Del disumanarsi – su Marino Magliani

 

di Marco Rovelli

Sono felice di aver conosciuto Marino Magliani prima di leggere un suo libro, e di averlo conosciuto nel suo ambiente olandese, nella sua casa nel condominio di IJmuiden, nel suo studio stretto e ingombro, di aver camminato con lui sulle sue spiagge olandesi, tra i bunker in faccia al mare. Così ho potuto riconoscerlo, nel libro che ho letto solo dopo, Quattro giorni per non morire. E ogni cosa, qui, la dico del libro e di Marino insieme, c’è  come una soglia di indifferenza che mi impedisce di distinguere: perchè, in ambedue i casi, il discorso articolato è lo stesso. Un discorso che disumani. 

In quel mondo del margine, solitario, Marino dà forma ai suoi mondi: li forgia in quella solitudine, in un luogo che è totalmente altro da lui, dove non può essere radicato. E in quello sradicamento lui immagina e traccia le sue radici più profonde. Quel vuoto ha, tra le sue qualità, una noia che combacia con quella delle sue radici.

In quel mondo totalmente altro Marino non può attecchire in radice, e per questo fiorisce mondi. E’ solo lì che scrive, in quel posto arrovesciato: quando sono in Italia, dice, non scrivo una riga. Nella sua Liguria vive, viene da pensare, in Liguria vibra di quella terra in cui le sue radici sprofondano. Vive, e non scrive. Per scrivere ha necessità dell’esilio. E in realtà ha necessità dell’esilio anche per vivere davvero, viene da seguitare a pensare, perché è nello spazio della scrittura che trova la sua vita più vera. La scrittura è un fatto esistenziale per Marino, e profondamente religioso. Forse per lui scrivere significa attingere a quella verità di una vita che sta altrove, che tanto più vive quanto più non è vissuta. Scrivere, per lui, è sperare. Marino si nutre del suo sradicamento, che poi è esser radicato in un totalmente altro. E’ come se (e forse è proprio così) il totalmente altro fosse abitato ogni giorno da Marino, e solo da lì, da quella prospettiva rovesciata, riuscisse a estrarre il senso di quella vita non vissuta – vissuta a intermittenza, quando torna nella sua Liguria a nutrirsi delle sue rocce, dei suoi ulivi, dei suoi terrazzamenti, del suo mare.

“Essere così vicini alla morte e non poter fare altro che seguitare a scrivere”, ha scritto Marino in Quattro giorni per non morire. Se qualcuno mi chiedesse di che parla il libro, risponderei senza esitare “della morte”. Ciò di cui in fondo tutto non fa che parlare, certo, e in queste pagine ne ho trovato una consapevolezza vera. Marino attinge alle altezze necessarie per articolare i paraggi della morte volando basso, radente il mare. Il libro è la vicenda di una fuga tentata, per espatriare dopo anni di galera. Un archeologo che era stato incarcerato per traffico di droga. Che quando viene mandato a casa per i funerali della madre prova a espatriare verso il Messico perché solo là possono salvargli la vita curandogli la malattia contratta in Sudamerica, se resta in carcere è quasi condannato. Questa, in tre righe, la trama. Dove ciò che conta è la fuga (il protagonista, Gregorio, e il maresciallo che lo sorveglia fuggono la noia della valle ligure: la stessa noia ritrovata a rovescio, nella sua verità, nel luogo totalmente altro dove Marino vive).

Si fugge, nel libro di Marino. Si fugge dalla vita, con “troppe pietre” addosso (sarebbe stato un titolo migliore per il libro, io credo, Troppe pietre). Le pietre sono anche l’origine del viaggio sudamericano di Gregorio e del suo amico Leo. All’origine, i segni sulle pietre. Li cercano in Sudamerica dopo averli trovati nella Tana delle Rane in Liguria, per provare la comunanza dei mondi, quasi a risalire all’indietro il tempo, le ere geologiche, fino alla prima pietra… Fino alla “felicità disumana” della pietra. E le troppe pietre sono il prezzo da pagare per sfuggire al troppo umano. E’ dalle pietre che occorre passare per disumanarsi. Attraversando le pietre (come attraversando il mare, o il fitto di un bosco) si potrebbe incontrare una felicità disumana. Disumanarsi: divenir-pietra, divenir-mare, divenir-albero. E accedere forse a una luce ineffabile, che non può essere articolata se non nel nome dell’amata (“Lori”, dice Gregorio quando nelle foreste sudamericane sta tra la vita e la morte). E’ la disumanità dei tempi geologici, quelli che gli archeologi non smettono di traversare, cercando “cose inutili” agli occhi degli umani (sempre troppo, troppo umani). Quella disumanità cercata, che incontri nella narrazione sotto forma di un corpo cadaverico come un albero, o nei gesti sacrali degli abitanti delle valli (liguri e sudamericane), che di quelle troppe pietre, e della loro disumanità, sono icona. La disumanità come altro dalla vita, e come “rincorsa verso la morte”, è onnipresente nella storia di Gregorio/Marino. Avvolge ogni cosa, destinalmente, macchinalmente. E’ un universo ingranaggio, macchinale, che viene replicato negli incastri della narrazione stessa.

“Essere così vicini alla morte e non poter fare altro che seguitare a scrivere”. E poi: “solo all’alba si vede cosa c’è nella notte”. L’alba forse è scrivere in un luogo sradicato, rovesciato, e la scrittura è il luogo più vicino alla disumanità della morte.

22 COMMENTS

  1. Di “Quattro giorni per non morire” mi è rimasta negli occhi la luce della Liguria, nella mente la verità delle cose descritte, nelle orecchie la tecnica hemingwayana dei dialoghi. E’ vero tutto ciò che Alderano dice nella sua recensione: la fuga, la pietra, il disumanarsi. E’ tutto vero, e costituisce la polpa del libro, il motivo per leggerlo. Ma non arriverebbe a essere arte se non ci fosse questa eccezionale capacità di descrivere le cose dal di dentro, di viverle e di farle vivere al lettore.

  2. recensione piena d’enfasi e trasporto che ho molto apprezzato, Marco.
    Non ho letto ancora il libro ma mi riservo di farlo al più presto,
    immagino Marino come una persona tutta d’un pezzo, una vera roccia.
    Chissà se avrò il piacere anch’io di conoscerlo…
    :-)

  3. per Tash:
    http://www.sironieditore.it/libri/libri.php?ID_libro=978-88-518-0062-8

    Il libro di Marino doveva intitolarsi, se ricordo bene, “Il volo del colibrì”. Titolo bello poi mutato dall’editore in un titolaccio un po’ da giallo qualunque.
    Marino è uno scrittore straordinario, ma che io lo ami non è una novità. Esce il 6 marzo il suo nuovo romanzo, “Quella notte a Dolcedo”, per Longanesi. Sono davvero felice per Marino, mi auguro (ma ne sono certo) che Longanesi riesca a valorizzarlo come davvero merita.

  4. Molto bella e secondo me veritiera questa recensione. Spero che Marino ne sia soddisfatto, ma presumo di si. Quel libro mi è entrato dentro, coi suoi panorami, le sue terrazze e le sue fughe. Davvero ben raccontato e mi unisco anche agli auguri per il nuovo romanzo edito da Longanesi.

  5. Caro Marino, sono stato tra i primi ad apprezzarti. Come sai la Liguria, dove purtroppo non torno da un po’, appartiene ai miei paesaggi interiori e tu me li hai fatti rivisitare. Di Dolcedo – e di Valloria, paese unico, dalle porte dipinte – rammento un ponte medievale tra dirupi. Ma è il silenzio la sua cifra, un vago sussurrare che m’incanta.
    Caro Marino, dovevamo vederci a Dolcedo, mi hai cercato, non ho risposto. Scusami per averti mancato, non s’è fatto apposta.
    Con affetto e sinceri auguri
    Carlo

  6. Nei prossimi giorni arriverà nelle librerie un’opera smisurata, “disumana”, assolutamente fuori genere/quadro/canone: un capolavoro. Tanto vero quanto lo è il fatto che, oggi, parlare di letteratura e di narrativa, in Italia, senza fare il nome di EmmEmme è soltanto sproloquio, bestemmia: Magliani è uno dei pochissimi, autentici, grandi scrittori che abbiamo. Buona parte del resto, quando non è fuffa allo stato puro, batt(u)age pubblicitario, spremitura markettara, scrittura in perenne stato di autocombustione senza nemmeno il conforto di un residuo di cenere, gli arriva al massimo alle ginocchia.

    Complimenti a Rovelli: una gran bella pagina, la sua.

  7. Questa recensione è molto convincente, sono curiosa di leggere “Quattro giorni per non morire”.Si fugge, nel libro di Marino. Si fugge dalla vita, con “troppe pietre” addosso.
    Eloquente

  8. Io sono a metà di “Quella notte a Dolcedo” e, pur avendo amato moltissimo il libro che Marco recensisce qui, mi sbilancio dicendo che quest’ultimo è persino superiore.

  9. Marino forever. Non vedo l’ora di leggere anche quest’ultimo. Bellissima pagina di Marco Rovelli, concordo.

  10. Tutte le cose di Marino, scritte prima le ho lette,
    dai tempi di Maltese,
    lui è molto bravo,
    e non sa solo di salmastro, vi dico:
    anche di olive, rive scoscese, sentore selvatico, vigne arrampicate,
    moli sciaguattati da onde brevi e mormorio di voci.
    E poi oggi ho sentito la sua voce, finalmente, e ne sono stato felice.

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marco rovelli
Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.