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Genova non è finita 3

genova_g8.JPG
di Blicero

Seguire i processi che riguardano i fatti del G8 di Genova del 2001 è un buon viatico per non dimenticare mai quanto ordinaria sia l’ingiustizia e quanto quotidiana sia la necessità di prendere posizione e di agire sui piccoli istanti che ogni giorno mettono su un piatto della bilancia la tua dignità e sull’altro l’opportunità. Ogni giorno a Genova capita che tu ti renda conto di quanto falsi siano i giornali, e prima ancora i giornalisti, di quanto repellente sia la logica teatrale e superficiale che gli attori di un tribunale interpretano nella loro vita – con alcune pregevoli e ammirevoli eccezioni – o di come la realtà venga distorta durante l’esercizio della cosiddetta giustizia.
So che i miei precedenti interventi su Nazione Indiana hanno cercato di essere meno estremisti e più democratici – come si ama dire oggi – ma esistono dei momenti, io penso, in cui una persona deve scegliere da che parte stare, perché è evidente a tutti che le cose non sono tutte equivalenti, che, come dice anche il Papa, il relativismo è un male incurabile della modernità, e un valore spesso abusato per giustificare ciò che non si ha il coraggio di indicare come sbagliato.

Non fraintendetemi: non è solo frustrazione e fastidio, esistono anche dei momenti di obiettivo tripudio. Quando dopo immani sforzi di mediazione e dopo aver ingoiato giganteschi rospi pur di garantire una partecipazione di massa di 80.000 persone che arrivano con ogni mezzo a Genova per dimostrarti che non l’hanno dimenticata, e che non hanno intenzione di dimenticarsi che poche persone – 25 per la precisione, ma presto sapremo esattamente quanti – sono nelle mire della magistratura come capro espiatorio da offrire alla storia per spiegare Genova, non puoi che gioire.
Non puoi che sorridere e guardare il fiume di persone scendere di nuovo nelle strade di Genova, e lasciarti confondere da quell’inebriante oppioide che è la speranza. Per un attimo pensi che anche i magistrati hanno occhi e cervello e cuore, addirittura lasci sorgere in te il dubbio che il buon senso per una volta abbia la meglio sulla ragione di stato e sulle necessità del potere e della Storia che lo rappresenta. Ti basta tornare in aula due giorni dopo per scoprire che non è così. Ti bastano le facce contratte in una smorfia di disgusto dei pm che chiedono 225 anni di carcere per 25 persone, o il viso rilassato a arrogante di chi difende macellai e aguzzini, ti bastano i dialoghi tra i primi e i secondi che senti di sfuggita fuori dalle aule di tribunale. Ti basta vedere due avvocati che si scannano insultandosi come fossero i peggiori nemici e poi si fumano una sigaretta insieme. Ti basta ascoltare un avvocato che difende un tuo fratello dare del delinquente a un altro tuo fratello, con la famosa logica che racconta che vendersi il proprio vicino di casa è un buon modo per allontanare la propria fine quanto basta per non farsi scrupoli di coscienza.
Perché forse voi non siete abituati a stare in tribunale e allora forse non vi rendete conto di quello che significa: ognuno in un’aula interpreta un ruolo, definito e definibile, che ha i suoi margini anche di eccesso, non solo di moderazione: come se quello che viene deciso da un tribunale non abbia in palio la vita di una o più persone, come se la storia non fosse piena di decisioni e assoluzioni e condanne che fanno ribollire il sangue. L’unico antidoto a tutto questo è quello che ha chi come me, con estremo cinismo o forse con medio realismo, non crede nella giustizia, non crede nei teatrini, e crede che a pochi di quelli che sono protagonisti in quelle aule freghi nulla del senso di quello che fanno.

Ma a voi forse interessa poco questo mio sfogo, anche se, a ben guardare un poco capire come funzionano alcuni dei luoghi determinanti per l’esercizio e il mantenimento del potere, non dovrebbe esservi completamente indifferente, se siete persone intelligenti. E se non siete persone intelligenti mi sono sbagliato e passate pure al prossimo articolo :)
Un breve aggiornamento sui processi è fondamentale. E’ giusto che voi sappiate due o tre cose: settimana prossima il processo più importante per Genova e per noi giungerà al termine. 25 persone verranno condannate o assolte dal reato di devastazione e saccheggio, un reato desueto e ripescato dalle cantine del diritto dai pm Canepa e Canciani per giustificare una richiesta di pena spropositata – 225 anni – e un’operazione terroristica contro la fondamentale libertà di manifestare il proprio pensiero e il proprio dissenso. I giudici Devoto, Gatti e Realini dovranno decidere se pavidamente accettare le scelte dei pm in cerca di visibilità e di libri di storia, o se, coraggiosamente, rispettare non tanto le mie posizioni estremiste, quanto la Costituzione e il buon senso. Basterebbe quello.
Nel frattempo l’unico poliziotto condannato per lesioni nei processi genovesi, l’ispettore della DIGOS di Milano Giuseppe De Rosa, è stato assolto al processo di appello. Era stato condannato a 20 mesi di reclusione per aver partecipato all’arresto illegale e al pestaggio di alcuni ragazzi sabato pomeriggio, tra i quali il minorenne con lo zigomo fuori dalla testa e la maglietta rossa che tutti dovremmo ricordare. La corte di appello lo ha assolto perché la sua identificazione non è certa, perché non basta il riconoscimento che un suo coimputato ha fatto per essere sicuri che quello che manganella nella foto sia proprio De Rosa. Provate a pensare se c’eravate voi al posto suo, quanto ci voleva per condannarvi, e avrete presto fatto i conti con l’emergenza democratica che il nostro sistema sta vivendo giorno dopo giorno.

Nonostante la moralis interruptus dei pm del processo contro i manifestanti, che si augurano che gli eccessi delle forze dell’ordine siano portati a processo e puniti, ma in sei anni si sono guardati bene dal fare alcunché, i processi contro i tutori dell’ordine per le torture di Bolzaneto e i massacri della Diaz vanno avanti, tra mille insidie, piccole scorrettezze e operazioni mediatiche. Seguire i giornali sul processo Diaz, per esempio, rende facile capire come sia tutta una questione di immagine, e che della salute delle 93 persone arrestate – di cui 61 ferite – non interessa a nessuno. Così alle indagini del pm per falsa testimonianza contro ex capo della polizia De Gennaro, ex questore di Genova Colucci e ex capo della DIGOS di Genova Mortola, corrispondono le operazioni speciose degli avvocati delle difese, con telefonate già ampiamente note di vicini di casa terrorizzati dai black bloc che mangiano un panino nella piazza poco sopra la Diaz passati alle radio come dispettuccio da bambino dell’asilo.
Ci vorrà ancora più di un anno per sapere come finiranno anche questi processi, nonostante un anno sia il margine ragionevole per vedere anni e anni di udienze svanire nel nulla con la scusa della prescrizione. E a quel punto, quale sarà la verità se un tribunale non ce la sancirà? Saremo costretti tutti, anche i paladini delle istituzioni a riscoprire il senso delle parole storia sociale e organizzazione dal basso? Speriamo di sì.

à la prochaine.

9 COMMENTS

  1. Faccio notare che purtroppo (e capisco benissimo i problemi di gianni che si occupa di pubblicare i miei interventi su nazione indiana) il pezzo esce quando le sentenze sono già state emesse: 110 anni di carcere con il contentino della richiesta di indagine per falsa testimonianza di due poliziotti e due carabinieri che hanno testimoniato il falso durante il processo (non sono i soli ma sono i più clamorosi).
    A proposito di questa sentenza io vi lascio con il comunicato di supportolegale e con un pensiero molto banale: non è tutto uguale, nonostante in molti cerchino di relativizzare le cose, in politica in particolare non è tutto uguale. Bisogna scegliere da che parte stare e scegliere cosa si vuole e cosa non si vuole. Io dei contentini non so che farmene, e non mi ripagano degli anni di carcere che dovranno farsi persone che come me e come molti altri hanno scelto di avversare lo stato di cose presente, con ogni mezzo necessario.
    Le parole di uno degli imputati sono molte belle e valgono la pena di essere lette

    à la prochaine

  2. L’unica giustizia che non sia puro suono, vuoto di significato, è quella che si effettua nella libera repubblica del mio corpo.
    ciao, erri

  3. caro blicero ho seguito con attenzione e gratitudine i tuoi pezzi. Perché genova 2001 ancora mi disgusta e mi rivolta. E perché ho continuato a sperare che alla fine qualcosa le forze dell’ordine avrebbero dovuto pagare alla giustizia. E le notizie che ci dai purtroppo riducono di molto questa speranza. Ma ho due osservazioni da farti. Tu ad un certo momento dici:

    “L’unico antidoto a tutto questo è quello che ha chi come me, con estremo cinismo o forse con medio realismo, non crede nella giustizia, non crede nei teatrini, e crede che a pochi di quelli che sono protagonisti in quelle aule freghi nulla del senso di quello che fanno.”

    Io qui ci vedo un vecchio problema, che è comune a molti compagni. Nel momento in cui uno, portando la coerenza all’estremo, non crede nella giustizia istituzionale, in quanto (spesso… quasi sempre) giustizia di classe, allora non ha più nulla da rivendicare rispetto ad essa. Quindi non dovrebbe neppure sperare e interessarsi al teatrino dei processi ai poliziotti. Si tratta cero di una contraddizione da cui non si scappa, ma non vedo come uscirne proclamando di sentirsi completamente estranei alla giustizia nel suo normale funzionamento.

    ” E a quel punto, quale sarà la verità se un tribunale non ce la sancirà?”
    I tribunali non dovrebbero sancire “la” verità, ma realizzare un minimo di giustizia, rispetto a delle leggi esistenti. La verità su genova già la sappiamo. Sulle provocazioni della polizia di via Tolemaide, sulla non giustificata legittima difesa di Alimonda, sulla mattanza della polizia nel grande corteo di sabato, e alla Diaz, sulle torture a Bolzaneto. Sappiamo tutto. Non è certo una sentenza che ci aprirà gli occhi. Cio’ che manca non è la verità, ma la giustizia. Non sappiamo ancora chi siano i colpevoli, i maggiori responsabili, chi i mandanti, chi gli esecutori. E nel caso lo sapessimo, non sappiamo se verranno puniti.

  4. …c’è anche l’altra verità: gente che sfoga le sue frustrazioni spaccando vetrine, mettendo a ferro e a fuoco una città, assaltando mezzi della forza pubblica. ma questa sembra un’altra storia…

  5. Io sono Franco Montini.

    “So che i miei precedenti interventi su Nazione Indiana hanno cercato di essere meno estremisti e più democratici – come si ama dire oggi – ma esistono dei momenti, io penso, in cui una persona deve scegliere da che parte stare”

    Sì, una persona deve prima o poi anche scegliere di mostrarsi. Se non ti mostri non sei, se non sei non puoi stare da nessuna parte.

    Chi sei?

  6. blicero, da indymedia ai blog individuali?
    perchè i link di parole, di informazione si trovano sui blog personali?
    non ha torto Erre a chiedere chi sei.
    poi, massimo rispetto per il lavoro di Supporto Legale e massima rabbia sul revisionismo di Genova.

  7. Beh, a quanto pare i fatti di Genova non hanno poi insegnato molto.

    Copio-incollo lettera di un ragazzo cagliaritano pubblicata quest’oggi sul blog di Jack Folla:

    “Mi chiamo Riccardo Caria, ho 26 anni e vivo a Cagliari. Venerdì 11
    gennaio 2008, come spesso accade, ho deciso assieme ad un amico (Mattia
    Sanna, 21 anni, di Cagliari anche lui) di andare al cinema. Una serata
    qualsiasi. Finita la proiezione, io è Mattia decidiamo di andare a
    mangiare qualcosa prima di tornare a casa, visto che il giorno dopo
    avremmo dovuto studiare. La scelta, come sempre, cade sulla pizzeria
    Tre Archi in viale Diaz, anche perché avevamo saputo che altri amici si
    trovavano in quella zona. Tutto ciò accadeva poco dopo le 23. Arrivati
    nel luogo stabilito, la macchina viene parcheggiata nel parcheggio
    della banca CIS. La stessa sera a Cagliari era in programma una
    manifestazione davanti alla casa del governatore Renato Soru, per i
    fatti legati ai rifiuti campani direzionati verso la Sardegna. Non
    possiamo non sentire gli schiamazzi, vedere il dispiegamento di auto
    della polizia, notare il fumo proveniente dalla collinetta di viale
    Bonaria (dove abita il governatore). Incuriositi, decidiamo di
    avvicinarci un poco e vedere cosa realmente stia accadendo.
    Attraversiamo il parcheggio, che come ogni cagliaritano sa bene è molto
    grande, e arriviamo all’inizio di viale Bonaria. Qui ci sono tanto
    altri giovani e non, esponenti del mondo politico sardo, giornalisti,
    mezzi della polizia, e quant’altro. In una via laterale si notano i
    cassonetti rovesciati. Un lacrimogeno viene sparato, si sentono le
    detonazioni delle bombe carta, arriva qualche petardo; il gas inizia a
    riversarsi verso noi, quindi ci allontaniamo.

    Bisogna tenere ben presente che dal luogo in cui ci trovavamo noi (ai piedi della
    collinetta) non si vede la casa del governatore, quindi è ben facile
    immaginare quanto distanti fossimo dall’abitazione, luogo dove erano in
    atti scontri fra teppisti e forze dell’ordine. Attraversiamo nuovamente
    il parcheggio della banca CIS e ci fermiamo sul marciapiede che si
    trova di fronte alla “Sicurezza Notturna”, quindi in viale Diaz; di
    fatto siamo all’ingresso del parcheggio. Li non era accaduto nulla,
    siamo molto lontani dagli scontri, non ci sono teppisti e nemmeno
    persone, eccezion fatta per tre giovani che poco dopo si avvicinano
    dalle nostre parti; sono una ragazza e due ragazzi. Restiamo li a
    guardare, increduli, allibiti per quanto stava accadendo, dal momento
    che a Cagliari una cosa simile mai l’avevamo vista. Passano circa dieci
    minuti, siamo tra le 23,30 e le 23,45: da viale Diaz direzione viale
    Poetto arriva un Land Rover corazzato della polizia, una camionetta
    bella capiente. Subito dopo vediamo arrivare uno schieramento di 10-15
    agenti in assetto antisommossa, quindi con casco, scudo e manganello.
    Mattia mi dice “Guarda, arriva la polizia in tenuta. Stanno andando a
    prendere i teppisti. Finalmente!”. Io ricordo di aver pensato che
    siccome li non era in atto alcuno scontro, probabilmente la camionetta
    era entrata all’ingresso del parcheggio per prelevare gli agenti e
    portarli verso gli scontri. Poi da li tutto è successo velocemente, è
    difficile anche spiegarlo a parole. Gli agenti hanno accelerato il
    passo e sono corsi verso uno dei ragazzi che si trovavano a pochi metri
    da noi, lo hanno afferrato e hanno iniziato a trascinarlo verso la
    camionetta dandogli delle manganellate molto forti. La ragazza si
    dispera e grida “No, lasciatelo! E’ il mio ragazzo, non ha fatto
    nulla!”. Tempo due secondi e gli agenti le sono addosso, riservandole
    lo stesso trattamento che avevano avuto pochi secondi prima col suo
    ragazzo. Contemporaneamente afferrano e picchiano anche il terzo
    ragazzo.

    Ripeto, tutto ciò è successo molto velocemente, quindi non c’è
    nemmeno stato il tempo di pensare. E infatti io sul momento non capivo
    cosa stesse accadendo, mi sembrava impossibile. Istintivamente ho
    alzato le braccia in aria per dimostrare che ero li con intenzioni
    pacifiche, non ero una minaccia e non avevo fatto nulla. Anzi, a dirla
    tutta ero li per mangiare una pizza! Ma ciò non è valso a niente, visto
    che sono stato afferrato per il collo da un agente molto più alto e più
    grosso di me. Prontamente gli ho detto “Non ho fatto niente, non ho
    fatto niente, non c’entro nulla, ho la macchina parcheggiata qui!”. Non
    è servito a niente, l’uomo mi ha colpito col manganello e trascinato
    via, anche se non facevo resistenza per non peggiorare le cose. In
    compenso ho ricevuto degli insulti dall’agente, e mi intimava con delle
    bestemmie di camminare. Trascinandomi mi sbatte contro un palo e
    continua a spingermi per farmi andare verso la camionetta. Sul momento
    ho pensato che forse volevano soltanto fare dei controlli, che non ci
    avrebbero fatto altro male se non avessimo opposto alcuna resistenza,
    ma sulla soglia della camionetta ho capito che non sarebbe affatto
    andata così: i ragazzi prelevati prima di me iniziano ad essere presi a
    calci e a manganellate sempre più forti e frequenti, vola anche qualche
    sberla. A me succede la stessa cosa, prendo botte un po’ dappertutto e
    in particolar modo nella schiena. Gli insulti continuano senza sosta.
    Cercavo di spiegare le mie ragione, ma non vengo ascoltato da nessuno;
    anzi, si inferociscono ancora di più, se è possibile. Veniamo fatti
    sedere e cerco di restare calmo. Mattia non è più con me, non riesco a
    vederlo, penso che forse è riuscito ad andare via. Io mi auguro che sia
    andata così. Ma poco dopo viene portato anche lui sul mezzo e posso
    distinguere chiaramente almeno 5 agenti che si accaniscono sulla sua
    schiena con calci e manganellate. Salta subito all’occhio l’espressione
    di dolore sul suo volto. Lo afferro prontamente per un braccio e lo
    faccio sedere dietro di me, per metterlo un po’ al riparo. Si fa largo
    intanto la voce disperata della ragazza, che implora gli agenti di
    smetterla con la violenza. Gli agenti chiedono al poliziotto a bordo di
    restare a fare la guardia a noi e lui risponde affermativamente. La
    ragazza continua ad implorare perché cessino le botte. Il poliziotto è
    un ragazzo, sembra il più umano di tutti, ci dice che adesso c’è lui
    qui con noi e non verremo più picchiati. In effetti non ricordo di
    averlo visto picchiarci neppure prima.

    Senza pensarci mi alzo in piedi e inizio a spiegare all’agente che noi
    siamo brave persone, siamo li solo per mangiare qualcosa e non c’entriamo
    assolutamente nulla con gli
    scontri, abbiamo la macchina parcheggiata li vicino e siamo li per
    quello. Ricordo anche di avergli detto che io non sono un contestatore
    delle forze dell’ordine, che se la sono presa con le persone sbagliate.
    L’agente allora risponde che quando ci sono simili disordini dobbiamo
    fuggire via. Io allora gli ripeto nuovamente che siamo li soltanto per
    mangiare, che gli scontri sono avvenuti molto lontano dal punto in cui
    noi ci trovavamo e lo invito a guardare tutti i locali e le pizzerie
    che in effetti ci sono in viale Diaz. L’ho fatto perché gli agenti
    avevano un accento tipicamente romanesco, quindi ipotizzavo che
    potessero non conoscere bene quella zona della città. A quel punto
    anche gli altri ragazzi iniziano a parlare con l’agente, francamente
    non ricordo nemmeno cosa si sono detti, ma suppongo le stesse cose che
    avevo già detto io, più o meno. Nel frattempo fuori dalla camionetta
    inizia ad arrivare della gente, probabilmente allibita da quanto stava
    accadendo. Un signore si avvicina al finestrino e chiede all’agente se
    quello che stava accadendo fosse giusto, che noi avevamo ragione, che
    dovevano lasciarci andare. Ma noi non avevamo ragione, non eravamo li
    per avere ragione di qualcosa, eravamo li semplicemente per mangiare.
    Sta di fatto che l’agente fa passare pochi minuti, dopodichè chiama i
    colleghi, gli dice che siamo bravi ragazzi e che è il caso di farci
    scendere e mandare via. Inizio allora a chiedermi “Ma come, non ci
    controllano neppure i documenti? Eppure essere caricati su un mezzo
    equivale ad un arresto! Ci hanno arrestati senza una ragione,
    malmenati, umiliati e neppure fanno un accertamento?!”.

    Lascio a voi le
    valutazioni circa i miei diritti violati o meno. Comunque sia, le porte
    della camionetta si aprono e veniamo fatti scendere. Ma non con i modi
    di chi ha preso un granchio, bensì con calci, ulteriori manganellate,
    urla, minacce, e bestemmie che devono essere arrivate fino alla vicina
    basilica. Siamo fuori, ci allontaniamo da li. Scambiamo due veloci
    chiacchiere con i nostri compagni di sventura, dopodichè fuggiamo a
    razzo da li. Mattia rimugina di non aver preso il numero di targa, ma
    onestamente era impossibile farlo in quel clima. In ogni caso era l’
    unica camionetta in giro, sarebbe facile identificare i responsabili.
    Ci dirigiamo all’ufficio denunce di via Nuoro e li troviamo un ragazzo
    con la testa spaccata da una manganellata, accompagnato da un amico.
    Ora non voglio sbilanciarmi, ma neppure con tutta la fantasia di
    questo mondo quel ragazzo poteva passare per un delinquente. La serata
    si conclude così, con me e Mattia che ancora non riusciamo ancora a
    mettere a fuoco un avvenimento troppo assurdo per essere vero. Noi
    picchiati dalla polizia. Solo un’ora prima avrei preso per pazzo
    chiunque potesse dire una cosa simile. Il giorno dopo andiamo al pronto
    soccorso per farci visitare. Li conosciamo un uomo che è stato
    picchiato per aver cercato difendere la moglie, che immobile e senza
    motivo alcuno stava venendo manganellata selvaggiamente dagli agenti.
    La sera abbiamo conosciuto la moglie, ed era più bassa ed esile di me,
    che non sono certo un colosso. Al pronto soccorso accertano il
    pestaggio. La prognosi di Mattia è di 2 giorni, la mia di 3. La sera
    abbiamo parlato con un giornalista dell’Unione Sarda e abbiamo
    raccontato i fatti. Oggi, domenica 13 gennaio, sono usciti i nostri
    nomi in un trafiletto, ma non viene certo ben spiegata la dinamica dei
    fatti. Ho come l’impressione che la stampa stia facendo molta
    confusione su questa faccenda, selezionando quali notizie riportare e
    quali no. Si sostiene ad esempio che gli agenti abbiano semplicemente
    fatto un cordone davanti alla casa del governatore, ma la mia vicenda
    dimostra senza alcun dubbio che questo è falso, visto che noi siamo
    stati picchiati molto lontano da li. Si sostiene anche che alcuni
    partiti abbiano incoraggiato i disordini, ma chiunque fosse li non
    poteva non notare che gli attacchi erano rivolti alle forze dell’
    ordine. I teppisti erano degli ultrà e non avevano intenzione di
    assaltare casa Soru, bensì creare disordine e cercare lo scontro delle
    forze dell’ordine. Cosa che avviene sia se si verifica una
    manifestazione di questo genere, sia se l’Italia vince i mondiali. Era
    poi ben facile individuare i teppisti: avevano il volto coperto,
    colpivano e fuggivano. Mi chiedo come le forze dell’ordine possano aver
    colpito in maniera così indiscriminata pur essendo abituate ai
    tafferugli da stadio, dove i teppisti si riconoscono senza troppa
    fatica. Mi pare abbastanza logico che i teppisti fossero quelli a volto
    coperto che scappavano e non quelli a volto scoperto che restavano
    immobili perché innocenti e per permettere agli agenti di svolgere al
    meglio il loro dovere. La contestazione violenta non ha avuto
    assolutamente nulla di politico, io ho visto e posso assicurare che era
    un classico fenomeno di ultrà, al quale siamo tristemente abituati. Il
    questore parla di un finanziamento ai teppisti. Io non voglio fare
    valutazioni politiche, non è questo il senso della mia testimonianza;
    ma mi chiedo quale sia il nome e il cognome del fantomatico
    finanziatore: ho visto coi miei occhi molti esponenti del centrodestra,
    alcuni con le mogli e non credo le avrebbero portate se avessero saputo
    cosa doveva accadere. Allo stesso modo è assurdo pensare che il
    finanziamento provenga dal centrosinistra, non avrebbe senso. Quindi
    chi? Forse il presidente Cellino voleva togliere di mezzo un
    personaggio più popolare di lui? O più semplicemente il questore non sa
    come giustificare quello che hanno fatto i suoi uomini? Questa
    testimonianza è fatta per farvi capire cosa veramente è successo
    venerdì notte. Certo, qualcuno dubiterà, qualcuno penserà che se la
    polizia mi ha fatto quello che mi ha fatto evidentemente me la devo
    essere cercata in qualche modo. Ma la verità è questa, le cose sono
    andate così ed è questo che dovrebbero dire i giornali e non fanno.
    Sono pronto a querelare la polizia e a combattere in tutte le sedi e in
    tutti i modi, non tanto per il pestaggio squadrista che ho subito, ma
    perché mi sento profondamente umiliato da questo abuso di potere,
    trattato come un teppista e mandato via a calci, calpestando in ogni
    modo la mia dignità. Il presidente Soru tira in ballo la solidarietà
    citando la costituzione. Dovrebbe però ricordarsi che la costituzione
    garantisce anche i diritti fondamentali dell’uomo e questi sono stati
    calpestati in un modo che fa invidia ad una dittatura. Non ce l’ho con
    i poliziotti, come ho detto sono sempre stato dalla loro parte e sono
    fermamente convinto che facciano il loro dovere eseguendo gli ordini.
    Il problema è chi questi ordini li impartisce. In linea di massima le
    disposizioni hanno carattere nazionale, poi a livello regionale si
    decide meglio come attuarle. Quindi se volete si può vedere un concorso
    di colpe tra poteri tanto facili da individuare che eviterò di citarli.
    Questa testimonianza spero abbia la massima diffusione in modo che
    tutti possano conoscere i fatti di quel venerdì. Non ci sono
    valutazioni politiche, non è nemmeno questione se sia giusto o no
    portare l’immondizia altrui in casa nostra. Il punto è che chi ci
    dovrebbe proteggere ci ha massacrato di botte senza una ragione. Non
    possono però tapparci la bocca e la diffusione via internet credo sia
    il metodo più efficace, quindi faccio affidamento su ognuno di voi,
    ringraziandovi anticipatamente.

    Riccardo Caria, noto Ricky.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Nel 2011 il romanzo noir I materiali del killer ha vinto il Premio Scerbanenco. Nel 2018 il romanzo storico Come sugli alberi le foglie ha vinto il Premio Bergamo. Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.