PSYCHO di Gus Van Sant – Serendipità filmica
di Simone Ciaruffoli
Prefazione imperfetta
Bisognerebbe che gli industriosi della perfezione estetica facessero ammenda e la smettessero di rifilare ai film l’aggettivo “perfetto”. Ma se si pensa per esempio che la critica statunitense ha incensato Sideways di Alexander Payne ritenendolo “L’unico film perfetto dell’anno”, non sembra proprio che questa devozione alla sindrome d’onnipotenza possa svanire con facilità. Occorrerebbe affrancarsi da una certa concezione romantica dell’opera, farsi detentori di un credo e un approccio ateo all’Arte, e cercare il proprio padre-dio putativo altrove, magari nella preghiera. Il film, come tutte le pratiche artistiche, è filosoficamente imperfetto, o se si vuole, in una frase che smentisce ma suffraga allo stesso tempo questa astrazione, il film non può essere che in un modo, come è stato concepito, perfetto in tutte le sue storture, imprecisioni o compiutezze. Ogni opera è in sé perfetta e per liberarla dal costrutto ontologico e genetico in cui è imbrigliata suo malgrado, va cercato in essa il germe dell’imperfezione, l’alito di vita. Sostenere che un film è perfetto significa semplicemente dire che è quello che è, allontanandosi, con questa affermazione, da ciò che desiderava essere un giudizio di merito. Soprattutto dopo che sono passate di fronte ai nostri occhi tutte le avanguardie possibili e immaginabili, dopo che gli anni Sessanta del Cinema hanno spaccato in due tre diecimila frammenti l’utopia del rigore formale. Oggi bisognerebbe rimettere mano alla grammatica filmica, riconsiderare ancora una volta le dinamiche che fanno di una prestazione attoriale una bella prestazione attoriale (svecchiare tutti i metodi e le accademie di recitazione), ricapitolare all’eventualità che il Cinema non sia presieduto da un linguaggio comodamente individuabile e, non ultimo, farci del male chiamando in causa Straub e Huillet per ripeterci ancora che il Cinema non possiede un linguaggio, addirittura. Ciò detto, dove sta la perfezione da scovare?
L’unica perfezione, se così si può ancora definire, la si identifica nella complessità e totalità del concetto che regola un’opera. Non può dirsi più perfetto un dipinto di Picasso rispetto a qualsiasi crosta di un qualsiasi sconosciuto, la sola e spropositata differenza sta proprio nell’idea concettuale attinente a un periodo storico, sociale, alla puntualità cronologica con cui si contestualizza o, meglio, preconizza. Per questo allora era “perfetto” Kubrick, “perfetto” Bresson, “perfetto” Rossellini, e non per “il rigore geometrico” di talune inquadrature. Semmai è di ordine che si dovrebbe parlare, ma, si sa, non è nell’ordine che la perfezione si nasconde, né tanto meno non è l’ordine a decretare la bellezza di un film e la grandezza di un regista.
Uguale troppo uguale
Nell’inflessione con la quale la critica si è espressa negativamente o a favore del remake vansantiano, si è potuta rintracciare senza sforzo una costante paradossale: lo Psycho di Van Sant è la copia fedele dell’omonimo hitchcockiano. Da una parte i detrattori si chiedevano per quale motivo affaticarsi per un film-copiacarbone, dall’altra gli estimatori coglievano nella fedeltà all’originale l’ennesima scheggia di una dichiarazione intellettuale postmoderna lanciata agli estremi. Entrambe le fazioni percorrevano inconsapevoli la stessa strada, solo che gli apocalittici spingevano sul freno mentre gli integrati sull’acceleratore (è in questo attrito che si formano i ritardi di stima, le sottovalutazioni della storia critica). Da chiedersi però, era se la strada battuta è quella giusta, e se non vi fosse, parallelamente, un accenno di tracciato ulteriore da intraprendere, forse, con più difficoltà.
Si è sempre pensato che gli apocalittici (sempre nell’accezione teorizzata da Eco) fossero in possesso, per definizione, di una memoria storica, o un attaccamento alla stessa, più sviluppati. Se fosse stato così, si sarebbero ricordati che in tempi non accora sospetti un Pasolini già dichiarava l’impossibilità del cinema di copiare se stesso, una prerogativa non negata alla scrittura, ma di fatto impossibile da realizzare da parte dell’immagine. Per questo motivo, al contrario della parola scritta, non sarebbe possibile l’impresa, questa sì apocalittica, di un vocabolario delle immagini. Ogni immagine è differente da un’altra, ogni immagine, quindi, non richiama che se stessa.
Non è questione di camuffarsi da strutturalisti con la bava agli angoli della bocca, ma sostenere che il remake di cui c’interessiamo in queste pagine è una perfetta copia del suo originale, significa fare anzitutto del torto allo statuto ontologico del film, e di conseguenza allontanarci dalla reale complessità di un’operazione filmica tanto singolare quanto irripetibile. Prova ne sia che, se altri cento registi mettessero mano allo Psycho hitchcockiano con le stesse intenzioni “copiative” di Van Sant, il risultato sarebbe drammaticamente unico per cento volte diverse. E allora, per rigore argomentativo, anche in questo caso gli irriducibili della “riproduzione perfetta” dovrebbero sostenere che ogni remake è fedele all’originale, e tuttavia che ogni remake è fedele agli altri novantanove. Troveremmo qualcuno ancora pronto a appoggiare questa tesi?
Il presupposto contemporaneo del remake non dovrebbe essere: vediamo quanto si avvicina all’originale, e poi decidiamo, in base alla presunta fedeltà, se è un prodotto valido o meno; o al contrario: è troppo troppo simile, tanto da non dirci né darci niente di più del già offerto dal prototipo. Il presupposto dovrebbe vertere su altri principî estetici. Dovremmo semmai chiederci quanto il remake, devoto alla struttura filmica a cui fa riferimento, sia in grado di ri-modernizzarla in aderenza alle logiche estetiche, etiche, morali, storiche e psicologiche del nostro tessuto sociale. Indipendentemente dal grado di vicinanza narrativa del rifacimento.
Ritratto scenografico
Van Sant prende un prototipo in bianco e nero per poi colorarlo, ambientarlo ai giorni nostri, cambiarne gli attori, la sceneggiatura (per ovvi motivi aggiornata in alcune parti) e “modernizza” la regia (l’uso del digitale, le carrellate che completano i movimenti che per motivi logistici e tecnici furono inibiti al maestro inglese, ecc.). Questo significa che non fa nulla di più di ciò che farebbe qualsiasi regista alle prese con qualsiasi remake. Solo che, e qui nasce il disguido massimo, Van Sant cerca di replicare quasi maniacalmente l’architettura del profilmico. Attenzione, non copia la visione di Hitchcock (come abbiamo detto con Pasolini, non è possibile), ma ricopia l’oggetto di quella visione. Ne disegna un ritratto, regalandoci però l’equivoco psicologico che in esso sempre risiede. Sta nella scenografia (di Tom Foden) il motivo di tanta fedeltà all’originale. Non è vero dunque, come dice lo stesso Van Sant, che il suo è una copia, uguale all’originale inquadratura per inquadratura. Il suo è una copia, uguale all’originale scenografia per scenografia, solo questo, o solo questo in confronto agli altri remake.
Se la cultura critica fosse più avveduta nell’individuare la primaria essenzialità di quel recinto formale che il contenuto si ritaglia tutto intorno a sé, oggi non sussisterebbero inganni del tipo appena sopra menzionato. Non sono infatti i dialoghi che lo spettatore e il critico ricordano dell’originale hitchcockiano, e nemmeno le coordinate visive, ma il disegno scenografico, il decor, la struttura architettonica degli interni e degli esterni, le scale di casa della mamma di Norman, gli uccelli impagliati, il bagno con quelle piastrelle accecanti. Su questo gioca Van Sant, poiché se volessimo parlare di filmico, allora ci accorgeremmo bene come la scena della doccia sia completamente diversa, oppure, tanto per citare gli eventi più importanti, come anche l’incipit sia grammaticalmente qualcosa di lontano rispetto all’autentico.
Van Sant avrebbe anche potuto lasciare intatti i dialoghi originali, la stessa trama e gli stessi snodi, ma se solo si fosse permesso di cambiare scenografia, e quindi disegnato un Motel differente, la casa di Norman ancora differente, se insomma i luoghi archetipici fossero stati modificati, nessuno avrebbe parlato di inquadrature uguali all’originale. E anche se fosse stata possibile una cosa di questo tipo, allo stesso modo saremmo stati destabilizzati tanto da non riconoscervi che un puerile rifacimento, con in aggiunta il superficiale vezzo di modificarne solo le scenografie, appunto.
13 fantasmatici minuti
Se si pensa che Van Sant ha osato là dove Hitchcock non poteva (o non ne aveva intenzione), ci salta ancora in mente la debolezza di alcune dichiarazioni rilasciate proprio dall’americano: “Fare un remake senza cambiarlo. Era questo il piano. Un sacco di cose sono venute fuori, ma il guadare più in profondità i temi già creati da Hitchcock non era una di queste, davvero, perché noi volevamo solo fare una copia” (Alberto Morsiani, Gus Van Sant, pag. 102, Il Castoro cinema, 2003). Fosse stato solamente (o complicatamente) questo l’intento del remake, non ci saremmo imbattuti nel momento in cui la copia contemporanea di Norman Bates (Vince Vaughn) si masturba e raggiunge l’orgasmo di fronte alla vista “monocolare” di Marion Crane (Anne Heche). Perché se Hitchcock sottolinea più volte l’omosessualità di Norman (basti guardare come ancheggia mentre sale le scale per raggiungere la madre), Van Sant l’annulla stabilendo nella bramosia accennata del suo, di Norman, una lussuria eterosessuale (però solo in questo frangente) che davvero il maestro inglese non contemplava. Questo non è certo guardare più in profondità i temi hitchcockiani, ma spingerli verso altri versanti. Lo stesso Morsiani, nella sua analisi, sottoscrive le parole del regista americano prendendo per buono il suo desiderio di accettare l’”annientamento come artista, la cancellazione del proprio atto creatore” (Morsiani, 2003:2), poi però, il critico spende quasi tutte le pagine a disposizione per evidenziare le diversità (infinite) che intercorrono tra le due opere. Fino a quando, suo malgrado, è costretto, di fronte alla famosa scena della doccia, a ritoccare l’assunto che dichiarava la morte dell’atto creatore, per segnalare quella che chiama “la firma vansantiana per eccellenza” (l’inserto delle nuvole). Ed è emblematico il fatto che Van Sant decida di insinuare la sua marca autoriale proprio nella scena più famosa e riconoscibile di Hitchcock. Ci troviamo di fronte a uno slittamento concettuale, a un robusto atto di soggettivismo interpretativo, tutto fuorché semplice firma a suggello.
Niente di strano, assolutamente normale se solo non ci si fosse impiantati, invero stimolati dal regista stesso, nell’incavo di una valutazione giocata sull’assoluta fedeltà all’originale. Ora, quello che poteva sembrare gratuito, ossia il primo capitolo di questa analisi (Prefazione imperfetta), si riaffaccia qui acquisendo senso, per rivendicare ancora l’impossibilità estetica di una presupposta perfezione, sia essa all’interno di una generale produzione cinematografica, sia nelle più ristrette logiche di un rifacimento.
Grazie agli ideali romantici è la perfezione a interessarci sopra all’istinto e allo sfregio, sopra al difetto umano-troppo-umano, e per gli stessi ideali di un retaggio di discendenza rinascimentale, è l’originale, la chimera dell’originale a farci spasimare sopra qualsiasi copia o serializzazione. Se si riuscisse a capovolgere questo assunto, se si opponesse uno sforzo riuscendo così ad affrancarci una volta per tutte dall’ambigua pratica del paragone (anche di fronte a un remake), in modo da attuare una torsione in favore di un esame delle difformità corrispondenti a logiche concettuali, certi abbagli sarebbero presto cancellati. La cosa fondamentale di fronte allo Psycho di Van Sant non è enumerare in quanti punti si dissocia da Hitchcock, ma dove l’americano ha innalzato di suo sopra fondamenta già severamente delineate, anche e soprattutto laddove sembra rispettare il suo maestro. Sta nello iato di 13 minuti (quelli che per difetto dividono il remake dall’originale) che Van Sant costruisce il suo film. Un fantasma filmico che, come Marion Crane con i dollari, ruba ben 13 minuti al suo “principale”, raccontando però ugualmente la stessa storia. Alloggia in quella manciata di minuti il vero remake di Psycho.
Come fosse Marilyn
L’intenzione di “copiare” con rettitudine il modello di base, nasce dall’esigenza vansantiana di attingere dal suo praticantato intellettuale risalente alla gioventù. “La mia formazione artistica – dice il regista – risale agli anni Settanta, l’era delle appropriazioni, dell’arte preconfezionata, di Marcel Duchamp, di Andy Warhol. L’idea è che l’opera nuova è diversa, ma resta allo stesso tempo quella originale” (Stephen Rebello, Come Hitchcock ha realizzato Psycho, pag. 8, Editrice Il Castoro, 1999). Difatti, all’uscita del remake, in molti si sono avventati a impugnare lo spettro un poco sfibrato della pop art e di Warhol in particolare. Questa, si è detto, è arte concettuale e, nell’era della riproduzione meccanica, Van Sant si espone con coraggio a qualcosa di mai fatto prima in un film, s’impegna a portare a termine quello che Warhol faceva con le sue stampe.
Questo significa battere il capo nello spigolo delle frasi fatte, unico buon motivo per perdonare chi, vittima delle affermazioni di Van Sant, di qualche spennellata di colore di troppo sulle pareti di Psycho ’98, e di alcune inquadrature simil-serializzate, ha soffiato ancora sulla brace mai domata delle ceneri warholiane. Anzitutto, riesumare i germi della pop art oggi, significa far del torto alla ragione, per il semplice fatto che, tolte le ovvie contingenze artistiche, non è più possibile, tanto meno conveniente, contestualizzare qualcosa che ha ormai poco a che vedere con la nostra contemporaneità. La scommessa di Van Sant è persa in partenza, ma questo non inficia affatto sulla qualità del suo film, anzi, sembra quasi che lo slittamento di senso prodotto, sia comunque servito come propulsore per raggiungere la reale coscienza del risultato finale. Serendipità filmica la si potrebbe chiamare: cercare e ambire a un risultato, trovarne un altro.
Qualcuno dovrebbe chiedersi come è possibile aspirare alla “filosofia seriale” di Warhol (un po’ come la copertina del testo che avete tra le mani) cercando di imitarla con il linguaggio filmico più classico. Perché è questo quello che Van Sant ha fatto, e taluni hanno poi sostenuto. In poche parole starebbe a significare che Van Sant produce quello che Warhol sapientemente scansava. Poiché questi sapeva benissimo che, per rimanere fedele alla suo concetto artistico attraverso i film, doveva anzitutto annientare ciò a cui il linguaggio cinematografico fa affidamento, la narrazione. Mai Warhol avrebbe pensato di “fare della pop art cinematografica” semplicemente cercando di ri-copiare un film come fece con il volto di Marilyn. Concetto semplicistico questo, che prelude al grumo di cantonate ancora orbitanti intorno al fenomeno di quegli anni Sessanta.
Quelle di Warhol erano istallazioni, usava “un mezzo dinamico come quello filmico con un intento di staticità, fissità temporale, eliminando l’impianto narrativo” (Gaia Guarienti, Andy Warhol 1960-1968. La fusione delle arti, pag. 92, 1999). E ancora: “Empire, Kiss, Henry Geldzahler, Eat, Blow Job hanno la caratteristica di avere la riduzione al minimo delle funzioni rappresentative, riguardano un solo oggetto (il grattacielo), una sola azione (dormire, mangiare, fumare, baciare), un solo personaggio (Robert Indiana, Henry Geldzahler) (Gaia Guarienti, 1999:2).
Se Van Sant avesse preso la scena della doccia e l’avesse allungata allo sfinimento, se avesse
interpretato il film davvero in chiave warholiana, non saremmo qui a discuterne, nessuno si sarebbe preso la briga di produrre e distribuire un azzardo del genere. In questo caso saremmo stati disponibili a ragionare sull’essenza pop di un remake, tenendo comunque in considerazione un moderato entusiasmo. Invero sappiamo bene che la presa in esame del remake da parte di Van Sant, è stata favorita, per usare un eufemismo, dagli studios e dalla loro irrisoria disposizione a rischiare di perdere anche solo un centesimo.
Un film caldo
Per dirla con McLuhan, Psycho ’98 potrebbe definirsi un film “caldo”, nel senso che non comporta una grande partecipazione da parte del pubblico. C’è poco da completare attraverso l’emozione, la possibilità d’interazione è pressoché annullata. Il prototipo di Hitchcock è così celebre da aver saturato ogni aspettativa e sorpresa già prima di apprestarsi al suo rifacimento. Questo lo si potrebbe sostenere anche con le opere di Shakespeare, certo, ma nel Romeo e Giulietta di Buz Luhrman, pur conoscendo a memoria le tragiche traversie dei due innamorati, la messinscena si preoccupa di significare oltre la parola conosciuta, di emozionare oltre il già emozionato. Diversamente, Van Sant stacca la spina della suspance decurtando in questo modo l’elemento fondamentale che caratterizza il film di Hitchcock. Ammesso e non concesso che quella di Van Sant sia una copia fedele, e giocando su questo malinteso dal quale quasi nessuno si è sottratto, allora nulla della messinscena vansantiana ha saputo darci di più dell’originale. La “provocazione” che l’americano ci ha giocato con questo sommo fraintendimento, paga il pegno dell’irrimediabile distacco dal film, poiché prima di intravederlo, si scorge la sapiente macchinazione.
Una sapiente macchinazione che però la dice lunga sulla grandezza di questo film. Che non è, ripetiamo, uno strano oggetto non identificato, ma forse un involontario saggio, e per questo non meno importante, sull’impossibilità di duplicazione dell’immagine in movimento. Lo era già lo Psycho hitchcockiano un saggio, con la prematura morte della star protagonista, con il suo ponderoso intento di traslocare certi paletti narrativi, con la messinscena che sotto la doccia si fa a pezzi, per questo e altro ancora, quello di Van Sant diventa piuttosto il rifacimento non già di un film, ma di un’idea di cinema, di un concetto teorico.
Ecco perché non si ha mai l’impressione di assistere a un film nell’accezione normativa, di godere di un puro atto creativo, ma nemmeno duplicativo. In poche parole, si parla di una re-interpretazione cinematografica.
Il remake è già cosa passata…
(2004 – per Costa&Nolan)
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Direi che con le sue dichiarazioni di intenti, curando molto la forma e la tecnica, e mettendo qualche piccolo cambiamento rispetto all’originale, Van Sant è riuscito ad attirare l’attenzione dei critici, come testimonia quest’articolo, che peraltro mi rafforza la già presente convinzione che film insipidi e freddi (anzi “caldi”), ma formalmente curati, fanno la fortuna dei critici.
Lorenz
l’ho trovato un pò pesantuccio!
capita.
chi riesce a riassumermi tutto l’articolo?
Non ho visto nè l’originale nè la copia e leggere troppe righe su un lcd mi fa troppo male.