Scriverei anche di un sasso
Franz Krauspenhaar intervista Cristina Annino
Cristina Annino è una bionda bellezza matura che ricorda le eroine hitchcockiane, è una toscana che dice quello che pensa non per vezzo ma per imposizione del benigno demone del suo carattere, soprattutto è una poetessa importante. E se dico importante non voglio dire che ha il petto colmo di medaglie al valore e onorificenze al merito, ma perché il suo lavoro letterario, pur poco conosciuto per varie ragioni, ha inciso e incide, se le si da la giusta attenzione, se insomma ci si sofferma a leggerne con la necessaria partecipazione i brani, gli episodi, i capitoli. Cristina è un’artista che ha maturato lungamente la sua poesia e nell’età di una giovane maturità, l’età di quando si capisce – se si ha la fortuna di non aver perso la bussola prima – chi davvero si è nel mondo, è arrivata a un passo da un riconoscimento che le è stato negato, sostituito da un silenzio che lei contribuisce ad alimentare. Anche qui non per vezzo o per rabbia o maledettismo, ma per rapporto con la vita, per indole prepotente anche nei confronti del proprio onnivoro self. Se molta gente è spontanea nelle sparate, Cristina può essere ancora più spontanea nei silenzi.
Amata artisticamente da Giovanni Giudici e Franco Fortini, fu a un passo dall’uscire con la Einaudi nell’84 con una sua raccolta, ma le storie dell’editoria e degli scrittori sono spesso strane, i percorsi impervi ancor più che faticosi; e certi finali letteralmente assurdi, deliri ioneschiani ma collettivi. Per Fortini la Annino era “la più grande poetessa italiana”, ma questo, al mondo un po’ canagliesco e angusto delle patrie lettere, non bastò. Anche Guido Almansi si diede da fare per trovare un editore, in questo caso, ai racconti, ma poi non se ne fece nulla. La Annino dice spesso, con grande onestà, che la colpa di tutte queste false partenze fu anche sua, per aver lasciato perdere Porta come agente e “Sgarbi come ‘folle’ estimatore” delle sue poesie. Grazie alla grande stima di Giudici vince a ogni modo il premio Russo Pozzale.
Ma è il “sapersi muovere”, forse. Il guadare a vista, più che il navigare. E’ il dire fare frequentare in rima e in versi liberi, anzi ancor meglio nella prosa più prosastica che c’è a disposizione delle bocche. La ricerca critica è di grandi giovani, ed è naturale e giusto, io ritengo; ma ricercare i grandi vecchi dispersi (intendo in senso artistico) dovrebbe essere allo stesso modo compito principale dei critici, che invece, spesso, seguono il correntone amicale e delle frequentazioni, il giro “romano” o “milanese” o “fiorentino”, per la pesca uggiosamente miracolosa dell’amico degli amici, in questo inveterato gioco di ruolo che è la letteratura. La letteratura è, in modo surreale, arte orale, cioè di chiacchiera, e spesso di chiacchiericcio, su basi scritte. Della letteratura, più che leggerne le fasi e le occasioni e le accensioni, insomma le parole-pane, si chiacchiera, blatera, sputa, vomita, ci si droga con roba spesso tagliata male. Repechage del sempre e comunque bello, questo bisognerebbe fare, che anche il mondo, per nostra cronaca, come la poesia, non ha proprio età.
Cristina è di Arezzo, si è laureata in Lettere Moderne a Firenze e ha esordito nell’anno di grazia 1968 con Non me lo dire, non posso crederci, edito da Techne di Firenze. Del 77 è Ritratto di un amico paziente, edito da Gabrieli. Nel 79 esce per Forum di Forlì il romanzo Botler. Poi, nell’ 80, Il cane dei miracoli, Bastoni, Foggia. Nell’84 esce L’udito cronico in Nuovi Poeti Italiani n.3, per Einaudi. Pubblica in Spagna La casa del loco nell’87, per Huerga e Toda la ciudad al teléfono per le Edicciones Arràyan. Dell’87 è Madrid, Corpo 10, Milano. Poi, dopo parecchio, Gemello Carnivoro (2001) Faenza, e Macrolotto (2002) Prato, con Ronaldo Fiesoli.
Tante partecipazioni in antologie, con Garzanti, Einaudi e collaborazioni con riviste italiane e estere.
Di lei si sono occupati, oltre a Fortini, Almansi e Giudici, Elio Pagliarani, Walter Siti, Milo de Angelis, Franco Loi, Luigi Baldacci e molti altri. Nei primi mesi del 2008 uscirà l’ultimo libro di poesie, dal titolo Casa d’aquila. E sta lavorando al prossimo.
La sua poesia è una vertigine. E’ sempre scoscesa, sempre sul precipizio morbido di un dire che sembra uscire con la surplace di un Maspes al Vigorelli. Per me la Annino è come se scrivesse in sogno; le sue immagini dicono, esprimono ciò che è la nostra vita nel sogno. In pratica – e in grammatica – la sua poesia io la sento e la vivo come un precipitato di sincerità assoluta (se può esistere la sincerità assoluta), proprio perché sembra uscire da una sorta di verbalizzazione dei sogni. Niente a che vedere con la scrittura automatica: i suoi versi sono sequenze pensate e ripensate, ma senza castranti indottrinamenti del superio; è come se la Annino scrivesse tramite un proprio medium addormentato in un sonno estremamente vigile, che le guida la mano sulla penna o sulla tastiera.
Addormentare ciò che si è nel dovere, e ciò che si dovrebbe essere per logica; quest’operazione muove la poesia più vorticosa e immaginale, muove le onde visionarie di molti dei migliori versi concepiti. Attraverso questa operazione inconscia che io leggo nelle opere della Annino avviene il miracolo, per converso, di un risveglio alla cattura del mondo visto con una lente più potente; come se il poeta si fosse fatto una scorpacciata di funghi allucinogeni per dilatare le potenzialità della sua coscienza. Piuttosto però che allucinazioni, molte immagini di Cristina Annino sono delle lucide espansioni della realtà. Nella sua poesia la realtà esiste in tutta la sua crudezza, talvolta; ma, nel bene e nel male, essa viene proprio espansa, le viene aggiunto davvero l’additivo indispensabile alla letteratura per essere valore aggiunto alla vita, quello di un’espansione. Non è mai infatti la rappresentazione della realtà l’obiettivo che la letteratura – in prosa e poesia – si dovrebbe dare, ma la sua espansione, dilatazione, in uno streben inesausto. In questo senso, questo “io” di Cristina -maschile- e dunque, per gender d’appartenenza della stessa, asessuato, è l’io non tanto, o almeno non soltanto della poetessa, ma dell’obiettivo focalizzato della sua scrittura. Il suo io è, in parole povere, proprio la sua poesia, come se essa stessa avesse preso la mano alla sua artefice e ne fosse in maniera potente la portavoce plenipotenziaria sulla pagina.
Qui su Nazione Indiana abbiamo pubblicato due scelte credo significative della sua produzione che vi invito a leggere o rileggere qui e qui. In più, è presente in rete in versione integrale la sua raccolta Madrid dell’87, presso la Biagio Cepollaro E-dizioni.
Cristina, cominciamo, in maniera lineare, con l’inizio. Come hai iniziato a scrivere poesie? Quando è successo? Io mi immagino te, Cristina, che scrivi fin dalla più tenera età. Neanche indecisa tra i disegnini fatti con le matite e la poesia.
Ho iniziato presto, come accade a molti poeti. Il divertente è che tale precocità mi permise poi di studiare, nelle scuole elementari e medie, poco e male, e addirittura di avere un ginnasio quasi regalato. Mi compravo infatti i compiti in classe dai compagni bravi che subito venivano ripagati da me con dei loro ritratti in versi. Anche se inventati sul momento, erano sorprendentemente richiesti. Per gli orali potevo contare sul piccolo “rispetto” che maestri, professori e vari presidi avevano nei miei confronti. Questo è stato un addestramento alla scrittura fantastico. All’università la musica è cambiata, ma ormai pubblicavo già ufficialmente.
Non mi ricordo i disegni, certamente ne ho fatti, come tutti i bambini. Le bambole non le gradivo molto. Mi estasiava invece guardare gli animali e salvarne quanti più potevo, fossero topi o splendidi ranocchi, che molto spesso portavo a casa. Beh, ogni infanzia è ricca di aneddoti strambi; lo è stata, fortunatamente, anche la mia.
Mi parli dei temi delle tue poesie? Su cosa giri attorno, prevalentemente? Da cosa sei ossessionata? Io un’idea ce l’ho, ma vorrei che fossi tu ad aprire il varco.
Grazie a questo lungo tirocinio, credo che riuscirei a scrivere di qualunque cosa, anche di un sasso. Del resto, quand’ero bambina, mia madre, per gioco, mi dava foglio, penna, e poco tempo, dicendomi di guardare qualunque cosa e di scriverci sopra una poesia. Io guardavo il muro, per esempio, e scrivevo di quel muro; e così via. Senza “committenza”, e fino ad oggi, per rispondere alla tua domanda, posso dire che mi interessano soprattutto le persone, qualunque individuo con cui anche casualmente entro in contatto. Ascoltare le loro vite. Vi intravedo, come penso accadrà a tanti altri, la storia dell’ intera umanità, flora, fauna comprese. Ecco, prendo quella parte di mondo della gente che mi interessa e la stravolgo col mio mondo. In certo qual modo, continuo ancora a fare ritratti, nel senso che rispetto sempre la verità dell’individuo, anzi, è quella che mi da il via. Per dirla più seriamente, e allargando un discorso di poetica, ritengo (e mi è capitato di dirlo più volte) che si possa scrivere raggiungendo un certo livello, solo se abbiamo dentro un universo già poeticamente strutturato. Mi spiego. Se uno non convive, nel proprio quotidiano, con lo stesso sistema metaforico che poi immette nella comunicazione diciamo sociale della scrittura; se non riesce a parlarlo, anche dentro casa, il suo “latino”, non diventerà mai un gesuita né un poeta vero. La propria visione del reale spesso può aver poco in comune con quella visibile, ma se il poeta riesce, nei limiti di una certa comunicabilità, a sostituire l’ universo suo a quello reale, a rinominare ciò che tocca e condividerlo con più individui, egli avrà fatto poesia. Altrimenti si tratterà di cultura, letteratura, o bravura solo tecnica che non genera niente. Tutto è già stato generato, basta raccattarlo per strada, tanto per intenderci.
L’io, quando è troppo presente, mi infastidisce, preferisco non parlare di me stessa in maniera diretta; spesso succede, è ovvio, e in questi casi, cerco di rendere il mio io il più possibile corale o ironico. Può accadere poi che sia la strutturazione di un libro a presupporre componimenti biografici. Una cosa è certa: non uso mai il tu generico, tipico della tradizione, e non solo ermetica. Lo trovo di una facilità banalizzante, troppo musicale, quasi ruffiano. Se mi interessa un certo individuo, o assumo in prima persona la sua situazione psicologica, o faccio parlare la persona stessa, mettendone a volte anche il nome. Tutti gli uomini o donne sui quali ho scritto e scrivo esistono, non invento mai nulla.
Per quanto riguarda le mie “ossessioni”, dopo l’individuo, c’è l’altra realtà parallela, per me di grande significato morale e spirituale, quella cioè rappresentata da ciò che volontariamente e con commovente stima, chiamo le bestie.
Tu sei un’artista che ha viaggiato. Non vivi nemmeno nella tua terra d’origine, la Toscana, perchè stai a Roma. Che mi dici del viaggio, e in particolare della Spagna, un paese per te particolarmente importante? E molto di questo lo testimonia la tua raccolta Madrid, dell’87.
Ho viaggiato, sì, ma non tanto, rispetto ad altri. Del resto, il viaggio come spostamento geografico è un procedimento tecnico. Meglio dire che ho riportato me stessa, e molte volte, nel luogo di una mia appartenenza psicologica: la Spagna. In quegli anni, quelli del viaggio intendo, questo paese era come la gigantografia delle mie metafore, mi dava credibilità, in un certo senso; ero a casa, se questo può bastare a una spiegazione. Lì trovavo le persone poetiche, una mia proiezione non so quanto reale, però così l’ho vissuta; la dismisura di quanto sentivo. La Spagna era allora una pentola in ebollizione, era “al limite”, “scappava”. Era quello che io ero, in cerca di significati stabili ma sperando che non arrivassero. Era il grande fiume della lingua, per me che così leggevo le cose, mi dava tutto, occasione e alibi per non capirci niente e sentire di più, retrocedere e buttare all’aria le convinzioni. Ne ho fatto forse il mio manifesto e lei naturalmente non se n’è accorta né le importava, ma ho appreso, da tutto: persone, animali, cose, case, amici, anche nomi e indirizzi. Tutto mi serviva e m’andava a genio. Era il mio posto, ero in bilico con lei. Non ho mai amato un paese così, e non succederà più, perché queste sensazioni sono piccoli miracoli.
Sei anche pittrice. Come sei arrivata alla pittura? Che rapporto c’è tra la tua poesia e i tuoi quadri? Questi ne sono un prolungamento? Con la pittura ti prendi una pausa dalla scrittura? Ricordo che quando dipingevo provavo ben altre sensazioni, principalmente di estrema liberazione. La scrittura è ben più impegnativa emotivamente. Che ne pensi?
La pittura è arrivata tardi, nella mia vita, e c’è arrivata per noia. Devo dire che stimo molto la noia la quale, otium dei poveri, concentra in sé un potenziale molto creativo. Annoiandomi ho cominciato a dipingere, poi pian piano ho strutturato in una specie di metodo ciò che mi cresceva sottomano. Non credo abbia nulla a che vedere con la poesia, se non per il fatto che sfoltisce e ordina un affanno interiore. Ma non lo rivitalizza, lo assorbe solo sul momento e nient’altro; pertanto sono due espressioni della stessa scala emotiva, ma distinte tra loro. Mi piace dipingere per un fatto materico, per il colore, per il rilassamento. Ritenendo la pittura espansiva al contrario della poesia che implode. La prima è senz’altro più sociale, comunica direttamente, è più facilmente bella, occupa spazio. Già questo gratifica, in un certo modo. E’ esattamente come dici tu: da tregua. Ho in programma alcune mostre, anche importanti. Per ora, i quadri, più di duecento, sono esposti e visibili in casa mia dove mi auguro possa avvenire qualche vendita, impossibile nel corso delle mostre, appunto. Questo è un progetto per loro. L’altro, di fare della mia abitazione una Hom Art dove, in determinati giorni, possano venire persone interessate all’arte figurativa.
Un dato che arriva immediatamente a chi ti legge è la scelta che hai fatto di un io maschile. Me ne parli?
Un particolare, questo, falsamente curioso. Non venne così, da solo, ma venne all’inizio della mia scrittura. Mio padre, quando nacqui, fu molto deluso che non fossi maschio, essendoci in famiglia già mia sorella. L’aneddoto, del suo disappunto, mi è stato ripetuto dai parenti credo almeno ogni giorno, però non l’ho mai vissuto in maniera negativa. Mio padre ed io ci amavamo moltissimo, e con serenità decisi che avrei potuto tranquillamente far finta di essere un maschio, pur di accontentarlo. Perciò, quando mio padre era ormai felice di aver avuto una bambina, io diventai, nel mio immaginario, un bambino. In seguito, l’io maschile mi parve ovvio, insignificante a tal punto che non avrei più potuto rinunciarvi. Era la mia identità creativa. Abbastanza banale, tutto sommato.
Che mi dici del mondo della letteratura italiana? Tu mi appari come una grande outsider. Dico giusto? Leggendoti, e non è piaggeria, mi pare di avere a che fare con una scrittura benignamente aliena dalle retoriche (e dalle antiretoriche alla moda) della nostra poesia, che vedo come un conglomerato di inespressività abbastanza codificate. Tu mi sembri un cowboy da rodeo – perdonami l’espressione, ma è tutto meno che una critica; mi appari come una domatrice della tua stessa incandescente materia. Ecco, come ti trovi e come vedi questo nostro mondo letterario?
Riguardo alla prima parte della tua domanda, credo di aver implicitamente risposto con i due primi punti dell’ intervista. Meglio non aggiungere altro, per non cadere in personalismi che a nulla servono. Sarebbe interessantissimo parlarne, ma preferisco non farlo in un’intervista. Grazie per la tua definizione che è, come del resto lo sono sempre i tuoi giudizi, acuta. Tu ed io, infatti, ci troviamo, a livello lavorativo, molto vicini.
L’unica cosa che mi sento di “denunciare” fortemente è, invece, lo scandalo di come il mestiere nostro non venga, nella maniera più assoluta, considerato come tale. Nessuno: editori, riviste, ecc, nessuno lo calcola come valore. Noi non facciamo graffiti (anche se mi piacciono, ma è un altro discorso), neanche in poesia, e quel che produciamo costa energia, cultura, tempo. Non basta mica una bomboletta! Ma a chi interessa?
Parlami dei tuoi progetti, anche in pittura, se vuoi.
Il triste è che il progetto di ognuno di noi riguarda solo noi stessi. Il problema è vecchio, lo so, però non posso non ripensarci. Io, tu, noi scriviamo perché sappiamo farlo meglio di qualsiasi altra cosa e per questo continueremo a farlo. Ma non si può parlare correttamente di progetto, tutt’al più di desiderio, in quanto la parola progetto sottintende un accordo, una controparte. Mi viene da dire che progetto è una parola plurale, quindi compressa. Noi invece, purtroppo, siamo liberi, tanto liberi da essere alla fine vuoti. Vuoti di sostegni, riconoscimenti proporzionati, canali informativi, di una giusta identità sociale. La libertà vera è ben altro; presupporrebbe, quanto meno, dei limiti da accettare o combattere. In questo, la libertà ha qualcosa in comune con l’aggressione. Nella nostra laguna nobile, invece, nella nostra laguna d’intelligenza che tutti sono veloci a definire la più difficile o alta, almeno quanto può esserlo la grande musica, c’è laguna e basta.
Ti faccio una domanda difficile, ora. Cosa pensi dell’amore?
E’ come la caccia. Io sono contraria alla caccia, ma quando si apre il suo periodo, uccidere delle specie animali è legale. E i cacciatori si divertono. Bene, questo è l’aspetto primario del rapporto di coppia. Mi sono divertita anch’io a praticare, metaforicamente parlando, questo sport, due volte e poi con molte altre esercitazioni di tiro libero. Ti scarica l’adrenalina, da una parte e dall’altra te ne infila dentro una peggiore, la dipendenza. Questo è l’aspetto secondario. Se a un individuo sta bene essere un tossico, tutto è a posto, senza problemi. Se invece uno ama vedere gli uccelli volare senza preoccupazione, esce dal club. Nel primo caso si può avere un amore per tutta la vita, dall’altro, il divorzio.
Per uscire comunque dalla metafora, direi che l’amore mi piace fino a quando non diventa una protesi, quando non ci fa diventare artificiali insomma, perché le protesi possono estendersi inconsapevolmente nel corpo di ognuno, con lentezza, come un virus. Alla possibilità di amare e durarci dentro, ci credo come credo a tutto perché tutto esiste. Credo alla gelosia e al tradimento, mi sembrano anch’essi sentimenti rispettabili, credo all’amore di interesse, alle panzane che qualcuno vuol farti ingoiare, credo all’amore senile e giovanissimo, a quello omosessuale, se piace. E’ vita e va bene. Per quanto riguarda me, immagino sia questo che sottende la domanda, ho tuttora, per grazia ricevuta, una struttura da cacciatrice molto richiesta dai vari club. Ma io vivo sui tempi lunghi; e anche qui, a modo mio però, staremo a vedere.
(Immagine: Cristina Annino – Lina e Koko, 2006)
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“Noi invece, purtroppo, siamo liberi, tanto liberi da essere alla fine vuoti. Vuoti di sostegni […], di una giusta identità sociale. […] La libertà vera è ben altro; presupporrebbe, quanto meno, dei limiti da accettare o combattere.”
Definizione della libertà reale fuori dalla retorica, alla maniera di Spinoza, e alla maniera della poesia, per converso, della Annino.
Complimenti per questo pezzo, far parlare i poeti legati a terra attacca alla poesia, credo.
Giuseppe
Bella intervista, bella presentazione e straordinaria poetessa.
Sulle bestie.
Noi siamo stati discepoli delle bestie nelle arti più importanti: del ragno nel tessere e rammendare, della rondine nel costruire case, degli uccelli nel canto (Democrito)
Articolo che fa la luce a proposito di una poetessa avvincente. La scelta del Io maschile mi sembra ricca di significazione, di creatività. La scrittura cambia, è un fenomeno meraviglioso, quando tu scrivi, diventi l’anima che sei (l’anima scura, l’anima gemella), è come uno specchio magico, vedi la forma stregata della tua notte, la personalità che riposa in te, l’altro/l’altra.
Una bella libertà che si legge nell’intervista.
da questa intervista ricavo una nuova immagine di cristina: un cow boy da rodeo! è un’immagine che si ricorda, e subito suscita quella dei suoi stivali in tutte le stagioni. Cristina è originale ma dire della sua poesia che è originale è poco. E’ abile, coerente e vera, obbedisce a regole precise che sono le regole della sua voce…
Ci piace ascoltarla.
E’ difficile dire qualcosa in più su questa intervista molto semplicemente perché quando qualcuno di autentico nel suo vissuto umano e artistico e dalla forte personalità si esprime senza bisogno di scuole e patroni è giusto azzittire. Quando non si possono tirare in ballo i maestrini e le ascendenze e i debiti, ma si deve fronteggiare un testo o una creatura vivente solo per quello che dice, è l’umanità che abbiamo che si mostra. Spesso nella sua desolante mediocrità. C’è un valore che emerge nella lettura delle poesie di Cristina e ancora di più nella conoscenza diretta di lei come persona ed è la libertà. Non a caso al primo commento Giuseppe Catozzella ha sottolineato la bella definizione che la poetA dà di questa parola. Per valore di libertà intendo la cosa più faticosa da perseguire nell’esistenza. Significa affrancarsi dalle appartenenze imposte (politiche, culturali… quelle insomma di cui la nostra Italiauccia letteraria è tanto gelosa e tramite cui ci riempie di vocabolari dell’assurdo e tedio mortale), affrancarsi dai modelli, agire fedeli a se stessi e contro se stessi nel medesimo tempo, per trovare una voce propria cosicché la vita sia sempre quello che precede e che per forza emerge da ciò che ne è espressione (poesia, pittura, etc etc).
Una bellissima intervista che descrive accuratamente il carattere e la storia di una persona molto partcicolare che si merita senza dubbio i più alti riconoscimenti. Una persona che ha trasformato in arte la sua vita in modo generoso e sincero senza filtri o condizionamenti. In questo senso mi sembra molto azzeccata l’espressione “scriverei anche di un sasso “.
Complimenti Cristina!
Che bella intervista.
Mi è venuta voglia di mettermi a scrivere.
Leggere o ascoltare Cristina Annino è sempre più che un piacere: una intelligenza ‘fantastica’ e una lingua poetica italiana tra le più ‘originali’ che ci siano.
ho ‘conosciuto’ Cristina da poco, attraverso uno scambio di mail colloquiali. Resto di nuovo colpito, di fronte a questa intervista, dall’estrema lucidità che anima Cristina. Soprattutto il non essere caduta nella trappola della polemica contra le italiche letterae per la propria posizione di appartata. Checché se ne pensi, essere appartati è l’unica posizione dominante.
[…] di Franz Krauspenhaar a Cristina Annino pubblicata su Nazione Indiana del 27 dicembre […]