Ulisse tecnologico #1

di Giuseppe Martella

  1. Marchingegni

Ulisse, ingegnoso e mendace, è uno dei più noti eroi culturali di ogni tempo. Le sue astuzie proverbiali rimangono impresse nei nostri ricordi e tra esse spicca quella da lui messa in atto nella grotta di Polifemo, dove secondo alcuni si svolge “lo scontro tra chi si muove e chi sta fermo: l’opposizione originaria, il cui esito, favorevole alla mobilità, ha fatto di quest’ultima la condizione fondamentale per tutto quello che chiamiamo cultura.” (Farinelli 2003: 94) Ulisse è certo un soggetto nomade, sia in senso letterale che figurato. Egli è l’eroe viaggiatore ma anche la mente saggia e inquieta, attenta e curiosa che lo accompagna e guida, talora prendendo le sembianze della dea Atena, protettrice della più illustre capitale culturale d’Occidente e quant’essa attrezzata sin dalla nascita alle lotte per la vita.

Per alcuni (Ferrucci 1991: 54) è il più moderno tra gli eroi omerici e per altri (Horkheimer e Adorno 1980: 51) addirittura il prototipo del soggetto borghese-illuminista, ma Ulisse è soprattutto un eroe della tecnica: il che viene spesso dimenticato. L’epiteto di polytropos è stato per lo più assimilato a quello di polymetis e così tradotto come “uomo dal multiforme ingegno”.  Ma tropé in greco significa anzitutto “svolta, curvatura, trasposizione”. Ulisse possiede infatti una mente tortuosa pari a quella del suo antenato Crono, incarnazione del tempo, principio generativo del racconto. Le molte circonvoluzioni di questa mente, le sfaccettature del suo carattere, le risorse e le astuzie, le maschere e le menzogne, i trucchi e gli stratagemmi che adotta, spesso si concretizzano con l’uso di amuleti o strumenti: nello spazio incerto tra magia e tecnica.  Ed è proprio il passaggio dalla concezione mitico-magica più arcaica a quella tecno-logica più recente, al pari di quello dal rito sacro allo spettacolo profano (gare e canti alla reggia dei Feaci, carneficina teatrale a quella di Itaca), vale a dire l’intera operazione del disincanto del mondo, quella che si compie nell’epos omerico come elaborazione del mito (Blumenberg 1991) e si concretizza nei tratti del carattere dell’eroe e nelle sue astuzie, a partire da quella del cavallo di legno che sblocca la situazione di stallo nell’assedio di Troia e ci conduce dal mondo più arcaico dell’Iliade a quello più moderno dell’Odissea, producendo anche la transizione dal primo al secondo grande modello della narrativa occidentale: dall’assedio al ritorno (Ferrucci 1991). Il fulcro di questo secondo modello è poi un altro stratagemma, che riguarda stavolta direttamente l’ordine del discorso: l’adozione del personaggio-narratore, Odisseo, che sottende il sorgere di un intero nuovo tipo di memoria e di identità culturale. Ulisse, non appena può, sempre anela infatti a rinarrare le proprie gesta per poter così nutrire il ricordo della patria e il desiderio di ritornarvi, evitando di farsi sviare da lusinghe occasionali o sommergere da forze naturali avverse. Mantenendo insomma, nel corso dei cambiamenti, un nucleo intatto di identità, una costanza iconica riposta nel più profondo inconscio psichico e culturale. La sua narrazione costituisce dunque nel contempo il centro di trasmissione, l’orizzonte d’ascolto e la mappa della cultura mediterranea del tempo. Per questo, le astute svolte del suo pensiero, le figure e gli accorgimenti del suo discorso, gli itinerari intrecciati del suo viaggio, fanno tutt’uno col termine polytropos e si risolvono in esso: Odisseo-Nessuno (Odeis) è il funtivo, il soggetto mobile, di tutti questi raggiri, svolte e capovolgimenti che si caratterizzano tutti come esperimenti tecno-logici atti a mettere progressivamente a distanza l’orizzonte magico già all’interno di quello mitico e poi di quello epico. Non per nulla Ulisse è il prediletto della più razionale tra le dee, Atena, e tutte le teofanie dell’Odissea si collocano comunque tra l’inganno del cavallo e la prova dell’arco: controlli severi ed esperimenti cruciali condotti sulla tenuta del sapere-potere della civiltà greca arcaica.

Se Prometeo ha donato le tecniche e il linguaggio agli uomini, Ulisse è colui che poi li ha messi a frutto. Entrambi pagano un prezzo salato per il disincantamento del mondo e il dominio sulle potenze primordiali della natura. Fra i Titani infatti Prometeo è il tipo più moderno (così come lo è Ulisse tra gli eroi omerici) e conosce perfino il segreto della caduta di Zeus, (Eschilo 1988) quanto a dire della fine della religione Olimpica e della nascita della filosofia naturale presocratica. Ma Prometeo è tragicamente legato a quell’unico inaudito gesto del furto del fuoco agli dei e deve indefinitamente espiare: egli è soggetto al pathos della tecnica in quanto destino dell’uomo. Mentre Ulisse è uomo di azione, che usa la tecnica all’occasione e l’ha introiettata come principio di variazione delle sue scelte pratiche e di costituzione di un ethos attraverso una serie di nessi mnemonico-narrativi (proairesis). Prometeo è l’eroe della tecnica quale appare in sé, ossia per noi, Ulisse è invece l’eroe della tecnica quale appare per se stessa, nella sua messa in opera. L’Odissea rappresenta infatti la dialettica tra la prepotenza della natura e il rimedio-veleno (pharmakon) della tecnica, quanto a dire che predelinea l’arco di sviluppo della “ragione strumentale” che ha retto la civiltà occidentale-planetaria nel suo complesso e fino ad oggi. Una civiltà la cui base materiale è di ordine tecnologico prima che economico-politico, poiché l’economia e la politica, così come l’arte e il linguaggio, sono comunque delle tecniche, sicché le forme di riproduzione, scambio, associazione e rappresentazione, dipendono dagli strumenti tecnologici disponibili in una data epoca. Siano essi di ordine fisico o concettuale: la clava o il martello, lo stilo o il coltello, il seme o la lenza, l’aratro o la vela; la parola, la scrittura, i numeri: siano cioè essi di ordine materiale o simbolico.

Sicché l’Odissea, ancor prima di testimoniare nel suo complesso la “dialettica dell’Illuminismo”, cioè le complicazioni di natura e pensiero, riguarda quelle di natura e tecnica che segnano l’evoluzione culturale. O meglio, l’evoluzione della tecno-logia, in quanto dominante culturale: a partire dalla tecnica della scrittura che ha segnato il passaggio dal mito all’epos, e poi (attraverso la tragedia attica) al logos. Quella di Omero è infatti anzitutto odissea della parola nel nuovo medium della scrittura: Ulisse ne è l’eroe. Si può ben convenire allora, ma solo in questo senso, che l’Odissea “è già una stilizzazione nostalgica di ciò che non si può più cantare” (Horckheimer e Adorno 1980: 51) o declamare formularmente ma solo scrivere. Perché, prima che borghese-illuministico, Ulisse è eroe tecnologico-letterario. Eroe del passaggio dalla civiltà della parola detta a quella della parola scritta, dal mito alla tradizione letteraria.

In questa prospettiva tecnologica, dunque, si può anche asserire che l’Odissea “forma l’intreccio di storia e preistoria”, (ibid.: 54) ma solo in quanto segna la sintesi di oralità e scrittura. Poiché “l’unità imposta alle leggende diffuse” che si attua nei poemi omerici è anzitutto dell’ordine della trascrizione. E se le avventure di Ulisse rappresentano certo un processo di individuazione culturale, la produzione di un’identità psico-sociale sempre minacciata di regresso e dissoluzione sia ad opera della prepotenza naturale che per l’eterna lotta tra servo e signore, e se l’intreccio dell’Odissea è ancora debole e non unitario (sia rispetto a quello della tragedia attica antica che a quello del romanzo borghese moderno), come molti hanno sostenuto, ciò accade proprio perché esso scaturisce da una costellazione di varianti orali. Tale episodicità di questo intreccio dipende dunque proprio dal passaggio tra due media diversi e può ben cogliersi nelle s-cuciture che sono altrettante cifre di una transizione epocale e che si traducono poi tematicamente nel taglia e cuci della tela di Penelope, che corrisponde sul polo della ricezione alle peripezie cantate da Demodoco e riprese da Ulisse alla reggia dei Feaci: luogo simbolico della transizione fra canto e scrittura nel poema. Esso avrà a distanza di secoli un esatto equivalente nell’episodio dell’Ormond Bar (o delle Sirene) dell’Ulisse di Joyce, dove alla performance dei cantastorie dublinesi farà riscontro la stesura della lettera di Ulisse-Bloom alla sua corrispondente sentimentale, la dattilografa Marta Clifford. Al di là di ogni minuta allusione, Joyce intende infatti ricreare qui quella tensione fra musica, parola e scrittura che reggeva l’impianto dell’Odissea.

E’ nell’orizzonte di una filologia dei media (Frasca 2005) che va anzitutto valutato perciò il rapporto fra il capolavoro di Joyce e il suo antecedente omerico. Così come nel medesimo orizzonte vanno rilette anche le astuzie di Ulisse, le inclinazioni del suo cuore e le circonvoluzioni della sua mente, cioè la capacità di imporre o sopportare svolte e capovolgimenti di fortuna, che attraverso il tempo e l’abitudine diventano cifre del suo carattere astuto e sfaccettato, del suo discorso accorto e persuasivo: insomma, del suo essere polytropos. Ulisse dai molti giri e raggiri, erramenti ed errori, si trova tutto racchiuso in questo aggettivo senza il quale egli rimarrebbe sospeso nello spazio tra ognuno (Oudeis) e neppure uno (Oudeis): Odisseo infatti non è neppure un nome, solo un pronome personale indefinito, un Nessuno, una non entità che fluttua nello spazio pronominale come un’anima in attesa della prossima reincarnazione. Odisseo e la sua vicenda non sono nulla di definito senza l’epiteto di polytropos, quello delle molte svolte e raggiri che qualificano sia il carattere dell’eroe che la natura dell’intreccio del poema. L’Odissea era infatti in origine solo la rapsodia orale capace di richiamare alla memoria e di trasmettere i contenuti di una cultura comune, le forme di un ethos condiviso. Essa poi man mano divenne una polytropia, una molteplicità di figure del discorso e dell’azione, raccolte in un unico per quanto sfilacciato intreccio e trasmesse dal nuovo media della scrittura in virtù del quale soltanto le ghirlande dei miti, l’innumerevole messe di varianti e di formule, di toni e di timbri, di registri e dialetti, poterono essere ‘logicamente’ raccolti (léghein da cui logos) e fissati infine in una unica versione canonica, attribuita all’ultimo rapsodo-redattore: Omero.

*

Nota.

Quando, a diverse riprese, mi sono occupato della figura e della storia di Ulisse, ho sempre fatto riferimento alle traduzioni classiche in versi del Monti (Iliade) e del Pindemonte (Odissea), che avevo nella mente e nel cuore fin da ragazzo. Mi sembrava che fossero sufficienti al mio approccio non affatto filologico, ma decisamente eclettico e semmai attento alle tipologie della cultura e dei media. Ora che ho rimesso mano ai miei vecchi appunti per il presente saggio, ho voluto fare anche una ricognizione delle traduzioni più recenti, e fra esse mi hanno colpito quelle di Daniele Ventre (Iliade, Messina, Mesogea, 2010; Odissea, Messina, Mesogea, 2014,) che non è solo un classicista ma anche un narratore e poeta a sua volta, e che pertanto riesce a rendere in modo mirabile sia le svolte dell’intreccio che le cadenze dell’esametro greco. Solo per caso ho scoperto infine che egli fa parte della redazione di Nazione Indiana e pertanto mi auguro che questo mio lavoro da dilettante possa incontrare il suo interesse.

 

 

3 COMMENTS

  1. Molte grazie per gli ottimi spunti di riflessione.
    Tra le traduzioni ‘poco classiche’ dell’Odissea consiglierei senz’altro quella di Emilio Villa, anche per la geniale postfazione critica dell’autore (la mia edizione è quella recentemente pubblicata da Derive e Approdi).

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andrea inglese
andrea inglese
Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.