Quelli che vengono dall’altro mondo. Antagonisti o donatori? (2)

zattera_medusa1.jpg di Andrea Inglese

Riprendo la riflessione iniziata qui sull’esigenza di smontare una certa immagine razzista e xenofoba dell’immigrato, che una parte delle società italiana sta accogliendo come ovvia. E voglio partire da questa semplice domanda: “Lo straniero che si trova tra di noi è una minaccia?”. Se la maggior parte degli immigrati rappresentano per la maggior parte di noi un’effettiva minaccia, allora dobbiamo convenire che ci troviamo in una situazione di pericolo estremo, di emergenza, che giustifica non solo reazioni spontanee irrazionali, ma anche legislazioni speciali, d’eccezione. Detto altrimenti, mi chiedo se, di fronte allo straniero, l’italiano si trovi oggi nella stessa situazione del naufrago nella scialuppa, di cui parla Hans Magnus Enzensberger in questa parabola: “Una scialuppa di salvataggio con a bordo tanti naufraghi da essere completamente piena. Tutt’intorno, nel mare in tempesta, nuotano altri sopravvissuti, che rischiano di annegare. Come si devono comportare gli occupanti della scialuppa? Respingere il primo che si aggrappa al bordo della barca, magari mozzandogli le mani? Sarebbe un omicidio. Prenderlo a bordo? Ma allora la scialuppa va a fondo con tutti i sopravvissuti” (da La grande migrazione, Einaudi, 1993).

Questa parabola, richiama quei discorsi che definiscono l’immigrazione insostenibile per il nostro paese. “Se ne continuano ad arrivare, la società intera va a fondo.” Il problema non è quello di una “cattiva volontà” del paese ospitante, ma dei suoi limiti strutturali. In quest’ottica, colui che viene da fuori, come il naufrago nelle acque, richiede a colui che sta dentro un aiuto, un gesto di generosità, un sacrificio. Ma ogni atto generoso ha un limite, e questo limite è inscritto nelle risorse del donatore. Non possa dare più di quello che ho, ma non posso neppure dare tutto quello che ho. Bisogna a questo punto chiedersi se realmente il rapporto tra italiano e straniero ricalca questo tipo di relazione. E se così fosse, bisogna chiedersi se la barca sia davvero “piena”.

Un altro modo di raffigurarsi lo straniero come una minaccia, è quello di rappresentare la sua venuta presso di noi come un’invasione. Ora, quest’immagine rimanda a due significati fondamentali: c’è invasione quando c’è penetrazione violenta (armata), occupazione, devastazione, saccheggio, ecc., oppure c’è invasione, quando c’è una propagazione nociva e inarrestabile come quella di certi animali o di certe piante. Questo secondo significato rimanda però a quello già formulato nell’immagine della scialuppa e nel concetto di immigrazione “insostenibile”. Non è nocivo l’immigrato singolo, ma la massa di immigrati, in quanto essa, anche involontariamente, finirebbe per produrre quegli effetti di devastazione propri dell’invasione. Troppe persone su di una stessa barca, la fanno affondare. Troppi bisogni a fronte di risorse limitate, creano indigenza generale.

Quali immigrati, però, prenderemo in considerazione, per verificare se siano oppure no una minaccia, secondo le due figure delineate dell’insostenibilità e dell’invasione? Di certo, dobbiamo considerare la “maggioranza” degli immigrati nel nostro paese, il maggior numero. E la maggioranza di stranieri sono i 3.690.000 immigrati con regolare permesso di soggiorno secondo le ultime stime del Dossier Statistico Immigrazione Caritas/Migrantes. Rispetto a costoro, gli immigrati in situazione irregolare sono stimati in una forbice che va da un minimo di 500.000 persone ad un massimo di 800.000 (secondo le stime di organismi quali Fondazione ISMU, i sindacati nazionali, Eurispes). Un dato ulteriore, sugli “irregolari”, ci indica che essi sono nel 65%-70% dei casi degli immigrati un tempo regolari, a cui è semplicemente scaduto il permesso di soggiorno. Ciò significa, ed è un punto su cui è già intervenuto su NI Marco Rovelli, che con una legislazione più adeguata, il numero di immigrati regolari salirebbe ulteriormente, riducendo in modo decisivo il numero di immigrati irregolari e che hanno interesse nel restarlo.

Se dunque vi è un problema di sostenibilità, esso riguarderà questa grande maggioranza di stranieri regolari o che ambiscono a una regolarizzazione. Che cosa vengono a fare qui? Sono qui per chiedere aiuto, ossia per essere in qualche modo assistiti? Si tratta forse di quasi quattro milioni di “asilanti”, profughi a cui si è concesso asilo nel nostro paese? Ovviamente no. (Nel 2006 i richiedenti asilo in Italia sono stati 10.000 e solo al 9,5% è stata riconosciuta la condizione di asilante.)

In realtà, la stragrande maggioranza di questi stranieri regolari sono costituiti da lavoratori e dalle loro famiglie (92,1%). Dal punto di vista del mercato del lavoro italiano, essi sono la cosiddetta “forza di lavoro aggiuntiva”, ossia una forza di lavoro necessaria a far funzionare l’economia italiana. Ce lo dice ancora una volta il dossier Caritas/Migrantes (d’ora in poi C/M). La crescita del flusso migratorio dipende dalla domanda di lavoro del nostro paese: “ad avere impresso questo ritmo sono il fabbisogno delle industrie e delle famiglie di manodopera aggiuntiva”. Anche le “famiglie italiane” hanno bisogno della manodopera straniera.

Dunque gli stranieri non vengono qui per chiedere aiuto, carità, assistenza, ma per lavorare nell’industria, nei cantieri edili, nei servizi alle famiglie. Non giungono sulla scialuppa dei sopravissuti, ma sulla grande nave che perde colpi, e subito sono reclutati sul ponte, per poi infilarsi in sala macchine o nelle cucine a sgobbare. Ma davvero lavorano? “Il loro tasso di disoccupazione (8,6%) è di due punti superiore a quello degli italiani, rispetto ai quali sono maggiormente soggetti a contratti a tempo determinato. Il loro tasso di attività è del 73,7%, 12 punti percentuali in più rispetto agli italiani” (Dossier C/M). Insomma, quando non vengono lasciati a casa, lavorano più duramente degli autoctoni.

Ma non erano venuti ad approfittarsi delle nostre esigue risorse, anzi, non erano quelli del saccheggio, della razzia? “Incidono per il 6,1% sul PIL e pagano 1,87 miliardi di tasse.” (Dossier C/M). In compenso, non appena è possibile, tendono ad essere sfruttati al massimo dagli autoctoni: “Il settore edile, nel quale la percentuale dei lavoratori immigrati sul totale è in costante aumento, mostra che i diritti non viaggiano alla stessa velocità visto il diffuso sfruttamento di manodopera in nero (1/4 del totale), sottopagata e utilizzata ai livelli meno qualificati” (Dossier C/M). Insomma, sono persone che hanno molti doveri e pochi diritti. Il cittadino davvero ideale. Anzi, il lavoratore meno il cittadino. L’ideale della società neoliberista. Un’ideale, però, imperfetto, in quanto l’immigrato regolare ha comunque diritto ad avere una vita privata, ossia una famiglia. Ma forse la possibilità di usufruire del “ricongiungimento familiare”, avere una moglie che lavora in casa o fuori, e dei figli che vanno a scuola, lo fanno ripiombare nella figura del puro richiedente o dell’invasore? Lo si vorrebbe un assiduo lavoratore, ma anche sottoposto ad un regime di isolamento affettivo ed erotico? Si vorrebbe, insomma, un’immigrazione santa, capace di sacrificarsi interamente alle illimitate esigenze degli autoctoni? Uno scenario alla Dogville, in fin dei conti, dove colui che è veramente minacciato – di venir sottopagato, di non trovare qualcuno che gli affitti casa, di perdere il lavoro, di finire in situazione irregolare, di rimanere separato dalla famiglia, di subire discriminazioni ed offese – si rivela essere lo straniero, un soggetto infinitamente ricattabile.

Riprendiamo allora la parabola della scialuppa, e adattiamola ai dati di realtà. Sulla nave Italia ci sono dei gruppi di persone che hanno una gran bisogno di “forza lavoro aggiuntiva”, che non gli è fornita dai passeggeri connazionali. Inoltre, questi passeggeri sono sempre più vecchi e fanno sempre meno figli, mettendo a repentaglio il futuro della navigazione. È una situazione insostenibile. L’unico modo per assicurarsi una normale continuazione del viaggio è imbarcare nuovi passeggeri: energie fresche, da spremere per bene. Anche su questo il Dossier C/M parla chiaro: “La popolazione italiana, al netto degli immigrati, è già in diminuzione da una decina d’anni e, secondo le previsioni demografiche dell’Istat, il paese va incontro a un continuo e crescente invecchiamento. Nasce da qui la necessità di immettere lavoratori più giovani, salvaguardando così le esigenze produttive e il livello di benessere. L’Italia fin dalla metà degli anni Novanta sta perdendo posizioni nella competizione internazionale e ha bisogno di recuperare, tanto a livello produttivo che qualitativo. Non ci sono, quindi, ragioni per indicare gli immigrati come un peso”. Potremmo, anzi, togliere la litote, e riformulare la faccenda così: “Ci sono importanti ragioni per considerare gli immigrati come una preziosa risorsa umana”.

A questo punto si ha però l’impressione di vivere in un paese patologicamente scisso: da una parte una gran quantità di persone convinte dell’insostenibilità della presenza straniera o dell’emergenza costituita dall’invasione, e dall’altra gruppi di imprenditori e famiglie che ricercano con urgenza manodopera straniera e la assumono con gran soddisfazione (più produttiva e/o più ricattabile). L’immagine stessa dello straniero è duplice e contraddittoria: per alcuni, una specie di naufrago che cerca aiuto e rischia di trascinarti in mare, oppure un pirata che balza sulla nave per depredarla; per altri, un provvidenziale aiutante, un concentrato della cosiddetta “voglia di lavorare”, pronto ad assumersi i compiti più duri e nocivi, e spesso peggio pagati. Lo straniero svolge, in un caso, la funzione narrativa di un antagonista, che produce una situazione di disequilibrio (impoverimento o degrado del paese); nell’altro, invece, è percepito come un donatore, che fornisce uno strumento magico: la sua abbondante e fresca forza-lavoro, che permetterà all’eroe, l’imprenditore italiano, di ristabilire una situazione di equilibrio: nuova competitività dell’economia, all’interno di un paese in crescita demografica.

Un esempio di questa seconda funzione narrativa, lo ritroviamo in un documento redatto nel 2003 da Anna Maria Artoni, Presidente dei Giovani Industriali. Vi si può leggere che il “lavoro degli immigrati ha consentito nell’ultimo decennio la sopravvivenza, o ha rivitalizzato, interi settori produttivi. Tra gli esempi più evidenti, la pesca a Mazara del Vallo, la floricoltura in Liguria, la pastorizia in Abruzzo e nel Lazio. Nell’insieme, il lavoro immigrato svolge oggi una funzione più complementare che concorrenziale rispetto a quello svolto dai cittadini italiani”.

Questa discrepanza delle immagini dello straniero e delle funzioni narrative che egli svolge negli intrecci, dovrebbe metterci tutti in guardia almeno su di un punto: risulta sospetta ogni affermazione su di un tale tema, che non sia passata ad un severo vaglio critico. Dobbiamo, insomma, cominciare a riflettere sul modo in cui noi stessi, ossia la nostra società, produce dei discorsi sullo straniero, prima di pervenire ad un qualsiasi giudizio sull’oggetto di quei discorsi. È infatti evidente che, ogniqualvolta si nomina lo straniero, dosi importanti di immaginario si mescolano a dati di realtà.

(Ogniqualvolta, qualcuno oggi solleva dubbi sull’opinione comune, sui discorsi più frequenti e condivisi, in nome di una distanza critica e di strumenti di analisi, corre immediatamente il rischio di essere zittito. Lo si accusa, infatti, di essere una sorta di grande privilegiato, dedito al lusso del ragionamento, laddove la maggior parte delle persone vivrebbe in una forzata condizione di irragionevolezza. Ragionare sui discorsi e le immagini che orientano il nostro destino collettivo non è un lusso, ma una necessità, per chi ancora crede che esiste una sfera seppure tenue dell’azione politica. Per chi crede che la politica sia definitivamente scomparsa, e che la società non sia che un ammasso di individui dediti con più o meno successo alla soddisfazione dei propri privati bisogni, ogni parola che non sia direttamente espressione di questi bisogni è ovviamente un lusso, anzi un’incongruenza. Chi poi sostenesse che qualsiasi tentativo di ragionare sui discorsi che la nostra società produce sia un’inutile predica, deve anche giustificare perché mai ritiene che un certo grado di ragione critica sia inaccessibile alla maggior parte dei cittadini italiani. E soprattutto ci deve convincere che promuovere l’uso di questa ragione critica sia dannoso. Che sia semplicemente inutile, infatti, non è un motivo sufficiente che lo legittima a zittirci.)

Proviamo ora a fornire qualche ipotesi che potrebbe giustificare quella discrepanza tra le immagini che ci facciamo dello straniero.

Ipotesi 1. L’immagine è duplice, perché in effetti non ci riferiamo allo stesso tipo di straniero. Lo straniero “regolare”, in effetti, è un donatore; ma quello “irregolare” è mezzo pirata e mezzo parassita. Quindi, volgendo il tutto in termini numerici: “la grande maggioranza degli stranieri sostengono il paese e lo aiutano, e di questo dobbiamo essere loro riconoscenti, ma c’è una minoranza (gli irregolari) che giustificano il timore e l’aggressività”.

Se questa prima ipotesi è vera, dobbiamo innanzitutto rivedere l’immagine dello straniero come minaccia e la sua presenza qui come un fattore d’emergenza. Poiché la maggior parte degli stranieri non è una minaccia, non esiste un’emergenza nei loro confronti. Esiste eventualmente un problema con una loro minoranza. È una questione di scala, ma una questione importante per ristabilire un legame meno arbitrario tra il “discorso” e il suo “oggetto”.

Occupiamoci a questo punto di questa minoranza, gli “irregolari”. Sono essi tutti tendenzialmente parassiti e pirati: sono, insomma, dei criminali? Su questo punto rinvio all’intervento di Marco Rovelli, di cui ricordo qui solo due punti essenziali: la maggior parte degli “irregolari” sono comunque dei lavoratori e ambiscono a regolarizzarsi; la loro condizione di “irregolari”, di fatto, li espone maggiormente ad essere considerati come criminali, e in definitiva a diventarlo. Se dunque si vuole fare in modo che una buona parte di questa minoranza di “irregolari” abbandoni la sua funzione di potenziale antagonista per andare ad assumere quella di donatore, assieme alla grande maggioranza degli stranieri, vi è un solo modo: facilitare e incrementare le regolarizzazioni.

Colpo di scena: quello che è considerato il grande problema, ossia l’afflusso ulteriore di stranieri, appare invece come uno strumento risolutivo. Poiché il flusso migratorio c’è comunque, essendoci alla base una domanda di manodopera straniera, è meglio che questo flusso sia orientato all’inserimento migliore, attraverso la regolarizzazione, piuttosto che sia ostacolato, favorendone così esiti negativi (marginalità che espone al reclutamento in attività criminali). L’idea non è certo mia né di qualche associazione “umanitaria”. Il numero di Migranti-Press del 26 ottobre 2007, riportava questa nota:

“Si può costruire un continente più sicuro attraverso grandi regolarizzazioni di immigrati privi di documenti? Il Consiglio d’Europa ha finalmente deciso di porsi la domanda: il 1° ottobre scorso infatti, a Strasburgo, l’Assemblea del Consiglio d’Europa, cui aderiscono 47 Stati, ha discusso programmi di regolarizzazione di immigrati irregolari: utilità e limiti delle imponenti ‘sanatorie’ o ‘regolarizzazioni’ a cui quasi tutti gli stati europei, Italia in testa, hanno però dovuto ricorrere negli ultimi anni. (…) Secondo il Consiglio d’Europa, l’Italia, che ha emanato negli ultimi 20 anni ben 5 provvedimenti di regolarizzazione (…) che hanno portato alla regolarizzazione di 1.400.000 extracomunitari con l’obiettivo di contrastare il lavoro nero e l’economia illegale, non è riuscita a raggiungere pienamente i suoi obiettivi per vari problemi non ancora risolti: l’inadeguatezza della burocrazia, le resistenze dei datori di lavoro a regolarizzare i lavoratori immigrati e, soprattutto, a causa del perverso meccanismo innestato dall’attuale normativa.”

Ricapitoliamo: c’è una soluzione per accrescere la maggioranza degli stranieri “donatori” e di ridurre ulteriormente la minoranza di quelli “antagonisti”? Sì, semplificare e velocizzare le regolarizzazioni. Chi si oppone a questa soluzione: certi gruppi di italiani, l’amministrazione pubblica, i datori di lavoro, i politici. Se persiste tra gli stranieri presenti nel nostro paese una qualche minaccia, di essa sono responsabili principalmente gli italiani.

Tutto questo ragionamento si basa su di un presupposto: gli stranieri regolari non presentano un tasso di criminalità maggiore rispetto a quello dei cittadini italiani. Il dato è confermato ancora una volta dal Dossier C/M: “per gli stranieri in posizione regolare le denunce si pongono negli stessi termini degli italiani, perché essi incidono per circa il 6% sulla popolazione residente”.

Ipotesi 2. Ciò che crea la discrepanza tra le immagini delle straniero “donatore” e “antagonista” non è il contrasto di comportamenti tra la maggioranza di “regolari” e la minoranza di “irregolari”, ma è attribuibile a una “minoranza della minoranza”, ossia a quel nucleo propriamente criminale che alligna tra gli stranieri in posizione di irregolarità. Detto in altri termini, oggi il mondo della criminalità, in Italia, include anche una percentuale di stranieri. Si tratta di criminali occasionali, come gli stupratori; di manovalanza criminale, come coloro dediti al piccolo spaccio, controllati da organizzazioni criminali autoctone; in casi più rari, di nuclei di organizzazioni criminali, che gestiscono autonomamente settori dell’economia illegale, come la prostituzione.

Anche per ciò che riguarda l’attività criminale più feroce, come quella del commercio di schiave, la prima vittima ne è ancora una volta la popolazione straniera. Sono le donne dell’Est europeo o di alcuni paesi dell’Africa, come la Nigeria, a subire per prime la minaccia e il danno della schiavitù. Non di certo i clienti italiani, che risparmiano qualche decina di euro sulle prestazioni delle prostitute autoctone.

È quindi insensato e vigliacco in nome di questa minoranza di criminali stranieri, ben inserita in un territorio dove la criminalità nostrana prospera, costruire intorno alla figura dell’immigrato lo scenario di una minaccia e di una situazione d’emergenza. Minacciosa è la criminalità in quanto tale. E lo stato si è già dotato a sufficienza di tutti gli strumenti legislativi per intervenire su di essa. Ogni confusione tra criminalità e immigrazione è quindi irresponsabile e foriera di razzismo. Nessuno di noi, in quanto italiano, potrebbe accettare di essere trattato come una minaccia durante un suo soggiorno all’estero, in quanto potenziale mafioso o camorrista.

Il problema della criminalità straniera è un problema che riguarda la lotta contro la criminalità, in un contesto di globalizzazione non solo dell’economia legale, ma anche illegale. Come tale, dovrebbe essere sempre distinto dal fenomeno dell’immigrazione, che resta prevalentemente legato alle necessità del nostro paese di usufruire di manodopera straniera.

In quest’ottica, i maggiori irresponsabili appartengono a due categorie di persone: i politici e i giornalisti. Un politico ha come sua caratteristica la facoltà di guardare non ai dettagli della vita sociale, ma all’insieme dei suoi elementi e alla loro distinta articolazione. Quando un politico confonde immigrazione e criminalità, impedimento burocratico e volontà di violare la legge, mendicità e micro-criminalità, micro-criminalità e criminalità organizzata, egli lo fa consapevolmente, e secondo una strategia facilmente decifrabile. Mettendo un’enfasi sproporzionata su problemi secondari, o confondendo problemi diversi tra loro, egli può distogliere l’attenzione dalle questioni più urgenti, che non è in grado, non ha il coraggio o non vuol deliberatamente affrontare.

Quando dico, “i politici”, intendo dire quelli di destra come quelli di sinistra. Non sono solo gli esempi più recenti di un Veltroni a dimostrarlo. Nel 2001, il sociologo Alessandro Dal Lago scriveva:

“Sarebbe bastato consultare qualche libro di Z. Bauman per riflettere sul fatto che gli immigrati, al di là del loro reale coinvolgimento (spesso come vittime) nella microcriminalità, diventavano il parafulmine di un’insicurezza diffusa, in gran parte prodotta dalla crisi dello stato sociale. Ma il punto è che il centro-sinistra, sia a livello di governo, sia di esponenti locali, ha sempre dato credito alla realtà di questo panico. Invece di svolgere un’opera d’informazione e, in sostanza, di riportare la realtà immaginaria e mediale ai fatti, il personale politico di governo ha cavalcato le proteste (degli imprenditori politici o morali, più che della popolazione), forse nell’illusione di allargare il proprio consenso nell’elettorato moderato. Com’era prevedibile, questa «inimicizia» dall’alto si è rivelata un boomerang. Da una parte, infatti, si sono legittimate come democratiche e legittime le posizioni xenofobe della destra. Dall’altra, agli occhi dell’elettorato moderato, la responsabilità di un «degrado» che tutti imputavano agli immigrati non poteva che essere attribuita ai governi in carica da un decennio” (Giovani, stranieri & criminali, manifestolibri, 2001).

Quanto ai responsabili del panico mediale, giornalisti e opinionisti di ogni risma e testata, il loro danno è solo proporzionale all’immunità che gli permette di realizzarlo. Se un mondo diverso e migliore mai esisterà, ebbene in questo mondo i programmi scolastici, dalla prima media in poi, prevederanno una nuova disciplina, “Critica dei media”, o “Ecologia dei media”, o “Educazione mediatica”, che permetterà agli insegnanti di italiano, pedagogia o filosofia, di mostrare ai loro allievi come il mondo della cosiddetta “informazione” sia oggi, in buon parte, un settore particolarmente vivace dell’immaginario. E come tale, è importante conoscerne la retorica e la poetica.

Ipotesi 3. La discrepanza delle immagini dipende dal fatto che lo stesso straniero è per certuni un’antagonista e per altri un donatore. Non sto più parlando dello straniero assurdamente confuso con il criminale. Sto parlando dell’ombra inquietante che lo straniero proietta, proprio in quanto buon lavoratore. È l’ipotesi, in breve, che l’immigrazione in Italia stia creando una “guerra tra poveri”. Essa ci obbligherebbe a riformulare in un nuovo modo lo scenario dell’imbarcazione. La nave Italia comincia ad andare male, perché capitani e ufficiali hanno emarginato una parte di equipaggio e lasciato all’abbandono alcune parti della nave. Però essi accettano di buon grado che s’imbarchi nuovo personale straniero, per le mansioni più umili e pericolose. La parte privilegiata dell’imbarcazione Italia vede dunque il nuovo equipaggio come una risorsa da sfruttare, laddove la parte più debole e emarginata vede i nuovi arrivati come una minaccia.

In questo scenario, in effetti, il lavoratore straniero può legittimamente essere percepito da certi italiani come una minaccia. E non perché egli sia intrinsecamente portatore di un male, un male che verrebbe dall’esterno (la criminalità, la povertà), ma perché costituisce la causa occasionale che risveglia il nostro di male. E il nostro male si chiama semplicemente disuguaglianza. Ma non solo. Se la disuguaglianza non è certo un male nuovo, nuovo è il modo in cui le persone sono portate a vivere tale condizione. Quella che viviamo oggi, in Italia e nel resto d’Europa, è una disuguaglianza negata. Noi crediamo, tra italiani, di avere più o meno le stesse opportunità per realizzare quegli scopi che la nostra cultura attuale rende più attraenti: l’autonomia e la libertà. Tutti vogliamo decidere in modo autonomo e libero del nostro destino. Tutti vogliamo determinare la nostra traiettoria esistenziale al di fuori dei vincoli di classe. Questo obiettivo, per gli attuali ceti popolari, rimane in gran parte chimerico. Ma tanti sono i fattori che ritardano o addolciscono o ostacolano il momento della disillusione.

Smontare il razzismo e la xenofobia che vengono alimentati a partire dalla figura del migrante, non significa solo correggere un errore cognitivo, ma anche volgere l’attenzione alla vera causa della paura e dell’aggressività. E questa causa riguarda il modo in cui i nostri paesi “ricchi” (ma non per tutti) sono organizzati e si pensano. L’emergenza reale che ci minaccia, in quanto società, non è solo l’impoverimento dei ceti popolari, costantemente e a fatica eluso. (Ma non per tutti, e soprattutto: fino a quando?) L’impoverimento materiale, infatti, è solo l’aspetto più grave di un impoverimento di altro tipo, e che intacca il sogno di autonomia. Prima di trovarsi povere in termini materiali, le persone passano attraverso vari stadi di esclusione. Il primo e più importante dei quali, proprio per il discorso che stiamo facendo, è l’esclusione dalla mobilità, intesa come occasione di incontri, di legami sociali e scambi simbolici. Ecco quanto scrivono Mauro Magatti e Mario De Benedittis in I nuovi ceti popolari. Chi ha preso il posto della classe operaia? (Feltrinelli 2006):

“La dimensione territoriale è così importante principalmente perché i nuovi ceti popolari sono quasi del tutto immobili: oltre allo scarso capitale culturale di cui dispongono, la flessibilizzazione dei contratti di lavoro e la liberalizzazione del mercato immobiliare hanno ridotto la convenienza a spostarsi. D’altra parte, solo all’interno della dimensione locale di appartenenza – di cui si possono sfruttare le risorse di rete e di radicamento – i nuovi ceti popolari possono garantirsi un livello di vita accettabile, fatto fondamentalmente di consumi e relazioni. Il risultato è che il luogo in cui si nasce determina in buona misura il proprio futuro, a cominciare dalla stessa possibilità di immaginare le opportunità che si intendono perseguire.” (D’ora in poi: NCP, p. 208.)

Ai piani bassi della scala sociale italiana, quindi, si incrociano oggi due destini: coloro che la miseria e l’audacia hanno costretto alla mobilità e coloro che la paura della miseria e la conseguente prudenza costringe all’immobilità. È su questo piano che avviene lo scontro, con tutte le implicazioni psicologiche che ciò comporta. Gli “immobili” italiani vedono il loro territorio attraversato da gente più povera, ma più mobile e spregiudicata. Gente che viene dal di fuori, che porta con sé l’ombra della miseria e della sottomissione, ma anche la tenacia e la forza di chi deve sopravvivere nelle situazioni più estreme. Non solo, quindi, le fasce più deboli del ceto popolare non possono uscire dal cerchio ristretto del loro territorio, per inseguire gli obiettivi di piena autorealizzazione promessi ovunque. Ma oltretutto questo loro territorio è invaso da gente che non ha nulla da promettergli e da offrirgli. Per di più colui che teme la miseria, se la ritrova di colpo sotto gli occhi, come chi camminasse per un sentiero sempre più stretto con a lato una voragine. In questa zona si radicano certi meccanismi di rifiuto, di chiusura, di reazione aggressiva. Qui il razzismo si costituisce come ragionamento compensatorio: “io sfuggirò alla loro miseria, in quanto sono superiore”. La miseria è così confinata ad una fenomenica manifestazione etnico-culturale: essere poveri è proprietà di coloro che hanno certi tratti somatici, una certa pigmentazione della pelle, un certo tipo di abito. La miseria è destinata solo a certuni, che per qualche aspetto essenziale sono diversi da noi, e quindi inferiori.

Ma certo l’incontro sul territorio di lavoratori stranieri e italiani potrebbe anche generare dinamiche diverse, di familiarità, riconoscimento e, in definitiva, anche di solidarietà. Se ciò avviene raramente, è anche perché l’attività lavorativa non costituisce più uno dei fattori dominanti nella costituzione dell’identità, come avveniva un tempo per la classe operaia. Oggi, osservano Magatti e De Benedittis, i tre elementi che contribuiscono a definire l’identità dei ceti popolari sono “i consumi, le reti relazionali, l’esposizione mediale”. Vi è un forte investimento di un’area simbolica a scapito di quella priorità un tempo assegnata alle condizioni materiali di lavoro. E la minaccia che lo straniero incarna sul territorio, per i ceti popolari italiani, non è detto che riguardi immediatamente la rivalità sul mercato del lavoro.

Mentre ho potuto verificare le due prime ipotesi, utilizzando dati tutto sommato alla portata di tutti, su questi interrogativi mi fermo. Mi fermo innanzitutto per limiti miei. Ma lo faccio, formulando nel modo più chiaro le domande alle quali sarebbe urgente rispondere. La prima dovrebbe chiarire, attraverso studi specifici, se esista un rapporto di concorrenza o di complementarità tra forza di lavoro immigrata e forza di lavoro autoctona sul nostro mercato del lavoro. La riposta che viene dall’ultimo Dossier Caritas/Migrantes è rassicurante, in quanto opta per un rapporto di complementarietà. Ciò nonostante non sembra basare questo giudizio su analisi particolarmente approfondite. E, in ogni caso, la responsabilità di una tale situazione andrebbe attribuita innanzitutto al ceto imprenditoriale e a quello politico. Poiché se mai ci fosse davvero un principio di “guerra tra poveri”, solo questi due ceti se ne avvantaggerebbero.

L’altra domanda porta meno sulle condizioni materiali, e il possibile antagonismo che si produrrebbe a questo livello, che sulle forme di simbolizzazione della propria riuscita e rilevanza sociale. E si potrebbe ipotizzare che una certa “inimicizia dal basso” nasca da una condizione di povertà simbolica e di frustrazione delle attese, che tiene prigioniera una parte dei ceti popolari italiani e trova nella comparsa del lavoratore-straniero come proprio “simile non riconosciuto” (simile in termini di precarietà sociale, ma diverso in termini culturali), l’occasione di uno sfogo, di un rifiuto violento. Quello che si rifiuta nello straniero, è la nostra stessa precarietà, così come ciò che non sopportiamo in lui, è il suo riscattarsi, appena può, nello stesso modo in cui noi ci riscattiamo: con il consumo, con il conforto della famiglia allargata, con le certezza della religione.

40 COMMENTS

  1. Una domanda. Dei circa cinque milioni di immigrati presenti in Italia, quanti lavorano in nero? Questo mi pare un dato essenziale per capire il fenomeno immigratorio. Grazie per l’eventuale risposta.

  2. Aggiungo che il pezzo è convincente e condivisibile, tranne che per la mancanza del dato di cui sopra.

  3. Purtroppo questo è il tipo di dato che per sua natura è difficile da determinare. Quanti sono gli italiani che lavorano in nero? E’ sicuro che già una parte degli immigrati “regolari” lavoreranno parzialmente in nero, cosi come il nero toccherà la totalità degli “irregolari”.

  4. Caro Andrea,
    capisci bene che il concetto, da te sostenuto, degli immigrati quali “forza di lavoro aggiuntiva”, varia molto se questa è sottopagata (in nero) rispetto a quella dei cittadini italiani. Non saremmo cioè di fronte a una carenza assoluta di mano d’opera italiana, ma ad una carenza relativa alle condizioni di ipersfruttamento accettate dagli immigrati. Il nero, o le condizioni di sottosalario, nella misura in cui fossero preponderanti per gli immigrati, servirebbero solo a ricostituire l’esercito di riserva del lavoro, cioè a tener basso il costo del lavoro.

  5. Come ho detto, alla fine del post, questo è una delle questioni cruciali.
    Studi approfonditi del ’95, altri del 2003 e il dossier statistico sull’immigrazione di quest’anno propendono tutti per il concetto di “forza lavoro aggiuntiva” (che non invento certo io). E sono dati da non ignorare, in quanto legati a specifiche ricerche nel mercato del lavoro. Prima di leggere questi studi, io mi orientavo verso l’ipotesi di una concorrenza tra immigrati e autoctoni.

    Detto questo, qui c’è senz’altro un nodo importante. E la prima cosa da fare, prima di parlare a vanvera, sarebbe la possibilità di rifarsi a ricerche serie. Ma tali ricerche non sono né facili da fare né danno spesso risultati univoci e incontrovertibili.

    Un altro punto decisivo è questo: il libro che ho citato sui ceti popolari mostra che, per cio’ che riguarda le fasce più deboli, essi hanno INTERESSE a mantenere una certa stabilità. Questo spiega perché in alcune zone ci sia davvero carenza di manodopera. Perché all’italiano non converrebbe intraprendere un ennesimo spostamento. Gli sarebbe più svantaggioso che vantaggioso. Laddove il problema non esiste per l’immigrato, che ormai “si muove” lungo gli assi che portano là dove c’è domanda di forza lavoro. Che cosa significa, che qui la guerra tra poveri non c’è, ma c’è comunque una relativa povertà.

  6. Non so perché, ma metà del link mi è stato rifiutato…
    Comunque basta andare sul sito de La Repubblica.it per leggere l’articolo (che fa davvero accapponare la pelle).

  7. Non è la prima volta che dei link escono “spezzati”, come quello qui sopra: forse è un problema tecnico?
    Ne approfitto per dire che gli interventi di Andrea Inglese, e gli altri postati in questi giorni su NI, sono importanti, dimostrano che a fronte di tanto qualunquismo c’è chi continua a documentarsi, rimanere sul punto, battere la notizia.
    Se posso aggiungere una punta polemica (non certo contro NI): non credo che queste informazioni siano ignote alla nostra classe dirigente, non credo che il clima di allarmismo sia il prodotto di una cattiva informazione. Quel Bauman che giustamente cita Dal Lago, Rutelli lo citava nella sua campagna elettorale del 2001. In altre parole, sanno perfettamente quello che fanno, e lo fanno con la precisa intenzione di trarre una rendita dal clima di allarme permanente. Fregandosene delle conseguenze.

  8. Bravo Andrea. Accidenti, stavolta lo devo ammettere: per scovare difetti nella tua argomentazione dovrei portare la mia riflessione allo stesso livello di serietà di questo articolo, e al momento mi è impossibile.

  9. La situazione reale deriva probabilmente da una qualche coniugazione delle tre ipotesi e forse persino da qualcosa di altro.

    Intendo dire che occorrerebbe procedere anche ad una differenziazione della percezione del problema secondo la posizione sociale, l’istruzione, la geografia stessa dell’Italia e dei suoi abitanti.

    In questo contesto specifico credo che l’idea di un problema unitario stesso non possa sussistere se non nella fantasia e nell’immaginario costruito dai media.

    Tutto questo pero, credo rischierebbe di fornirci solo una miriade di analisi locali e solo con grande difficoltà un’analisi capace di mettere insieme in maniera soddisfacente tutti i tasselli di questo mosaico.

    L’unica cosa che è certa è la difficoltà, che del resto comprendo bene, legata al fattore temporale, difficoltà del resto spesso poco contemplata.

    Quando io ancora frequentavo le scuole medie (era la fine degli anni ’90, per la cronaca), nella mia città gli immigrati erano talmente pochi da risultare quasi invisibili. Forse qualche orientale ogni tanto.

    Oggi sono una comunità che supera il 5% di quella totale e sono inoltre una comunità che vive molto gli spazi pubblici oltre ad essere capace di creare luoghi di socializzazione visibili (internet point, lavanderie a gettone, una moschea, qualche bar).

    La mia piccola e provinciale cittadina, in conclusione, si è trovata nel giro di un decennio soltanto di fronte ad un 5% almeno di popolazione che nulla ha a che vedere con la tradizione e la lenta innovazione che le era propria e che, per tutta una serie di concause, risulta più visibile ancora rispetto alla sua effettiva presenza.

    Il solo impatto, la mancanza di esperienza di fenomeni comparabili creano un fertile terreno per ogni strumentalizzazione. Conosco persone che non potrei tacciare di razzismo che quando sentono l’argomento si trincerano dietro il…”Troppi, troppo in fretta”. Facile da qui passare al rifiuto, come alcuni propongono.

    Forse, semplicemente, la tempistica del bisogno iperindustriale di manodopera non coincide con quella ben più lenta propria alla cultura e ai rapporti umani. Anche se questa constatazione, purtroppo lo so, non aiuta in nulla a risolvere il problema.

  10. Mi pare molto importante la notazione sul contrasto tra mobilità e immobilità. I migranti scivolano su reti, che sono tanto materiali (riguardano le possibilità di lavoro, la casa, ecc) quanto simboliche-culturali: sfuggono, e questa inafferrabilità li rende sermpe più unheimlich.

    Quanto alla questione del lavoro, io credo che La “manodopera di riserva” migrante sia soprattutto complementare, ma non manca l’aspetto di concorrenzialità (questa è solo un’impressione che deriva dalla mia “pratica sul territorio”, mancano studi precisi in proposito). In alcuni settori la manodopera italiana si rifiuta di andare tout court, laddove, grazie al cleavage salariale con il paese di provenienza, l’immigrato accetta. In altri casi però la manodopera italiana sarebbe disponibile a lavorare, se non fosse che il minor salario accettato dai migranti glielo impedisce. Però mi sento di avanzare l’ipotesi che questa sia una “concorrenza fittizia”, perché i datori di lavoro non potrebbero sostenere, spesso, il livello dei salari richiesto dagli italiani per entrare nel mercato del lavoro. Esempio: la raccolta dei pomodori in Puglia, dove i braccianti cerignolesi in effetti non possono più lavorare nei campi, ma ai quali gli stessi contadini avrebbero difficoltà erogare i salari come da contratto collettivo, dato che il prezzo del pomodoro è basso a causa della preminenza dell’industria di trasformazione “camorrizzata” e della concorrenza globalizzata del pomodoro turco e cinese. Un esempio che riguarda un maggior numero di lavoratori è quello dell’edilizia: perché il sitema edile oggi si basa su una generazione infinita di subappalti, e all’ultimo microimprenditore rimane un margine di profitto che in qualche modo è costretto, per ricavare un utile apprezzabile, ad assumere in nero e sottocosto.
    Dunque, che ne viene? Che il problema sta nell’erosione del valore a monte. E in cima al monte ci stanno i padroni. Tornare a leggere le cose in un’ottica di classe, io credo, ci consentirebbe di ridar forza a una visione “internazionalista”: forse si scoprirebbe che il nemico non è l’altro lavoratore, ma il padrone.

  11. Ho letto con attenzione solo fino alle ipotesi di immagini dello straniero.
    Un aneddoto: la parabola della scialuppa, leggermente modificata o meno, si presta bene a un gioco di role-playing nelle scuole. Ho provato ad assistervi una volta, in una seconda liceo classico (cioè quarta classe, 17-18 anni), ormai 8 anni fa. A impostare il gioco dei volontari di una comunità che tenevano un corso introduttivo sull’AIDS. Ma la scialuppa era già piena nel gioco, e rischiava di affogare per la corrente, mentre da riva c’era chi cercava di salvarla: bisognava decidere se buttare qualcuno a mare o no. Il sieropositivo venne indicato all’unanimità, lui stesso si autoindicò. Poi l’anziano. Poi l’immigrato. Poi non ricordo più.

    C’è una contraddizione nel volere considerare gli immigrati come una risorsa lavorativa, per lo meno per chi è di sinistra e anticapitalista.
    Cito:
    “il Dossier C/M parla chiaro: “La popolazione italiana, al netto degli immigrati, è già in diminuzione da una decina d’anni e, secondo le previsioni demografiche dell’Istat, il paese va incontro a un continuo e crescente invecchiamento. Nasce da qui la necessità di immettere lavoratori più giovani, salvaguardando così le esigenze produttive e il livello di benessere. L’Italia fin dalla metà degli anni Novanta sta perdendo posizioni nella competizione internazionale e ha bisogno di recuperare, tanto a livello produttivo che qualitativo.”
    Cosa si sta dicendo qui, se facciamo un discorso di ampio respiro?
    Non stiamo forse dicendo che le nazioni occidentali, opulente, obese, inquinanti, non fanno più figli perchè troppo dedite al consumo, consumo di beni e di materiale umano, e il figlio è un prodotto di tesaurizzazione, non di consumo, e quindi, un intralcio?
    Non stiamo forse dicendo che salvaguardare il nostro “livello di benessere” significa mantenere in povertà il Sud del mondo, che intanto continua ad aumentare come popolazione, e che quindi in dosi sempre maggiori, ma pur sempre del tutto minoritarie, viene da noi in cerca di benessere?
    Se è così stiamo dicendo che gli immigrati che vengono qui a salvaguardare il nostro “livello di benessere”, migliorando anche un po’ il proprio, se riescono, sono altri mattoni nel muro del capitalismo globalizzati, diventano come dire, piccoloborghesi anch’essi che come noi producono sempre più povertà nelle terre in cui sono nati, magari salvano la famiglia loro, ma intanto ne mandano in malora altre tre.
    Esiste o no questa contraddizione?
    Perchè io credo che esista, perchè insomma, l’immigrazione crescente serve al mantenimento dello status quo mondiale e lo status quo è lo stesso che sta portando la fame nel mondo, e l’effetto serra.
    Quindi, se ampliamo il discorso, dobbiamo anche dire che l’immigrazione è un segno della patologia del nostro sistema eco-logico-nomico.

    Da un certo punto di vista, accettarla, invogliarla, se permette di risolvere problemi umani nel contingente, ne crea altri nel mediotermine.

  12. Un mio studente all’Orientale di Napoli durante un seminario centrato proprio sul tema dell’immigrazione, disse che era stato a lavorare come operaio al Nord e che lì continuavano a far presente che preferivano gli stranieri, soprattutto i senegalesi, ai terroni. Alla fine delle lezioni chiesi ai ragazzi quanti avevano avuto qualche parente immigrato: erano circa dieci. E poi quanti di loro pensavano di andar via finiti gli studi. Alzarono la mano TUTTi, una quarantina.
    Io credo che nello scenario italiano il tassello che manca è l’immigrazione italiana da Nord a Sud, tornata a quanto pare a livelli degli anni 60. Che non è credo in gran parte quella dei ceti strettamente popolari, ma di molti che stanno un po’ più “su”, anche solo appena un po’ più su, e che lasciano la rete di sicurezza sociale dei luoghi da cui provengono, per una realtà dove devono fare comunque i costi con la precarietà, con costi della vita molto più elevati, con la percezione di essere il penultimo gradino della società, con tutta una serie di difficoltà sia concrete (non avere aiuti in famiglia, per esempio, se devi crescere i figli) che interiori legate allo sradicamento. E forse sentirsi sradicati in quello che in teoria è il TUO paese (non ne hai altri) fa più male, genera più rabbia e frustrazione, che essere sradicati in terra straniera.
    E poi anche qui esiste ancora il razzismo, almeno come sostrato (essere meridionali al Nord non è comunque percepito come qualcosa di neutro), e anche quello oltre ad esistere sponaneamente viene fomentato da certe forze politiche. Credo che il problema meridionale non sia mai stato del tutto risolta e che la guerra fra poveri sia anche quella simbolica (ma non solo, purtroppo) che permette al muratore “terrone” di sentirsi improvvisamente ITALIANO di fronte al manovale straniero, pagato meno di lui.
    Per completare il quadro bisogna ricordarsi che “giù” non è quasi possibile trovare lavoro appena decente o mettere su una qualche attività in proprio al di fuori di un sistema clientelare o criminale. E qui il gatto si morde la coda, a mio avviso.

  13. a lorenzo, che dice:
    “Quindi, se ampliamo il discorso, dobbiamo anche dire che l’immigrazione è un segno della patologia del nostro sistema eco-logico-nomico.
    Da un certo punto di vista, accettarla, invogliarla, se permette di risolvere problemi umani nel contingente, ne crea altri nel mediotermine.”

    Altra osservazione importante. L’immigrazioe è un segno della patologia del nostro sistema economico. Senza alcun dubbio.
    Che fare? L’immediata rivoluzione mondiale non è dietro l’angolo, e anche Chavez non se la passa bene. Quindi: che i politici e i media smettano di speculare sui più deboli, e si propongano loro come capri espiatori, eventualmente. Io non ho ricette immediate per invertire le logiche dello scambio ineguale a livello mondiale, ma ho qualche strumento per combattere il delirio xenofobo e razzista di casa mia.

    Portando all’estremo il tuo ragionamento Lorenzo, e so bene che non è in quella direzione che vuoi andare tu, si arriva alla posizione dei neofascisti, che predicano, oggi, l’africa agli africani (non andando poi a sottilizzare che cosa dell’africa rimane agli africani e che cosa rimane tra le unghie di multinazionali straniere).

    E poi: quali sarebbero i problemi a mediotermine. Gente che parla italiano, ma ha la pelle nera? Qualche moschea piena oltre le solite chiese vuote? Flussi di denaro che tornano ai paesi d’origine e aiutano la crescita laggiù?

    E poi cito nuovamente Rovelli, che dice riguardo all’immigrazione in atto: è un “evento vero”, e come tale nulla sarà più come prima, e non ci sono muri e ronde che tengano. Certo, possiamo prepararci un futuro di ghetti, comunità chiuse ed in guerra, di odio generalizzato, di ulteriore controllo e repressione per tutti. Ma non è detto che vada a finire cosi. In più l’immigrazione italiana ha un vantaggio, rispetto a quella francese o tedesca. E’ talmente variegata, che è difficilmente concentrabile in poche e grandi comunità chiuse.

  14. helena il tuo discorso va precisamente ad approfondire la terza e più problematica ipotesi, che ho formulato: manodopera concorrenziale e/o conflitto simbolico. E l’elemento che tu aggiungi, relativo alla ripresa del fenomeno migratorio, è importante. E anche qui sarebbe interessante andare a cercare dati precisi.

    Ma uno dei punti che ci terrei a ricordare a margine di queste riflessioni è il seguente problema: le reazioni di rifiuto nei confronti dello straniero provengono in modo massiccio e spontaneo dal basso, e sono cavalcate in seguito oppure no?

    Forse sembra un discorso ozioso, tipo l’uovo e la gallina. Pero’ Dal Lago, che è un sociologo e quindi non certo ingenuo rispetto alle varie forme di conflittualità tra ceti deboli, punta davvero il dito su quella che definisce “inimicizia dall’alto”, prodotta da politici e media. Cosa intendo dire? Che potenziali conflitti ai livelli bassi sono sempre esistiti come tra operai del nord e operai del sud, eppure l’autunno caldo nel 69 aveva sbaragliato completamente la logica di quelle divisioni.

    Insomma, a me sembra innegabile che una buona parte, certo non tutta, dell’immigrazione come “problema” non nasca dal basso, ma dall’alto. E questo è triste, perché cio’ conferma comunque che esiste un livello di manipolazione stabile, che se non ha la pervasività delle distopie paranoiche, è comunque rilevante e sul lungo periodo produce anche effetti massicci.

  15. ultima cosa, poi vo a nanna,
    sull’articolo segnalato da Helena e già da lunkhead, una cosa deve essere chiara: tutti si stracciano le vesti perché il leghista ha pronunciato la parola SS, ma quello che il signor leghista propone, domani una giunta di centrosinistra lo voterrebbe tranquilla, ossia questo:

    “E lancia la sua proposta: «Gli immigrati che chiedono la residenza, se in possesso dei requisiti, dovrebbero essere messi sotto osservazione per sei mesi». Il piano, annunciato davanti ai volti increduli ma silenziosi dell’opposizione, suona più o meno come una prova d’esame: «Nel momento in cui ottengono la residenza – dice – la commissione dovrebbe assumersi il compito di seguirne gli spostamenti e controllarne il comportamento andando a chiedere informazioni anche ai vicini di casa. Passati questi primi sei mesi – continua Bettio – se gli stranieri si sono comportati bene, allora possono restare, in caso contrario devono essere sottoposti ad altri tre mesi di verifica e poi espulsi».”

    La citazione delle SS è puro contorno, per tenere desti i sonnacchiosi elettori della lega, ma la logica discriminatoria quella è ormai passata a destra come a sinistra

  16. Alcune puntualizzazioni dal dibattito. Giusta l’impostazione di Andrea e Marco per la lotta alla xenofobia. Cioè non contrapporre allo stereotipo negativo dell’immigrato lo stereotipo buonista o positivo mutuato dall’ideologia o dalla religione. Piuttosto analizzare la realtà della situazione senza aver paura di rilevare i fenomeni negativi dell’immigrazione (devianza, concorrenza sul lavoro, mentalità dogmatica, ecc.) eventualmente presenti. L’unica possibibilità che abbiamo per vincere il pregiudizio è data dalla verità (ed è anche molto debole perché il pregiudizio ha logiche psicosociali e non razionali): non giochiamocela con l’adesione ad uno stereotipo progressista. E’ evidente, poi, che le forze politiche (quasi tutte) rincorrano l’elettorato facendo appello ai suoi bassi istinti, accade da sempre in democrazia e ancor più
    in dittatura. Compito degli intellettuali è di criticare tali campagne mediatiche, con l’imperturbabile analisi della realtà e senza legarsi ad alcun carro.

  17. Ed è proprio questo il problema. Non era il riferimento alle SS a inquietarmi, bensì il fatto che la proposta di Bettio non abbia fatto battere ciglio ad alcuno. Ormai è solo questione di forma, mentre il contenuto dei discorsi sugli immigrati è trasversale: è questo che mi fa paura.

  18. Riflessione di poco conto:
    posso forse immaginare parzialmente il motivo che spinge la migrazione di popoli poveri verso luoghi più “fertili”, è la storia dell’uomo ed io sono figli di immigrati. Ma mi viene da chiedere, tra chi già vive nelle zone fertili (sfruttando risorse non sempre sue, ma questa è altra storia) a chi interessa veramente che ci sia manodopera a basso costo? E perchè ciò avvenga immagino che bisogna tenere alta la richiesta e bassa l’offerta di lavoro.
    Mi chiedo, ma chi ha bisogno ?
    Solo il piccolo imprenditore rampante, l’impresa edile di basso profilo, oppure è talmente radicata la richiesta che anche la massaia di Canegrate vorrebbe avere la Colf ad ore o la badante per la madre? O siamo noi con i nostri guardaroba pieni di abiti ed il carrello della spesa sempre pieno.

    Far salire in barca in numero giusto di persone per remare (lavorare stanca) e lasciare annegare ma non troppi gli altri, perché i rematori non si sentano insostituibili.

    Penso infine che sia l’istinto di sopravvivenza che porti chi è rimasto in acqua a fare di tutto per non annegare, compreso rubare il posto ad un eletto da Dio.

  19. una delle cose utili da fare sarebbe la ricostruzione del discorso sulla “tolleranza zero”; è un discorso che ha una sua storia, una sua funzione ideologica e politica, e un suo esito (disastroso); nasce negli USA con il sindaco Giuliani e viene importato ad un certo punto anche in Francia; parte di questa storia l’ha già scritta il sociologo francese Loic Waquant; il punto è che, tale e quale, questo discorso ha fatto presa alla fine nel ceto politico di sinistra (i bravi sindaci), aprendo cosi alla destra ogni sorta di condotta estremista; e una volta che il discorso è radicato tra la gente, diventa davvero difficile riportare certe questioni alle giuste dimensioni

  20. Forse il periodo storico da te segnalato non è condiviso dagli aborigeni dell’Australia, comunque i sindaci di “sinistra” vagliano lo stato d’animo della gente che li vota e popongono stereotipi condivisi a monte e non a valle dagli elettori degli stessi. Non posso credere che il “popolo di sinistra” si lasci indirizzare da dei sindacuzzi di provincia.

  21. Io spero in Dio
    Che non mi chiederete
    di andare in nessun altro paese
    tranne il mio.

    Barboncito
    Capo Navajo
    Maggio 1868

  22. Riprendo le osservazioni fattemi da A. Inglese

    Sul discorso mio che converge con quello dei fascisti:

    E’ vero, e infatti so di fare discorsi scomodi, anche per me, peraltro, ma mi interessa soprattutto mettere a fuoco i conflitti, le contraddizione della situazione attuale, per fare in modo di vederla nella sua complessità.
    E quindi i leghisti quando dicono (o dicevano) che bisogna fermare l’immigrazione e l’assistenzialismo creando delle possibilità di lavoro e di sviluppo nel Sud (sud Italia o sud del mondo) o nell’Est se pensiamo all’est Europa, hanno ragione. Ma forse per loro questa soluzione è una razionalizzazione del loro razzismo.
    Ma anche qui: quale sviluppo? La formula “paesi in via di sviluppo” sottintende che esiste un solo sviluppo, il nostro occidentale. E il nostro sviluppo non è estendibile a tutta la Terra, che ci piaccia o no, è l’ecologia a dirlo.
    Insomma, in ogni caso il problema resta e non dobbiamo nasconderlo. L’immigrazione è una patologia del nostro sistema. Noi occidentali stiamo usando solo medicine sintomatiche per questa patologia, non andiamo a incidere sulla causa, anzi, rimpolpiamo la causa. Sempre meglio non dimenticare questo quadro generale.

    Gli effetti a mediotermine.
    Non sono ovviamente quelli positivi dell’integrazione ma quelli negativi sul sistema Terra, da un punto di vista demografico, economico e quindi ecologico. Il nostro sistema di sviluppo viene continuamente alimentato.
    Se non si può fermare l’immigrazione finché non troviamo un paradigma diverso dal capitalismo globalizzato, che almeno si faccia ora tutto quel che si può per combatterlo.

    Sull’osservazione di Inglese dell’INIMICIZIA DALL’ALTO.
    Domanda: gli industriali vogliono gli immigrati, per mantenere il nostro tenore di vita di occidentali (ma anche il loro potere e la concentrazione della ricchezza in mano a pochi: non è che il prossimo passo sarà quello che avviene negli USA cioè fare le guerre per mantenerlo, questo tenore di vita, o meglio questa ricchezza concentrata nelle mani di pochi?)
    però i media e i politici ci rendono antipatici gli immigrati.
    Qualcosa non quadra, dove?
    Non lo so. Forse c’è l’inimicizia dall’alto, ma è complessa definirla.
    Io penso inoltre che ce ne sia molta anche dal basso.
    E qui entra in gioco la mia (de)formazione professionale: non scordiamoci che siamo anche animali coi vestiti e con un linguaggio, noi uomini, e che abbiamo creato la guerra più che altro per spartirci risorse e territorio tra gruppi diversi.
    Di suo, un “diverso” per attributi fisici visibili, linguaggio, cultura, ci ispira istintivamente un’aggressività di tipo “normalizzante”. Possiamo ovviamente ridirezionare questa aggressività con l’educazione e la cultura e la conoscenza, ma con i grandi numeri un po’ ce ne sarà sempre. Come a dire: è bene che gli immigrati si integrino il più possibile, che parlino bene la lingua del posto, che non si autoghettizzino: tutto questo serve per combattere l’inimicizia.

    Ma per finire con un’altra contraddizione di tipo scientifico: dal punto di vista evolutivo, aspirare a un mondo in cui quelle differenze etniche che oggi vediamo siano tutte sfumate per i continui scambi riproduttivi tra individui di culture diverse, insomma un mondo tutto multietnico, dove non esistono più bianchi gialli rossi neri ossia senza differenze tra un continente e un altro, non è suspicabile: la varietà anatomica e culturale e di usi e costumi è funzionale alla sopravvivenza della specie.

    Come costruire un’etica non dico fondata su questa considerazione, ma che ne tenga conto?
    Non facile.
    Ma ripeto, i conflitti, le contraddizioni, vanno tirati fuori.

  23. Lorenzo, provo a risponderti. Dando per scontato che tocchi punti importanti. Se la cause dell’immigrazione derivano dall’organizzazione del lavoro su scala mondiale in un’ottica capitalista, dove i soggetti forti sono, per ora, in gran parte le elites economiche occidentali, allora è inutile farsi illusioni: non ci sarà nessuno sviluppo nel sud del mondo (non a breve termine, non senza dure lotte). C’è solo un flusso di materie prime e risorse energetiche da Sud a Nord e ora anche di manodopera da Sud a Nord. Ma almeno gli immigrati che vengono qui non sono solo vittime dell’imprenditore sfruttatore, sono anche soggetti in via di emancipazione, economica e culturale. E sono ben contento che sia cosi. Qundi la contraddizione c’è, e l’immigrazione è uno stadio ulteriore della contraddizione. Non la si risolve certo con le parole dei leghisti, dei neofascisti o di certi umanitaristi: ognuno a casa propria, ognuno con i propri costumi, ecc. Ora siamo in ballo, e bisogna ballare.

    Per quanto riguarda la questione ecologica. Non esiste solo il nostro modello di sviluppo? Per ora l’abbiamo imposto più o meno dappertutto, e anche con la forza. Ora che ci fa comodo fare i safari in mezzo ai parchi della Tanzania, diciamo agli africani di continuare a muoversi a piedi e in bicicletta? E’ come la storia del nucleare. Noi si, a manetta. Ma gli altri no, che è pericoloso. E’ come la democrazia, va bene se la mettono su gli USA, ma la democrazia che porta al potere Hamas non va bene. Anch’io sono contro il nostro modello di sviluppo, a patto che iniziamo noi a cambiarlo. Sono contro il nucleare, a patto che iniziamo noi a disarmarci. Sono per la democrazia, a patto che iniziamo noi a farla funzionare senza clausole ed eccezioni.

    Un tentativo, per scorciatoie, caro Lorenzo, di risposte.

  24. “E’ come la storia del nucleare. Noi si, a manetta. Ma gli altri no, che è pericoloso.”

    Ingles, veramente e’ il contrario, qui “gli altri” siamo noi. D’accordo che con la fauna subumana che costruisce & gestisce le cose in Italia il solo pensiero di riaccenderci il nucleare e’ da mitomani, ma tecnicamente ed economicamente quello rimane competitivo con le altre fonti, in Europa soprattutto, se tenuto intorno al 30% del fabbisogno energetico totale. Sara’ che la tua casetta in Francia (in Francia!!!) e’ scaldata a pale eoliche o a granaglie rubate alle bocche di chi poi si trova ad emigrare? :-)

  25. @andrea
    Certo, concordo su tutto.
    Occorre agire contro il sistema. E’ proprio questo il punto: ricordiamo di farlo, mentre cerchiamo di favorire l’integrazione degli immigrati, perché altrimenti, ripeto, curiamo solo i sintomi della malattia (mi scuso con gli immigrati per l’analogia ma credo che ognuno desideri aver la possibilità di vivere bene e lavorare bene nel posto in cui è cresciuto piuttosto che abbandonarlo per cercare “fortuna” all’estero), noi che vogliamo che prima di tutto i migranti siano trattati da esseri umani, non da forzalavoro o merce. (Preciso anche perché non vorrei che chi non mi conosce pensi che io sia favorevole alle leggi Turco-Napolitano o Bossi-Fini sull’argomento).

    Però ti richiedo: secondo te da dove nasce l’inimicizia dall’alto se i poteri forti traggono vantaggio dall’immigrazione?

  26. Morgagni, ti aiuto: l’ 80% del fabbisogno energetico del Paese in cui vivi e’ di fonte nucleare. Se casa tua va a pale eoliche, quelle di Inglese, Forlani, Veronique e Zaffarano vanno a testate nucleari. L’ideologia e’ una brutta bestia quando non si accompagna alla prassi, sai?

  27. Non partiamo per la tangente nucleare, adesso. A Giusco, il “noi nucleare” sono le democrazie occidentali o mediorientali a bomba atomica buona, conto i regimi non democratici a bomba nucleare (cattiva). Chissà se la bomba di Hiroshima ha fatto meno morti e danni, per il fatto che è stata sganciato da un aereo battente bandiera di stato democratico?

    A Lorenzo,
    Sia ben chiaro, “l’integrazione” io non la auguro a nessuno, e quindi neppure agli immigrati, che poi diventano spietati come certi tizi integratissimi di casa nostra; d’altra parte non auguro neppure la “disintegrazione”, perché di disintegrati nostrani ne abbiamo già tanti. Una normale uguaglianza giuridica e di trattamento sarebbe ampiamente sufficiente.

    Sull’inimicizia dall’alto. Mi sembra miope non rendersi conto del lavoro che da svariati anni certi media fanno intorno a certe figure e a certe situazioni. Io non guardo moltissimo la tele, ma quel poco che guardo mi basta e avanza per rimanare incazzato e schifato per un mese. Ho c’ho il cervello definitivamente rotto, o c’è qualcosa che non va in quello che trasmettono e in come lo trasmettono. Per parlare solo della TV. L’uso della paura è ormai, anche da noi, un dato di fatto sia della politica che dei media: ognuno ne trae il proprio profitto.

    Faccio un esempio, per tutti. Varese. Internet point e centro telefonico, in una zona della città. Di fronte tre panchine, qualche albero. Spesso, seduti i clienti del centro, sopratutto africani (“neri!”). Un bar, un venditore di bici, un lavaggio a secco, ecc. Un giorno sulla “Prealpina”, quotidiano di Varese, esce un articolo narrando del degrado del luogo, del fatto che li è diventata africa, che su una panchina è comparsa un scritta “solo marocco”, che le persone hanno paura a passare di li, e i commercianti pure. Tra le accuse, il fatto che alcuni “dormissero” e altri avessero “messo un tavolo per giocare a carte”.
    Faccio l’inchiesta. Nessun commerciante schifato, tranne uno, fascio. Il quale sostiene che ci sono risse un giorno si e un giorno no. Palesemente falso. Da lui forse parte l’imbeccata per il giornalista, che non aspetta altro. E una volta che sei su stampa: diventi più vero del vero. Ora, Varese è una città che non conosce “problemi” relativi all’immigrazione. Non siamo lontanamente vicini a situazioni che si suol definire di “degrado”. Nessuna tensione reale. E nonostante cio’ qualcuno s’inventa di sana pianta un “degrado”, una paura.

  28. Ingles, e qui chiudo la parentesi off topic… ti ho detto quello che relativamente al mio settore specifico e’ falso; che manchino i dati su cui poggiare altre tue tesi, te l’hanno gia’ detto. A questo punto non so. Esiste una vasta bibliografia su tutti questi argomenti ed ognuno prende e ritaglia quel che piu’ gli piace. E fa politica. Pero’ tu sei uno studioso e dovresti magari giustificare meglio (leggi: con i dati e le rilevanze statistiche) cio’ che proponi, anche su questo sito. A meno che tu stia facendo politica e come dice Morgagni: “Ed io che non me ne ero minimamente accorto!”. Saluti.

  29. Insomma, leggendo il finale di Andrea Inglese: “Quello che si rifiuta nello straniero, è la nostra stessa precarietà, così come ciò che non sopportiamo in lui, è il suo riscattarsi, appena può, nello stesso modo in cui noi ci riscattiamo: con il consumo, con il conforto della famiglia allargata, con le certezza della religione”, René Girard ci entra sempre con la sua teoria dell’invidia, della mimesi e del capro espiatorio.

    Basterebbe allora per risolvere il problema (condivido cmq le indicazioni, le soluzioni socio-politiche di Andrea Inglese) essere dei buoni cristiani, seguendo cioè la rottura che secondo Girard il Cristianesimo impone alla teoria del capro espiatorio. Ma, almeno per me, essere un buono cristiano non è alla maniera in cui la Chiesa ha concepito il suo potere di giurisdizione (Simone Weil), piuttosto abnegare semetipsum. Nessuna adesione a dottrine o lettera, ma affidamento a quell’Uno che riconosce l’illusioretà del molteplice, quindi pure della diversità dello Straniero. La soluzione è religiosa (nel senso originario del suo termine) più che politica. La soluzione è nel riconoscere la sporcizia e l’inferiorità dello psichico. E la superiorità dello Spirito.

  30. Dall’alto viene la manipolazione e l’amplificazione di sentimenti e percezioni che ci sono lì in basso a partire dallo sconcerto di trovarsi a convivere in pochi anni con persone lettarlmente di tutto il mondo e di tutti i colori (qui a Gallarate, per esempio, siamo al 9 % e si va dagli africani di colore ai pachistani alle ucraine agli ecuadoriani, marocchini, albanesi, rumeni ecc…). Xenofobia è termine ambiguo, spesso eufemistico per dire razzismo, ma l’immigrazione in Italia abbia causato xenofobia in senso stretto non lo trovo stupefacente. Ho la sensazione che il salto di qualità che la trasforma in vero e proprio razzismo consensuale sia stato abbastanza repentino, e che in questo gli impulsi dall’alto c’entrano, eccome. Ma questi impulsi, se non sbaglio, hanno cominciato ad attecchire nel momento in cui ha cominciato a farsi sentire pesantemente l’impoverimento di questo paese e dei suoi abitanti e in cui la fiducia di poter uscire da questa crisi è sempre più venuta meno. Questo è un paese alla frutta, frutta marcia per la precisione, in cui se sei fortunato percepisci uno stipendio più basso degli altri paesi europei, altrimenti galleggi fra precariato e lavoro nero. E questo è un paese che a vari livelli necessita dell’illegalità anche al livello minimo, non percepito affatto come criminale, per restare in piedi. E quindi è molto meglio per chiunque dentenga un potere politico ed economico che ci sia l’invasore straniero a fare da parafulmine che la consapevolezza che siamo messi così: pochi ricchi sempre più ricchi e il resto che va sempre più giù. Dont’cry for me Argentina, se va bene.

  31. a giusco
    “ti ho detto quello che relativamente al mio settore specifico e’ falso; che manchino i dati su cui poggiare altre tue tesi, te l’hanno gia’ detto.”
    Non so di che stai parlando. Qual è il tuo settore specifico, quali sono i dati “falsi” e quali quelli che gli “altri” mi hanno segnalato come mancanti? Se ha dei dati sulle questioni sollevate dal post, portali o indica le fonti, ma parla di qualcosa di preciso.

  32. …Quelli che hanno letto milioni di libri
    e quelli che non sanno nemmeno parlare,
    ed è per questo che la storia dà i brividi,
    perchè nessuno la può fermare…

  33. Una ricerca dell’Istat sfata molti luoghi comuni sui reati a sfondo sessuale
    Secondo i dati resi noti dall’istituto solo il 10% delle violenze arriva da stranieri
    Il 90% degli stupri commesso da italiani
    Il rischio maggiore da familiari e conoscenti

    ROMA – Lo stereotipo dello “stupratore medio”, secondo molti italiani, è quello dell’immigrato. Ma la realtà è molto diversa. Il sessantanove per cento delle violenze nel nostro Paese è opera di partner, mariti o fidanzati. E solo in sei casi su cento il colpevole è estraneo alla cerchia familiare o delle conoscenze. Tra questi, non più del dieci per cento viene commesso da persone di origine straniera.

    E’ quanto risulta da uno studio dell’Istat, che ha aperto nella sua sede centrale il Global Forum sulle statistiche di genere. Secondo i dati raccolti, la maggioranza delle violenze più gravi subite dalle donne è dunque domestica: un vero e proprio ribaltamento dei luoghi comuni sulla pericolosità degli stranieri.

    La ricerca è stata effettuata su un campione di donne di età compresa tra i 16 e i 70 anni e si riferisce al periodo tra gennaio e ottobre 2006.

    “Se anche considerassimo che di questi estranei la metà fossero immigrati – ha spiegato Linda Laura Sabbadini, direttore centrale Istat per le indagini su condizione e qualità della vita – si arriverebbe comunque al tre per cento degli stupri, e se anche ci aggiungessimo il cinquanta per cento dei conoscenti, al massimo si arriverebbe al dieci del totale. Dati in totale contrasto con la percezione diffusa”.

    “Nell’immaginario collettivo – continua – gli stupri per le strade sono quasi sempre opera di immigrati. Ma non fare i conti con le statistiche può portare ad orientare in modo errato le priorità e il tipo di politiche”.

    Il presidente dell’istituto, Luigi Biggeri, ha ricordato che l’Istat ha avviato e vuole continuare il processo di riforma delle statistiche ufficiali. L’obiettivo è quello di fare luce sui temi caldi che fanno discutere il Paese e sfatare i luoghi comuni che in certi casi dominano l’opinione pubblica.

    “Ma il nostro lavoro non si ferma qui: dovremo porre l’attenzione anche su altre tematiche come la discriminazione, terreno difficilissimo ma che ormai necessita di essere misurato in tutte le sue manifestazioni”.

    (10 dicembre 2007)

  34. “Vittime collaterali”
    Di Razvan Sulicuc, cosa che non accade quasi mai per chi vive in condizioni come le sue, abbiamo “avuto notizia” alcuni giorni fa: “Il fiume dell’emigrazione scorre impietoso. E qui in Romania non lascia dietro di sé, purtroppo, solo fame di manodopera. La faccia più triste dell’esodo sono le sue vittime collaterali: i sessantamila bambini (dati dell’associazione romena per i diritti dei bimbi) rimasti in patria senza genitori, affidati ai nonni nella maggior parte dei casi, qualche volta a estranei (10%), o altrimenti ( è toccato a trentamila di loro) confinati in orfanotrofio. Razvan Suculicuc, undici anni, non ce l’ha fatta a reggere. Nel febbraio 2006 sua madre è partita per l’Italia alla ricerca di lavoro. Voleva comprare un computer a suo figlio. Un mese dopo lui ha preso un martello, piantato un chiodo nel muro della sua baracca a Cariesti, ci ha appeso una corda e si è impiccato sotto gli occhi del suo piccolo cane. Sul tavolo un biglietto per mamma: “Mi dispiace che ci separiamo così. Per il funerale non c’è problema, ho già lasciato i soldi all’uomo della legna. Cara sorella, resta a scuola. Cara mamma, abbi cura di te perché il mondo è brutto. Tutti, per piacere, abbiate cura del cucciolo.” (Repubblica, 12/11/2007)

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.