Usus scribendi – La Sete e il Viaggio
[In un carteggio privato Luca Ricci mi ha fatto una proposta che m’è piaciuta subito: “Quattro nuovi autori che ci spiegano dal di dentro cosa stanno facendo, quale letteratura tentano di produrre. Un pezzo ciascuno. Niente domande, niente sollecitazioni esterne”. Anche solo non aver parlato di “giovani scrittori” (cosa che in effetti sono) ma di “nuovi autori” m’è sembrata la giusta premessa metodologica. Ho chiesto a Luca di darsi da fare. Oggi pubblico il primo dei quattro contributi. G.B.]
di Marco Missiroli
Una fontana, nel caldo impietoso di luglio, credo abbia spiegato quel che faccio scrivendo. Non è facile spiegar lo scrivere, ecco perché questa fontana mi darà una mano abbastanza seria. Probabilmente se non ci fosse stata avrei detto che la mia narrativa è prima di tutto raccontastorie e che nelle mie storie c’è qualcosa sotto, che pulsa (spero) e che deve far pensare. Altrimenti la storia è storia e basta, non fa male e non scrosta anche se scritta bene. Poi avrei detto che quello che scrivo vuol provare ad essere universale e rapportabile all’immaginazione di tutti, ecco perché spesso nei miei romanzi non do luoghi o date precise.
La ricerca del non luogo è, in verità, la possibilità del luogo per chi legge. Una storia, che diventa la tua storia e va ad aprire porte socchiuse, da qualche parte lì intorno. Non c’e intellettualismo e ricerca diretta del sociale, ma un lavoro intellettuale per creare reazioni: e questo non va a toccare nessuna categorizzazione letteraria. Non scrivo gialli, non scrivo noir o polizieschi, non scrivo fantascienza o letteratura giovanilistica, non scrivo romanzi d’amore o storici. Il mio non genere forse è un genere, quello del “chissà cosa ci aspetta”. O forse semplicemente quello del patire, ovvero l’economia dei sentimenti.
Questo è che quel che mi sarebbe venuto da dire prima della fontana. Invece nella piazza della mia città, un giorno di Luglio ho visto queste tre persone. Ero in un tavolino a bermi un caffè d’orzo in tazza grande e guardavo la fontana lacrimare acqua. È una fontana tonda con dodici rubinetti intorno e da ognuno ci puoi bere. Guardavo un rubinetto in particolare, quando due donne si avvicinano con la bicicletta: una dice all’altra: “Che sete che ho!” e poi comincia a bere con avidità, finisce e si pulisce con una mano la bocca gocciolante. Se ne va soddisfatta, l’amica che ride per quella bevuta infantile.
Dopo un po’ arrivano tre ragazzini, uno scapigliato e sudato lascia a terra la bicicletta e senza dir niente si precipita al rubinetto, ci si aggrappa e rimane lì attaccato per un minuto. Alla fine dice “ahhh”, nient’altro, e indica agli altri di muoversi che sennò a casa ci arrivano al tramonto. Così se ne vanno, la pedalata veloce e una palla consumata nel portapacchi dietro la sella.
Il terzo incontro è un uomo che fa cenno a una donna e ad un bambino di aspettarli, poi si avvicina al rubinetto, si guarda intorno e la sua bevuta è così corta che deve ritornare altre due volte al getto d’acqua. Quando finisce tira fuori un fazzoletto e si tampona la bocca, gli occhi veloci a guardare chi forse l’ha visto in quel gesto furtivo.
Credo che la mia letteratura stia tra la sete del ragazzino e quella dell’uomo: non il gesto annunciato della donna (Che sete che ho), non un descrivere le intenzioni del gesto prima di fare il gesto stesso, ma direttamente il gesto. Il bambino beve e basta, la reazione è fisica (Ahhhh, per il fresco dell’acqua), non di testa (che sete che ho non lo dice): ha nelle gambe la felicità per aver corso e giocato al pallone, nella fretta di bere l’avidità dell’atto, nella spontaneità la condivisione con gli amici. Questa è parte di ciò che scrivo: i gesti e non la testa, la ricerca dell’autenticità e dell’onestà del succedere. Nell’uomo che beve in imbarazzo, cerco invece quell’azzardo per le piccole cose, quello sguardo spontaneo che smaschera la facciata apparente: l’adulto diventa bambino nel bere alla fontana, lascia da parte il ruolo di padre e marito (la donna e il bambino lo aspettano e stanno fuori) e fa quello che sente, quello che vuole anche se ha timore per la sua sfrontatezza. Con gli occhi alla fine vuol vedere chi l’ha visto, non trova nessuno anche se qualcuno c’è.
Così vorrei che fossero i miei libri: diretti, puramente narrativi, autentici. Il vero dietro un vero raccontato, che fa pensare, e asciugarsi la bocca non più assetata.
Ma so anche come vorrei che non fossero. La spontaneità di una fontana è l’immediato, così come il bere, la sete, il gesto istintivo del fare. Non voglio che le mie storie siano finte, artificiali e marchiabili. Purtroppo o per fortuna vivono su strutture narrative abbastanza complesse, e lì il confine tra artefatto e naturale è molto labile: provo sempre a non far niente di finto, ma non è detto che ci riesca. Lo sforzo della non-finzione sta nella nascita del romanzo nella mente di chi lo scriverà, proprio nel momento esatto: così una volta che compaiono le dinamiche e cosa vuole dire il romanzo (a me e a chi legge), mi lascio guidare dal plot tenendo sempre bene a mente dove voglio arrivare. E’ come partire per un viaggio in treno: so la stazione di partenza, l’orario, e quella di arrivo. Conosco la stazione di fermata intermedia ma ignoro quali altre fermate farà il mio treno. Qualcuno dice che un buon scrittore fa scendere il proprio lettore ad una fermata intermedia, perché lo fa innamorare a tal punto dì ciò che vede all’improvviso dal finestrino che si dimentica totalmente la meta finale. A me piacerebbe che il mio lettore avesse la frenesia di arrivare, seppur gustandosi il viaggio, vorrei che guardasse fuori dal vetro ma avesse sempre dentro quella forza attrattiva verso la stazione finale. Come sarà il capolinea? Cosa vedrò/proverò? Incontrerò chi? Vivrò cosa? Ecco cosa non voglio: la noia. Se chi legge si annoia durante il viaggio, allora ho in parte fallito. Grande letteratura è spesso difficoltà di lettura, un pizzico di noia e di sudore. Ma quando un grande romanzo si fonde con un “non riesco a staccarmi” allora sì, che il piatto è servito con gusto e con gusto è mangiato. E lo è ancor di più se il grande romanzo non è la diretta proiezione dell’esperienza dello scrittore (a parte qualcuno che fa della propria vita un romanzo e allora, chapeau). Per questo il punto saldo dei miei libri è l’antiombelicalismo: non voglio che le storie siano il riflesso di quel che accade direttamente nel mio ombelico. Saranno l’acqua bevuta dagli altri assieme a me, non solo la mia: io sarò solo lì, a guardarli bere con la voracità che si aggrappa al petto e la fatica di chi sta provando gli stessi istinti. Per questo quel che racconto è filtrato dai miei protagonisti: come il bambino di Senza coda, o la zoppa de Il buio addosso. Sono loro a esistere, loro a raccontarle anche se narrate in terza persona: così sarò bambino e zoppa e uomo e donna e chiunque verrà. La narrativa di Missiroli è il non-Missiroli: nella negazione dell’io-scrittore c’è il vero scrittore. Poi bisogna vedere se lo scrittore è vero sul serio. E questa è un’altra storia.
(Al di là del problema della “noia del lettore” che è un “non problema”, nel senso che spesso ciò che è orribilmente noioso per alcuni è molto interessante e stimolante a appassionante per altri: del mio libro di racconti qualcuno mi ha detto che il suo preferito coincideva con quello che un altro/a lettore/trice non era nemmeno riuscito/a a finire per eccesso di pallosità.)
In particolare mi interessa questo passaggio:
“…lì il confine tra artefatto e naturale è molto labile: provo sempre a non far niente di finto, ma non è detto che ci riesca.”
Artefatto. Naturale. Finto.
Tre aggettivi senza ulteriore specificazione che ne avrebbero invece bisogno.
Perché anche autenticità e vero-somiglianza sono concetti vaghi, che però si collocano quasi naturalmente nella scala dei valori positivi della scrittura, anche se a ben vedere non ne avrebbero nessun titolo a priori.
Dunque cos’è artefatto?
Cosa naturale?
Quand’è che si produce il finto?
Se non scrivi una cosa finta, allora vuol dire che ne scrivi una “vera”?
Mi pongo queste domande proprio in relazione ad alcuni fondamenti del, diciamo così, mestiere di scrivere.
Il primo fondamento, che condivido con te è “cancellarsi”: ma è più un’intenzione che una reale possibilità: l’ego è lì, gonfio di gas egotico, difficile nasconderlo, farlo veramente affondare.
E poi, qualora ci si riuscisse, il libro chi lo scrive?
Il non-ego?
E cos’è?
Forse è quella porzione del sé che riesce a dimenticarsi?
Una sorta di emittente neutrale?
Il secondo fondamento, che deriva da questo, potrebbe essere: non usare la scrittura per un mezzo diverso da quello suo proprio, come per esempio mettersi in buona luce, esibirsi & pavoneggiarsi tra le righe, sopra le righe, sotto le righe: molti lo fanno e con diversi mezzi.
Il terzo fondamento direi che è questo: fa che la tua scrittura non giudichi ciò che sta narrando, lascia che il giudizio, qualora sia importante emetterne uno, sia competenza di chi legge e non tua.
Quarto fondamento (ma qui si va sulle scelte personali): fai in modo che il tuo sguardo narrante si ponga alla stessa altezza delle figure narrate, cioè né sopra, né sotto (se non quando è proprio necessario), fai in modo di non sapere niente di più di quanto sanno loro, impasta il tutto in modo che narrazione “esterna, pensiero e percezione e parole dette restituiscano il caos dell’esperienza, il non-sense del vivere, la mancanza di trama delle nostre esistenze…
Il quinto fondamento riguarda il rifiuto di ogni adesione, freddezza di sguardo, visione del mondo umano come di una catena di dominanze e sopraffazioni non dissimili da quelle del mondo così detto naturale.
E poi ricordare che la “coscienza” di ciascuno di noi deriva dal nostro essere sociale, cioè da un sostrato di interessi e dunque, in quanto “coscienza”, è sostanzialmente falsa.
Chiedo scusa per il tono oracolare: deriva dalla necessità di sintesi.
Stoppe.
Bel ragazzo il Missiroli!
e poi non scherza!
mica facile staccarsi dall’io (scrittore o non)…
interessante lettura, ciao Gianni!
:-)
Marco Missiroli dice: Non è facile spiegar lo scrivere
Non ci devi spiegare lo scrivere, a’Ma’. Devi scrivere. Ci devi intrattenere.
Voi moderni. La dovete smettere di ragionare sugli strumenti. Usateli, ‘sti cazzo di strumenti.
…poi dicono che questa è una gioventù alla deriva, guardalo lì il bravo marco quanto li smentisce.
maestro tash, la leggo sempre molto volentieri e il tono oracolare le sta molto bene.
baci
la funambola
Autoreferentiality is the curse of the thinking class
http://consc.net/misc/moser.html
Una volta mi sono immaginato qualcosa di diverso per segnalare nuovi autori. Siccome di esordienti italiani sono piene le librerie perché commercialmente vanno benino, non sarei per presentarli senza filtri, un po’ come vogliono loro, ma per torchiarli. Immergerli in acido critico, farli irritare il più possibile per togliere la patina di galateo che indossano in foto. Un metaforico corpo a corpo insomma.
Questa cosa va di pari passo con un pezzo degli Scrittori inutili in cui Cavazzoni racconta come nasce uno scrittore, appunto dall’estrema irritazione. Un bipede irriducibile che cerca armi per disturbare l’universo.
Dopo aver detto questa cosa terribile, aggiungo che la fontana che descrive Missiroli è quella di Piazza Cavour a Rimini, sormontata da una pigna rubata in non so quale razzia, e io vicino a quella fontana sono stato sentimentalmente molto felice.
non ci si siede in un tavolino.
semmai al.
Bill, ma vai a cagare, vai
infatti. ho il ventre pieno.
di te.
non conosco Dubbio (anche nel senso che sono molto sicuro di me) e non conosco bill.
Pero, per qualche subliminale motivo, mi sento di parteggiare per Dubbio.
Quindi mi associo. bill, vai a cagare.
non capisco il perchè di tanto astio.
fatto solo un appunto grammaticale.
per il resto che dire?
bravo missiroli, se volete.
anche se io-scrittore non-missiroli antiombelicalismo
visioni punti di vista nulla di reale.
lo scritto sulla pagina.
ricordato dopo secoli.
il resto menate.
scusate ancora.
vado a cagare.
in silenzio.
grazie.
“nella negazione dell’io-scrittore c’è il vero scrittore.”
questo è il punto. io ho sempre pensato che scrivere debba essere innanzitutto un atto di umiltà e generosità insieme. occorre nascondersi, ferirsi, allontanarsi da ogni narcisismo. è la storia ad essere importante, non chi la narra. questo non che il contenuto è tutto e la forma nulla: al contrario. la seconda dev’essere serva del primo e viceversa: ma in entrambi i casi l’ego di chi scrive deve essere tenuto in catene. anche nell’autobiografismo più spinto, anche nella trascrizione più fedele di una propria esperienza.
e questo significa: smettere di scrivere per sè (egoismo) e iniziare a farlo, davvero, per gli altri (generosità).
nei libri di marco questo si sente all’ennesima potenza.
giorgio
[…] produrre. Un pezzo ciascuno. Niente domande, niente sollecitazioni esterne. Il primo contributo è qui. […]