L’anima ardita di Björk e l’animismo islandese
di Viola Di Grado
“Regina degli Elfi e dei Trolls”, “La voce dei geyser”, “L’urlo dei vulcani”. Björk, cantante islandese, è stata spesso trasformata dai media in inquietanti ibridi folkloristici dal sapore esotico o epico-naturalistico.
Su Mtv, addirittura, circolava uno spot in cui un neonato smarrito nella foresta veniva portato via e allevato da strane creature dei boschi, mentre una scritta rivelatrice identificava il neonato in Björk. Ebbene, senza arrivare a questi estremi fiabesco-compulsivi, esaminando le sue canzoni si scopre che esiste davvero un legame molto forte tra Björk e la sua cultura d’origine. Addirittura, questo legame è spesso così marcato da apparire quasi religioso. In particolare si tratta di una venerazione della natura dagli echi marcatamente pagani, echi non meno forti di quelli espressi nelle canzoni folkloristiche e poesie islandesi, e sicuramente non meno vibranti di sacralità. L’estetica dei rumori che contraddistingue l’album Vespertine (2001) conta fra i tanti il suono dei passi sulla neve, tormentone della canzone Aurora. La canzone descrive un pellegrinaggio verso il picco di un ghiacciaio: la pellegrina Björk prega la dea Aurora di curare il suo dolore facendo sorgere il sole, e alla fine di quest’ascesa religiosa si offre di sacrificare alla dea il suo stesso corpo. Oltre alla forte connessione – presente nell’immaginario di molte culture antiche – tra la scalata dei monti e l’acquisizione di poteri magici o rivelazioni mistiche (come nel culto Maria Lionza in Venezuela e nello Shugendō in Giappone), è da notare che la canzone ricorda molto la poesia “Il contadino nel tempo fradicio” di Jónas Hallgrímsson (1807-1845), poeta islandese molto apprezzato in patria.
Dea della pioggerella
che guidi i tuoi
carri di nebbia
lungo i miei campi!
Mandami un po’ di sole
e sacrificherò
la mia mucca, mia moglie
la mia cristianità!
Aurora, Dea della Luce
l’ombra del monte ricalca la tua forma.
M’inginocchio
mi riempio la bocca di neve
nel modo in cui si scioglie
vorrei sciogliermi anch’io
dentro di te.
(Jónas Hallgrímsson, Dalabóndinn í óþurrknum) (Da: Björk, Aurora)
Lo spunto del sacrificio rituale è lo stesso di “Aurora”. Il climax tragicomico mucca-moglie-cristianità mette in luce un dato fondamentale per comprendere il legame viscerale, corporeo, tra gli Islandesi e la natura: in un paese agricolo che ogni giorno doveva affrontare le crudeltà imprevedibili della natura, la fede cristiana, sebbene ufficiale, sembra un lusso fuori posto. Un contadino disperato per la mancanza di sole, che interesse può avere per le pene di un presunto aldilà se deve prima combattere con quelle più imminenti e apocalittiche della natura?
E quella islandese è una natura brutale, che come dice Björk “Ti rende umile” (Minuscule, 2003). Umile come la pellegrina assetata di luce che s’inginocchia e si riempie la bocca di neve, ricalcando provocatoriamente il gesto della Comunione cristiana. Mangiando il “corpo” della neve, pregando una Luce personificata e addirittura idolatrata di “sciogliersi dentro di lei”, Björk offre un’alternativa autentica, carnale, al formalismo cerebrale delle religioni monoteiste. Lei stessa ha dichiarato più volte alla stampa, parlando del passaggio dalle sonorità riflessive e sperimentali del suo album Medulla (2004) a quelle più schematiche, primitive di Volta (2007): “Basta con le stronzate della religione, dobbiamo accettare che siamo solo esseri umani che danzano nelle caverne”.
Non è una coincidenza che le canzoni di Björk più vicine alla tradizione islandese siano in islandese: a partire dall’album Glin-Gló (1990), precedente al suo grande esordio da solista, che appare ossessionato da topoi indigeni come il rito di passaggio, la relazione madre-figlia, gli elfi e i Trolls. Così, se è vero che le era necessario “divorziare” dalla lingua islandese per poter esplorare nuovi territori musicali e concettuali, è anche vero che per tornare ad essi lei è tornata spontaneamente alla lingua islandese: una delle più recenti canzoni di Björk in islandese, “Vökuró” (Medulla), è un’elegia alla natura non meno struggente delle più famose canzoni folk islandesi, e presenta sonorità molto simili (nonché l’uso frequente del coro).
Solo nell’ultimo verso nella natura subentra un essere umano, cioè la figlia di Björk, che chiude dolcemente gli occhi. Il video di una delle sue canzoni più famose, “Jóga” (Homogenic, 1997), mostra lo stesso tipo di slittamento dalla smodata adorazione della natura a un’unica immagine umana: Björk sdraiata, avvolta in un enorme cappotto bianco, anche lei con gli occhi chiusi. La scena ricorre ciclicamente all’inizio e alla fine, caso rarissimo nei video di Björk, in cui lei non scompare quasi mai dallo schermo.
Il passaggio dall’istantanea fulminea dell’unico essere umano alla prolissa elegia della natura e poi di nuovo all’essere umano (abbandonato alla natura, come suggeriscono gli occhi chiusi) non risulta artificiale, anzi sembra quasi ovvio. Tra l’altro, subito dopo la sua ricomparsa, il corpo di lei viene letteralmente invaso dai paesaggi, attraverso un buco all’altezza del cuore. Gli “emotional landscapes” di cui parla nella canzone sono allo stesso tempo paesaggi veri e propri ed emozioni umane, perché fare una distinzione?
Per capire d’istinto quanto suonino islandesi le sue canzoni, basterebbe sentire di seguito “Vökuró” e “Vísur Vatnsnenda-Rósu”, scritta dalla poetessa islandese Rosa Gudmundsdottir (1795-1855) e arrangiata da Jón Ásgeirsson, canzone tradizionale poi ripresa da Björk: senza sapere che quest’ultima è una cover, chiunque crederebbe che le canzoni siano state composte dalla stessa persona. A parte le somiglianze di cui ho già parlato, le due canzoni enfatizzano allo stesso modo gli occhi della persona a cui si rivolgono, che se in “Vísur Vatnsnenda-Rósu” sono “deliziose pietre” in “Vökuró” sono “occhi delle profondità”. E gli “occhi” di entrambe le canzoni sono legati agli occhi del “parlante” dalla coscienza di appartenere a uno stesso universo intimamente associato, pur nella sua grandiosità, alla loro privata unione: “Vökuró” parla di una fattoria in comune, poi dell’erba in comune, poi della “tranquilla e fredda primavera”, per culminare nel “grande mondo” che “si sveglia pazzo d’incanto”. La ben più breve “Vísur Vatnsnenda-Rósu” accenna invece un “Il mio era tuo, il tuo era mio”.
Escludendo le canzoni in islandese, che comunque formano un’esigua parte dell’immensa produzione björkiana, le canzoni in inglese tendono alla ricerca di un compromesso tra l’abbandono alla natura e l’inseguimento del futuro. Cioè, tra gli archi e i beats. Più che al compromesso in sé, tuttavia, Björk sembra interessata al processo di ricerca di questo compromesso. In “Jóga” i beats piovono sugli archi e poi si spezzano, e ancora ritornano, e poi di nuovo si spezzano, dando un’impressione di fluidità ma anche di progressione, che fa pensare alla continua crescita biologica del territorio islandese (a cui infatti è dedicata la canzone). In “Hunter” (Homogenic) la lotta tra natura e tecnologia è rappresentata, oltre che musicalmente, visivamente: una Björk calva combatte contro l’inevitabile trasformazione della sua testa in quella di un cyber-orso. Chi vincerà, la Björk “naturale” o quella virtuale, non ci è dato saperlo. Ma il titolo della canzone, “Cacciatore”, è una dichiarazione esplicita della sua missione estetica e musicale di cantante islandese nel mondo: non trovare la sintesi tra natura e strutturalizzazione umana, ma avventurarsi coraggiosamente nella sua ricerca.
“Quando sarò morta – disse una volta Björk – Vorrei che sulla mia lapide fosse scritto Donna coraggiosa”.
E’ sorprendente come un’artista originaria di un paese apparentemente un po’ dimentico del mondo, sia riuscita a farne migrare atmosfere e cultura fuori dai rudi e freddi confini. Nel suo percorso di ricerca è penetrata mascolinamente in milioni di anime occidentali, sorprese dalla potenza dei messaggi contenuti nei testi e nella copula tra l’elettronica e uno strumento antico come l’arpa.
Mi domando se il significato dell’epitaffio da lei desiderato non si riferisca a questo: l’abbandono dell’autosufficienza isolana e la mutazione in veicolo interpretativo e di “esportazione”, mi si consenta il termine antiestetico, di terra, acqua e fuoco islandesi. Un ritorno all’universale femminile per vie musicali e artistiche di un popolo di stirpe antica ed orgogliosa.
Una sintesi fra ghiacci e vulcani, compiuta anche da gruppi come Sigur Rós e GusGus, per citare i più conosciuti.
Magnifico articolo. Ho trovato interessante il vincolo tra la creazione della cantante Björk e la cultura del suo paese nordico.
Amo questa donna originale che ha nella voce la luce selvatica della sua terra, la fantasia. Un’ isola molto vicina della luna o di un universo magico, attarversato di creature leggere, troppo delicate per vivere altrove.
Il commento di Plessus dice l’avventura di una cantante affrontando il confino, migrando come una stella polare.
grazie a Andrea per il post.
Bellissimo pezzo. Purtroppo la cultura islandese è preclusa ai più, e quando si parla di Bjork, che pure tanto si è battuta per portarla nel mondo, non si riesce a non finire al modello mtv di fiaba epica naturalistica. grazie del post
Al di là del fatto che la cultura islandese sia preclusa ai più, la cosa interessante mi sembra proprio che l’artisticità di Bjork sia evasa dai suoi confini nazionali e con essa le sensazioni particolari che l’Islanda (terra strepitosa) può produrre. Da spassionata ammiratrice di Bjork da sempre non posso che ringraziare per il bellissimo post.
Mi sembrano molto interessanti le relazioni con la poesia islandese, oltre che naturalmente con la cultura “pagana” della sua terra. Si potrebbe avere altro, un contributo sulla poesia d’Islanda?
PAGAN POETRY (Poesia Pagana)
Pedalando attraverso le correnti oscure
trovo la copia accurata
una cianografia
del mio piacere
incisa in un codice segreto
[ gigli neri volteggiano completamente sbocciati]
incisa in un codice segreto
mi offre una stretta di mano
con cinque dita curve
che formano una trama
ancora da completare
la superficie e’ semplice
ma il fondo piu’ oscuro di me
e’ poesia pagana
poesia pagana
[ gigli neri volteggiano completamente sbocciati]
segnali : codice : morse
pulsano : mi svegliano
dall’ibernazione
la superficie e’ semplice
ma il fondo piu’ oscuro di me
e’ poesia pagana
…lo amo
stavolta
mi terro’ per me stessa
stavolta
mi terro’ tutto per me stessa
anche se lui mi fa desiderare
di cedermi
*
PAGAN POETRY
Pedalling through
The dark currents
I find
An accurate copy
A blueprint
Of the pleasure
In me
Swirling black lilies totally ripe
A secret code carved
Swirling black lilies totally ripe
A secret code carved
He offers
A handshake
Crooked
Five fingers
They form a pattern
Yet to be matched
On the surface simplicity
But the darkest pit in me
It’s pagan poetry
Pagan poetry
Morsecoding signals (signals)
They pulsate (wake me up) and wake me up
(pulsate) from my hibernate
On the surface simplicity
Swirling black lilies totally ripe
But the darkest pit in me
It’s pagan poetry
Swirling black lilies totally ripe
Pagan poetry
Swirling black lilies totally ripe
….
I love him, I love him
I love him, I love him
I love him, I love him
I love him, I love him
She loves him, she loves him
This time
She loves him, she loves him
I’m gonna keep me to myself
She loves him, she loves him
She loves him, she loves him
This time
I’m gonna keep my all to myself
She loves him, she loves him
And he makes me want to hand myself over
She loves him, she loves him
She loves him, she loves him
And he makes me want to hand myself over
Un bel pezzo questo di Viola sulla mia artista del cuore. Mi sembra importante il tema della natura, da non confondere, come suggerisce smaniz, con una mitologia buonista del selvaggio. Una natura estrema come quella di luoghi alla fine del mondo, da una parte nutre l’immaginazione, dall’altra mette l’essere umano sempre a dura prova. Occorre forgiare il proprio linguaggio dalla natura, in certi luoghi, non tanto per l’ammirazione, ma proprio per la sua concreta, crudele, straordinaria presenza. Sulla contaminazione con la poesia di cui dice Aditus: Bjork collabora con il poeta islandese Sjon, che ha scritto Bachelorette, Isobel e Oceania. Qui: http://faculty.mccfl.edu/Jonesj/LIT2090/Iceland.ppt ci sono alcune poesie di poeti islandesi, però la traduzione è in inglese…
Riguardo alla marginalità della cultura islandese – è vero che l’associamo sempre a realtà remote, eppure se pensiamo all’Edda di Snorri Sturluson, nel tredicesimo secolo, troviamo che parte della nostra eredità europea passa proprio per questa strana, lontana isola.
Parlando a un albero frondoso
“Non sarò poeta finché non senterò che tu
sei parte del mio sangue, che mi sono fatto te:
un’arpa di verdi fronde fra le mani del buio e della luce
del cielo e della terra: divenuto te, che sei un ponte
che il sole e la terra hanno alzato fra loro
divenuto un potente strumento nelle mani della vita
un’arpa di corde viventi -come te.”
Hannes Pétursson (1931-)
Aditus, questo è il sito che raccoglie gli scritti del poeta che ho citato:
https://www.nazioneindiana.com/2008/04/10/l%e2%80%99anima-ardita-di-bjork-e-lanimismo-islandese/#more-5639
(E grazie a tutti di aver apprezzato il mio pezzo)
Ops! Per sbaglio ho misteriosamente linkato a questa stessa pagina! Il link giusto è questo:
http://www.library.wisc.edu/etext/Jonas/Texts.html
Ciao Viola,
complimenti per l’articolo, mi è piaciuto tantissimo: cogli in maniera precisa il rapporto uomo-natura dell’islandica, rapporto “strano” per noi comodi abitanti del caldo “sud” del mondo (sud almeno rispetto a reykjavik).
Solo una precisazione da fan spocchioso (perdonami!!!): Vökuró non è di bjork. E’ una cover che inizialmente avrebbe dovuto essere su Vespertine (o almeno una b-side di quel periodo) e per la quale lei aveva ordinato una music box alla Porter (come per frosti, pagan poetry ed aurora). Il carillon non fu mai costruito ma la passione per il pezzo restò e fini’ su medulla con arrangiamento vocale.