Il mio Antropocene

di Giacomo Sartori


Sull’utilità pragmatica del concetto di Antropocene, e sulla sua propensione, così come è nato e viene propalato, a nascondere l’origine dei singoli problemi e le responsabilità, e quindi anche a complicare l’individuazione di strategie non velleitarie per contenere le catastrofi, mi sembra che ci sia molto da discutere, moltissimo. Ma è innegabile che l’Antropocene, con i suoi sconquassi e minacce, sia ormai sotto gli occhi di tutti, ogni giorno di più. Meno noto, ma fondamentale, è che molti, tra gli altri Charles Fourier (Détérioration matérielle de la planète, 1820-21, pubblicato postumo nel 1847), l’hanno visto arrivare per tempo, e che quasi tutti i suoi passi più nefasti sono stati volontaristici e tutt’altro che consensuali, insomma politici. E quindi non era poi così ineluttabile come si da per scontato, sopravvalutando il peso della demografia, e l’umanità non è parimenti colpevole. Per quanto mi riguarda l’ho avvistato, nel mio piccolo, ben prima che il suo nome venisse coniato. E mi ha poi affiancato, come un compagno ormai inseparabile, nel lavoro che faccio.
Quando avevo sei anni la mia famiglia ha traslocato dall’appartamento che avevamo in affitto in città alla villa di mia nonna in collina. Erano solo una manciata di chilometri dalla città di distanza, ma era un altro mondo. Un complesso meccanismo dominato dalla vegetazione, addomesticata ma pur sempre fieramente autonoma, con la sua energia linfatica e i suoi cicli, e dove subordinatamente c’erano muri, viottoli, boschetti, piccole frazioni con case coloniche e qualche villa signorile. E dove si muovevano a loro agio animali di varia taglia e indole. E anche naturalmente, pure essi di casa, abitanti umani, con le loro abitudini e la loro lingua. Lì ero straniero. Sapevo intrufolarmi e farmi accettare, tessendo amicizie intrinsecamente asimmetriche, come ho poi fatto tutta la vita, ma ero un essere alieno.
Questa funzionale coabitazione di natura e essere viventi traeva la sua forza dalla continuità e dalla ripetizione, era radicata in un passato che si avvertiva molto antico. Era evidente che ogni più piccolo elemento affondava nel tempo, dal quale traeva una sua invincibile inerzia, ribadita dalla lingua e dai gesti. E proprio per questo le novità avevano dirompenza di meteore. Perché in realtà tutto stava cambiando. Un’estate è comparsa una falciatrice a motore, pilotata da un ragazzino appena più grande di me seduto come un motociclista, che con le sue due larghe chele di aragosta faceva in due ore il lavoro che richiedeva molte giornate di fatica con la falce. E l’anno dopo è comparso un trattore a cingoli Fiat, che avanzava minaccioso e ostinato con un frastuono di ferraglia, e con le sue unghie dure incideva le carreggiate e faceva tremare la nostra vecchia casa come ci fosse un terremoto. E subito sono scomparsi, subito non ci ho fatto caso che le due cose erano legate, i buoi, diventati ingombranti e desueti. D’improvviso basti, finimenti, fruste, aratri di legno, erano reperti impolverati e quasi curiosi.
La stradetta secolare cinta sui due lati da alti e bianchissimi muri a secco che saliva dal paese a valle, è stata trasformata in carreggiabile a doppia corsia, dove ci passava comodamente un autobus, delimitata da cemento. L’asfalto guadagnava terreno come una lingua ingorda, mangiandosi perfino il saliscendi finale per arrivare da noi, un tratto della via romana Claudia Augusta. Per decenni ha resistito solo la piazzetta del borgo, poi quando si è riempita di auto è stata sigillata anche quella. In pochi anni la plastica ha invaso case e aie, le spazzature sono proliferate come infestazioni micotiche, e la dieta è cambiata: la pasta ha sostituito la polenta di mais, la carne è diventata normale. Intere piane sono state invase da caseggiati di calcestruzzo e parcheggi. La vita era più facile e molto meno dura. Nessuno dei giovani faceva più il contadino a tempo pieno, semmai era un secondo lavoro, finiti i turni in fabbrica. Prima di bere l’acqua delle fontane bisogna però vedere se c’era scritto che era potabile. E anche la frutta non si poteva più mangiarla dall’albero. Le lucciole e le rondini si sono diradate, e poi sono scomparse per sempre. Le fumosità marroncine che tappavano ormai la valle hanno preso l’abitudine di salire verso di noi. A cose ormai concluse, sarebbe poi arrivata anche la nuvola micidiale di Chernobyl. Moltissime persone morivano di cancro, vai a sapere le cause precise.
Tutto stava cambiando, e mia nonna si stizziva, sentiva che lei non poteva stare con le mani in mano. Era già anziana, e ormai del grande patrimonio non restava quasi più niente, però doveva muoversi, se non voleva rimanere tagliata fuori. Si è sbagliata anche in quello. Ha comprato un cavallo magro e collerico, che non ha mai ubbidito a nessuno, e un carro troppo pesante, che non è mai uscito dalla rimessa. Non aveva capito che la rivoluzione era ben più radicale, e era basata – i lontani anni in America avrebbero dovuto metterla sulla via buona – sui motori. Del resto i suoi vigneti erano troppo pendenti, per portarci le macchine.

Senz’altro la mia scelta di studiare agronomia va ricondotta in qualche modo a quel groviglio di natura e tecniche umane che mi aveva tanto colpito. Mi sono iscritto a Firenze, facoltà rimasta inceppata nell’Ottocento, e per certi versi al Rinascimento. Tra gli allievi c’erano conti e marchesine bronzineschi, e erano completamente assenti i computer, la statistica, i modelli matematici. C’era però una rinomata scuola sui suoli, e io ho fatto una tesi in quel campo, e poi ho continuato per tutta la carriera a occuparmi solo di terra. Noi specialisti ci sgolavamo per dire che i terreni soffrivano, spesso morivano, erano spazzati via. Nessuno ci ascoltava, eravamo visti come patetici passatisti. Solo negli ultimi anni ci si è resi conto che le terre coltivabili sono limitate e fragili, e sono insostituibili. Spesso però è troppo tardi.
Studiavo soprattutto i suoli di montagna, che interessavano ancora meno. Un pomeriggio ho sorpreso il direttore della istituzione per la quale lavoravo che mi prendeva in giro per la mia attrezzatura e la mia strumentazione antiquate. Un professore di Zurigo è però venuto a cercarmi: quegli studi antiquati che avevo fatto, che legavamo i caratteri dei suoli all’altitudine, e insomma al clima, potevano essere utilizzati secondo lui per prevedere gli effetti dei cambiamenti climatici. In Italia nessuno parlava di cambiamenti climatici, lì da loro li davano per scontati. Abbiamo lavorato per tanti anni assieme. Lui era il mago delle tecniche più innovative, io ero principalmente il braccio organizzativo, che conosceva come le sue tasche i terreni di montagna e le loro minime paturnie, però insomma respiravo anch’io quel fermento scientifico. Finché è arrivata la crisi, e fondi per quelli studi, e più in generale ambientali, nel nostro paese non ce ne sono più stati. Avevo comunque imparato che di molte questioni basilari, e men che meno degli intrichi di correlazioni che caratterizzano gli ambienti complessi, non ne sappiamo nulla, e che non si può modellizzare ciò che non si conosce. Di qui la mia diffidenza per i cosiddetti modelli climatici, e per la scienza stessa, che da sola – senza coinvolgere gli uomini e le loro strane passioni – non può dare risposte.
Negli anni successivi ho dovuto ripiegare sui terreni dei meleti e dei vigneti, dicendomi – certo ingenuamente – che conoscendoli beni si sarebbero potuti proteggere e risparmiare, limitando i danni al contorno. Anche lì quello che facevo e faccio non interessava quasi a nessuno, lasciando stare le parole. Gli istituti di ricerca parlano e spendono per l‘agricoltura di precisione, come se le conoscenze di base, che mancano, potessero essere surrogate dai gps e dai sensori dei droni, o dall’intelligenza artificiale. E si inebriano di ingegneria genetica, come se si potesse far quadrare il cerchio delle risorse energetiche e degli inquinamenti con quella. Quando ogni vero conoscitore dell’agricoltura del mondo, e non solo dei paesi ricchi, sa che sono le tecniche antiche che sfamano, e sfameranno, la maggior parte degli uomini, dando sollievo al pianeta. E che solo tornando a quelle, certo affinandole e migliorandole, potremo forse sopravvivere. Ma queste cose gli antropocenisti, inebriati dalle stesse tempeste tecnologiche delle quali vituperano gli effetti, e sviati da fantascientifici sogni di redenzione, non le sanno, e forse non le vogliono sentire.

 

NdA: queste consideraizioni mi sono venute riflettendo in vista del dibattito di oggi al Book Pride di Genova, moderato da Michele Vaccari, e con Laura Pugno, Matteo Meschiari e il sottoscritto: Dopo la grande cecità. Scrivere l’Antropocene.

 

9 COMMENTS

  1. Si….e forse anche alle tue drastiche conclusioni. Resta il come arrivarci. Resta il dove e chi, cioé quale paese incomincerá. Stiamo bruciando un tesoro (?) accumulato dalla Terra nel corso di milioni di anni. Lo stamo consumando non allegramente ma nevroticamente a una rapiditá pazzesca. Stiamo allerta, altro non ci rimane. E confidiamo comunque…

  2. “Le tecniche antiche sfamano la maggior parte degli uomini”, o forse sfamavano la maggior parte dei relativamente pochi abitanti del pianeta, i quali peraltro avevano l’abitudine di morire molto presto. Boh. La rivoluzione verde è stata davvero un disastro, oppure lo è la sua degenerazione? Mi piacerebbe molto un confronto pubblico – o ancora meglio un libro in forma di dialogo – tra Giacomo Sartori e Antonio Pascale…

    • e la rivoluzione verde, che ha effettivamente portato a delle produzioni molto più elevate, e in molte zone asiatiche ha contribuito a diminuire fame e povertà – ha purtroppo portato a problemi (intrinseci) enormi:

      “Force est maintenant de constater que ces gains considérables de production et de productivité ont souvent eu des effets tellement négatifs sur les ressources naturelles agricoles qu’ils compromettent leur potentiel de production. On peut citer, parmi les «externalités négatives» liées à l’intensification, la dégradation des terres, la salinisation des zones irriguées, l’extraction excessive imposée aux nappes aquifères souterraines, le renforcement des résistances des ravageurs et l’érosion de la biodiversité. L’agriculture a également causé des dégâts à l’environnement au sens élargi, comme le déboisement, les émissions de gaz à effet de serre et la pollution des masses d’eau par les nitrates10, 11. ”
      (qui (ma certo c’è anche la versione inglese): http://www.fao.org/ag/save-and-grow/fr/1/index.html)

      dal nostro punto di vista, e considerando “normali” le nostre tecniche di produzione (l’Europa è il fulcro dell’agricoltura industriale intensiva, questa lo è già molto meno negli USA e in America Latina), ci è difficile credere che quello che sfama la maggior parte degli uomini della terra sono forme di agricoltura non meccanizzata e estremamente arcaiche, ma è così;

      e con buona pace di Pascale e dei genetisti più o meno visionari (che appunto non conoscono o conoscono male l’agricoltura del mondo), l’ingegneria genetica aiuterà ben poco, purtroppo;
      l’anziano agronomo Marc Dufumier ha scritto un libro fondamentale, a questo proposito:
      Famine au Sud, Malbouffe au Nord (Édition Nil, février 2012) https://www.agriculture-environnement.fr/2012/05/24/marc-dufumier-famine-au-sud-et-malbouffe-au-nord
      e più recentemente è stato intervistato, dando luogo a un ulteriore volume: https://www.actes-sud.fr/catalogue/agriculture/lagroecologie-peut-nous-sauver

      • Caro Sartori,

        grazie della risposta onesta e dei link, sto imparando ogni giorno di più. Sono figlio di un chimico e – non ci posso far niente – amo l’industria agroalimentare. Non per provocazione snobistica, ma perché essa, non certo disinteressatamente, ha contribuito alla liberazione delle classi subalterne dalla fame e all’emancipazione della donna. Dall’altro lato sono naturalmente ecologista, perché conosco il secondo principio della termodinamica. E conosco ovviamente i danni della “massimizzazione dei profitti” e dell’agricoltura intensiva.

        Non conoscevo invece la sua recensione di ‘Pane e pace’, né il linciaggio ‘in absentia’ di Pascale nei commenti. Io trovo che quel libriccino, pur imperfetto, sia invece uno strumento molto utile. Ancora più utili per capire non tanto come la pensi davvero Pascale, ma come si dovrebbero affrontare questi argomenti che ormai sembrano guerre di religione, sono poi certe pagine del bellissimo ‘S’è fatta ora’ (2006):

        “Certe volte, alla fine di queste discussioni, mi sento un cretino con un brutto carattere e basta. Altre volte io e quelli di Greenpeace ci intendiamo, quando capiamo che siccome non siamo speciali non abbiamo per forza ragione. Perché la ragione spesso ti costringe a un’analisi profonda. La ragione scientifica ti costringe a mettere in discussione i fatti dati per certi. Un percorso a volte così pudico e doloroso che dopo è difficile sbandierare la ta ragione agli angoli delle strade. Non ne hai più voglia.
        Ci intendiamo quando ci spogliamo dalla condizione particolare: di ecologisti, di sfruttati, di demolitori della foresta amazzonica, di servi delle multinazionali, e restiamo con il nostro brutto carattere. Quello che ci fa riconoscere la dismisura, il troppo che storpia, il nostro nucleo irriducibile. Allora diventiamo egoisti, non vogliamo avere niente a che fare con il mondo. Scappiamo, molliamo, non sentiamo il bisogno di prenderci cura di nessuno. Momenti così sono rari ma sani.”

        Mi pare di capire che non sia possibile alcun libro in forma di dialogo scritto a quattro mani da lei e Pascale. Peccato.

  3. Giacomo, questa è tra le cose più belle che abbia letto di tuo pugno (battutto forte a terra)
    effeffe

  4. Alcune domande, e alcune osservazioni, Giacomo.
    Innanzitutto quello che emerge dal tuo pezzo, e che conferma quanto appare ormai evidente anche ai non specialisti, è che in Italia le questioni ambientali: 1) sono assenti dal dibattito politico e 2) da quello culturale.
    Il confronto lo si puo’ fare con le ultime elezioni europee: i verdi sono cresciuti complessivamente, conquistando nuovi seggi nel parlamento europeo, e in Germania, Francia e Regno Unito hanno conquistato percentuali importanti (dal 20% in Germania all’11% nel Regno Unito). In Italia, poco più del 2%. Tutto cio’ è tanto più assurdo se pensiamo alla retorica del Belpaese (il bel paesaggio italiano, i prodotti della buona cucina, ecc.) che da sempre costituisce un aspetto importante dell’identità nazionale. Sul piano culturale, non ho elementi chiari di confronto. Posso, pero’, dire che, in Francia, nonostante le reticenze dei governi francesi, e il potere delle lobby dell’industria agroalimentare francese, almeno sul piano culturale il tema dell’ambiente, in tutti i suoi aspetti (dal mutamento climatico alla necessità di una svolta radicale sul piano delle tecniche agricole), è esploso sui media: giornali, televisione, radio.
    Ti chiedo, tu che appunto conosci anche la situazione francese, che ne è di tutto cio’ nel dibattito e sopratutto nell’informazione in Italia?

    Infine una domanda sul concetto di “antropocene”. Non mi è chiara la critica che ne fai. Certo, è oggi un concetto alla moda, che si puo’ tirar fuori a torto e traverso, ma nel suo uso all’interno del contesto scientifico (geologico), in che modo esso puo’ farsi complice “di strategie velleitarie” e puo’ invece aiutare a occultare responsabilità?

    Infine, conosci quest’uomo? Da non esperto quale sono, mi sembra sacrosanta la sua battaglia, e forse non lontana dalle tue posizioni…
    https://grainesdemane.fr/marc-dufumier-lagroecologie/

    • non so, sono temi vastissimi, e io non sono un esperto (i miei pezzi riflettono sempre piuttoso la mia esperienza personale), ma se restiamo all’agricoltura, che secondo me è una situazione emblematica, noi abbiamo una realtà del biologico molto grande, viva, interessante, che non certo non è riflessa dai media, se non per episodi curiosi o anedottici, o per riuscite/risultati commerciali/economici, il che porta a pensare che gli italiani siano in maggior parte beceri seguaci di Salvini, il che francamente non mi sembra (per fare bologico bisogna essere intelligenti e svegli e aperti, è molto più difficile cha applicare ricettine e protocolli chimici); senza contare che non è solo una questione di visibilità, ma anche di quel di più di dibattito e di profondità, e di commistione con altre discipline e approcci, che con tutti i loro limiti i media possono apportare; e la Francia ha una situazione molto diversa, perchè ha una realtà agricola potentemente chimica/produttivistica, essendo la potenza europea del settore, e un biologico molto più fragile, ma i media ne parlano molto di più (anche se su questo tema Arte, per tante altre cose attenta, è sempre stata più che scarsa), certo anche sulla spinta delle elite biologizzate della capitale, ma non solo; con il risultato che Pascale può scrivere delle cose di una superficialità diamantina (a prescindere dalla posizione), e nessuno batte ciglio, e anzi lo si loda; come sempre in Francia c’è invece il peggio (la chimica più aggressiva, e le sue lobby), e il meglio (il bravissimo Dufumier che citi, che qui su NI tiravo già tirato in ballo qui (nei commenti): https://www.nazioneindiana.com/2012/06/21/antonio-pascale-lagricoltura-biologica-gli-ogm/); e come sempre in Italia la cultura, che non è solo narrativa e materie umanistiche, ma anche ricercatori che possono occuparsi di dati temi, collettivi di, giornalisti scientifici, esperienza di grandi personaggi che hanno le mani in pasta …, latita;

      per l’Antropocene il problema non è il concetto in sè, che è buono e utile, anche se ha poco senso geologico (altrimenti sarebbe stato adottato, mentre bisogna aspettare una svolta ben più drastica, anche se i processi sono già in atto), ma chi lo propone, che cultura ha dietro, cosa pensa, cosa propone… ; il rischio, come sempre accade in provincia, e noi lo facciamo in particolare per tutte le cose digitali, è di adottare concetti e tecnologie, senza sapere le filosofie che si sono dietro, la storia che le ha viste nascere, le direzioni verso cui vanno; e grattando dietro l’Antropocene, senza neanche grattare troppo (alcuni personaggi sono gli stessi, solo invecchiati) che ci trovi? la guerra fredda con le proposte geoingenieristiche care appunto agli antropocentristi!; con un disprezzo/rifiuto totale del lavoro degli storici, che mostrano che non è vero che l’umanità (cos’è l’umanità??) si è svegliata nel 2000 tutt0 di un colpo, ma anzi lo era bene prima, e per ogni innovazione tecnica o rivoluzione tecnologica, ci sono stati critici e profeti di quello che sarebbe successo, e “soluzioni perdenti”, e dibattiti e spesso, o meglio quasi sempre, lotte sociali, in genere cruente; per tutti questi aspetti c’è un libro bellissimo di Fressoz – Bonneuil: w.seuil.com/ouvrage/l-evenement-anthropocene-jean-baptiste-fressoz/9782021135008
      ma appunto sarebbero discorsi lunghi, e andrebbe chiesto a chi ne sa di più

  5. riprendo dalla pagina fb di Matteo Meschiari questi elementi, che possono forse interessare qualcuno:

    “Qui dove quasi un anno fa dicevo che Laura Pugno tra pochissimi altri scrittori aveva centrato alcune questioni vitali:

    https://www.alfabeta2.it/…/…/18/laura-pugno-cuore-selvatico/

    E qui dove cercavo di rimettere in assetto l’uso del termine Antropocene, che più si usa meno si affila…

    https://lagrandestinzione.wordpress.com/…/visioni-della-fi…/

    Da giugno 2019 con Antonio Vena abbiamo un blog, con testi, progetti e strumenti per riflettere. “

  6. caro Giacomo, è veramente un pezzo bellissimo il tuo.

    il pianeta sopravviverà
    la vita troverà altre forme più adatte.
    quindi il problema non si pone
    le scelte sono già state fatte.

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