culturale colmato coi numeri della merce venduta e dei consumatori standardizzati?
Si potrebbe costruire invece una specializzazione di generi che in Italia, mi faceva notare Giulo Mozzi non esiste.
Una specializzazione sia libraria (reparti tematici dentro le librerie) che letteraria(generi e geografia dei generi).
Perché non esiste il reparto romanzo giallo sudamericano? il noir cinese? il romanzo storico giapponese? non esistono questi generi? non ce ne frega niente di ciò? mi piacerebbe sapere se pensate che si tratta solo di “non esiste mercato per questa classificazione”
Il tecnicismo in cui esercitiamo la nostra vita esiste e non viverlo appieno come facciamo noi (feltrinelli mondadori ordinano così : giallo, romanzo contemporaneo, poesia ecc..) assomiglia a sognare di essere ancora nel IX secolo.
P.S.
Per piacere visitate il mio sito e se potete applicatevi in una critica senza offese grazie.
ops….secondavista.info…ci stiamo lavorando..grazie
Bravo, Furlen!
[…] caffè di milaga the cats will know idem Francesco Forlani (nazione indiana) […]
sottoscrivo e riporto alla discussione degli ultimi giorni
ciao Francesco. (ma chi cazz… sei? ti capisco, ma forse ti viene in mente) :-)
@ FF
ricordo la battaglia di Fellini, ma francamente era persa in partenza per la scarsa sagacia del combattente (lui come Veltroni, ricordi il “non s’interrompe un’emozione”?). Molto più intelligente un Nichetti (o il primo John Landis, o i Monty Phyton) che inglobando la pubblicità dentro il film rendeva(no) illeggibile l’eventuale inserto pubblicitario “vero”. Purtroppo non basta avere una giusta causa, bisogna cercare armi adatte per combatterla e vincerla.
“Marketing” si può dire, senz’altro. Ma più che identificare tribù (che pure serve), io sototlineo un altro aspetto del tuo intervento (che è anche di Renzo Paris, qualche tempo fa su Liberazione a proposito delle “mappe” del Corsera): torniamo ai testi, ai libri, a quello che c’è scritto dentro. Importa la pagina scritta, non se il suo autore va alle feste (che poi ci vanno quasi tutti, e quasi tutti si abbuffano come cavallette e fanno capannelli a sé stanti). Smettiamola di chiederci, davanti a un libro, chi sono gli amici e i nemici dell’autore. Smtiamo anche di chiederci chi è l’autore (che tanto, come diceva Enzo Melandri, ogni opera è opera collettiva): restiamo sui testi, per bacco.
@ Girolamo
Oggi c’era un articolo di Habermas su Repubblica che diceva più o meno
“il pubblico deve riprendersi gli spazi e gli strumenti della cultura (si parlava dei giornali) o almeno sostenerne la libertà e il vigore”
siamo ancora ai francofortesi, ragazzi, come se non ci fosse stato tutto il resto, Debord in primis e Sloterdjik in ultima battuta.
Ci sono delle battaglie che bisogna fare, alcuni le chiamano rivoluzioni, altri “risoluzioni”
Resolution for revolution
delle nostre menti, intanto
effeffe
ps
sottoscrivo e riporto alla discussione degli ultimi giorni
ciao Francesco. (ma chi cazz… sei? ti capisco, ma forse ti viene in mente) :-) dice Mauro nel commento qui sopra
-in che senso?- rispose furlen
mi fa piacere che tu abbia trovato la strada anche senza l’indicazione completa. che poi è qui.
A mio avviso c’è troppa distanza tra lettori e autori, e non per colpa dei lettori.
Da fuori sembra di sentire l’eco di quella vecchia battuta di Woody Allen che diceva: gli intellettuali sono come la mafia, si uccidono solo fra di loro.
quindi, non so se ho capito cosa stai dicendo, ma lo condivido.
vedi Mauro,
il problema è che l’auto (RE) è nudo
il letto (RE) è nudo (però c’ha i soldi, dicono)
e la letteratura vestita di tutto punto un pò più in là
effeffe
un po’?
effeffe
mi viene da dire: non tutta, ma temo il pernacchio che inevitabilmente ne seguirebbe.
(il che non basta a dis-convincermi)
Energia e generosità
Lo avevi detto, lo avevi dentro.
Di cosa parliamo, quando parliamo d’autore?
perchè non sei semplicemente andato alle feste a bere ballare scoparti qualche pseudo scrittrice pseudo fotografa pseudo intellettuale del cazzo
perchè tutte ste pippe? cosa vi aspettate da una fiera o da un festival?
ehi turo
almeno cambia nick
sennò John (fante) ti viene in sonno
e ti trasforma in una pagina di Melissa P
effeffe
ps
a proposito dei costumi sessuali dei comunisti dandy ti rimando
al manifesto (ed. La camera verde) poi mi vieni a trovare
e te lo dedico
@effe
ecco una riflessione che varrebbe la pena non affidare allo “scontato”- come si vede nelle librerie stive con le cifre 20/30/40 per cento in copertina a coprire titolo e nome.
Partiamo allora dalla prima autorità che valga la pena, quella dei maestri. C’è un passaggio in un testo pubblicato su sud qualche tempo fa e anche su NI (1) a firma di José Munoz che riproporrei:
https://www.nazioneindiana.com/2004/06/21/cosi-devi-fare/
dove tra l’altro dice:
Già allora intuivo che ero interessato al disegno narrativo, oltre che a rappresentare la luce e l’ombra di una scena: non ero ancora impressionato dallo spettacolo interiore delle persone, che è poi parte centrale dello spettacolo meraviglioso dell’esistenza. Ma questo lo impari dopo. Il disegno è toccare con emozione e con rispetto l’esistenza, lo spettacolo meraviglioso e terribile che abbiamo davanti agli occhi. Io subivo eccessi di crisi d’identità e tornavo a casa in mezzo a furie fredde ma sospettavo che i maestri sapessero quel che andavano dicendo. Breccia era un tipo di poche parole, dense, giuste, piazzate qua e là. Poi, Breccia e Pereyra, un altro prof della Panamericana, mi hanno trovato un posto nella bottega di Solano Lopez, disegnatore dell’Eternauta. C’erano Breccia, Pratt e c’era Solano, un pennello decisamente più asciutto. Solo dopo ho capito l’unicità del suo lavoro.
Quando sono arrivato da lui io tentavo delle cose un po’ alla Breccia un po’ alla Pratt tipo inchiostri succosi, arcigni, gesti cinesi e giapponesi, decisi e svolazzanti. Lui, invece, mi portava verso quello che voleva lui, i cieli di Buenos Aires per esempio, disegnati arando le nuvole rovesciate col pennello semiasciutto, spettinato come una pennellessa. I cieli bassi di quella che sarebbe diventata la Buenos Aires del futuro: una specie di veggenza quella storia, i cieli grigi degli invasori, pennelli asciutti che ferivano le nuvole e le spingevano giù nella città. Questa sensazione d’angoscia io cercavo di riprodurla usando linee troppo piene d’inchiostro: lui veniva e con la tempera morsicava e spettinava i miei tratti, cancellava e rifaceva dicendomi : “così devi fare”.
Solano è un grande creatore di atmosfere, uno che possiede l’anima viva di Buenos Aires, come Piazzolla.(…)
Alla scuola Panamericana, in una sorta di autismo creativo in via di definizione, c’era tra noi allievi un fumettistico spirito di competizione: gareggiavamo sorprendendoci a vicenda in mezzo a gridolini virili frantumati da urla adolescenziali. Apprendevamo dai maestri e dai compagni di classe e sentivamo le cose nel disegnarle. Con Solano vivevo un vero rapporto da maestro ad allievo, “all’antica”. In italiano usate la differenza tra autoritarismo e autorevolezza: siamo materia cosciente persa nell’universo con l’angoscia di sapere che moriremo e di ciò non ho mai sentito una spiegazione adeguata al mio comprendonio: nascere, morire, una situazione rischiosa. E allora ogni tanto capitano delle persone nelle diverse tribù, etnie, nazioni che hanno un plus nei loro cuori e di capacità organizzative. Insomma persone che tentano di onorare la vita riconoscendo almeno le ferite inflitte e autoinflitte nel tessuto sociale.
(…)Pochi sanno che sono un rappresentante della scuola argentina perché pochi sanno che sono argentino e mi fanno passare per un europeo. In qualche modo lo sono, visto che l’argentino era europeo prima ancora che esistesse l’Europa unita. Io mi sento un figlio riconoscente, porto dentro di me i fuochi che i maestri hanno contribuito ad accendere e ad alimentare. Vado in giro per il mondo vendendo la mia merce spirituale con alti e bassi consapevole di aver avuto molta fortuna, la fortuna di capitare in quel momento fra tutte quelle persone creative, di averle sapute riconoscere e rispettare.
Ricordo con Don Alberto a scuola: ero lì a inchiostrare un disegno e usavo delle trame molto intrecciate, mettevo una macchia grigia accanto ad una macchia nera, e lui mi diceva: “guarda qua, hai fatto una macchia grigia che quando sarà stampata diventerà nera: questo non è il fumetto non devi mettere nero con nero”. Mi fa una scacchiera, un quadrante bianco accanto a uno nero e mi dice: “Muñoz, questo è il fumetto”. E lì ho smesso di usare i grigi. Per rappresentare luce e ombra c’era un limite netto, poi il limite comincia a tremare e così è nella vita. Noi siamo in questo parco delle meraviglie e siamo tendenzialmente malvagi e stupidi, capaci di divorare noi stessi: uno scacco matto, ma subito ci viene la voglia di giocare un’altra partita, di rimescolare le carte.
A proposito di rimescolare le carte mi viene in mente un disegno del Che Guevara di Breccia: da una parte del foglio c’era una cicciona disegnata da Filippo Scozzari – è interessante la visione tecnico coloristica della turista nord americana con gli occhiali anni sessanta – e dall’altro Alberto innamorandosi dello stupendo grigio della carta e senza guardare il retro, disegnò un ritratto del Che. In trasparenza, dove finisce la natica della cicciona inizia la nuca del Che.
Breccia manifestava un certo orgoglio nell’aver contribuito al mio cammino, lo scambio tra maestro e allievo è come la consegna di una torcia che l’allievo porta in sé con il compito di alimentarla. Diceva Quevedo: “Polvo seré, mas polvo enamorado”. Anch’io ho cercato di fare la mia parte, perpetuando il fuoco: il ruolo che ha giocato Breccia nel mio mestiere l’ho in un certo senso assunto con quelli che mi hanno seguito, quelli che da me hanno ricevuto.
Torno dopo un’apnea universitaria, e ritrovo un frizzante, corrosivo, e delicato Gamba Tesa: certo: ci sono numeri magici di pubblico: dove cinquanta è indice di gomiti stretti e libido alta, i gruppi delle caves di Vian, quelli dell’Helter Skeltern (cantina a ridosso del vecchio Leoncavallo, dove Filopat e altri facevano venire gruppi di musica industriale clandestini nel mercato, ma decisivi nell’arte), quelli delle gallerie londinesi dove si esibivano i throbbing gristle, quelle di tante sale parigine di musica, e di ascolto della poesia, quelle di tante sale di teatro in Europa, cinquanta posti max,
e l’obraz di Milano, vecchia cineteca che ci ha formato, quanti posti aveva? Pensiamo a cosa sarebbe stata la nostra bildung intellettuale e artistica, se ci fossimo dovuti ridurre solo ai grandi concerti di Bob Marley o Vasco Rossi…
Culture de la proximité, Andrea,
così chiamavamo la bellissima e inarrestabile vague che da Rue Oberkampf , con les Couleurs, lo Charbon,la favela chic, arrivava fino al canal st Martin con chez Said, l’atmosphere, l’Hotel du Nord. Luoghi, per lo più caffè dove si esibivano le migliori band parigine e non, con i noir desir e il sassofonista akosh, l’attirail, e dove le grandi riviste letterarie si incontravano (paso Doble all’atmosphere e perpendiculaire al marronier (l’atelier du roman si incontrava al ronstand). Questi luoghi di aggregazione con ogni martedì, ogni mercoledì, una volta al mese, due capaci di produrre dei veri e propri miracoli.
José Munoz cantare uno dei tanghi da lui composti, o Akosh duettare con geniali musicisti jazz. Voglia di fare più che di esserci, di condividere un progetto. La nouvelle vague di cui parlo esplose con i grandi scioperi del 95 in tutta la Francia. In questo senso la “proximité” si realizzava con la condivisione e la prossimità, all’altro innanzitutto e poi all’idea.
In questo senso la penso come Negri quando parla di un unico movimento che dalle origini cambiando nomi e territori, permane, e allora Spartaco, Jan Palach, Danny le rouge, gli uccelli, la pantera, i sans papiers, possono guardarsi tutti insieme, senza il ridicolo e sfacciato morphing che sposta lettere pesanti come P C D S, sperando di ingannare l’idea.
A me non fanno paura le ideologie, nè tanto meno le idee, a me più di tutto fa paura il nulla, che sia quello dei pubblicitari o quello delle società dell’arte, che per quel nulla non solo ti fanno pagare il biglietto ma in più ti lasciano capire che in fondo in fondo ti stanno facendo un piacere
effeffe
che ancora non l’ho detto, ma questo post mi ha assai intenerito su un punto.
è che quando ero giovane andavo spesso al Duc de Lombards e pure al Caveau non mi ricordo che, quello con gli ottantenni che ballavano il rock’n’roll.
non si respirava, no. fumo e congestione umana.
ma quant’era bello, quanto?
non era un Caveau. era la Chapelle des Lombards
fiuuu, che sforzo di memoria
caveau de l’huchette brunè, era il caveau…
effeffe
nota
“Lieu d’inspiration des cinéastes, le Caveau de la Huchette a prêté son décor pour de nombreux films : “les Tricheurs” de Marcel Carné, “Rouge Baiser” de Vera Belmont, “La première fois de Claude Berri…”
Le Caveau de la Huchette serait le premier club de Paris où l’on a joué du JAZZ et sous ses voûtes, se produiront les plus célèbres Jazzmen du monde et depuis 1946, les plus grands jazzmen se produisent au Caveau de la Huchette:
Lionel Hampton, Count Basie, Sidney Bechet,
Art Blakey, Claude Bolling, Wild Bill Davis, Sacha Distel, Harry Sweet Edison, Panama Francis, Claude Luter, Memphis Slim, Maxim Saury, Marc Laferrière, Christian Morin, Zanini, Patrick Saussois, Les Haricots Rouges, Bill Coleman …pour le plus grand plaisir des mélomanes et des danseurs.
che meraviglia la lingua francese!
:-)
@ FF
Non è che siamo ancora ai francofortesi (per carità!): è Habermas che è ancora ad Habermas.
Che meraviglia effeffe che parla (e scrive) francese, ah!
@ girolamo
e anche questo (che dici) è inconfutabile
effeffe
Caro Honorè de Furlen,
si vede che sciacquare i panni al Po ( o nella Dora) ti fa bene perchè il pezzo ha un tono di grande eleganza ed equilibrio nello stile. Mi associo anch’io all’elogio della qualità etica del mondo dei fumettari
Giorgio
e poi arriva Giorgio.
Giorgio Mascitelli fa parte di quegli autori che segnano un tempo. Insomma il tipo di letteratura che “i grandi” critici ufficiali non scorgono, Figuriamoci il pubblico!!La critica in Italia si dice che sia moribonda. Ah l’ottimismo italiano!!
Il libro del maestro si intitola “l’arte della capriola” pubblicato da Piero Manni. Dunque a te caro Giorgio, dico grazie di essere venuto a questa gamba tesa del Furlen. Stappa la migliore bottiglia che hai. The times they are changin’, perchè, forse. qualcosa sta cambiando nelle nostre teste
effeffe
E se al prossimo litcamp ci dai una mano ?
uno dei tre disgraziati organizzatori :-)
@Vittorio
sarebbe un onore per me aiutarvi nella “missione”. Magari facciamola in Settembre, mettendo su un carnet de vol, con una sorta di “cartografia dei possibili”, ovvero la mappa dei ” campi” che vorremmo abitare. Con l’identificazione di temi generali (letteratura, politica, economia, scienza) con differenti linee guida all’interno e libera scelta di mezzi e registri degli interventi. Organizzazione in contemporanea di tre litcamp (Palermo, Roma Torino) con possibilità di interazioni con altre città. All’interno delle sale una sorta di planetarium (blogosfera) con tutti i tracciati possibili di intersezione. Una pragmatica del reale che non crei consensi, ma dis-sentimento, con inserzioni/diserzioni possibili. Insomma mettiamo su una CHARTE e facciamola girare (con la giusta ironia SVP)
effeffe
ps
un arbiter provvedera ad ammonire chiunque appartenga alle seguenti categorie:
Trolls out of controll (scemi) quelli intelligenti vanno anche bene
nazisti
blogger pentiti- sapete da quando ho pubblicato la mia silloge per EAP (edizioni a pagamento) vorrei proteggere i miei scritti con copyright come il papa con le encicliche
i pirla (vd splendida poesia di Montale)
i maschilisti
i pieni di sé e di ma
i calcolatori (macchine grosse e pesanti buone soltanto per fare igli ig-nobili conti)
i jukeboxari- qui se non si infila il gettone io non canto
i moralisti d’ogni specie e genere
gli autoriali
i m’accontentoegodisti
i chicazzmelofafaristi
ecc ecc eccI!!
effeffe
ma è possibile
– qui e adesso dico, in modo tangibile, qui nelle periferie, o nelle retrovie, con carne e sangue, con energia e generosità –
è possibile una condivisione della cultura, e una cultura della condivisione? E possbile essere *prossimi* anche al presente?
Se sì, partiamo.
Se no, lavoriamo.
Ancora.
Io condivido per principio. Machevvordì: “Una pragmatica del reale che non crei consensi, ma dis-sentimento, con inserzioni/diserzioni possibili”?
@OC
una pragmatica del reale
si intenda un insieme di azioni sul terreno ispirate sì da un progetto ma anche mediate dalla realtà della situazione.
non crei consensi
si consulti a proposito l’eccellente opera di Stanko Cerivic
Dans les griffes des humanistes, Climat, Catelnau-le-Lez, 2001,
dis- sentimento : poetica del dissenso
inserzione
termine miutuato dal blogo-dico
si inserisce un post
diserzione
hommage a Boris Vian
effeffe
ps
nel’elenco su citato metterei anche i
chevordisti
ps:
chi sono i chevordisti?
E’ divertente anche se, in fondo o pure superficialmente, davvero non mi capacito del perchè i libri non possono avere una paccofiera dignitosamente stimata come il salone. Le manifestazioni delle arti pittoriche e plastiche (Mi-Art) o delle arti decadute (Mi-Sex) non sono piene di sensibilità cieche e onanisti eiaculatori precoci? E’ un diritto. Secondo me ti preoccupi troppo delle parate. A mio avviso sono inutili e ricreative, spassosamente necessarie.
sai daniele in tutto questo io alla fiera del libro mi sono anche divertito (nelle prime due ore) e ho rivisto tantissima gente che adoro. Non è le bourdel della fiera che mi amgoscia sono le analisi post coitum, che mi terrorizzano.
Come le cifre
effeffe