“eppur si muore”
di
Sergio Bologna
Io non credo che interventi legislativi o misure organizzative (come ad es. la creazione di un pool di magistrati specializzato) possano produrre effetti di una qualche rilevanza nella lotta agli incidenti mortali sul lavoro. Com’è possibile prescrivere una terapia quando non si conoscono le condizioni del paziente? Posso peccare di presunzione, ma sono quasi certo che le istituzioni non hanno presente la mappa del mercato del lavoro in Italia, nemmeno a grandi linee. E quindi non hanno la più pallida idea della mappa del rischio. Cominciamo da un dato: il differenziale di circa 2,4 punti percentuali tra l’incidenza dei morti sul lavoro in Italia rispetto al resto dell’Europa è dovuto al fatto che da noi si muore “in itinere”, cioè mentre ci si sposta per lavoro o per andare o tornare dal luogo di lavoro. Quindi “il luogo” di lavoro di per sé, concepito come luogo fisico, non sarebbe più rischioso in Italia di quanto sia quello di altri Paesi europei. E’ lo spazio della mobilità quello più rischioso. Perché?
La rivoluzione postfordista ha agito in due direzioni: 1) ha man mano “dissolto” il luogo di lavoro come spazio fisico separato mischiandolo sempre più al luogo di vita privata e lo ha dilatato nello spazio (despazializzazione del rischio), 2) ha – come in nessun altro Paese d’Europa – affidato la gestione del rischio a un’entità particolarissima, quella che forma la caratteristica più tipica dell’Italia, cioè la microimpresa. E quando intendo microimpresa intendo un’entità talmente piccola che stento a riconoscere in quella le caratteristiche istituzionali di un’impresa – cioè di qualcosa che ha bisogno almeno di tre ruoli sociali, il capitale, il manager e l’operaio. Io vorrei prendere per mano il Ministro Damiano, il dottor Epifani e il dottor Guariniello e metterli di fronte a quella semplice tabella ISTAT che sono solito riprodurre in tutte le mie presentazioni. Da cui risulta che più di 6 milioni di persone – su un totale di 24 – lavora in unità impropriamente chiamate “imprese” la cui dimensione media è 2,7 addetti. Ma c’è qualcosa di più recente. Il 29 ottobre 2007 l’ISTAT pubblicava una nuova serie di dati, cito: “Nelle microimprese (meno di 10 addetti), che rappresentano il 94,9 per cento del totale, si concentra il 48,0 per cento degli addetti, il 25,2 per cento dei dipendenti, il 28,3 per cento del fatturato ed il 32,8 per cento del valore aggiunto. In esse il 65,1 per cento dell’occupazione è costituito da lavoro indipendente”. Perché questa assurda miniaturizzazione dell’impresa in Italia? Per ottenere flessibilità, minori costi del lavoro ma anche per trasferire sui più deboli il rischio. Paradossalmente ha ragione la Confindustria quando protesta contro i decreti d’inasprimento delle sanzioni. Le sue imprese, quelle che hanno firmato gli accordi sindacali, quelle dove vige ancora l’art. 18, il rischio lo hanno esternalizzato da vent’anni, non è roba loro, ma dei loro fornitori, dei subappalti, delle cooperative di lavoro, degli autonomi, in una parola, è roba scaricata sulla microimpresa! Pertanto il rischio ha cambiato sede, si è trasferito sui percorsi della mobilità (morti “in itinere”) e si è annidato nei piccolissimi organismi della microimpresa, là dove padrone e operaio stanno a galla per miracolo e dove il padrone muore assieme all’operaio (vedi Molfetta). Il caso Thyssen è un caso anomalo, non bisogna prenderlo a misura delle cose. Le maggiori sanzioni previste nei decreti non colpiranno mai le piccole, medie, le grandi imprese – colpiranno sempre, state sicuri, quei poveracci che se la cavano in mezzo a mille difficoltà. Ma sono quelli che mandano avanti questo Paese, sono quelli che garantiscono la tenuta occupazionale, sono quelli che per vent’anni si sono assunti sulle spalle la responsabilità del rischio! Senza poter dettare le condizioni del loro lavoro ma subendo i ritmi voluti dai committenti. E sono questi ritmi ad uccidere, malgrado tutte le attrezzature antinfortunio. Che te ne fai dei tuoi fottuti caschi, scarponi, cinture, occhiali, della tua fottuta segnaletica quando devi scaricare da una nave 37 container all’ora e invece di otto ore ne devi lavorare dodici, perché senza gli straordinari non arrivi a fine mese?
Misure legislative, azione repressiva della magistratura, diavoleria dell’antinfortunistica – tutta roba inutile. Bisogna rovesciare i rapporti sociali che hanno creato questa infame e incivile condizione del lavoro oggi in Italia, per cui sui più deboli economicamente si è scaricato non solo tutto il rischio fisico ma anche tutta la responsabilità civile e penale del medesimo. Non è un caso, è la riprova di quanto sto dicendo, che sia a Genova che a Molfetta la colpa degli incidenti è stata attribuita o alle vittime (“non hanno indossato le mascherine”) o ai compagni delle vittime. Malvolere di magistrati? No, il rischio è stato strutturato in modo che la colpa sia sempre delle vittime. Postfordismo all’italiana. Uscire da questa condizione è una strada lunga, lo so, ma questa è la realtà, questo il risultato di aver messo in soffitta per più di vent’anni il problema del lavoro.
Lo so che mi ripeto, ma gli articoli di Sergio Bologna sono di una limpidezza che mi lascia ogni volta ammirato. Mi piacerebbe sentire il seguito. Da dove cominci, se non dall’attività legislativa, a redistribuire onori, oneri e rischi?
Sergio, ti ho citato ampiamente in uno dei capitoli centrali del mio libro prossimo (lo chiudo domani) sulle morti sul lavoro. L’incontro con le tue riflessioni sulle cosiddette mircoimprese mi è stato molto utile per tirare le fila di un discorso che andavo facendo in viaggio per l’Italia a fare diventare storie i “casi”, a farli uscire dai loculi anagrafici dei giornali. Anche su quello che dici qui sono completamente d’accordo. Una piccola precisazione però la farei sull’incidenza delle morti in itinere – che vanno ulteriormente scorporate in commuting accidents e in itinere veri e propri (ciò che il confindustriale Bombassei si guardava bene dal fare). Stando alle elaborazioni di Domenico Suppa sui dati Eurostat (www.liberarete.it) l’incidenza maggiore delle morti non è conseguenza esclusiva, e nemmeno in via principale, della moblità.
L’attuazione delle norme anti-infortunistiche richiedono anche delle conoscenze che non necessariamente sono presenti in una microimpresa: a me è capitato di lavorare in un reparto di produzione con quaranta operai dove c’erano due persone che si occupavano al 50% di sicurezza, che verificavano che le procedure venissero rispettate, che facevano corsi di ripetizioni e che organizzavano esercitazioni, c’era in altre parole il know-how adeguato. In un’impresa con 2.7 addetti chi è che ce l’ha questo know-how?
Comunque sì, concordo la conclusione di Bologna: la tendenza verso la microimpresa come attività di rimodellazione della struttura del rischio, rischio per la salute dei lavoratori, ma anche rischio economico, aggiungo io.
P.S. Rovelli, ho l’impressione che tu e Bologna adoperiate «mobilità» in due accezioni diverse.
Molti degli incidenti e le morti sul lavoro che rientrano nelle statistiche ISTAT sono fasulli. Molte persone, per poter incassare denaro dall’INPS, fanno figurare come infortuni o morti sul lavoro quegli incidenti che avvengono spesso in altri contesti. Chi lavoro nel campo della consulenza del lavoro sa che queste sono pratiche abbastanza diffuse. Ora, questo non cambia quanto detto sopra, ma è un fatto di cui tenere conto quando si parla dei numeri allarmanti che ci sono in Italia.
No, P.O., mi riferivo proprio alla questione delle morti in itinere a cui accenna Sergio all’inizio dell’articolo, e che è stata al centro di una piccola campagna confindustriale alla quale hanno bene risposto – e credo definitivamente – Emiliano Brancaccio e Domenico Suppa.
Quanto alla pratiche fasulle, credo che sia infamante dire che le morti sul lavoro sono gonfiate da morti di tipo differente. Quel che risulta, se mai, sono pratiche di morti sul lavoro che vengono fatte passare come incidenti stradali, o che vengono abbandonati sulle strade. E quanto agli infortuni, se è facile intuire che esistano pratiche fasulle, è altrettanto facile sapere che per molti (stranieri e lavoratori al nero, che sono il 19%) è esattamente l’inverso.
Non si parla del suicidio a causa del lavoro, della pressione.
Cio che dice l’articolo è vero: “il rischio è stato strutturato in modo che la colpa sia sempre delle vittime.”
E’ una manera di attenuare la colpevolezza di una società che preferisce la merce all’essere umano, il rischio alla protezione, la negligenza al rispetto dell’ operaio, la corsa al profitto.
La funzione delle morti sul lavoro è, nell’ottica dell’informazione, analoga a quella della cronaca nera. Si apre sul fatto, si elencano particolari agghiaccianti, si sollecita il cordoglio degli amici, si amplifica lo sdegno del Presidente, poi ogni 25 decessi si fa “bingo” e si ospitano le parole commosse di Ratzinger all’angelus. Il tutto con tono e faccia d’occasione, quasi come colonna sonora. Cui il pubblico si adegua, sbattendo frenetico le mani al brillio della lucina verde. A Confindustria che osteggia il decreto-sicurezza si dà dignità televisiva, forse a ragione del ciuffo telegenico di Luca Cordero. Al funzionario Tyssen che fa visita ai parenti delle vittime si accorda assenso mediatico. Al capo degli industriali della meccanica si garantisce un posto in Parlamento. Un partito che si definisce progressista in mezzo minuto abolisce la dinamica capitale/lavoro, in un progetto di pacificazione coatta che richiama l’assetto corporativo del ventennio. Come si coniuga lo sdegno universalmente esibito col sostanziale avallo che la società (civile, politica, informativa) ha concesso alla dismissione inesorabile dei diritti dei lavoratori? Il rischio aziendale, l’ansia produttiva, la competizione assassina sono cespiti di un patrimonio sociale indiscusso, fortemente maggioritario nei cliché della produttività e del mercato, trasversale a qualsiasi stratificazione. L’inno di Mameli alla partita accomuna gli italiani più di quanto non li divida la vetusta lotta di classe, Marcello Pera ha avuto ragione di Marx, i cittadini applaudono le bare…
Bologna si presenta in qualche lista? Dove lo si può votare?
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Il successo che in Europa e particolarmente in italia ha l’argomento “sicurezza” dipende dal fatto che è un business sostenuto dalla legislazione CEE.
In certe dimensioni di lavoro, ben specificate nel post, “mettere a norma” l’attività significherebbe chiudere per l’impossibilità di assolvere a investimenti tanto esosi, privi di facilitazioni da parte dell’amministrazione pubblica.
Noi paghiamo cassa integrazione e agevolazioni finanziarie e fiscali a grandi industrie per vendere automobili o altri prodotti, ma se un piccolo artigiano deve rifare l’impianto di ventilazione o elettrico non gode di nessun aiuto ed è costretto a monetizzare il rischio che fintanto che resta virtuale costa meno dell’adeguamento previsto dalla legge, o peggio, spende poco in attrezzature omologate che finiscono per essere inutilizzabili per la bassissima qualità e affidabilità.
Oltre alle morti sul lavoro che raggiunto un quorum fanno notizia sarebbe opportuno aggiungere una categoria ben più silenziosa che è quella della malattia professionale, spesso con esito letale, ma meno telegenica del violento splatter dell’incidente sul lavoro.