Ciak e braccia in croce!

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Watching struggles
di
Sergio Bologna

Mentre l’Italia registrava l’ennesima morte sul lavoro e le lacrime di coccodrillo da sottile rivolo diventavano torrente in piena, io passavo ore a seguire sul video del mio computer di casa le vicende dello sciopero degli sceneggiatori americani. Non è per raccontarlo, meglio di me altri lo hanno fatto, ma per riflettere sulle possibilità della comunicazione oggi che propongo queste considerazioni. Per dire che il soggetto è doppio, noi che seguiamo da lontano e loro che laggiù agiscono e la riflessione va fatta su tutti e due, perché ambedue siamo coinvolti in un processo di trasformazione. Perché ci ho speso del tempo? Perché ormai i comportamenti conflittuali dei “lavoratori della conoscenza” e della “classe creativa” sono diventati il centro della mia riflessione; ritengo questa una delle componenti sociali più dinamiche in tutti i sensi. L’industria dell’entertainment produce più occupati dell’industria dell’auto e le forme lavorative al suo interno sono dominate dalle figure tipiche del lavoro postfordista, intermittente, mobile, intellettuale, pressato dalle nuove tecnologie ecc..

“Devastante” è stato definito questo sciopero e qui è un altro punto importante: ci sono categorie che possono bloccare il processo produttivo e portarlo alla paralisi, dunque dispongono di potere contrattuale.
Ma possono farlo se tengono duro tre mesi. I sindacati si chiamano “gilde” (la Writers Guild of America West che ha bloccato Hollywood e la Writers Guild of America East che ha bloccato Manhattan, 12 mila iscritti circa) e qui si conferma il ritorno alle forme originarie, persino medievali, dell’associazionismo operaio, si conferma il valore del mutuo soccorso (da poco è nata negli USA la gilda delle mamme imprenditrici, di quelle che hanno figli e debbono portare avanti un’azienda, le “mompreneurs” e altro non sono al 75% che lavoratrici autonome, freelancers.

Come altro avrei dovuto seguirlo questo sciopero? Mandando un mail? (please let me know more…). Aspettando che uscisse un libro? Telefonando ad amici in Canada per vedere se ne sapevano di più? Mandando un sms a Patric Verrone? Sono incerto se ritenere più importante la lotta o la produzione d’informazione sulla medesima, due processi creativi e di trasformazione diversi e che si cumulano. Resti di stucco di fronte a siti dove hai tutte le informazioni che vuoi, minuto per minuto, dove ti puoi vedere video in diretta, gallerie di foto e migliaia di blog, di storie personali, di testimonianze su come la lotta ha cambiato le persone. Un certo Mark Kunerth dice che lui la picket line non la mollerà mai anche se dopo una giornata di girare in tondo ha percorso 29 miglia, perché la gilda per lui è stata più di una famiglia e racconta una storia terrificante, di una moglie incinta che scopre di avere un cancro al cervello e il sindacato gli sta vicino, gli procura gli specialisti giusti, le cliniche giuste, l’assicurazione con cui riesce a pagare le cure. Oggi moglie e figlia stanno bene. Gli sceneggiatori hanno una lunga storia di lotte, che risale agli Anni 60. La loro controparte è l’AMPTP, l’Alliance of Motion Pictures and Television Producers, che ha sede a Encino (Cal.), ne fanno parte gli otto colossi del settore, dalla Fox alla Disney, dalla NBC a Viacom. Ogni tre anni rinnovano il contratto, il Minimum Basic Agreement (MBA) cui vengono aggiunte altre clausole. Stavolta la richiesta della gilda era importante: gli sceneggiatori volevano una fetta della torta rappresentata dai nuovi supporti, internet, dvd, videofonini ecc..

Ed è su questo che lo scontro si è inasprito. Convinti di logorarli, l’AMPTP ha tenuto duro ed è accaduto il contrario. Il fronte padronale si è sfaldato, una a una, le piccolo-medie case produttrici hanno firmato contratti separati, mentre i 12 mila compatti andavano avanti sotto una crescente solidarietà, che andava dalla Screen Actors Guild (SAG) che ha il contratto in scadenza nel giugno 2008, ai vecchi Teamsters e all’International Longshore and Warehouse Union, due sindacati dei lavoratori dei trasporti e della logistica (dice niente?). Sono commoventi le foto dove vedi vecchie glorie del cinema, ottantenni, novantenni, in carrozzella, sfilare coi giovani e inalberare cartelli, c’è una solidarietà intergenerazionale e professionale sorprendente. I membri della gilda erano tenuti costantemente informati dei negoziati, un rapporto tra base e vertice di grande fiducia (anche se all’approvazione dell’accordo finale ci saranno un po’ di contrari). La comunicazione via internet è garanzia di questa trasparenza, di questo rapporto democratico. E’ Richard Freeman che alla fine degli Anni 90 aveva intravisto le grandi possibilità che Internet offre all’organizzazione sindacale, all’associazionismo dei lavoratori (Will Unionism prosper in Cyberspace? The Promise of the Internet for Employee Organization sul “British Journal for Industrial relations” del settembre 2002).

Ma internet richiede un’organizzazione fitta, richiede competenze sofisticate. Per tenere in piedi per tre mesi siti come www.wga.org oppure www.unitedhollywood.com occorre avere una struttura in grado di reagire in tempo reale, un giro di uomini e donne che manco una multinazionale riesce a mobilitare. Oppure è la mia ignoranza di settantenne che piglia abbagli?
Avere potere d’interdizione, di blocco del processo produttivo, oggi ancora non basta, occorre essere collocati in posizioni di grande visibilità e il mondo del cinema è uno di questi. I militanti di WGA hanno bloccato la consegna dei Golden Globe, un business miliardario. La controparte ha ceduto pochi giorni prima della consegna degli Oscar, perché gli sceneggiatori erano pronti a bloccare anche quella. Il loro sciopero ha lasciato a casa decine di migliaia di lavoratori del ciclo produttivo, appartenenti ad altre categorie. L’AMPTP sperava che questi si rivoltassero e rompessero i picchetti, non è accaduto e questo vuol dire qualcosa.
Mentre rivedo gli appunti per l’articolo, i testi che ho scaricato, mi viene un’illuminazione. Non ho visto nessun sociologo, nessun professore pontificare su quella lotta, nessuna sentenza sputata da salive accademiche, miracolo! Stare davanti al video e seguire in diretta questi eventi è come assistere al ricostituirsi di tessuti per anni intaccati dalla metastasi del neoliberalismo, dell’individualismo, dell’ideologia del fai-da-te, è tornare a vedere uomini e donne che fanno la cosa più elementare del mondo: difendere la propria condizione di lavoratori. Una cosa familiare per noi un tempo, oggi diventata rara.

Mi chiedono di staccare, c’è il film della Comencini In fabbrica su Rai3. Qui c’è la classe operaia vera, te la ricordi? Diamine, riconosco luoghi, volti, situazioni. Manca un sacco di roba, la chimica tanto per dire, manca la Madre di tutte le lotte, quella degli elettromeccanici milanese del ’60. Ma non importa, va bene lo stesso e alla fine il capolavoro, le ultime interviste a metalmeccanici di oggi. Due immigrati-zio Tom e due ragazze spente, un capetto contento di essere competitivo. Ecco come li hanno ridotti un quarto di secolo di cure. Torno al video: la Sinistra, dice una notizia, rimette al centro il lavoro. Avrebbe dovuto farlo vent’anni fa. Oggi non sa nemmeno cosa sia il lavoro.

articolo pubblicato sul Manifesto del 5 febbraio

5 COMMENTS

  1. Ha colpito molto anche me lo sciopero degli sceneggiatori americani. In Italia, ve lo dico dal basso della mia esperienza, sarebbe assolutamente inimmaginabile. Qui siamo al “homo homini lupus”.

    Bologna for president!

  2. Esatto. “Homo homini lupus”, ma non per l’innato egoismo della specie umana, non per bieco istinto di sopravvivenza che travalica le ragioni della solidarietà e della giustizia. La gramigna dell’individualismo produttivistico/aziendale non è germinata da sé, qualcuno l’ha insufflata nei gangli di una società (quella di fine ’70) stanca di lotte e tensioni risorgenti (contro il totalitarismo armato, contro l’arrembaggio revanchista delle imprese, contro le pretese ricorrenti del clero, etc.). Quel qualcuno ha, se non un nome e un cognome, almeno un punto di origine: la tv commerciale e il dispiegarsi di un’involutivo concetto della cultura e dell’informazione al servizio del profitto e del potere. L’asse Craxi-Berlusconi minò in quegli anni la capacità di resistenza di un assetto sociale ormai infiacchito: sparisce il pensiero critico, spariscono le ideologie, dilaga un pensiero che più che unico è unificante, cioè un non-pensiero. Ne scaturisce un prototipo di cittadino medio tele-asservito, preda delle semplificazioni più ebeti: che l’emozione scaturisca da un film, che il successo si misuri in moneta, che i sacrifici “debbano farli tutti”… Quel “tutti” sono stati, da allora, solo e sempre i lavoratori: dalla sconfitta sulla scala mobile al progressivo affossamento dello statuto, al lavoro è stata tolta la dignità, ai lavoratori persino la consapevolezza dell’abuso subito. Complici sindacati e sinistra politica, l’arretramento culturale è divenuto mutazione antropologica: a tanti giovani appare inevitabile (naturale) un’occupazione precaria e sottopagata, perché dipende dalla globalizzazione… Né manca chi instaura una sorta di contrappasso generazionale, per cui l’odierna negazione di diritti sarebbe frutto di un eccesso di diritti in passato (ed è di nuovo qualcuno nella c.d. sinistra). Siamo al punto di dover seguire con invidia le lotte dei lavoratori americani, in assenza di speranze nostre. Insomma, seguitiamo ad esistere, come società e come individui, in una fiction etero-diretta: i produttori si fregano le mani…

  3. I lavoratori in Italia sono più individualisti per un semplice motivo: in Italia non c’è lavoro. Cioè ci sono tutti lavori del cazzo, e microimprese che quando muore il padrone abbassano la serranda.
    In questo contesto uno non rischia il posto per rivendicare diritti, perché rischia di non ritrovarlo più. O di trovarne uno peggiore.
    Insomma, il contesto produttivo che dovrebbe fornire lavoro in Italia fa ridere.

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francesco forlani
francesco forlani
Vive a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman e Il reportage, ha pubblicato diversi libri, in francese e in italiano. Traduttore dal francese, ma anche poeta, cabarettista e performer, è stato autore e interprete di spettacoli teatrali come Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, con cui sono uscite le due antologie Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Corrispondente e reporter, ora è direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Con Andrea Inglese, Giuseppe Schillaci e Giacomo Sartori, ha fondato Le Cartel, il cui manifesto è stato pubblicato su La Revue Littéraire (Léo Scheer, novembre 2016). Conduttore radiofonico insieme a Marco Fedele del programma Cocina Clandestina, su radio GRP, come autore si definisce prepostumo. Opere pubblicate Métromorphoses, Ed. Nicolas Philippe, Parigi 2002 (diritti disponibili per l’Italia) Autoreverse, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2008 (due edizioni) Blu di Prussia, Edizioni La Camera Verde, Roma Chiunque cerca chiunque, pubblicato in proprio, 2011 Il peso del Ciao, L’Arcolaio, Forlì 2012 Parigi, senza passare dal via, Laterza, Roma-Bari 2013 (due edizioni) Note per un libretto delle assenze, Edizioni Quintadicopertina La classe, Edizioni Quintadicopertina Rosso maniero, Edizioni Quintadicopertina, 2014 Il manifesto del comunista dandy, Edizioni Miraggi, Torino 2015 (riedizione) Peli, nella collana diretta dal filosofo Lucio Saviani per Fefé Editore, Roma 2017