La macchina selvaggia, Andrea, il just in time
di Marco Rovelli
La sofferenza umana è uno scandalo. Uno scandalo insensato. Non c’è alcuna nobiltà in questa insensatezza. Non c’è, mai, alcun dolore colpevole. Il dolore è sempre innocente. Il dolore innocente, adesso, ce l’ho davanti. E’ nella voce di Graziella.
Non si può perdere un figlio per novecento euro al mese. Un figlio cresciuto, curato, protetto. Un figlio che mandi alla fabbrica e pensi che la fabbrica continuerà a proteggerlo come lo hai protetto tu. Graziella parla di suo figlio Andrea, morto a ventitrè anni. E capisci subito che in gioco è un tradimento. Tu hai consegnato un essere al mondo, e quest’essere il mondo lo ha cancellato. Ma dire “il mondo” non basta. E’ il mondo del lavoro, là dove l’uomo, fa, crea, produce – è quel mondo il traditore. Tradisce e si tradisce. Tradisce il proprio senso, il più intimo: quello di essere lo spazio dove l’uomo dà prova di sé. E’ nel lavoro che l’uomo si mette alla prova: creando, producendo. E diventando consapevole, magari, che le sue possibilità più proprie stanno nel tempo improduttivo, nel tempo lasciato a sé stesso. (Ma non lo si chiami tempo libero, però, il tempo libero è un’altra menzogna semantica come “morte bianca”: un tempo libero legittima un tempo servo. Quello di cui c’è bisogno, invece, è un tempo liberato). E se è vero che il lavoro è la maledizione della cacciata dal giardino dell’Eden, è una maledizione uguale per tutti. Ogni uomo discendente da Adamo l’avrà sulle spalle. Il lavoro dovrebbe dunque essere lo spazio traversando il quale l’uomo, scoprendosi creatore, si scopre anche uguale. Accade invece che il mondo del lavoro, che dovrebbe custodire queste possibilità di vita dell’uomo, lo rende servo. E la vita di un servo non trova nel lavoro l’espansione delle proprie possibilità, ma diventa una variabile dipendente di un meccanismo che lo trascende.
Doveva essere una fabbrica all’avanguardia la Asoplast di Ortezzano, provincia di Ascoli Piceno. Il nuovo stabilimento era stato inaugurato nel 2003. Un mega capannone di settantacinquemila metri quadrati, quaranta presse da trecento a mille tonnellate in grado di stampare diciottomila chili al giorno di materiale plastico, integrate con robot e linee automatizzate. Il materiale plastico prodotto é sia per l’industria degli elettrodomestici sia per l’edilizia. Doveva essere all’avanguardia. Andrea c’è morto.
E’ stata una macchina tampografica. Una macchina che con la pressione di tamponi siliconici imprime inchiostro su componenti in plastica. Nella fattispecie la macchina che ha ucciso Andrea stampava frontalini per gli elettrodomestici: lavatrici e lavastoviglie Merloni, grande complesso industriale marchigiano. Una macchina che non funzionava. Una macchina impazzita. Ed era impazzita già da qualche tempo, prima di schiacciare Andrea. Ma nessuno si era curato di fermarla. Eppure l’Asoplast dice, nella presentazione che di sé dà sul proprio sito internet, di avere “impianti di ultima generazione, sempre mantenuti al migliore grado di efficenza ed efficacia”. Viene da pensare allora, per sciogliere il paradosso, che quando si dice “efficenza ed efficacia” ci si riferisca unicamente all’aspetto produttivo, e si ometta di considerare quella fastidiosa appendice della macchina che è l’operaio.
La macchina tampografica che ha ucciso Andrea si chiamava Mag 1000. La macchina assassina, dice Graziella. E non lo dico io, continua: Lo dice la magistratura. So che è stata definita macchina killer appena uscita dalla fabbricazione. Lo so perché le indagini le ho seguite, affinché mio figlio non diventasse un numero di fascicolo, come ha detto la madre di Matteo Valente, che è morto alla stessa età di Andrea, ma venisse chiamato col suo nome: Andrea Gagliardoni.
Le indagini le ho seguite, dice, e ho capito. Che quel tipo di macchina dovrebbe avere due sistemi di sicurezza, e quella macchina era uscita dalla fabbricazione con uno solo. Era stata progettata così. E’ stato indagato per omicidio colposo anche il progettista, infatti. Eppure aveva la certificazione di sicurezza. Com’è possibile? Basta una piccola ricerca per capirlo. Secondo la direttiva Cee 89/392 (la cosiddetta “direttiva macchine”), i macchinari che non rientrano tra quelli elencati nell’allegato IV, necessitano solo di un’autocertificazione della ditta costruttrice. E le macchine tampografiche non rientrano in quell’elenco. La Mag System, insomma, ha autocertificato che tutto era norma. Ma non era così, se le indagini dicono il vero.
Non solo. L’unico sistema di sicurezza della macchina era stato rimosso. E più di una volta la macchina era ripartita da sola. Era in standby, ferma – e si era rimessa in moto senza un motivo apparente. E rimettersi in moto, per la Mag 1000, significa far scendere la pressa provvista di tamponi, con una pressione di 8000 Newton. Dove il Newton è l’unità di misura della forza, definita come una forza in grado di imprimere a un chilogrammo-massa l’accelerazione di un metro al secondo per secondo. Diciamola volgarmente: otto tonnellate si schiantavano su ciò che stava sotto alla pressa. Tutto, dunque, era predisposto per l’omicidio.
Il sistema di sicurezza era una paratia in plastica, che sarebbe dovuta scendere nel momento in cui la macchina lavorava, quando i tamponi scendevano sul piano di lavoro dov’erano i frontalini. Il pannello di controllo era distante dal piano di lavoro, per azionarlo occorrevano entrambe le mani, e questo avrebbe dovuto garantire una sicurezza. Se non fosse stato che la macchina si rimetteva in moto da sola. E che la paratia in plastica era stata rimossa, e fissata in alto, sulla macchina.
L’orario di Andrea era articolato su tre turni. Dalle cinque alle tredici, dalle tredici alle ventuno, dalle ventuno alle cinque. Il diciannove giugno, giorno prima dell’incidente, Andrea fa il turno di pomeriggio, partendo da casa poco dopo mezzogiorno, e torna che sono quasi le dieci di sera. Abita a Sant’Elpidio, e per Comunanza ci sono quaranta chilometri. Va a dormire, ma è poco il sonno, ché si deve alzare prima delle quattro, alle cinque ha un nuovo turno. Nonostante le dodici ore di riposo cui ogni lavoratore avrebbe diritto per legge. Alle sei la Mag 1000 ricomincia a dare problemi. Le stampe dei frontalini vengono male. Così Andrea fa quello che gli hanno detto di fare, ossia di guardare gli inchiostri, che stanno sotto la pressa. Mette la macchina in standby e si china sul piano di lavoro. In quel momento la pressa riparte. Le sue otto tonnellate.
Graziella sosta in quell’attimo. E poi, come se ormai abitasse quel vuoto, riprende a dire, E’ stata una morte annunciata. Gli operai li avevano avvertiti, i loro capi. Ma la pressa era rimasta in funzione. Siccome il manutentore specializzato non era disponibile, dice Graziella, era stato chiamato un elettricista del posto a metterci le mani. Ma la macchina aveva continuato a funzionare male.
Non stupisce che la macchina non sia stata fermata. Bisogna produrre per il cliente, e il cliente è Merloni, che deve mandare i suoi elettrodomestici in giro per il mondo. Non è concepibile interrompere la produzione, tanto più in un mercato come quello odierno. Equivarrebbe a fermare la catena dell’azienda committente, nella fattispecie la Merloni, visto che nell’era del “just in time”, della produzione “in tempo reale”, modellata sulle richieste del mercato, i magazzini (che un tempo tenevano scorte di merce per giorni, o settimane) vengono considerati un’aberrazione. Just in time significa proprio questo, che i semilavorati giungono alla linea di montaggio esattamente nella quantità necessaria ed esattamente nel momento in cui se ne presenta la necessità, e la necessità è data dalla richiesta del mercato. I tempi di lavoro, allora, ne risentono traumaticamente, visto che tutto è finalizzato alla consegna rapida del prodotto. E l’azienda fornitrice, come è l’Asoplast nei confronti di Merloni, deve adeguarsi a questi tempi imposti dal mercato, e far fronte con eguale rapidità alla richiesta del cliente committente (e infatti sul sito dell’Asoplast si legge che la sua “politica” è “customer oriented”, orientata sul cliente). E’ come un perenne stato di guerra, insomma, per rifarsi agli scritti di Taiichi Ohno, inventore del metodo Toyota, antesignano di questo tipo di organizzazione del lavoro: “il problema, in un’epoca caratterizzati da bassi margini di crescita produttiva, è battersi per la sopravvivenza”. Come un contagio, come il contagio della paura nello stato di natura immaginato da Hobbes, dove ogni uomo è naturalmente nemico dell’altro, tutto si concatena con una ferocia micidiale.
Ogni mese Graziella torna all’Asoplast a portare un fiore. Dopo qualche mese, vede l’altra Mag 1000 della fabbrica che è tornata in funzione. Ma è diventata irriconoscibile. Una gabbia tutto intorno, con delle fotocellule, e uno spazio minimo di accesso. Come se dentro ci fosse un leone, dice Graziella. Maledetta, dice. Assassina. Bestia. Come se la furia omicida di un dio cattivo, la sua selvaggia mano sinistra, fosse finalmente rinchiusa lì, in quello spazio divenuto sacro, separato una volta per tutte, ma troppo tardi.
Al di là dell’icona, Graziella sa bene che il responsabile – colui che deve rispondere – non è il gesto di una divinità crudele e capricciosa, ma la precisa intenzionalità di uomini in carne e ossa. Di chi l’ha progettata, intanto. Inquisito, dopo che il pubblico ministero aveva richiesto la documentazione alla ditta produttrice, la quale aveva risposto di non averla, e si è reso necessario un blitz per recuperarla. Ma i responsabili stanno anche all’Asoplast. Sia perché non avevano fermato la macchina, sia perché l’avevano comprata. Quella macchina, dice Graziella, aveva un solo sistema di sicurezza, ma tutti sanno che qualsiasi macchinario, anche macchine non letali, come quelle diffusissime nel territorio marchigiano per fare calzature, devono avere tre sistemi di sicurezza. Possibile che all’Asoplast non lo sapessero? Forse l’avevano acquistata solo perché costava meno? Non so, dice Graziella. Però so che dei tre soci l’unico inquisito è stato l’amministratore delegato, che è socio al cinque percento. Gli altri due li ho visti solo a un anno dalla morte. E dall’Asoplast non ho ricevuto nemmeno una telefonata, se per caso avessi avuto bisogno di qualcosa. Eppure alla morte di Andrea mi sono trovata in una situazione economica difficile. Con mio marito che era disoccupato, e il mio piccolo stipendio di collaboratrice scolastica, e la figlia più piccola da mantenere a scuola, e l’unico stipendio che adesso non c’era più. E una casa nuova da pagare. Perchè avevamo deciso di comprare un appartamentino nuovo per Andrea, a metà strada tra Porto Sant’Elpidio e Comunanza. Era già tutto pronto, arredato. Ci sarebbe dovuto andare ad abitare sabato. E’ morto il martedì.
C’è un’altra cosa, poi, che non vorrei sentirmi raccontare da Graziella. Quella che lei chiama “omertà” dei colleghi di lavoro. A parte un ragazzo di una quarantina d’anni, dice Graziella, che è per me come un fratello, gli altri non si sono fatti sentire. E’ venuto qui un giornalista per fare un servizio televisivo, e voleva la testimonianza di qualcuno. Ho telefonato io ai ragazzi che erano più vicini ad Andrea, che avevano lavorato su quella macchina. Uno mi ha risposto, Non mi posso mettere contro l’Asoplast. Un altro ha detto, No, non posso dire queste cose, anche se sono vere. Eppure il giornalista li avrebbe resi irriconoscibili, con la figura oscurata, la voce distorta. Non hanno voluto comunque. L’unico che ha accettato è stato uno che non lavora più all’Asoplast, ha accettato anche se pure lui aveva paura di essere riconosciuto dal nuovo datore di lavoro. E lui l’ha detto, Ho lavorato su quella macchina per un anno, e ricordo che qualche volta era ripartita da sola.
Erano tranquilli, lo avevano riferito a chi di dovere, si aspettavano di essere protetti forse.
Ecco, è solo adesso che capisco veramente il senso di quell’espressione arcinota e usurata che è “coscienza di classe”. La coscienza di essere il soggetto centrale nella catena della produzione, e la relativa pratica solidale di rivendicazione di diritti. Qui, davanti alla Mag 1000, di fronte a questa selvaggia mano sinistra di un dio cattivo, si rende manifesta la sua scomparsa. Quantomeno provvisoria. Paura di parlare, prima e dopo. Paura di prendere la parola, ovvero di essere soggetto. Paura prima, quando si sarebbe trattato di dire “fermiamo la macchina”, e se la macchina non si ferma in nome delle sacre necessità della produzione ci fermiamo noi. Paura dopo, quando si preferisce tacere piuttosto che testimoniare, perché il posto di lavoro oggi è quasi un privilegio, altro che diritto, è una fortuna averlo conquistato, e non lo si può perdere per nulla, e poi tanto Andrea è morto, che ci vuoi fare ormai. Una paura che regna ovunque, perché il lavoratore oggi è per natura precario, nel senso più profondo della parola. Precario, da prece, preghiera. Il lavoro è come una grazia, non più un diritto, e per ottenerlo occorre pregare, implorare, impetrare. E tacere.
E’ da giovani che si impara il silenzio. E la maggioranza dei colleghi di Andrea sono giovani. Molti sotto i trent’anni. Che hanno imparato il mestiere da altri giovani operai, come Andrea, che aveva imparato a gestire la macchina da un operaio che stava lì da due anni. Qualcosa che accade normalmente, nei posti di lavoro: sempre di meno sono gli anziani, quelli che stanno per una vita nello stesso posto di lavoro, e che essendo i depositari dei saperi e delle conoscenze li trasmettono ai nuovi arrivati. E altrettanto normale è che non ci sia una formazione vera: i corsi di formazione sono merce rara.
Ma poi, ancora più a fondo, è forse in corso un mutamento antropologico, che si manifesta nel fatto che tutti danno per scontato che la macchina deve lavorare, anche se è pericolosa. Deve lavorare perché deve produrre e non si può fermare. Deve produrre e non si può fermare perché il cliente aspetta le forniture. E se tu non gliele dai gliele darà qualcun altro e noi perderemo il lavoro. Se dunque non vogliamo perdere il lavoro la macchina deve poter uccidere.
E’ un dato naturale, inquestionabile. Così, giorno per giorno impari a non vedere, e diventa come una seconda pelle. Se il lavoro è un privilegio, la soglia dell’attenzione si abbassa, e non te ne accorgi più. Fino al rovescio.
Sai, dice Graziella, in questa zona sappiamo tutti che la Merloni è potente. Ah, mi ricordo una cosa, la figlia di Merloni sta in politica. L’ho vista baciare un ministro, a Pesaro, sono stati a parlare mezz’ora. A me non aveva dato ascolto, quel ministro. E poi, una cosa mi ha colpito: che il giorno della morte di mio figlio è stato messo sotto sequestro solo un reparto. Il resto della fabbrica ha continuato a lavorare come se nulla fosse successo. Ma ci sono macchinari potenzialmente pericolosi in ogni reparto, chi ci dice che non ci siano stati altri macchinari non a norma?
Per me, dice Graziella, potere economico e politico significa questo: che un operaio muore e la fabbrica continua a lavorare come se niente fosse accaduto.
Per fortuna hanno avuto l’accortezza di farla sparire la macchina, di non rimetterla in funzione. Ho pregati io personalmente l’amministratore delegato, dice Graziella, L’unico che lì dentro conoscevo, e l’unico che mi è stato ad ascoltare, Fermatela quella macchina, non per me, ma per rispetto di Andrea e degli altri operai. Quella macchina che ha spezzato l’osso del collo a mio figlio. Che ha spezzato tutte le trame dei suoi desideri. La chitarra che suonava con i suoi Nervous Breakdown e che adesso lo ricordano con un Andrea Day. La tromba che avrebbe voluto imparare, e che resta sul mobile davanti al computer. Graziella la guarda, e vedo che è come se ad ogni momento dovesse prendere coscienza che Andrea non c’è più. A volte, dice, mi ha fatto da padre, in momenti difficili della mia vita.
Atroce è l’aggettivo che più spesso usa Graziella per dire il suo dolore. L’atrocità di perdere un figlio. L’innaturalità di doverlo accompagnare al cimitero. Un’immagine ricorrente che tormenta Graziella, in cui si condensa tutta l’atrocità: Andrea nella bara, con la testa completamente bendata. Era a pezzi, e avevano tentato di rimetterli insieme. E’ questa ricomposizione che perseguita Graziella. Che ha Andrea così conficcato dentro che cerca di andare al cimitero il meno possibile. Ha deciso che lo ricorda di più lottando per lui. Perché, dice, queste morti fanno notizia, i primi giorni sei presa d’assalto, poi tutto cade nel dimenticatoio. Io Andrea lo tengo vivo così. Con l’onorificenza di “cavaliere al merito” che hanno dato a me ma che in realtà è per lui, con la targa di “marchigiano dell’anno”, ma soprattutto con la mia battaglia. Ho cominciato usando quel computer, dice indicando dietro di sé, nel salotto di casa, Non sapevo usarlo ma ho imparato, e ho cominciato a mandare migliaia di mail. Ai politici, ai sindacati, ai giornali. All’inizio ho avuto risposte per lettera, da parte dei politici, quelle lettere formali che sembrano tutte scritte dallo stesso pugno con solo la firma diversa. L’anno scorso a Pesaro c’era la festa nazionale dell’Unità e tutti i politici passavano di lì. Così sono andata, e tampinavo ogni politico. Li ho costretti ad ascoltarmi. Ascoltare me, che sono una piccola donna dal grande dolore.
Sono una piccola donna, dice, ma sono riuscita a organizzare prima una manifestazione davanti all’Asoplast, poi un convegno sulle morti sul lavoro qui a Porto Sant’Elpidio. E ho partecipato a tante trasmissioni televisive, e in una di queste ho conosciuto i responsabili dell’Anmil, l’associazione nazionale, e con loro, grazie al presidente Mercandelli e a Marinella De Marinis, ho organizzato la manifestazione del venti giugno per l’anniversario della morte di Andrea, per ricordare lui, ma anche tutti i morti sul lavoro. Quel giorno ho avuto un altro dolore, perché dei centoventi operai dell’Asoplast, che pure quel giorno era chiusa, erano presenti solo una decina.
Ho fatto tutto questo perché volevo portare questo messaggio, dice, e mentre lo dice sospira, e la lacrime sono di nuovo per uscire, Che la morte di Andrea non sia stata vana. Che qualcuno riesca a capire che milletrecento morti all’anno e un milione di feriti – è una guerra.
E’ una guerra, dice Graziella, e questi sono martiri – quando sento definire martiri quei ragazzi di Nassiriya, faccio questa analogia: loro sono martiri perché sono morti in guerra, sono andati volontari conoscendo i rischi a cui andavano incontro; ecco, allora mio figlio lo definisco martire perché non conosceva i rischi, quello a cui andava incontro, ma ci andava con il sorriso in bocca tutti i giorni…
Ascolto Graziella, e comprendo. Non accetto quando un politico li definisce “martiri”. Perché lì tratta di dare un senso a un “sacrificio” necessario al trionfo di una causa superiore. Come nel caso dei cristiani nelle arene romane, o come i soldati in una guerra. Ma il lavoro non dovrebbe essere una guerra, e nessuno di quelli sono morti sul lavoro ha mai deciso di sacrificarsi per la causa superiore della produzione, del profitto. Ma qui, adesso, capisco Graziella, e comprendo.
Non è facile, Marco. Solo adesso sto prendendo coscienza che Andrea non c’è più. Per mesi mi ritrovavo a guardare quella porta, e aspettare che Andrea potesse rientrare da un momento all’altro. E ogni volta che uno racconta la propria storia è sempre un coltello che rigira nella piaga. Ma io continuo la mia battaglia. E vorrei riuscire a fare qualcosa di più. Insieme ad altri. Per far finire questa guerra.
Graziella è una donna che soffre e s’offre. Giusto un apostrofo, un piccolo segno di differenza, un pulviscolo. Un apostrofo che è come sostare su una soglia. Offrirsi è rendersi disponibile. Disponibile alla sofferenza. Consegnarsi all’imprevisto. Un respiro di consegna, ma non di resa. Anzi. E’ sporgersi fermamente, saldamente, e orgogliosamente, nel vuoto, aggettando con tutto il proprio profilo e il proprio peso. Consegnarsi all’imprevisto di un dolore che può ricorrere. Alla ricorrenza di un ricordo. Ripercorrere, ogni volta, ancora, gli stessi passi. Gli stessi tracciati della memoria. Una memoria che ogni volta rinnova il dolore, e pure, nello stesso movimento, rinnova la vita. Quella traccia di vita che è restata. Rimasta attaccata alle mani, stretta nel pugno. Un pugno che non si vuole disserrare, ma che tiene stretto il nome del proprio figlio, del proprio parto, del proprio grembo. La sua anima. Quel figlio che adesso è vivo, pur nella sua irredimibile morte, e lo è esattamente in questo interminato offrirsi che significa, ancora, e sempre, soffrirsi.
non serve a niente, ma grazie
mario
“Koriolòv, come medico che giudicava correttamente
dei mali cronici la cui causa originaria era incomprensibile
e incurabile, considerava anche le fabbriche come un
malinteso la cui causa prima era del pari oscura e insopprimibile,
e tutti i miglioramenti nella vita degli operai non li considerava
superflui, ma li paragonava alla cura delle malattie incurabili.”
ANTON CECHOV
E’ vero, martiri del lavoro dovremmo chiamarli, perché ancora non lo si fa?
Questo fatto di cronaca fa paura. Morte sul luogo del lavoro: è la morte la più assurda, senza parlare del suicido: una società che rovina, senza dolcezza: la persona fragile o sensibile è isolato.
Caro Marco,
vorrei dirti che ammiro molto la nitidezza della tua narrazione, la tua capacità di scavare in profondità nei dettagli per costruire un mosaico di immagini che offrono del mondo del lavoro operaio un quadro ben più definito (ben più complesso perchè ben più libero dal giogo delle apparenze) di quanto lo sarebbe lo scatto freddo di una fotografia. Parlo non a caso di narrazione. Ho letto il tuo Lager Italiani e sono rimasta segnata a fondo da questo saper raccontare una storia che va al di là del reportage, dell’inchiesta, della semplice raccolta di dati. Quella che racconti è una storia che sa essere anche Storia. Continua così, ciò che fai è importante. Grazie.
Grazia
@ Mario
Io credo che sapere serva. Più si diffonde l’idea che le morti sul lavoro non sono fatalità, più le probabilità che le cose cambino aumentano.
@Lorenzo
Io non la ritengo un’espressione giusta, al di là dell’emotività di Graziella (che lo fa per, almeno, equiparare la morte di suo figlio a quella degli onorati militari). Martire è colui che muore per una Causa. Qui l’unica Causa è quella della triplice P: della Produzione, del Profitto, del “Progresso” (ma quello del Capitale).
@ Catalin
Bella la citazione, da dove? Incurabili, sì. Finché la Produzione resterà selvaggia, la condizione operaia rimarrà incurabile.
@ Veronique
Non serve dolcezza. Basterebbe un po’ di giustizia.
@Grazia
Grazie.
@marco rovelli
la citazione viene da non mi ricordo più quale racconto di cechov, scritto più di cento anni fa e ancora attuale oggi, nonostante la condizione degli operai sia di molto migliorata.
Anche io ho fatto un pò di fabbrica dopo un’ inutile laurea in giurisprudenza… e l’ unica cosa che ho imparato è che voglio tornarci il più tardi possibile.
Spero solo che diminuiscano un pò i morti, in quei brutti posti, perchè questa carneficina è una vera vergogna.
E’ quello il vero problema della sicurezza in Italia, non la criminalità dei rumeni o dei napoletani ( o non solo…)
bellissimo
leggerti è scoprire l’amore. per l’uomo, per la verità, per la parola viva, poetica, che a molti non piace, che molti preferirebbero trasformare in altro.
leggerti è commozione.
leggerti è sapere che racconti sempre quello che sta in ombra, che è taciuto.
leggerti è sapere che c’è una nuova voce e vorrei tanto che fosse anche un po’ mia.
grazie
arianna
Grazie Marco,per aver raccontato in modo così veritiero e diretto la storia di mio figlio ANDREA. Grazie per essermi stato vicino e per aver fatto conoscere questa cruda realtà….ancora si muore per pochi euro al mese, il DIO PROFITTO prevarica la vita umana, i lavoratori sono solo dei numeri che possono essere facilmente sostituiti.voglio comunque rivolgermi atutti coloro che hanno letto e leggeranno questa “triste storia”: cerchiamo tutti insieme di gridare l’indignazione per queste morti preannunciate, più voci ci saranno più forte sarà il coro e forse qulcuno ci sentirà.
GRAZIE MARCO anche a nome di ANDREA che sicuramente sarebbe orgoglioso del tuo scritto,
Graziella Marota mamma di ANDREA
lascio la mia mail graziella98@virgilio.it
Grazie a Marco Rovelli per il bellissimo pezzo e un abbraccio alla mamma di Andrea per la sua dignità, il suo coraggio e la sua determinazione.