Variazioni Meridiano – 2: Roberto Gigliucci
Nel caldo borro dell’adolescenza tutta sofferenze e delizie nuove, in un nucleo di formazione che epitomava ogni esistenza a venire, nella rovente ferita di me ragazzino aperto in feritoie e sbreghi, corporalmente deprivato di carni e muscolatura e con giunture sloganti e con nervi friabili, in quegli anni che inglobavano infanzia e prosciugavano il futuro, in quella fetenzìa di età in cui il sudore è splendido e il catarro luminescente, opalescente, non nutrivo dubbi sulla poesia e sulla mia consustanzialità ad essa, anzi credevo più cattolico nella transustanziazione della poesia in me. Certamente penso pure adesso che un fanciullo che s’attrezza spiritualmente riassume in sé ogni esperienza possibile, ogni poesia possibile, ogni mito possibile, stato e futuro, in un ragazzino che cresce storto nella vita artistica viene conflata ogni esperienza estetica, un aleph, insomma. Tuttavia adesso non ho più fiducia nella poesia. O meglio, ne ho una fiducia pietrificata, ecco.
La casa in via di Villa Ruffo è stata uno dei luoghi di aggregazione dello specifico estetico, una cristallizzazione, una dolcificazione stremata del poetico, fruta cristalizada del colore del portogallo più melanconico. Dei vecchi versi scritti allora forse spiegano, se pure non sono poi così belli:
Tremai sull’ascensore di ferro, con mia madre, e quando giunsi
Al quarto piano ci attendeva mia zia: la porta aperta
Non mi nascose il pavimento luminoso e una finestra
Dove i platani sbiadivano; entrando
La cucina offrì odori prepotenti, i fiori marciti
Furono gettati, il fradicio si levò come l’anima resa
Da un morto, e le due donne immersero nell’acqua l’insalata.
Un mazzo di carte in salotto e le spighe secche dipinte
Di turchino; il quadro riempiva la parete, soggiogando
Chiunque entrasse: un melone, due melagrane metafisiche,
L’uva, le pesche, all’ingresso di una grotta presso il mare
Si scorgeva, nel pallore dello sfondo, un faro, forse –
Consolazione della lontananza.
Per avere un’idea della sostanza così funebre della giovinezza forse avrei potuto citare altre poesie di allora, tutte rifiutate, adesso che non ho più il coraggio di farcire di morte ogni minuto della mia vita che si accorcia. Ma vorrei precisare che queste mediazioni autobiografiche vogliono valere soltanto per la loro assoluta emblematicità, anzi araldicità, appunto nella linea ermeneutica dell’adolescenza come epitome di tutto lo spirito, nel senso idealistico più demodé.
Insomma: credere nella poesia significa (significava) credere nella sua funzione di costante rinnovatrice del linguaggio, credere che ogni qualvolta un poeta parla – scrive –, il linguaggio si rigenera, ringiovanisce, anzi torna alla primitiva saturazione di significato, rinunciando alla sua specializzazione, cioè, o ancor più alla sua natura funzionale e logorata. Ora che ho 45 anni ho un sospetto terribile. Temo che invece la poesia svolga un ruolo tutt’affatto contrario, un ruolo distruttivo e invido. Forse la poesia non restaura il linguaggio. Forse la poesia odia il linguaggio, lo disprezza, ne ha disgusto, come la cellula che tende all’autodistruzione secondo l’ultimo Freud. Insomma, poesia come mortido. La poesia forse guarda il linguaggio come una gabbia ripugnante, e in questo modo sente ripugnante tutta la vita in blocco. La poesia magari lo vuole annullare, il linguaggio, ma non per restaurare avanguardisticamente un vitalismo assoluto. L’avanguardia è una cazzata, o meglio lo è la fede in essa. Non voglio parlare di questo. Voglio dire che forse la mia inquietudine attuale in merito alla funzione della poesia risiede nel dubbio che la poesia voglia essere proprio un buco nero che aspira a fare del linguaggio una antimateria, o meglio un nulla, un qualcosa di non predicabile. Sarebbe d’altra parte semplice risolvere così: la poesia oggi per me vuole essere musica, alogica e prelogica. Ma non risolvo niente così, mi pare di ritornare a irrazionalismi ben noti e non risolutivi. Mi spiace risultare così snob, ma sento che non è questa la strada.
E allora? Qual è il mio nord, il mio meridiano, il mio asse, il mio sole di oggi, in cui son tutto meno che Clizia? Ah, certo non ho una risposta. Neppure potrei parlare di sliricamento in senso manzoniano, perché mi verrebbe da ridere. E neanche in senso leopardiano, che mi verrebbe da piangere. Nella mia condizione di contemporaneo (nel preciso senso indicato da Agamben nel suo ultimo libro-lezione su Cos’è il contemporaneo) sento che la mia solitudine assoluta non è più satura come quella, altrettanto e più assoluta, in cui risiedevo da ragazzino, quando totalizzavo in me il totalizzabile. Adesso sono difronte alla faccia grande e perenne della poesia come davanti a una faccia di pietra i cui occhi sono senza segno di pupille. E mi pare che questa faccia sia più nauseata di me.
Di cosa ha nausea la poesia? Certo, credo, della sua funzione rigenerante del linguaggio, di cui parlavo prima. Ha nausea della sua superiorità su ogni altra cosa umana, che gli verrebbe garantita dal suo ufficio presunto di sede dell’essere e di ringiovanente della parola. Una faccia così corrosa e senza sguardo come può essere un emblema della chirurgia plastica della parola? Mi viene da ridere, se penso a quella facciona che ci guarda e ci dice: voi valete.
Insomma, non è che non creda più nella poesia – continuo a scriverne – anzi, mi rendo conto che ogni credere o non credere risulta alla fine una bolla vuota. Diciamo che il sospetto che la poesia voglia distruggere il linguaggio e quindi alla fine voglia tacere, anche se non tace mai, mi ha un po’ frastornato in questi ultimi tempi e mi ha fatto capire che sto invecchiando e che l’amata gioventù vien meno… Amata, poi! La mia gioventù è stata pesantissima, ma questo poco importa. Quindi. Se adesso mi chiedessero: cos’è per lei la poesia? Risponderei, da serio quarantacinquenne per niente splendido, anzi molto corroso e sciancato, che la poesia è un enigma pieno di rischio. Allora ribatterebbero: un rischio che vale la pena correre? E io dovrei rispondere elegantemente, ma non so più se sono elegante, anzi forse no, forse ormai sono decisamente inelegante e scorbutico, specialmente con chi mi fa domande, e allora risponderei: francamente, forse, in ultima analisi… no, si tratta di un rischio che non vale la pena correre. E aggiungerei: quindi, se non ne vale la pena, allora meglio correrlo e gettarsi nudi in un lago ghiacciato attraverso il buco fatto dal piccone proprio al centro della sua rigida crosta.
Ecco, questo mi sentirei di benedirlo, non lo avesse già fatto don Agamben (che attenzione è gesuita: niente a che fare con noi scolopi).
“che epitomava ogni esistenza a venire”
Come ogni uomo vero, Migliucci va dall’endecasillabo al martelliano: qua la mano!
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