Oralità e scrittura in Gadda 2

(Prima parte qui)

Eros e Priapo: oltre il pamphlet

di Andrea Inglese

Nel suo saggio sul pamphlet moderno, Marc Angenot ricorda: “la forma primitiva ed elementare del pamphlet è l’invettiva ; lo spettacolo dello scandalo e dell’impostura richiede innanzitutto l’esplosione della collera, l’abreazione aggressiva, tanto più aggressiva dal momento che l’autore del pamphlet si sente invaso, minacciato e impotente”. Queste osservazioni si attagliano perfettamente alla condizione di Gadda, il cui sentimento d’impotenza ed esclusione, rispetto all’entusiasmo condiviso nei confronti del regime, è direttamente proporzionale allo sfogo verbale aggressivo presente in Eros e Priapo.

Per altro, l’idea di Angenot di un nesso fondamentale e originario tra invettiva e pamphlet, può essere ulteriormente articolata grazie ad un riferimento a Michail Bachtin. Quest’ultimo, infatti, in un’ottica che era già propria della pragmatica del linguaggio, aveva distinto le forme del discorso in generi semplici e generi complessi 1. Il rapporto, allora, tra invettiva e pamphlet può essere generalmente descritto come un rapporto da “semplice” a “complesso”. L’invettiva può costituire la cellula germinativa del discorso polemico, ma quest’ultimo, ossia il pamphlet, non si riduce ad essa. L’invettiva è un genere eminentemente orale, spesso accompagnato da una gestualità non irrilevante nella costituzione complessiva del messaggio. Essa può assumere una forma scritta, insinuandosi in generi letterari già definiti o articolando in modo almeno in parte dialettico e argomentativo la sua carica emozionale originaria. Quest’ultimo caso designa il rapporto tra invettiva e pamphlet, che non è – come si è capito – di mera amplificazione. Per questo stesso motivo, quando il libello polemico è catturato interamente nella retorica dell’ingiuria, esso subisce una forma di strozzatura delle sue potenzialità. Il combattimento di idee si riduce a linciaggio simbolico del partito avverso o del singolo nemico.

Ora, proprio questo è il meccanismo che domina la prosa di Eros e Priapo. Gli strati superiori discorsivi, a partire da quello più analitico e “freddo” del trattato, proseguendo poi per quello più persuasivo e “caldo” del pamphlet, paiono implodere, risucchiati entrambi dall’unico motore del discorso che è l’invettiva, governata dalla sua esigenza di schernire, sfigurare e ingiuriare l’avversario. Ma per il tipo di linguaggio e per la vivacità retorica che usa, Gadda trasforma quello che sarebbe un limite in un punto di forza. La duplice e incerta struttura del libello-trattato ne è scardinata dalle fondamenta, ma nella fluidità che ne deriva emergono pagine straordinarie per la veemenza con la quale tutte le risorse linguistiche e retoriche sono finalizzate alla detronizzazione e all’uccisione simbolica del tiranno Mussolini.

Abbiamo già ricordato i due procedimenti principali che stanno alla base dell’invettiva di Gadda: il ritratto caricaturale e le denominazione ingiuriosa. Per quanto riguarda il ritratto caricaturale, esso ha una tradizione antica in Italia, che risale alle forme d’invettiva politica in lingua volgare del XIV secolo. Ogni uomo di potere ha bisogno di una vasta panoplia di simboli, che legittimino la sua posizione di comando e prestigio. E, più in generale, ogni potere, sia democratico che dittatoriale, sia di partito che di nazione, ha bisogno di assumere forme visibili e riconoscibili. Da qui l’esigenza di emblemi e di posture, e di tutta quell’iconografia che costituisce la dimensione “sensibile” della sovranità immateriale. È poi noto a tutti come la propaganda mussoliniana si avvalse di un costante lavoro sull’immagine, sulla messa in scena, sull’organizzazione “teatrale” del consenso, andando a pescare ecletticamente nel patrimonio culturale italiano, dall’antichità romana al risorgimento. Ebbene, l’invettiva politica ha sempre privilegiato la dissacrazione e l’irrisione degli emblemi e dei ritratti eroici. Gadda non fa eccezione, ed aggredisce in modo ossessivo e minuzioso la parata mussoliniana, scomponendola nelle sue fasi elementari per poi riproporla in un’ottica deformante e comica.
Leggiamo:

“Di colassù di balcone i berci, i grugniti, i sussulti priapeschi, le manate in poggiolo, e ‘l farnetico e lo strabuzzar d’occhi e le levate di ceffo di una tracotanza villana (…) E al mezzo, al centro scenico del mimo, (…) atto catalitico e resolutorio in fra tutti la esibizione del dittatorio mento e de la panza in orpelli: lo sporgimento di quel suo prolassato e incinturato ventrone, il dondolamento ad avanti-indietro, da punte a tacchi, irrigiditi i ginocchi, di quel mappamondo suo goffo e inappetibile a chiunque.” (EP, 42)

Esaminiamo brevemente alcuni dei procedimenti utilizzati da Gadda. Abbiamo innanzitutto l’“abbassamento” comico e grottesco dei termini relativi all’eloquenza mussoliniana: le “declamazioni” divengono “berci” e “grugniti”, dove la variatio non è qui strumento di elegante varietà, ma di slittamento verso il basso, verso l’animalità del gesto vocale. Il toscanismo “bercio” sta infatti per parlare sguaiato e a voce alta, laddove col vocabolo “grugnito” abbandoniamo l’ambito della comunicazione umana per entrare in quello della comunicazione animale, e del maiale in particolare. Se consideriamo il chiasmo “dittatorio mento e panza in orpelli”, notiamo subito che l’associazione tra l’aggettivo raro “dittatorio” con il sostantivo “mento” toglie ogni solennità all’aggettivo. Nel secondo segmento, poi, la pancia è presentata ironicamente come un vistoso abbellimento. Ne emerge una figura umana definita da due dettagli corporei: il mento e il ventre. Il primo come ricettacolo della dignità della persona, il secondo come ornamento superfluo. La nuova variatio trasforma la comune “panza” in un “prolassato e inciturato ventrone”, adombrandone l’aspetto ormai mostruoso. Siamo infine al “mappamondo”, ossia alla sagoma fatua e ingombrante che designa ora l’intera persona, e non solo una parte di essa.

Nella prosa gaddiana, la persona del duce è così sottoposta, dal punto di vista figurativo, ad una metamorfosi continua. Egli appare di volta in volta con fattezze animali, di asino, maiale, lupo e addirittura mollusco, o con tratti mostruosi e deformi, sempre comunque gesticolando, in una sorta di moto perpetuo e vano, fittizio come quello appunto del mimo o, peggio, disfrenato come quello del pazzo. A questo punto, ci si può chiedere se l’invettiva di Gadda non colpisca, in fondo, gli aspetti più superficiali e innocui del fenomeno fascista, concentrandosi esageratamente sull’iconografia eroica di Mussolini, per smontarla e deturparla in modo sistematico. Per rispondere a questa domanda, è utile fare riferimento al dibattito storiografico recente intorno al fascismo. In uno studio importante, intitolato L’ideologia del fascismo. Miti, credenze e valori nella stabilizzazione del regime, lo storico Pier Giorgio Zunino affrontava in questa maniera il non facile problema del ruolo dell’apparenza nel rafforzamento del regime:

“Vi è ormai piena consapevolezza che nella storia collettiva, non meno che in quella individuale, si debba fare i conti con il continuo rincorrersi, accavallarsi, intrecciarsi di senso manifesto e di senso nascosto, di autentico e di in autentico, di reale e di apparente appunto. (…) In un regime di massa che, come è stato giustamente osservato, aveva il ‘culto dell’apparenza’, il gioco delle forme diviene sotto molti aspetti sostanza e materia prima della sua esperienza reale.”

Questo significa che Eros e Priapo, proprio quando si limita alla parodia del linguaggio propagandistico e irride la panoplia di emblemi del regime, sposta l’attenzione su quella costellazione di parole e di immagini vuote finché si vuole, ma capaci di radicarsi nella mentalità collettiva e ad un livello solo parzialmente consapevole. L’apparenza del fascismo, ossia i suoi slogan pomposi e suoi scenari artificiali si collocano paradossalmente ad un livello di realtà più profondo, di quanto a prima vista saremmo portati a credere. Poco essi incidono sulla dura realtà delle necessità materiali, ma finché queste ultime non si palesano in forma violenta e distruttiva, le persone sono disposte a lasciarsi abbagliare dalla vuota eloquenza e dalle variopinte parate. L’operazione di Gadda è dunque duplice: essa evoca, da un lato, i fantasmi della pompa fascista, la sua attraente veste di miti disparati e cuciti assieme; dall’altro, però, fa scempio di essi, sottoponendoli alla più violenta derisione. Inoltre, coerentemente stavolta con le premesse teoriche del libro, “il senso nascosto” della storia, di cui parla Zunino, è di continuo portato alla luce: si tratta di quell’eros, appunto, o di quella “lubido” che ha caratterizzato il rapporto tra duce e masse, ben più che un razionale calcolo degli interessi, di classe o individuale.

Se consideriamo ora la denominazione ingiuriosa a cui è sottoposta incessantemente la persona del duce, risulta evidente che essa costituisce in qualche modo la matrice dell’invettiva gaddiana, e quindi il motore principale di tutto il testo. Anche in questo caso, è evidente il rinvio alla tradizione medioevale dell’invettiva ad hominem, del vituperium. Come in ogni testo di questo tipo, l’elemento dialogico è evidente, sia nella forma di un’apostrofe diretta al nemico, sia in quella di un’apostrofe indiretta, dove l’autore si rivolge ad un testimone terzo. Quest’ultimo è il caso di Gadda, che enfatizza il carattere orale del suo discorso, e la conseguente funzione “conativa”: “Non già dichiararvi per punti icché intendete bene da voi”, “Talché amici, o forse inimici”, “Ma, obietterete”, “Cheggiamo licenza a dimolte”, ecc. Sennonché dalla seconda persona plurale, a volte, si passa bruscamente alla seconda singolare allo scopo di rafforzare la dimensione pragmatica dell’enunciato e la partecipazione emotiva del lettore: “Te dirai, ma te tu ne buschi!, va’!”, “Qui ti dico e ti ridico”, “Te t’hai a condurre (…), se credi, e se proprio ti bisogna”.

Il lettore-destinatario è dunque inserito nel testo in modo manifesto, e costituisce il testimone e complice dell’invettiva contro il tiranno, a cui l’autore si dedica con trasporto, ponendosi egli stesso in evidenza. Gadda crea un vero e proprio alter-ego, Alì Oco de Madrigal, in funzione di soggetto d’enunciazione dell’invettiva, e gli fornisce un certo spessore biografico. Il risultato è quello, allora, di uno scontro di personalità dalle caratteristiche opposte: il ponderato, saturnino, meditativo de Madrigal di contro al duce, dissennato, esibizionista e cialtrone. Come nota la critica Alba Andreini: “A fronteggiare la ‘persona scenica’ di Mussolini si erge, con il suo giudizio, la ‘persona agnostica ed etica’ dell’autore” .

Avendo esaminato la dimensione pragmatica dell’invettiva, passiamo ora a interrogarci sulla sua struttura discorsiva, in particolar modo sul procedimento della denominazione ingiuriosa. Quest’ultima si organizza intorno alla figura retorica dell’antonomasia (o pronominatio). Siamo nell’ambito della sostituzione di un nome ad un altro: al posto di un nome proprio si usa un epiteto. Al nemico, Benito Mussolini, l’autore rifiuta il “riconoscimento” in quanto persona, individuo determinato: il nome proprio è definitivamente cancellato, e ad esso si sostituiscono, in un crescendo parossistico, epiteti sempre più ironici ed assurdi . L’ingiuria nella forma dell’antonomasia costituisce anche una sorta di punizione per contrappasso: tanto è stato il privato individuo Mussolini indegno e illegittimo portatore di titoli e cariche “pubbliche”, così è costretto, come bersaglio d’ingiurie, a perdere per sempre ogni traccia d’individualità, divenendo pura maschera del tiranno, volto amorfo ed impersonale, sul quale è possibile proiettare ogni sorta d’espressione oscena e ripugnante.

All’antonomasia si combinano altre figure retoriche, quali la variatio e la paronomasia, o la creazione di neologismi e mot-valise, in un vero proprio furore lessicale di stampo macaronico. Sarà sufficiente una ridotta campionatura, per esemplificare i procedimenti gaddiani dell’invettiva: Mussolini è: “il bombetta”, “capocamorra”, “Scipione Affricano del due di picche”, “Marco Aurelio ipocalcico con le gambe a ìcchese”, “Caino”, “Gran Pernacchia”, “l’ex agitatore ed agitato-sempiterno”, “Napoleone fesso e tuttoculo”, “Mastro Pungolo”, “Mascellone”, “il papà Fezorbace”, “Matrace”, “Ciuco Maramaldo”, “grandissimo Somiero”, “Modellone Torsolone”, “Nullapensante”, “mentecatto principe”, “Gran Tamburone del Nulla”, “il Fava”, e così via. Si noti come Gadda prediliga trattare gli epiteti sostitutivi dell’antonomasia come altrettanti nomi propri, utilizzando la maiuscola. Inoltre, il semplice epiteto sostitutivo si accompagna spesso a più o meno ampie perifrasi. In tal modo, l’autore arriva a condensare i due procedimenti costitutivi dell’invettiva: il ritratto caricaturale e le denominazione ingiuriosa. Forniamo un esempio concreto: “lo Stivaluto nelle sue corse mattutino-energetico-sculettanti-naticanti verso il < > da inaugurare” (EP, 121). L’intera frase funge qui da appellativo, con il mot-valise che ne è parte integrante, e nel contempo funge da sviluppo figurativo del nome (“Stivaluto”).

Un caso, invece, dove risulta particolarmente chiara la dimensione macaronica dell’ingiuria, è il seguente: “favente Genio e favante Tutore della Italia e Condottiero d’Italia in Guerra Lampo e Tempista politico (e Gran Somaro Nocchiero)” (EP, 94). Lo stridere del codice alto e di quello basso, nella paronomasia che riguarda i due aggettivi “favente” e “favante” si ripete nell’ultimo appellativo, dove il termine letterario “nocchiero” segue, come suo naturale complemento, il termine “somaro”. L’interferenza è ovviamente semantica e lessicale. Ed è ancora più inattesa e sorprendete nel caso dei due aggettivi, che si richiamano fonicamente, ma che appartengono a registri linguistici remotissimi. “Favente” è un altro termine letterario, calco lessicale del latino, laddove “favante” è un immaginario participio presente dell’altrettanto immaginario verbo “favare”, che è però imparentato con un termine d’uso, la “fava” appunto, che sta volgarmente per il fallo.

In conclusione, Mussolini diventa l’oggetto esecrabile e inesauribile per eccellenza, raccoglitore di tutti gli epiteti ingiuriosi e ridicoli, ma anche di tutti i delitti che la storia umana ricordi, e di tutti i profili dei più funesti millantatori di popoli e folle. È intorno a questa sostituzione e variazione nominativa costante che si organizza l’invettiva, vero baricentro di Eros e Priapo, matrice del discorso globale del libro, nucleo incandescente a partire dal quale, per cerchi più ampi, si arriva ad un più raffrenato argomentare polemico e, più oltre, ad un’analisi quasi spassionata. In effetti, siamo ora costretti a rovesciare il punto di vista che abbiamo adottato inizialmente nei confronti dell’opera: non si tratta di concepire l’invettiva come quella forma elementare di discorso che interferisce con l’organizzazione del pamphlet o del trattato, bensì di vedere come questi due generi sono entrambi delle opzioni possibili, che seguono il momento culminante dell’atto ingiurioso, e lo potrebbero sviluppare in una direzione o nell’altra. Il trattato promesso all’inizio del libro è travolto, fino al sesto capitolo, dall’urgenza di un’invettiva feroce che ruota ossessivamente intorno alla figura del duce. Questa centralità della persona di Mussolini, che è perfettamente coerente con l’invettiva ad hominem, è anche ciò che limita lo svilupparsi del pamphlet, inteso come discorso polemico che si muove principalmente nel campo delle idee piuttosto che in quello più angusto degli individui. Ma poiché, in ogni caso, il bersaglio dell’ingiuria e della derisione assume tratti iperbolici, dietro la sagoma amorfa di Mussolini emerge il profilo paradigmatico del tiranno di ogni tempo. I limiti dell’aggressione personale sono così scongiurati: l’invettiva evolve gradualmente in satira di tutti i poteri dittatoriali.

Con il capitolo sesto sembra raffreddarsi l’impeto caricaturale, per lasciar spazio ad un vero e proprio argomentare, ad una teorica del narcisismo applicata all’universo sociale. Dal settimo capitolo in poi, si riducono i riferimenti al periodo fascista, per sparire quasi del tutto nei cinque capitoli conclusivi. Il trattato psico-antropologico ha finalmente preso il sopravvento, ma esso non è in fondo che l’appendice raffreddata, la propaggine riflessiva della precedente esplosione di rabbia, quella che ha caratterizzato i primi e probabilmente più riusciti capitoli del libro. E la scatenata, oscena, comica invenzione linguistica che domina la prima parte, si fa invece più appesantita e impacciata nella seconda parte, dove in compenso aumenta il grado di analisi e di concettualizzazione della prosa.

Note
1) Marc Angenot, La parole pamphlétaire. Contribution à la typologie des discours modernes, Paris, Payot, 1982, p. 249.
2) “Di particolare importanza è qui rilevare la differenza essenziale tra i generi del discorso primari (semplici) o secondari (complessi). (…) I generi del discorso secondari (complessi) – romanzi, drammi, lavori scientifici di ogni tipo, generi pubblicistici di ampie dimensioni, ecc., – sorgono all’interno di una più complessa e relativamente sviluppata comunicazione culturale (soprattutto scritta): letteraria, scientifica, socio-politica, ecc. Nel corso della loro formazione essi assorbono e rielaborano vari generi primari (semplici), formatisi all’interno della comunicazione verbale immediata.” Michail Bachtin, “Il problema dei generi del discorso” [1952-53], in L’autore e l’eroe. Teoria letteraria e scienze umane, a cura di C. S. Janovič, Torino, Einaudi, 1988, p. 247.
3) Pier Giorgio Zunino, L’ideologia del fascismo. Miti, credenze e valori nella stabilizzazione del regime, Bologna, il Mulino, 1985, p. 37.
4) Alba Andreini, “Gadda e il suo tempo: i furori di un testimone” in In La coscienza infelice. Carlo Emilio Gadda, a cura di A. Andreini e M. Guglielminetti, Milano, Guerini, 1996, p. 149.
5)“Injurier, c’est d’abord refuser à celui qu’on attaque son nom « propre », refuser de l’identifier” in Marc Angenot, La parole pamphlétaire. Contribution à la typologie des discours modernes, cit., p. 266.

5 COMMENTS

  1. Caro Andrea, bellissima analisi di un personaggio quale Gadda mai forse abbastanza apprezzato nella nostra letteratura novecentesca e soprattutto non abbastanza fatto conoscere nelle nostre scuole. Vorrei solo aggiungere alla tua considerazio0ne di come Gadda ricorra a descrizioni ‘esterne’ per suggerire aspetti ‘interni’ della persona, che ciò avviene assai sovente nei suoi scritti, a cominciare da quella meraviglia che è l’Adalgisa, nella quale le descrizioni, nel suo linguaggio inimitabile, di infiniti dettagli esterni danno un’idea così precisa del milanese mondo.
    Sugli epiteti utilizzati per B.M. si potrebbe probabilmente fare un elenco assai lungo (mi sembra anzi che qualcuno l’abbia puntigliosamente compilato). Mi limito a ricordare, da Il primo libro delle favole il delizioso “Minchiolini ha sempre ragione”, motto della contessa Nasanda degli Strozzi, alla “scienza demografica del Merda” e infine, saltandone numerosi altri, a quel “Mascella d’asino Maltone conducendo Megera ad arligiana, e tuttavia bramando a perigordino rivolgerla…” Se non ricordo male Maltone era uguale o simile al cognome della Rachele. Ciao. A.

  2. Caro Antonello, in effetti, “Minchiolini ha sempre ragione” e il “Merda” sono epiteti di tutto rispetto, in una lista delle ingiurie gaddiane e non a Mussolini; tra i miei preferiti comunque “Gran Tamburone del Nulla”; epiteto che oggi sarebbe di larga attribuzione, per altro.

  3. A suo tempo (1967) quella lettura mi risultava ardua, ma con sprazzi meravigliosi di invenzione e comicità. Restai colpito dall’interpretazione priapesca e dalla misoginia eclatante del testo. Mi colpivano inoltre quelle tessiture mirabili di insulti. In tempi, come quelli, di fanfare anti-fasciste e resistenziali, di sottili argomentazioni marxiste sui meccanismi dell’avvento del Regime, le sequenze di insulti impolitici di Gadda erano libertà.

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.