Usus scribendi – io non sono uno scrittore
[Quattro nuovi autori che ci spiegano dal di dentro cosa stanno facendo, quale letteratura tentano di produrre. Un pezzo ciascuno. Niente domande, niente sollecitazioni esterne. Il primo contributo è qui. il secondo qui . Il terzo qui . G.B.]
di Cristiano Cavina
E’ difficile parlare dello scrivere, e molto più difficile è dire in proposito qualcosa di originale e soggettivo.
Chi cerca di scrivere per mestiere, e chi ci prova, ha una propria personale idea, che in larga parte però è dovuta alla lettura di pezzi scritti sull’argomento da autori affermati, che a loro volta hanno attinto da opere e autori precedenti, e così via fino ai grandi classici.
Quello che penso sullo scrivere in generale, e sul mio modo di scrivere in particolare, proviene quasi interamente da Stephen King e da Natalia Ginzburg.
Ho sempre trovato irresistibili quei piccoli brani che King mette spesso all’inizio dei suoi volumi.
Penso alla raccolta di racconti ‘A volte ritornano’ e ‘Scheletri’.
In quelle pagine parla di come nascono le sue storie e di come lui ha scoperto la sua vocazione di scrittore.
E’ molto epico, e tenero.
Sembra uno di quei personaggi alla Dickens, che alla fine ce la fanno, nonostante il mondo sia tutto contro di loro.
In ‘On writing’, invece, ci svela gli attrezzi della sua bottega, e la visione dello scrittore come piccolo artigiano mi ha subito entusiasmato, come un falegname che un po’ alla volta assembla un tavolo, il suo tavolo, magari non il migliore del mondo, ma tutto suo, frutto delle sue mani.
King ci tiene molto a spiegare che il talento non vale un gran che, dice spesso che vale meno del sale; quella che conta è la voglia di fare fatica, di stare lì seduti per ore ad inseguire delle storie.
Per quanto riguarda Natalia Ginzburg, non spiego niente; copio direttamente la prima pagina e mezzo di un brano preso da ‘le Piccole Virtù’, intitolato ‘il mio mestiere’: lo metterò in fondo, tra poche righe.
Io?
Io non sono uno scrittore.
Sono un narratore.
Prevengo da una lunga e forte tradizione orale, che si è spostata dai casolari sperduti nelle campagne ai bar dei piccolo paesi sperduti nella provincia.
Non invento quasi niente; le storie che racconto appartengono alla mia vita o alla vita delle persone che mi circondano o mi hanno circondato; l’unica cosa che forse ho inventato, da quando ho cominciato a pigiare i tasti della macchina da scrivere, è uno sguardo particolare che mi consente di trattare argomenti quotidiani come se facessero parte di una saga epica.
A dire il vero, non ho inventato nemmeno quello: un po’ l’ho assorbito dalle mie letture classiche, John Fante (ma non quello di Arturo Bandini), il Parise de Il prete bello, tutto Guareschi, Dumas Padre, King, Ginzburg, Hugo, e Soriano, e un po’ era già dentro di me: fin da piccolo, quando lavoravo nel bar di mio zio, guardavo mio nonno e i suoi amici, che si raccontavano senza sosta la loro storia, e non vedevo un gruppo di contadini semi analfabeti senza una lira, ma degli eroi mitologici; arare un campo aggrappati al timone, dietro ai buoi, era un impresa che faceva impallidire l’assedio di Troia.
E questo vale anche per la vita normale, a volte dolorosa a volte divertente, che ho passato coni miei amici nel mio paese; ogni cosa, ai miei occhi, era degna di Sandokan o dei Miserabili.
Tutto qua.
Non sono uno scrittore.
Ho saputo fin dall’inizio quali storie mi interessava salvare.
Non pubblicare, quello magari dopo, per curiosità, e un po’ di vanità, ma innanzitutto salvare.
Ad oggi, di quelle storie ne ho salvate tre. Ne restano altre tre.
Poi, la mia utilità come scrittore sarà finita.
A quel punto penso che dovrò mettermi a inventare tutto, trame, intrecci e via dicendo.
Forse lo farò, o forse no.
Chissà, non è neanche detto che ci riesca.
Non importa.
Scrivere non è mai stato uno status symbol, per me.
Vivo nel paese in cui sono nato, in cui vivo, in cui un giorno morirò e verrò sepolto, di fianco a tutti i miei scalcagnati antenati.
Sono un ragazzo di campagna che ha studiato poco e male e che per tutta la vita ha lavorato.
Molti non ci credono, ma faccio ancora il pizzaiolo, quando non mi invitano in giro a presentare i miei libri.
Io non pensavo che a qualcuno interessassero, fuori dal mio paese.
E’ stata una bella sorpresa. Una soddisfazione.
Tutto qua.
Se volevo fare lo scrittore, non rifiutavo nel giro di un mese, dopo l’uscita del mio secondo libro, le offerte di Einaudi, Rizzoli e Mondadori.
Le mie piccole storie non si sarebbero trovate a loro agio in tanto lusso.
Hanno le scarpe un po’ infangate e lo spirito troppo garibaldino per vestirsi da festa e prendersi troppo sul serio.
Scrivo perché non posso farne a meno, per celebrare le cose belle che ho avuto, consolarmi delle cose brutte che mi sono capitate e chiedere scusa delle cose dolorose che ho causato.
E scrivo perché credo che non sia necessario trovare il Sacro Graal o arrestare un Serial killer per avere qualcosa da raccontare.
Natalia Ginzburg:
Il mio mestiere è quello di scrivere e io lo so bene da molto tempo. Spero di non essere fraintesa: sul valore di quel che posso scrivere non so nulla. So che scrivere è il mio mestiere. Quando mi metto a scrivere mi sento straordinariamente a mio agio e mi muovo in un elemento che mi par di conoscere straordinariamente bene: adopero gli strumenti che mi sono noti e familiari e li sento ben fermi nelle mie mani. Se faccio qualunque altra cosa, se studio una lingua straniera, se mi provo a imparare la storia o la geografia o la stenografia o semi provo a parlare in pubblico o a lavorare a maglia o a viaggiare, soffro e mi chiedo di continuo come gli altri facciano queste stesse cose, mi pare sempre che ci debba essere un modo giusto di fare queste stesse cose che è noto agli altri e sconosciuto a me. E mi pare di serre sorda e cieca eho come una nausea in fondo a me. Quando scrivo invece non penso mai che c’è forse un modo più giusto di cui si servono gli altri scrittori. Non me ne importa niente di come fanno gli altri scrittori. Intendiamoci, io posso scrivere soltanto delle storie. Se mi provo ascrivere un saggio di critica o un articolo per un giornale a comando, va abbastanza male. Quello che allora scrivo lo devo cercare faticosamente come fuori da me. Posso farlo un po’ meglio che studiare una lingua straniera o parlare in pubblico, ma solo un po’ meglio. E ho sempre l’impressione di truffare il prossimo con delle parole prese a prestito o rubacchiate qua e là. E soffro e mi sento in esilio. Invece quando scrivo delle storie sono come uno che è in patria, sulle strade che conosce dall’infanzia e fra le mura e gli alberi che sono suoi. Il mio mestiere è scrivere delle storie, cose inventate o cose che ricordo della mia vita ma comunque storie, cose dove non c’entra la cultura ma soltanto la memoria e la fantasia. Questo è il mio mestiere, e io lo farò fino alla morte…
Cavina dice la sua verità… Semplicemente.
E per questo lo apprezzo.
onore al buon Cavina, persona schietta e misurata! questo ultimo contributo è quello con la carica umana più ricca, e per questo il preferito. a.
Hai quel piercing!
che bell’articolo Gianni….
ciao:-)
Usus scribendi mi piace un sacco perché mi fa entrare nelle botteghe degli scrittori senza darmi l’impressione di disturbare troppo.
Grazie a Biondillo, saggio per l’ennesima volta!
E complimenti a Cavina.
sa proprio di genuino, molto bello quello che scrive Cavina, grazie.
Ricordo Cristiano finalista di un’edizione del Premio di Narrativa Bergamo di qualche anno fa con “Alla grande”, Marcos y Marcos, 2003.
Il libro era spassoso e toccante, delicato e fanciullesco. Il suo intervento qui sopra me lo ricorda perfettamente. E’ un piacere ritrovarlo.
Parente dell’attore? Vorrei sapere da dove viene,qualcosa di più su di lui, degno personaggio delle sue storie. Ah! il titolo del libro?
Ho avuto un flash d’intelligenza e ho trovato i titoli da sola: non so perché ci avrei giurato che l’aveva pubblicato marcosymarcos! E il primo da transeuropa, che sta nella mia città! Una mia mancanza imperdonabile,rimedierò prestissimo! (con quel cognome non poteva che essere romagnolo!)
[…] Mi sento molto vicino a queste parole, se mai dovessi usare parole di questo tipo. Perché lo scrittore ha una passione per lo strumento, […]
Tolto il piercing, resta lo storyteller.
E quanto conta una casa editrice ? può la sua linea editoriale corrispondere alla tua idea di scrittore e di scrittura ?
Delle parole di Cavina colpisce l’assoluta mancanza di presunzione, dei suoi libri la forza epica. Che dire, speriamo che il piccolo paese gli fornisca ancora moltissime storie.