L’editing come terapia
L’editing può essere visto come una forma di terapia – naturalmente limitata a un preciso aspetto della sua esistenza, la scrittura – alla quale un autore di testi letterari si sottopone. In barba a tutte le credenze di origine romantica e postromantica, ma ancora ben radicate, relative all’essenza “non interferenziale” dell’atto creativo, lo scrittore si fa aiutare da un altro essere umano, uno specialista della cosa, per migliorare la propria scrittura. Non per conformarsi a qualche modello esteriore, almeno limitandosi per ora all’accezione più alta di editing, ma, proprio come avviene nelle terapie, per essere più se stesso (si potrebbe prendere a prestito, per rendere più esplicito il parallelo, la junghiana “individuazione”). Per riconoscere nella propria scrittura cliché e debolezze, per vincere le resistenze che imprigionano le proprie possibilità. Chi non ha mai fatto una terapia tende a credere che il fine del terapeuta sia orientare e pilotare il paziente verso pensieri e comportamenti predefiniti, così come chi non ha mai lavorato con un editor tende a credere che l’editor voglia imbrigliare l’autore. I bravi editor, come è stato sottolineato più volte anche negli interventi precedenti qui su NI, non imbrigliano nessuno.
Lavorando con un editor sul proprio testo l’autore riconosce in esso degli errori – degli errori appunto non in senso assoluto, ma relativi in primo luogo ai propri presupposti intrinseci, e quindi valutati secondo un metro di giudizio non basato solo su riferimenti esterni – e degli elementi perfettibili. Proprio come nel corso di una terapia, è solo esplicitandoli e verbalizzandoli che gli errori vengono riconosciuti, è solo nominandoli che possono essere corretti e evitati. Proprio come succede in una terapia, l’autore aveva un vago sentore di sbagliare, ma non poteva non sbagliare, non riusciva a uscire dal circolo vizioso della ripetizione compulsiva dello sbaglio. Questo sbagliare era un non essere se stesso, era un fuorviamento dal quale non riusciva a separarsi. Con il suo sguardo esterno, e con la propria esperienza di terapeuta (therapeutés = servitore), l’editor lo aiuta a veder chiaro nel proprio operato (la propria scrittura, in questo caso), a cambiare, a essere più se stesso. Proprio come dopo una terapia riuscita l’autore, che sarà più coerentemente se stesso, non farà più quegli errori.
Il lavoro di editing su un dato testo si riflette in altre parole, e questo è forse un aspetto che non è stato ancora sottolineato, ma a mio avviso fondamentale, anche sui testi che seguono. Questa è la mia esperienza, e quella delle molte altre persone che scrivono che conosco. La scrittura è un’attività artigianale, o comunque empirica, che solo nella pratica, nell’eliminazione graduale (gradualità che può essere anche fulmineamente veloce, come in Rimbaud, ma pur sempre scaglionata nel tempo) degli errori e delle debolezze, si rafforza e si migliora: anche l’editing può venire a migliorare una scrittura. Forse sarei arrivato lo stesso a sbarazzarmi di certe tendenze che avevo, ma credo meno velocemente, con più difficoltà. Forse non sarei riuscito a prendere le distanze da certi errori, come appunto si può restare attaccati fino alla morte a certe ostinate nevrosi.
Naturalmente ci sono in giro molti pessimi editor, come ci sono in giro tanti cattivi terapeuti. Si potrebbe trovare un qualche esempio di talentuoso scrittore che è stato irrimediabilmente rovinato da un determinato editor, come succede anche troppo spesso nelle terapie mediche? Non lo so, non credo. Mi sembra molto più plausibilmente frequente il caso di terapie della scrittura che non sono servite a nulla. O anche, e penso nello specifico all’Italia, di editing che non affrontano i mali più profondi dei testi, che non attaccano di petto le malattie più contagiose e più diffuse nell’ambiente in cui vive il paziente, che si limitano a tamponare qualche sintomo più superficiale. Mi sembra più frequente il caso di editor poco esigenti che “validano” e cristallizzano scritture banali, e che forse impediscono la crescita, cosa ben più grave, di autori che ne avrebbero presumibilmente le doti.
Il risultato della terapia della scrittura, chiamiamola così, dipende dalle capacità dell’editor, e dal delicato e ambivalente rapporto (che ha qualcosa del transfert) che si instaura tra autore e editor. Come anche nel caso dei terapeuti della psiche, in assenza di altri criteri più oggettivi, per valutare gli editor ci si basa sulla fama. Criterio in questo caso specifico certo molto pericoloso, in questi tempi troppo legati al successo mediatico-commerciale e all’immagine. Un editore è bravo perché il suo lavoro ha dato dei buoni risultati, o perché ha lavorato con autori che hanno avuto successo, perché si fa pagare di più? Va da sé che si tende a dare più peso alla seconda e alla terza ipotesi.
Certi autori non hanno bisogno di una terapia della loro scrittura. E effettivamente leggendo i loro testi non si può che essere d’accordo con loro. Giù le mani dai loro capolavori. Altri autori credono di non avere bisogno, ma si sbagliano. Esattamente come moltissimi nevrotici, prigionieri delle loro nevrosi, delle difese architettate dalle loro nevrosi, non vogliono che si metta mano alla loro psiche. Confesso che leggendo i testi dei miei colleghi (in particolare quelli che scrivono nella mia lingua natale) mi viene spessissimo da pensare come li si potrebbe migliorare, faccio un lavoro di editing mentale, a volte anche molto elaborato. Altri ottimi e ormai classici autori, che vengono spesso citati (Carver…; più vicino a noi, e italiano, si potrebbe nominare, come già qualcuno ha fatto, Rigoni Stern) sono passati per degli editing anche pesantissimi, che il nostro ingenuo attaccamento all’autore – all’idea che ci facciamo dell’autore – ci rende difficile da concepire, per non dire oltremodo turbante. Non esistono regole. Come sempre quando si parla di letteratura qualsiasi anelito normativo può essere confutato da supposte norme di segno opposto, si possono trovare degli schiaccianti esempi che smentiscono quanto appena asserito. Mi sembrano altrettanto arbitrarie le posizioni di chi si dichiara a priori contrario e di chi si dichiara a priori favorevole all’editing. Un buon testo letterario è un qualcosa di “a parte”, un oggetto assolutamente unico per il quale non esistono strategie precostituite.
Molti scrittori, come molti creatori in altri campi dell’arte, pensano che se facessero una terapia poi non avrebbero più nulla da dire. Io stesso una volta espressi a quello che era il mio terapeuta il mio timore che la terapia mi privasse della materia e degli aneliti che avevano alimentato fino a quel momento i miei testi. Con un sorriso sardonico (anche i migliori terapeuti a volte possono essere sardonici) mi rispose che purtroppo dubitava che sarei mai guarito abbastanza per avere questo problema. Ritornando serio (come si deve a un attento terapeuta) aggiunse che in ogni caso avrei scritto cose diverse, più profonde. Forse questo vale anche per l’editing: una scrittura non guarisce mai completamente. Certo mano a mano che va avanti un autore diventa più sicuro dei propri mezzi e più cosciente del funzionamento del dispositivo creativo che ha affinato negli anni, ha meno bisogno di un editor. Ma non è detto che non possa ancora imparare qualcosa su se stesso (sulla propria scrittura) da qualcun altro, da un editor.
L’editing, sempre restando per il momento alla sua accezione più nobile, non scardina la posizione centrale e unica dell’autore. L’editor collabora con l’autore, ma rispettando la sua consustanziale specificità, mettendosi al suo servizio. Questo differenzia il “prodotto” testo letterario da quello – uso l’esempio più semplice – film. Un film è quasi sempre il frutto di un lavoro al quale hanno messo mano, e spesso in maggiore o minore misura competitiva, più persone, è un’opera a un grado minore o maggiore collettiva, dove il risultato finale dipende da un equilibrio, voluto o meno che sia, tra varie personalità e varie competenze. Per quanto si dia da fare il regista non domina tutto, non regna incontrastato, per molti versi deve mediare. Non foss’altro – anche ammesso che sia lui l’unico sceneggiatore, che sia lui a montare l’opera e a comporre la musica, come succede in un certo cinema più rigorosamente e artigianalmente d’autore – perché deve servirsi dei volti e dei corpi di altri individui, di attori. Nella scrittura la competenza è invece unica, tutte le decisioni, da quelle di base alle più infime, dipendono da una unica mente. Notoriamente anche alcuni scrittori di (planetario) successo hanno al loro servizio uno stuolo di collaboratori, ma tutto sommato questo modo di arrivare al testo finito – in cui comunque un solo cervello tira le fila – mi sembra ancora un’eccezione. E non mi sembra che la situazione di quegli autori (due, tre, o più) che collaborano alla redazione di uno stesso testo, sia sostanzialmente diversa da quella degli autori che lavorano da soli. La collaborazione di questi autori collettivi mi sembra restare molto diversa da quella che si instaura nel cinema, e ancora legatissima – anche se in qualche caso si tiene a prendere le distanze (Wu Ming) – al concetto classico di autore inteso come entità singola e per molti versi “divina” (si veda per es. il recente La littérature en péril, di T. Todorov), dotata di una sua autorità assoluta sul testo, di una sua pervasiva e totalitaria (seppure plurima, in questo caso) personalità. Per questi autori a più teste si potrebbe parlare forse di (poderoso) editing reciproco, o di auto-editing.
Naturalmente l’editing è sempre esistito, anche prima dell’esistenza degli editor. Veniva fatto – non a caso l’etimologia resta la stessa (ex edere), nonostante il détour anglosassone – dagli editori stessi. O dai correttori di bozze, da zelanti tipografi, o più spesso ancora dai congeneri degli autori, da scrittori amici. Molti scrittori avevano, come Flaubert, i loro Maxime Du Camp e i loro Bouilhet. Ora i congeneri degli autori vivono le loro vite atomizzate, hanno figlioli e grane, gli amici scrittori non hanno più tempo. Noi stessi siamo amici che dedichiamo delle energie ai testi in fieri dei nostri conoscenti scrittori, ma fondamentalmente anche noi abbiamo poco tempo. La divisione del lavoro ha fatto enormi progressi. Ora si va dal carburaturista, dall’ortofonista, dal pranoterapeuta, dal naturopata olistico: lo scrittore, una volta che il suo testo è stato preso dalla casa editrice, si rivolge ai servigi di un editor. Il sostantivo, che si porta appunto dietro il sentore del nostro asservimento al mondo economico e culturale anglosassone, suona male, ne convengo.
Un editor fondamentalmente è una persona che ha tempo di leggere con calma. Proprio come un terapeuta, l’editor è pagato per mettere a disposizione il proprio tempo. Gli editor leggono e rileggono, scandagliano, ci pensano sopra, analizzano, confrontano, cercano soluzioni, fanno – non possono esimersene – delle teorie dettagliate. Leggono come si dovrebbe leggere, lentamente. A differenza di quasi tutti gli altri addetti ai lavori dell’universo che ruota attorno alla letteratura, non utilizzano modi di lettura impropri. I giornalisti leggono qualche riga per pagina o più spesso non leggono affatto, i recensori sorvolano supersonicamente i testi, la maggior parte dei critici leggono velocissimamente: gli editor invece leggono davvero. Sono forse gli unici, forse esagero un po’, che leggono i contemporanei come si dovrebbero leggere, con quella puntigliosa considerazione che noi tendiamo a riservare per i classici. Riescono a mediare, come dovremmo fare più spesso tutti noi, tra l’irriverenza nei confronti dei testi – il pensare che possano essere cambiati o anche stravolti – e il rispetto per la loro pertinenza, la loro dignità.
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PS:
queste 4 idee le ho buttate giù dopo aver letto la traduzione dell’intervista a P.O.L. (la drammatica domanda che viene da porsi leggendolo: dopo di lui ci sarà qualcuno che saprà e potrà continuare questo suo preziosissimo lavoro?; P.O.L. non è – ahinoi – un epigono?) fatta da A. Raos, che seguiva altri pezzi postati negli ultimi tempi sullo stesso tema. Perché credo che un qualsiasi discorso sull’editing non possa non partire da una posizione chiara e approfondita nei confronti sull’editing stesso. Che naturalmente può essere anche molto lontana dalla mia, per non dire agli antipodi. Il secondo passo sarebbe provare a vedere, ma senza avere fretta di generalizzare e di arrivare a delle conclusioni, che cos’è e che ruolo, o meglio che ruoli, svolge l’editing nella narrativa italiana attuale. Sì, bene, ci sono dei cattivi editor e dei bravi editor, questo è abbastanza ovvio, ma riusciamo a capire almeno in parte – benché si tratti di una pratica empirica e quindi difficilmente penetrabile – in cosa consiste la differenza? Ci sono, tanto per fare degli esempi, vari “stili” o “maniere” di editare i testi? Si possono citare degli esempi? È riconoscibile un editing “alla Feltrinelli”, uno “alla Einaudi”…? E la spocchiosa Adelphi? Se per molti aspetti il testo letterario rappresenta una merce anomala, per la dose di novità, e in fondo di insondabile imprevedibilità, che il fruitore chiede al prodotto che acquista, il fatto che le strategie di marketing delle case editrici diventino sempre più aggressive, davvero non ha nessuna conseguenza, oggi, in Italia, sul lavoro degli editor? È davvero da escludere a priori che anche l’editor, per quanto buone siano le sue intenzioni, e per quanto siano disinteressati i suoi intenti, miri, coscientemente o meno, ad incrementare l’appetibilità del testo sul quale lavora, abbia cioè introiettato alcune delle esigenze delle strategie di marketing della casa editrice per la quale opera? Si possono fare degli esempi? Si possono trovare dei rapporti tra gli interventi degli editor sui testi e l’oggettiva inoffensiva patinatura di tanta nostra narrativa? Che ruolo hanno gli editor nella oggettiva e innegabile “normalizzazione” di cui parla Andrea Raos? Davvero l’editor finisce in molti casi per essere più importante dell’autore, come ci dice Carla Benedetti? Si possono fare degli esempi, si può confortare con questi una oggettiva tendenza? Intervenire su un testo scritto in una lingua, quella italiana, che è molto meno codificata, e quindi tendenzialmente molto più aperta, rispetto ad altre lingue con una tradizione letteraria più solida e proprio per questo anche più limitante, per esempio quella francese, non implica delle enormi differenze? Il sospetto che in molti casi l’intervento sui testi si rifaccia a istanze e canoni di tipo prevalentemente extra-letterario (televisivo…) è davvero infondato? Qualche testo di qualche scrittore consacrato, e quindi considerato e autoconsiderantesi intoccabile, non ci guadagnerebbe a passare sotto il pettine di un rigoroso editing? Si possono fare degli esempi? Naturalmente tenendo presente, come riferimento, e come giustamente fa A. Raos, quello che succede altrove.
Non riesco a non pensare all’editing come a un qualcosa strettamente connesso con l’aspetto commerciale dell’opera, col mercato, il profitto ecc. Penso a un parallelo con l’arrangiamento, nella musica. Un qualcosa di funzionale alla confezione per la vendita. La musica, però, ha il vantaggio di poter esprimersi in presa diretta, da un palco, rivivere numerose volte in varie forme. La scrittura resta congelata sulle pagine di un libro. Allora, l’editing può veramente togliere qualcosa di importante allo scrittore. A costo di sembrare rincoglionito o (ancor peggio) snob, dico chiaro e tondo che non amo la letteratura e la subisco per necessità. Credo nella bellezza dell’oralità, del racconto con la voce che non va d’accordo con le esigenze della modernità. Allora, sono costretto a leggere. Ma poi dico: se dieci autori diversissimi tra di loro si affidano allo stesso editor, quante probabilità hanno di non vedersi omologata la loro scrittura, appiattita sullo stile dell’editor?
Un saggio molto interessante che paragona l’editing alla terapia: è intelligente.
Ma cio che mi mette a disagio è il posto dell’ editore tutto potente, che illumina la strada dell’ autore.
L’autore impara solo, con la sua propia riflessione e il dialogo con gli altri autori. Non ho pratica dell’editing, né della scritura: dunque sono un po’ limitata nel punto di vista;
La fiducia con l’editore è importante, come una storia d’amore, ma l’autore deve rimanere indipendente: LIBERO!
La terapia non deve diventare un vincolo stretto, stretto al punto di soffocare.
Sono una nevrotica incurabile, io lo so.
si, è un paragone che calza.
solo che un terapista è un dottore, un editor qualcosa di simile ad un commerciante.
o magari no. spesso dipende anche dai casi.
ad ogni modo ogni processo atto a criticare il proprio lavoro, e soprattutto un lavoro viscerale come la scrittura, tende a migliorare, ad affrontare le proprie lacune e i propri limiti.
in fondo, anche in questo caso si tratta di socializzare, di mettersi in rapporto con gli altri, di prendere le misure con il mondo esterno, con le parole che dentro la tua testa sono perfette e suonano tutte giuste ma che nella testa di un altro hanno sfumature e significati simili, ma non uguali.
Bellissima quella minuscola raganella!
chissà che solletico!
leggo dopo…
:)
Da tutto questo emerge che gli editor sarebbero coloro che ti indicano il cammino sicuro per Damasco. Per gli editor tutti cattivi tranne loro stessi, perché gli editor leggerebbero sul serio. Leggono e ti rifanno la targa della macchina. :-(
Gli editor avrebbero tanto ma tanto bisogno di un bel lettino e possibilmente d’una camera bianca imbottita, o anche senza imbottitura: forse così la pianterebbero di credersi dio e il centro dell’editoria.
TR
“se dieci autori diversissimi tra di loro si affidano allo stesso editor, quante probabilità hanno di non vedersi omologata la loro scrittura, appiattita sullo stile dell’editor?”
Se sono diversissimi saranno diversissimi anche con lo stesso editor. Non conviene a nessuna casa editrice pubblicare autori fotocopia.
Non ostante (qui su NI) si scriva da più post che l’editor non è quel mostruoso omologatore, si continua imperterriti a crederlo.
I luoghi comuni sono sempre i più duri da estirpare, perché sono consolatori.
Il principio non è sbagliato.
Ma mi chiedo:
perché l’editor è quasi sempre interno alla casa editrice?
Questo fatto non implica che a giocare, per l’orecchio dell’editor, sia la voce comune che sottende alla collana editoriale?
Voglio dire: l’editing in questo senso non disciplina un testo e lo rende più o meno idoneo a un progetto editoriale?
E poi: l’editor ha sempre “ragione”?
Ma come fa?
Ma chi è?
uhm. la raganella chi è? e di chi è il dito?
questa interpretazione sarebbe molto più plausibile se la scelta dell’editor fosse libera, fatta dall’autore, e magari anche a sue spese. così non è. questo rende il tutto un terno al lotto. aleatorio. giochi, paghi, e, talvolta, vinci moltissimo. però altre volte no. come la mettiamo?
Non è vero che l’editor è quasi sempre all’interno della casa editrice.
Non è vero che l’editor ha sempre ragione.
Non è vero che l’editor impone i tagli, le asciugature, etc.
Non è vero che l’editor imponga la sua lettura.
Non è vero che l’autore non utilizzi editor esterni, di sua fiducia (capita spessissimo).
A me nessun editor ha mai imposto alcunché. Tutte le parole che ho pubblicato sono mie, dalla prima all’ultima, vigole comprese. E se è accaduto a me non ho dubbi a credere che accada anche agli altri autori.
Dopo tutti ‘sti pezzi sull’editing, si è al punto di partenza: nessuno ha mostrato alcun frammento esemplificativo nella doppia versione: prima e dopo il trattamento. Sarebbe bello poter toccare con mano qualche frutto di tanta terapia.
Sono certo che se scrivessi:
“ED E’ SUBITO SERA
Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera”
un editor con una visione del mondo diversa dalla mia potrebbe variarla così:
“LA CENA DEL PENSIONATO
Ed è subito pera.”
@Gianni
ma tu sei un mito!
sì, vabbe’…
Secondo me Lucio è un genio. :-)
E sulla sua scia, se scrivessi:
M’illumino d’immenso
Arriva l’editor e cambia in:
Spegni la luce.
:-(((
“vigole comprese”: mi sa che faresti bene ad avvalerti di un editor al più presto possibile. :-D
Vedo l’editore comme un Padre ( transfert opprimente) che dà luce al libro, riconesce il nome dell’autore, afferma la sua esistenza.
Odio sentirmi in terapia, osservata da uno sguardo omnipotente: è una pericolosa illusione. L’editore o il terapeuta hanno l’importanza che lo scrittore o “l’analysant” danno a loro.
Vedo il legamo tra l’autore e l’editore come il passagio dell’intimo al confronto al pubblico. Non è il passagio della tenebra alla luce.
“Capuche”, ti è stato fatto notare più di una volta, da vari indiani: se hai voglia di chattare esistono gli strumenti adatti, ed NI non lo è. Per favore.
Gianni, torno più tardi sulle tue reazioni (forse, perché non vorrei ripetere cose già dette mille volte – mi scappa quasi di parlare dei generi, figùrati…). A dopo, ciao,
Andrea
scusa! non mi ero accorta!
non succederà più.
ciao
mi sembra che anche questo paragone con la terapia rimetta in gioco, magari in maniera più complessa e articolata, comunque il problema della norma e dell’idea di verità. l’editor servirebbe a trovare la propria voce, ma si deve suppore di una avere _una_ voce e che quella sia _propria_.
per conto mio, credo che il problema non sia tanto la salvaguardia dell’autore e nemmeno la salvaguardia. quello che mi sembra problematico è sempre il mettere in rapporto il testo con un a priori (la voce di cui sopra, o la realtà o, infine, la verità) che dovrebbe giustificarne la forma e la presenza. mi sembrerebbe molto interessante, oggi, esplorare il testo come valido per il solo fatto di essere presentato in sede di letteratura. mi rendo conto delle implicazioni destabilizzanti (a dir poco ;-) di un’approccio di questo tipo. eppure mi sembra di vedere nella proliferazione dei discorsi e non nella loro rarefazione la caratteristica di questo periodo.
ultima notazione, rispetto a quello che dice véronique sul passaggio dal privato al pubblico, che mi sembra molto giusta: in effetti, con la diffusione delle infrastrutture digitali e, per quel che riguarda la letteratura, la conseguente proliferazione della scrittura on line, questa distinzione mi sembra sempre meno netta. forse anche questo aspetto è da prendere in considerazione.
“Correggendo le mie opere correggo me stesso” (W.B.Yeats)
L’editing è terapeutico solo se è assunto, fatto proprio dall’autore, meglio se direttamente da lui anche se su proposta dell’editor.
Se no è pura castrazione, vissuto frustrante e irredento.
Accettandolo senza condividerlo l’autore si sottomette all’imprenditore, per gusto o per mercato che sia. Credo che il vero confine sia questo.
L’editor non è uno psicoterapeuta. È come se qualcuno, ad esempio, volesse sostenere che i surrealisti erano schizofrenici perché nella loro scrittura si perdevano i comuni nessi associativi propri del normale svolgimento logico del pensiero. È come se qualcuno volesse sostenesse che oggi tutti quelli che sperimentano, nel tentativo di incidere attivamente sulla percezione della realtà del proprio tempo, debbano essere ricondotti alla norma condivisa. Si vive nella dittatura del canone. Questo è innegabile. Di una razionalità che sfocia nella superstizione. Il vero editor accorda le nota stonate. Mai dovrebbe pronunciarsi sulla struttura sintattica di un testo. Ma lo fa quasi sempre. Nella preselezione dei manoscritti da editare. Poi, al di là della testimonianza, assolutamente onesta e sincera di Biondillo su Nazione Indiana, ci sono autori di grande fama che vengono completamente riscritti. All’editore presentano dei veri e propri canovacci. Non sono leggende metropolitane. Ma dati di fatto, assolutamente confermati dagli addetti ai lavori, nell’intimità dei loro ambienti di fiducia. E il dramma è che uno di questi autori è secondo me il migliore scrittore di genere della sua generazione! E che sia stato selvaggiamente editato è irrilevante ai fini del risultato letterario. La verità è che nessuno mai oserà editare un Grande Scrittore. Si limiteranno a non pubblicarlo. A confinarlo in qualche piccola casa editrice. Dandogli dell’esaltato.
Alessandro scrive:
“ci sono autori di grande fama che vengono completamente riscritti”.
Bene. A questo punto voglio i nomi e i cognomi. O io sono l’unico coglione che non li sa?
Qui stiamo parlando di narrativa, vero? Non di personaggi televisivi che scrivono le loro memorie, o di veline che raccontano il loro successo, o di calciatori che raccolgono barzellette, giusto?
Bene: nomi e cognomi.
E in ogni caso: se a questi autori sta bene essere radicalmente stravolti dove sta il problema per il lettore? Chi legge, legge un libro o legge un autore? Chi se ne frega, in fondo dell’autore? A me interessa il libro: se un autore non ha le palle per imporre la sua scrittura, perché dovrei giudicare il suo editor e non lui?
Morgillo, non si tratta di imporre uno stile INVECE di un altro ma di chiedere all’autore di essere fedele al proprio stile e alla propria storia. Il lato terapeutico sta nel fatto che chi pretende di essere l’unico giudice del proprio lavoro e non si lascia non dico imporre ma nemmeno proporre correzioni non è interessato al lettore, perchè piaccia o no in quel momento l’editor rappresenta quello prima che l’editore. Uno scrittore non è semplicemente uno che scrive, è uno che scrive per essere letto. Banale ma significativa differenza tra genitalità della scrittura e onanismo narcisistico.
Sto parlando di autori che campano dei loro libri. Uno di loro da ragazzino l’ho divorato. Ho un amico che insegna all’Università dove ha avuto una cattedra di recente in nuovo Proust. Questo mio amico, ben informato dei fatti (non sto parlando delle solite chiacchiere da corridoio), mi ha raccontato delle cose inquietante. I nomi non posso farli. Non ha nessuno alla spalle. Io. Mi dispiace, ma a me degli autori ancora interessa. Certo, so godere anche dei libri. Quando sono editati bene danno lo stesso piacere di un pop-corn movie.
Ecco, Valter, con te posso essere d’accordo: anzi, quasi del tutto.
Se l’editor ti chiede di rivedere, perché no, purché non sia un imperativo “riscrivi tutto, perché così non vende”. Se si tratta di fare delle revisioni, bene: ma che sia l’autore a farsele le correzioni, su suggerimento dell’editor anche. Uno scrittore che sia tale è uno capace di correggersi proprio come la bella citazione che hai portato di William B. Yeats.
Discorso totalmente diverso se uno scrittore – scrittore! si fa per dire – scrive un canovaccio e lo affida all’editor o agli editor; o se il libro, seppur buono, viene riscritto dall’editor per un suo uzzolo ombellicale o per far contento l’editore; e poi magari l’autore dice che sì, purché lo si paghi e si metta il nome suo in copertina e non quello dell’editor.
Il Signor Valter Binaghi saprà benissimo che un autore fa SEMPRE leggere il suo lavoro a persone di cui si fida. Quindi per me sta discettando di papaveri. Sulla figura del lettore archetipico poi le risposi già a suo tempo. Non sono uno che si ripete.
Ma se questi editor sono così bravi a scrivere libri che vendono, perché non li scrivono direttamente? Non trovate tutto ciò dietrologico?
Ed infatti appena l’editor che si pavoneggia di aver editato best seller pubblica il suo di romanzo, non se lo caga nessuno. Qualcosa vorrà dire, no?
Poi, Alessandro cos’è una cattedra “in nuovo Proust”? non capisco…
in ogni caso se non puoi fare i nomi in pubblico fammeli in privato: scrivimi all’email di NI, sono davvero curioso.
ma cos’è questa storia che l’editor supera lo scrittore, sfatiamola!
io non ci credo!
il talento è e deve essere dello scrittore, l’editor è un aiuto, un supporto, una spalla.
il merito è di chi ci mette la testa, le idee, lo spirito.
Buona cena a tutti
Gianni Biondillo, c’è un errore di battutura. La frase corretta dovrebbe essere: Ho un amico che insegna all’Università dove ha avuto una cattedra di recente il nuovo Proust. I nomi non te li faccio. Neanche in privato. Non posso tradire la fiducia del mio amico. Ma se il tutto è arrivato a lui potrebbe arrivare anche a te. Mi sembra naturale poi che un ottimo editor non sia necessariamente un buono scrittore. In ogni caso, non voglio fare polemica con te. Perché stimo il tuo lavoro. E ho sbagliato a perdere il controllo. Così rischio di fare solo illazioni…
Morgillo, non so chi sia il tuo amico romano, ma bazzico per case editrici da qualche annetto e ho versioni diverse.
Libri rifatti con un editing pesante ce n’è, e qualche volta ho contribuito anch’io, ma NON si tratta di letteratura. Per lo più sono ricerche storiche, biografie di gente famosa o testimonianze che vale la pena pubblicare ma non hanno dietro una penna brillante. Così ce la mette l’editore. Se invece parliamo di scrittori di fama in realtà riscritti, allora dico anch’io con Biondillo: fuori nomi e cognomi, che li sputtaniamo una volta per tutte.
Sempre a Morgillo.
Il lettore “di fiducia”, se è un amico o anche conoscentre, meglio che legga il libro una volta pubblicato. Chi mi dà un giudizio di pubblicabilità NON DEVE essere uno che mi vuole vedere pubblicato perchè mi ama e stima, ma uno a cui non importa un cazzo di me, e il motivo per volermi pubblicato glielo deve dare solo e unicamente il libro. Così funziona.
No, Valter. Non sarebbe corretto. Ed in ogni caso la cosa non è dimostrabile senza l’ammissione pubblica dei diretti interessati. Bisogna invece, per onestà intellettuale, scrivere che l’editing è necessario. Sempre. Soprattutto per la narrativa popolare. La cui qualità maggiore sta nell’accessibilità. Spesso si riesce ancora a godere di buoni prodotti.
Buona serata.
Sì, Valter, funziona esattamente come hai detto. Naturalmente i criteri di pubblicabilità di un libro non sono sempre condivisibili. E tu lo sai benissimo. Io faccio leggere i mei scritti ad alcuni addetti ai lavori. Minori. E le loro risposte sono sempre ciniche, lucide e distaccate. Garanzia di qualità.
Ci sono anche editor che fanno circolare la voce di aver corposamente lavorato su testi di autori di nome per acchiappar gonzi che si facciano curare da loro, e alzare i prezzi, ché il mercato dell’aspirante è ricco e variegato.
Ma come ha detto più d’uno qui, se non si fanno i nomi tutto questo è Bar. Siccome non si possono fare, perché fatti i nomi poi ci vogliono anche le prove, non so bene a cosa serva. C’è da imparare qualcosa? Non mi pare.
Beh, a occhio e croce direi che ci sono più incompetenti di editing che di psicoterapia, quanto meno perché i percorsi di riconoscimento sono differenti. In quanto all’idea banale che l’editor imbrigli la scrittura, non credo che ci siano persone che lo pensino realmente. Piuttosto penso che l’editor sia diventato il parafulmine di un processo di rifiuto della normalizzazione e omologazione negli stili di scrittura, che in verità sembrano sempre più eguali. Ma, di questo, non è l’editor il principale imputato.
In quanto all’analogia con il processo psicoterapeutico, mi sembra forzato, superfluo.
In quanto alla normalizzazione, penso che questa a venga a monte, e cioè già nella mente di chi scrive pensando di mandare un testo a una casa editrice. un problema di smascherare le mentalità. Se uno studia come si forma una mentalità, il processo è palese. Il colpevole principale è il lettore, ormai decisamente analfabeta. Le cause sono lunghe da descrivere.
@ luminamenti
Pare che il lettore archetipico sia stato creato col materiale primigenio della rivelazione e rappresenti la sempiterna esperienza della divinità, di cui dischiude all’uomo il presentimento, proteggendolo al contempo dal contatto diretto con essa. Pare che il lettore archetipico, in virtù della sua numinosità naturale, si liberi del tutto da ogni controllo cosciente dello scrittore, conseguendo piena indipendenza da esso, possedendolo nell’anima fino a castrarne ogni intuizione liberatoria. La verità è che il lettore archetipico è la communis opinio che combatte chiunque osi elevarsi al di sopra del fango per farsi non dio ma Uomo.
Qualche anno fa ho letto un piccolo libro di Maria Grazia Cherchi, “Scompartimento per lettori e taciturni”.
Quando il libro e’ uscito, Maria Grazia era gia’ morta.
In esso erano raccolti alcuni suoi scritti, apparsi su giornali o periodici, in vari modi connessi con la lettura della produzione letteraria corrente.
La lettura era il lavoro di Maria Grazia, la cui attivita’ definirei senza dubbio e principalmente come quella di un “editor”.
Consiglierei davvero a tutti di leggere quel libro, proprio per avere una idea di quale sia e in che cosa consista, dal punto di vista di una persona che senza esitazioni definirei intellettualmente onesta, l’attivita’ di editing dei testi altrui.
GRAN bel libro quello di Maria grazia Cherchi
Gianni Biondillo chiedeva quali siano gli autori che vengono completamente riscritti.
Credo che Raymond Carver sia uno di questi. Se ricordo correttamente, alcuni anni fa furono ritrovati molti suoi dattiloscritti originali, e fu una sorpresa scoprire quanto diversi fossero dalle opere finali pubblicate, che erano state riscritte da cima a fondo da un editor, Gordon Lish.
Però l’idea di un editor che interviene così pesantemente mi fa pensare più alla parola “artigianato” che alla parola “arte”. Sì, mi rendo conto che questa mia frase suona molto ingenua :-)
Vi prego di scusarmi.
E soprattutto prego Grazia di scusarmi.
Perche’ e’ Grazia il suo nome esatto.
http://www.internetbookshop.it/ser/serdsp.asp?shop=2908&isbn=8807814315
Carver aveva buttato giù l’idea, Gordon Fish l’ha portata a termine rivista e corretta completamente.
Sono dell’avviso che si dovrebbe parlare della coppia Carver and Lish, piuttosto che di Carver e di carverismo. Il minimalismo è una forma d’artigianato a due, peraltro riuscita proprio male a mio avviso.
Ricevo da un amico questa frase di Gertrude Stein, tratta da How to write:
“a sentence should be arbitrary it should not please be better”
Il mio amico sottolinea il “be better”, e così faccio anch’io.