Da “Fiore inverso”

(È da poco uscito Il fiore inverso, ultimo lavoro – libro+cd – di Lello Voce e Frank Nemola. Pubblichiamo qui un estratto del saggio Per una poesia ben temperata, incluso nel libro, e una traccia audio.)

 

di Lello Voce

(…) Una delle ragioni per le quali la poesia ‘muta’ e gli integerrimi custodi della letteratura, i critici letterari e i filologi, hanno avuto cura di rifiutare con costante fermezza ogni rapporto possibile tra poesia e musica, pur dinanzi all’evidenza storica di un dialogo costante e di una condivisione sentita a lungo come necessaria da entrambe le arti, è probabilmente proprio il bisogno di cancellare ogni memoria di un rapporto che, al solo ricordarlo, avrebbe posto di nuovo la poesia di fronte alla sua natura sostanzialmente orale e sonora.

Per altro verso, molti musicologi hanno storto il naso, intimoriti dal dover rinnovare il loro strumentario – ormai squisitamente musicale – con nozioni e attenzioni strettamente linguistiche e ‘letterarie’.

Se si pensa alla competenza metrico-prosodica, ma anche ‘musicale’, del Carducci, nell’analizzare, ancora alla fine del XIX secolo, i generi ‘misti’, dal Medioevo sino al Romanticismo, si resterà stupefatti di tale impoverimento degli strumenti ermeneutici della critica attuale. In Italia, poi, la divaricazione tra poesia e musica ha una storia tutta particolare e particolarmente aspra, così come sostanzialmente noncuranti l’una dell’altra sono state le due corporazioni dei filologi e dei musicologi, almeno a partire dai primi del XX secolo.

Con tante eccezioni, ovviamente, come quella di Nino Pirrotta, musicologo insigne, che ai rapporti tra musica e poesia ha dedicato decenni di studio, sui cui sentieri mi ha condotto Stefano La Via.

Mi riferisco alla tesi del Contini studioso del Petrarca (poi ripresa, approfondita e ribadita dal Roncaglia) secondo il quale uno dei meriti dei poeti della Scuola siciliana sarebbe stato proprio l’aver sancito: “il divorzio così italiano (onde poi europeo) di alta poesia e di musica […] l’iniziativa, tanto vivace rispetto ai provenzali classici, d’avere in tutto disgiunta la poesia dalla musica”. La tesi è, però, come ampiamente dimostrato da Pirrotta, del tutto apodittica e fa una certa impressione a rileggerlo ora, quel “così italiano” che avrebbe certo fatto rabbrividire il De Sanctis, così come resta un mistero cosa il Contini trovasse di “vivace” in un divorzio che esiliava la poesia dal suono e dalla voce, relegandola all’immobilità del segno scritto.

Colpisce, oggi, rileggere anche un altro passo del Pirrotta sull’Arcadia, in cui a me pare di poter individuare la matrice di tante posizioni schiettamente conservative e corporative che sono ancora di circolazione comune: “dall’Arcadia in poi grava sulla letteratura italiana l’ombra di un persistente pregiudizio che, facendo aurea eccezione per la poesia cantata di tipo trovadorico, tende a considerare come inferiore ogni poesia destinata ad associarsi con la musica”. Già: proprio così.

Né si potrà negare che da atteggiamenti del genere non sia stata esente la stessa poesia sperimentale e della Neo-Avanguardia, almeno nel suo aspetto più conosciuto, che pure voleva se stessa profondamente anti-Arcadica. Per altro verso, nel corso dei secoli, i generi ‘misti’ hanno visto un impoverimento progressivo delle qualità del testo poetico, che ha fatto sì che molti di essi migrassero definitivamente in ambito musicale.

La stessa ‘forma canzone’, così come noi la conosciamo oggi e per come essa è praticata da un ventaglio vastissimo di autori e interpreti è, con buona probabilità, una di queste. Peraltro già dal Quattro-Cinquecento il rapporto tra musicisti e poeti è sostanzialmente interrotto e i madrigalisti preferiscono pescare i loro testi dal ricco e prezioso serbatoio dei secoli precedenti, da Petrarca e Boccaccio, ad esempio. Madrigale poetico e madrigale musicale hanno definitivamente divorziato.

Per altro verso, si dice, soprattutto dal versante musicologico, che ogni rapporto tra poesia e musica sia inopportuno, perché la poesia avrebbe già in sé la sua ‘musica’: giustapporne un’altra non sarebbe di giovamento alcuno. Giusto: la poesia ha certamente una sua musica, una sua ritmica, una sua melodia, ciò che non è chiaro, però, è perché mai non dovremmo eseguirla, anche vocalmente e strumentalmente.

Va chiarita, a questo punto, una volta per tutte, una questione, qui in Italia centrale nello sviluppo di questo dibattito: il rapporto tra poesia e cosiddetta ‘canzone d’autore’. Da anni si sprecano sull’argomento fiumi d’inchiostro in una singolar tenzone testardamente capace d’ignorare i termini essenziali in cui, in realtà, sta la questione.

La discussione resta pendolarmente prigioniera tra coloro che, nel negare ogni valore poetico alle composizioni di questo o quel cantautore, in realtà tengono soprattutto a riaffermare una superiorità della parola scritta (e della poesia) nei confronti della canzone, e chi invece, con superficialità pari alla supponenza altrui, si affretta a consegnare patenti da poeta a questo o quell’autore musicale.

D’altra parte, la confusione che sovrana regna sotto il (nostro) cielo fa sì che bravi cantautori si avventurino spesso nella composizione di brani, o spettacoli, che vogliono poetici, ma che si rivelano, il più delle volte, soltanto mediocri esercizi letterari, in cui, nel momento in cui non è più la musica a dettare il tempo, ma tutto viene affidato alla direzione d’orchestra d’una espressione ‘poetica’ piuttosto claudicante, si perdono anche tutte quelle qualità e quella forza espressiva che le loro canzoni portavano con sé.

Recentemente, un bravo poeta, Valerio Magrelli, polemizzando con l’ipotesi che il premio Nobel per la letteratura potesse essere assegnato a Bob Dylan è insorto, sostenendo che Dylan non è un poeta, poiché le sue parole sono accompagnate dalla musica, e dunque giocherebbe sporco, sarebbe un “poeta con la protesi”.

La differenza tra la poesia e la cosiddetta ‘canzone d’autore’, però, non sta nel fatto che in un caso vi sia solo parola scritta, o al limite ‘pronunciata’, e nell’altra anche musica, come ipotizza Magrelli, a meno di non voler, di conseguenza, considerare i padri della poesia occidentale e romanza, Arnaud, Bernart e Rimbaut, per non citarne che tre, degli chansonnier ante litteram.

Essa sta piuttosto nella relazione diversa che si stabilisce tra le due ‘sonorità’, nella differente collocazione delle scelte formali (tanto verbali quanto ritmiche, melodiche e più complessivamente musicali): a dare il tempo e a suggerire la melodia, in poesia, anche quando essa si sviluppa e si realizza in accordo con la musica, sono le parole; nella canzone d’autore, invece, è la musica a ‘concertare’ il tutto, e questa è la ragione per la quale i testi delle canzoni, senza musica, non stanno in piedi, mentre quelli della spoken music, se è buona spoken music, sì.

Non si tratta, si badi, di rapporti gerarchici, ma di funzioni differenti: semplicemente in poesia è la parola, la sintassi, a ‘dettare il tempo’ e a intonare la melodia. Insomma, se De Andrè non è un poeta, se non lo è neanche Conte, o de Gregori, o Fossati, ciò non dipende dal fatto che nel loro lavoro sia presente la musica, cioè da un surplus musicale, da una protesi in chiave di violino, quanto, all’opposto, dal fatto che nelle loro canzoni non c’è un linguaggio capace di stabilire e dettare autonomamente i propri ritmi e la propria linea melodica.

Provate allora a spogliare codeste ‘poesie in musica’ di molti dei nostri cantautori (che spesso sono splendide canzoni, canzoni che io stesso amo profondamente) dalla loro melodia, dal ritmo che dona loro la musica, provate a leggere quei testi in silenzio, o ad alta voce, ma seguendo la loro prosodia: ciò che vi rimarrà tra le mani è ben poca cosa e questo vale anche per molti dei più noti autori, da Conte a De Gregori, Fossati, Capossela,  per non parlare del mediocre e sin troppo celebrato Vecchioni, o di tanti noti rapper.

Questo vale anche per De André, certamente il più importante tra i cantautori italiani degli ultimi decenni, che non a caso rifiutava per sé l’etichetta di poeta, preferendo, con grande acribia, attribuirsi un ruolo di «ponte» tra poesia e canzone d’autore, impegnato com’era a traghettare nel mondo della musica grandi testi poetici, da Alvaro Mutis ad Edgar Lee Master.

Alcuni dei suoi testi hanno questa capacità di stare in piedi, autonomamente, anche senza musica, ma sono eccezioni (penso qui alla Domenica delle salme, o al Bombarolo, o al limite alla melopea struggente di Amico fragile), mentre altri, magari proprio quelli più noti ed amati, come La storia di Marinella, o Bocca di rosa, francamente no.

Insomma Bob Dylan (o Capossela, o De Andrè ecc.) non sono poeti, assolutamente no, ma non perché abbiano per sé un surplus di musica, che fa di loro ‘poeti con la protesi’, come suggerisce Magrelli, quanto per difetto di caratteristiche e qualità ‘letterarie’. E la differenza non è di poco conto.

Ciò non toglie che molti di loro siano artisti di primissima levatura, ma l’arte che praticano non è la poesia. E in tutto questo non c’entra la musica, c’entra, come sempre in poesia, piuttosto la parola.

*

Traccia n° 2: Scrivo quando sono stanco

 

 

1 COMMENT

  1. Boh…Ma il ‘cantami o musa…..’ dei poemi omerici? I quali poemi erano accompagnati da strumenti musicali..E se non vado errato furono trascritti un bel po’ dopo. Ecco perche’ soffrirono di aggiunte e varianti….E Montale melomane tanto per esagerare ma la sua poesia e’ colma di assonanze, ritmi interni o per dirla con una parola sola: di musica. La grande poesia nasce con la musica e solo un poeta dell’oggi puo’ arbitrariamente parlare, a questo proposito, di ‘protesi’.

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andrea inglese
Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.