Le forme imperfette del turismo della luce
di Christian Raimo
Che cos’è che volevi dimostrare?
Lo spacco sul labbro che continua a restituire sangue
a chi non ricordava neanche
di averne perso così tanto.
Tu una scatola sapiente, chi vince sempre
stando ferma ai giochi dei bambini,
la bella statuina, un due e tre stella,
come quei mendicanti
irlandesi che si piazzano al centro
di un marciapiede del centro,
i cartelli dicono semplicemente “Sto male”, “Ho fame”
e parlano di te: è il loro modo di fare amicizia,
di metterti in pari.
Per questo il mio invito è lungo decenni,
come la luce di una fotografia nella quasi totale
oscurità: per immortalare un atto compiuto
hai bisogno di attendere che sulla pellicola
s’impressioni una quantità sufficiente di aria,
che la ferita si faccia profonda abbastanza
per il tempo che serve a lenirla, per il tessuto cicatriziale
che qualcuno, tua sorella, tua madre,
ti ha appena insegnato a filare.
“Sei un essere senza proverbi”, ecco chi sono,
un disastro da questo punto di vista,
il pupazzo del ventriloquo alcolista,
una sedia piazzata proprio al centro del palco
davanti alla botola vuota del suggeritore.
Tutta la mia cura è – c’è da dirlo? – improvvisazione,
la mia tenacia è l’opposto dell’ossessione,
la stalagmite che si consuma nel suo simmetrico,
e lo nutre, aspirando a una congiunzione futura,
che non è detto che arrivi.
Eppure il giorno del Giudizio, di questo son certo,
è sempre vicino, a un passo. La tua Terra si scalda,
e in questo tepore io mi addormento
spesso come un vecchio, seduto,
tra la polvere di casa e il calore
dei termostati condominiali:
a dicembre non puoi che venire
a trovarmi, qui in casa. Sto solo.
Ho ucciso il maiale per ricavarne
la carne per passare l’inverno.
E messo l’acqua del tè
a riscaldare in una pentola più grande di te.
Come i liceali che si danno appuntamento
per il venerdì successivo a casa di questo
o di quello, mi chiedo se a noi,
a noi in quanto singoli umani, scemotti,
creature, figure di altro, gente da amare
insomma anche senza un motivo preciso,
non basti una volta per tutte
una restituzione di sguardo,
per dirci d’accordo almeno
su un’intenzione immediabile:
le nostre giornate, la coincidenza di vita che abbiamo –
dimmi se ti convince – non è nel suo nucleo
un turismo delle forme di luce?
Non potrei sostituire le domande
che ti faccio chiedendo piuttosto
se lo vedi anche tu, se ti piace,
fermarti a guardare, accostarsi da un lato,
spegnere la macchina e tutto.
Siamo usciti presto, oggi che è giorno di mercato
e la tua migliore amica ha partorito
una bambina che ha chiamato Nina,
che vuol dire Bambina, Piccolina,
come una mamma che a quaranta e passa anni
giochi ancora a far la mamma,
mentre noi ci aggiriamo per regali stamattina,
tra le bancarelle di abbigliamento usato
e vestiti per l’infanzia, giochi che non servono a nient’altro
che a suonare e far le luci, a dire che esistiamo,
e il mondo appresso a noi, ci segue, è un ragazzino imitatore,
fa quello che vogliamo: discutiamo seriamente di come il cancro
si elimini del tutto, alla radice. “Ti ricordi quel tuo amico
che era morto l’anno scorso,
siamo andati insieme al funerale?”
Certo il sole stamattina non scalda ma ghiaccia,
fa spiccare le impronte sgorbiute
della mia faccia sopra il vetro sporco:
una sindone di grasso magistrale.
Il cielo è di una profondità corporea,
intestina, nucleare, un abisso di luce
stratificata e orizzontale, da non poter fissare
stando soli. “Hai visto che cielo stamattina?” “Sì, mi mette paura,
e a te no?”
L’eredità che ho, quella che viene dai braccianti,
morti con lo stomaco schiantato
(troppo sale inglese ingoiato a ogni malanno)
o dai pastori che di questi tempi
vedevano crepare di freddo gli agnelli,
è il mio desiderio. La sigla senza alfabeto.
Quello che passerò ai miei figli da piccoli.
Gli dirò che il criterio con cui ho amato le cose
è sociale, eterno, e alla fine inspiegabile.
La purezza del mio essere vivo,
il mio stesso cadavere misteriosamente amato da qualcuno
che a malapena conosco. La mia voce sul nastro,
che non riconosco. Non puoi liberartene,
a meno di cambiare nome e cognome,
e ricevere in cambio o la vita che è eterna,
o una pensione sull’esistente, con cui per qualche anno
tirare a campare. Gli racconterò della Vergine che dice di sì
quando è il caso di farlo. Dell’Oreb, di Massa e Meriba,
di Dio che passa nel vento e nessuno lo caga.
E dei tre tizi bruciati che cantavano inni
o qualcosa del genere nella fornace bollente.
Di tutti i santi di cui ho parziale e confusa memoria.
Qualcuno è vissuto così, questa è una cosa,
digiunando, umiliato, curando le piaghe
degli altri. Morto appiccicato a una croce.
Che fra tutte le morti, oltre che atroce,
mi sembra anche ridicola, e astrusa.
Detto questo, ti porterò nella solita stanza,
ti chiederò quei cinque minuti che diventano
venti e poi un’ora e poi sempre
per dirti del modo mortale e sbagliato
con cui non posso fare a meno di te,
è vero anche questo, è un dato di fatto.
E poi potrò spegnermi anch’io,
ho fatto quello che ho fatto
la maggior parte non è merito mio,
e accade a tutti del resto.
“Sei un essere senza proverbi”, ecco chi sono,
lascia che sanguini il labbro
lo spacco che unisce
Avrei lasciato solo
le forme imperfette.
Ottime Raimo!
…e accade a tutti del resto
che bellezza.
bacio
la fu
Le ho rilette tre volte.
Un testo bellissimo, Christian: costellato di fulminei, baluginanti transiti di immagini che disegnano radure dove si sosta volentieri, in ascolto: di memorie tenaci come radici che scavano nella sabbia; di un intenso, irrequieto, mai pacificato senso dell’umano; di vita che non cede. E anche quando ci si allontana, rimane netta, appiccicata addosso, la sensazione indefinibile di “essere stati misteriosamente amati da qualcuno che a malapena conosciamo”. Immersi in un respiro che, forse, è lo spazio esatto della poesia.
Complimenti vivissimi. E grazie.
fm
mi fa piangere, grazie. sono al limite del melenso, ma è proprio bella come qualche volta sa esserlo solo il dolore
Ho amato molto l’interrogativo del primo verso. Poi tutti i versi a seguire. Ho visto un uomo che sa dirsi e dire e voglia di dare. Ancora parole per il futuro.
Complimenti
jolanda