Intorno a Cattafi
di Andrea Inglese
1. L’incontro
Ho scoperto Cattafi negli anni Novanta, in un momento particolarmente delicato del mio apprendistato poetico. Avevo ormai abbandonato la fase dei tentativi di poesia che Auden definisce “immaginari”, e mi trovavo finalmente in quella condizione, in cui si oscilla tra lo scrivere delle poesie “brutte”, con voce propria, e lo scriverne di “belle”, imitando la voce altrui. Ovviamente, come ricorda ancora Auden, l’unica salvezza sta nell’imitazione. Ma la scelta del modello è questione complessa e rischiosa. Io vivevo a Milano ed in quel periodo il poeta più influente era Milo De Angelis. Per degli apprendisti ventenni, la voce di De Angelis giungeva assolutamente contemporanea, come priva di filtri letterari, ammaliante. E l’ambiente poetico cittadino, in effetti, pullulava di suoi seguaci. Anch’io scrissi alcuni testi, ispirandomi a Millimetri o Terra del viso. Ma il tono oracolare che di tanto in tanto emergeva nel maestro, e si faceva più marcato e insopportabile negli imitatori, mi distolse presto dal perseverare in quella direzione.
Mi capitò in mano, invece, il Cattafi di L’osso, l’anima(1). Fu un immediato innamoramento.
La sintonia di temi, timbro, scansione era tale, che imitandone la voce, mi sembrava davvero di trovare la mia. L’incontro fu per più motivi salutare. Innanzitutto, Cattafi era conosciuto da tutti, ma nessuno ne parlava. Se proprio se ne doveva parlare, se ne parlava bene, ma per subito passare ad altro. I suoi volumi mondadoriani si trovavano facilmente e nel 1990 era uscita, sempre per Lo Specchio, la raccolta curata da Raboni e Leotta. Eppure nei dibattiti, durante le letture, su rivista, non veniva mai citato. Era pressoché un poeta clandestino. Questo mi giovò molto, perché di coloro che prendevano come modello un poeta più “visibile”, era più facile anche individuare il debito. Ogni esordiente che si rispetti si porta dietro un’ascendenza palese, che lo nobilita da un lato, ma lo minaccia di epigonismo dall’altro. Nel caso della mia raccolta d’esordio (Prove d’inconsistenza, nel VI Quaderno italiano, a cura di Franco Buffoni, Milano, Marcos y Marcos, 1998), l’impronta di Cattafi non fu percepita, pur essendo diffusa e importante.
Ero attratto dalla forza dei suoi incipit (“Tutto si è già formato”, “C’è un mondo nero qui sotto”, ecc.), dalle sue chiuse secche ed impietose (“ti tiene stretto in pugno / vipera spavalda a testa eretta”, “coda di lucertola / vita tagliata fuori dalla vita”, ecc.), da quell’imperativa seconda persona (“Percorrila a piedi la pianura”, “Taglia loro la gola”, ecc.) dagli indugi delle sequenze descrittive alternati ad improvvise accelerazioni costituite da serie di sostantivi o dall’accumulo di frasi verbali. Inoltre, il suo dettato sfuggiva a qualsiasi impianto metrico tradizionale, esibendo una grande libertà ritmica. Ma in lui, ad esempio, il movimento di strozzatura del verso non deriva dall’enfasi simbolista per la parola isolata, che dovrebbe così avulsa caricarsi di ulteriori significati. Il ritmo di Cattafi è quello di un congegno che si monta e che s’inceppa, che subisce repentine partenze e bruschi arresti. Parole e verbi, immagini ed eventi, si susseguono come tentativi progressivamente corretti di focalizzazione. Presi in sé, non hanno particolare rilievo: non si pongono cioè come parole-natura, ma al contrario esibiscono il loro carattere convenzionale, e dunque provvisorio, storico. Ma la tendenza a frantumare la frase, sia con l’uso dell’enjambemant sia isolandone dei costituenti atomici (participi, predicati verbali, aggettivi), risponde all’esigenza figurativa di valorizzare le immagini pur nella loro inadeguatezza semantica: è la ricchezza del mondo di superficie, con i suoi scorci, i dettagli abnormi, le prospettive stranianti. I “grandi significati” non sono intercettabili che di striscio.
In tempi recenti, Cattafi è riemerso dalla clandestinità. Se ne è parlato più spesso, anche in relazioni a poeti giovani. È stata finalmente percepita una sua influenza sotterranea, capace di toccare forme di scrittura poetica contemporanee. Nel 2003, è apparsa anche una monografia (Le spalle al muro. La poesia di Bartolo Cattafi, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2003), il cui autore è anche un poeta, Paolo Maccari. È dunque sperabile che l’appartato Cattafi possa nel tempo suscitare un rinnovato interesse ed acquisire un ruolo importante in quel filone allegorico novecentesco, di cui ha parlato in particolar modo Luperini. In questa prospettiva, come dirò fra poco, Cattafi può senza dubbio affiancare Caproni, sul versante di un allegorismo dei più intransigenti.
2. Fratellanze
Cattafi mi permise d’individuare una via non lirica, che non rischiasse però di diventare maniera antilirica. In lui, l’enunciato giunge con l’intensità e la plasticità di un gesto irruento, che mira alla scarica energetica, alla scossa cognitiva. Ma l’effetto è fatalmente circoscritto al dispositivo del testo poetico, non pretende di alludere ad uno scuotimento di portata più generale, che potrebbe avere una funzione sociale e progressiva. Non c’è minimamente l’esaltazione avanguardistica dello “schiaffo” e del “pugno”, sia nella versione estetizzante che fu del futurismo, sia in quella libertaria, che fece del gesto poetico una provocazione ai danni non solo della tradizione lirica borghese ma anche dell’organizzazione sociale nel suo insieme. Il dettato di Cattafi ha qualcosa di definitivo e martellante, perché brucia nel suo farsi tutte le sostanze consolatorie di cui il genere lirico dispone.
L’atmosfera meditativa e nostalgica che prepara, in molti poeti, il riscatto epifanico, è in lui sostituita dall’urgenza con cui una verità si rivela in forma di sisma, crollo, urto traumatico. Anche quando il messaggio che il mondo potrebbe trasmettere all’uomo finisce per smarrirsi, e divenire insondabile, come nel Sereni di Nella neve (“Ma già pioveva sulla neve, / duro si rifaceva il caro enigma.”), in Cattafi assistiamo ad un movimento inverso, che all’arretramento e alla scomparsa sostituisce lo sfondamento, l’intrusione violenta. Capita, poi, che sia l’uomo stesso a porsi come messaggio enigmatico, che si scaglia sul mondo e compie contro di esso il proprio destino: “Che cos’è questo colpo / scattato dalle tue mani / che veloce viaggia / con aliquota di forza / carico d’odio / verso il suo destino / morbido o duro / contro cui cozzerà / con esito incognito.” (Colpo, in OA).
Più in generale, la maggior parte dei testi di L’osso, l’anima mi sembrano veicolare una vitalità ed un’asciuttezza rare nella lingua poetica italiana. Percepisco una voce poco addomesticata dalla tradizione letteraria. Quella tradizione a cui, da noi, anche il poeta più innovativo deve prodigare ossequi, per essere sicuro di guadagnarsi un legittimo riconoscimento di fronte al tribunale degli addetti ai lavori. Echi di quel dettato veemente, ma sempre ben radicato nell’esistenza, e mai propenso a facili fughe visionarie, trovo in poeti come Porta, il primo Pagliarani, certo Risi, Di Ruscio, e pochissimi altri. Ma ai miei occhi, Cattafi rivela fratellanze sopratutto con figure non italiane, come Michaux o Beckett. Anche in lui è possibile ritrovare, pur in una gamma più ridotta di esiti formali, quella “vera vittoriosa discesa del Logos agl’Inferi”, in cui Zanzotto ha visto il tratto principale dell’opera di Michaux. E come Beckett, Cattafi persegue il continuo rovesciamento di ogni dato ideologico positivo, il disfacimento di ogni cristallizzazione di sapere teorico o saggezza pratica. Sono forse proprio questi due aspetti che lo rendono un personaggio davvero anomalo nel nostro paesaggio letterario.
Egli inoltre, per utilizzare un termine caro a Giancarlo Majorino, si è davvero dimostrato “noncurante” nei confronti delle tipiche preoccupazioni del letterato italiano, tutto teso, generalmente, a costruire una propria posizione predominante all’interno dell’ambiente. Cattafi è stato tra i fatidici Sessanta e Settanta, anni di grandi dibattiti, uno dei poeti più taciturni. In questa diffidenza nei confronti della battaglia delle idee, soprattutto quando essa rimane ancorata ad un orizzonte endoletterario, colgo una fratellanza con un altro poeta francese, Francis Ponge. Come in Ponge (e in Beckett), anche in Cattafi si trovano soprattutto tracce di una battaglia contro le idee. Di certo, Cattafi potrebbe sottoscrivere queste frasi, che costituiscono l’incipit di Méthodes: “Le opinioni fondate meglio, i sistemi filosofici più armoniosi (quelli costruiti meglio) mi sono sempre parsi assolutamente fragili e mi hanno causato un certo disgusto, una malinconia, un sentimento penoso d’inconsistenza” (2). L’inconsistenza dell’idea, la fragilità della dottrina e, più in generale, l’incolmabile iato tra dominio teorico e imprevedibilità dell’azione, costituiscono zone centrali della poesia di Cattafi. E questo vale sia per L’osso, l’anima sia per i libri successivi. Nella raccolta del 1964, troviamo un testo come Accensione:
Non conosco il sistema,
forse lo sanno i santi,
i saggi, i veggenti forsennati,
i poveri di spirito
poveri fino alla fine
portatori di fuoco.
Non capisco il foglio
d’istruzioni per l’uso,
induzioni e correnti,
valvole, bobine,
magneti bagnati
in fondo al mare.
Quest’elogio dell’idiozia, che nega qualsiasi valore alla “luce”, sia che la s’intenda come privilegio di pochi (la visionarietà dell’artista o la verità rivelata del santo), o come patrimonio comune (saggezza acquisita o semplicità innata di spirito), è connaturata ad un pensiero poetico della metamorfosi, come tragico risolversi delle cose nel loro opposto. L’impossibilità di comprendere “le istruzioni per l’uso”, illustra una preliminare sfiducia in qualsiasi forma di “governo della vita”. Se l’idiozia, come già in Beckett, non funge comunque da ancora di salvezza, nemmeno però accresce nell’uomo le occasioni di vana speranza e d’inevitabile disincanto. Non c’è verità né terrena né ultraterrena a cui affidarsi, non c’è via di salvezza né razionale né irrazionale, in quanto tutto è costantemente soggetto a trasformazione, rovesciamento, dissoluzione. Tra le ultime poesie scritte nel 1978, ne troviamo una intitolata Pronto:
Sempre pronto all’altro:
atterrare lo spirito che vola
convertire cibo terrestre
pane companatico minestra
condurre il passero
alla sua manciata di scagliuola. (3)
La discrezione di Cattafi, come figura intellettuale, è dunque legata profondamente alla sua visione tragica dell’esistenza, e del rapporto tra idee e vita, basato su una sorta di malinteso perenne e fatale. E qui varrebbe la pena di correggere un poco quella formula usata da Zanzotto per Michaux, e in cui ho voluto riconoscere anche Cattafi. In Michaux, in effetti, il viaggio agli inferi è in qualche modo di “sola andata”. Non se ne prevede un ritorno, che non sia il puro e variamente allucinato documento testimoniale fornito dall’opera. Michaux è un assiduo, e per certi versi monotono, frequentatore degli abissi mentali e dei baratri della ragione. Ma in lui, vi è l’idea che sia possibile realizzare una “conoscenza” sondando questi baratri. Cattafi rimane invece scettico e coglie soprattutto il moto pendolare, di costante andirivieni tra cesellate e sublimi architetture della ragione e le buie voragini che ne costituiscono il rovescio, il doppio, le pieghe. Soprattutto, però, vi è in lui un partito preso per il “rasoterra”, per tutto ciò che si oppone a traiettorie sublimi, sia verso l’alto (la perfezione dell’idea) sia verso il basso (l’intuizione demonica).
Questa irrisione per ogni residua pretesa eroica che l’intellettuale, l’artista o il poeta potrebbero essere ancora tentati di incarnare, non si risolve però né in un elogio del senso comune e delle “piccole cose”, né in un cinismo soddisfatto e sicuro di sé. Se è auspicabile “atterrare lo spirito che vola”, e rovesciare quindi il processo di mistificazione che la coscienza umana produce quando si pone come padrona di sé e superiore al mondo, nello stesso tempo è impossibile conservare una equilibrata e quieta condizione terrestre, di misurata prossimità alle cose. Una perenne inquietudine, e un’esuberanza vitale destinata ogni volta a dissiparsi vanamente, fanno sì che il movimento di trasfigurazione, di innalzamento teorico, di rottura di ogni immediatezza, si ripresentino ad ogni passo. Ce lo ricorda un testo tratto da L’allodola ottobrina, libro del 1979: “Queste cose terrestri / che scoppiano tra i piedi come rose / le raccatti ammirato le porti / ai più alti ripiani / e perdi il lume degli occhi / non vedi / le altissime cose / cadute in frantumi” (4) (Queste cose terrestri).
3. Fondali e sipari
Uno dei testi che precocemente e in modo esemplare può costituire il paradigma dell’allegorismo novecentesco italiano è contenuto nella sezione Ossi di seppia della raccolta omonima di Montale apparsa nel 1925. Si tratta di Forse un mattino andando in un’aria di vetro:
Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compiersi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.
Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi case colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
Luperini ha parlato a proposito dei primi tre libri di Montale di un’alternanza tra simbolismo e allegorismo, che si risolverebbe poi nei successivi con un prevalere del secondo termine (5). Questa alternanza è percepibile perfino all’interno di questo singolo testo. Più precisamente, si dovrebbe qui parlare di un’esitazione tra simbolo ed allegoria. Uno dei motivi figurativi che meglio caratterizzano la specificità dell’allegoria è costituita dal “paravento”, dallo “schermo”, dal “fondale” di teatro (6), che emerge laddove il soggetto si attende, invece, una prossimità massima con il reale, con le res o le essenze. L’allegoria della modernità frantuma infatti una partizione fondamentale intorno alla quale si organizza la cosmologia romantica. Quest’ultima considera la natura come un grande serbatoio di valori e significati potenziali, che nell’uomo si esprimono attraverso impulsi e sentimenti. In quest’ottica, l’artista è colui che gode del privilegio di tradurre questi impulsi in espressioni verbali, musicali o pittoriche, sormontando quella scissione tra mondo naturale e mondo artificiale che riguarda ormai le società moderne e industrializzate.
L’allegoria emerge in primo piano laddove la natura non costituisce più un polo saldo e oppositivo rispetto alla convenzione. Quando il paesaggio sensibile smette di costituire un ingresso verso le profondità di valore e senso del mondo naturale, per rivelarsi un fondale fittizio, una comoda convenzione umana di fronte all’inconoscibilità dell’universo, siamo allora situati in quella frattura tra figura e significato che è tipica dell’allegorismo. Gli “alberi”, la “case”, i “colli” non solo cessano di parlare, di entrare nel cerchio intimo del ricordo e della speranza, divenendo così cose mute, pietrificate, estranee, ma perdono anche la loro rassicurante identità: sono figure vuote, artificiali, il cui scopo però ci sfugge. Sono segni convenzionali, di cui non ci è permesso recuperare il codice; sono personaggi di cui si è smarrito il copione.
Se dunque la poesia di Montale mette in scena nel modo più diretto e perspicuo la condizione di colui che ha perso ogni possibilità di transitare dal particolare all’universale, dal sensibile all’ideale, lascia però sussistere una via d’uscita, una possibile speranza. Il “nulla” percepito dietro “l’inganno consueto” può divenire infatti un elemento pienamente assimilabile in termini di saggezza pratica. Da elemento negativo e sovvertitore dei valori condivisi, il nulla è così riconducibile ad una forma di verità “positiva”, che può essere custodita come un segreto. Si ha qui una tradizionale scissione tra le ingannevoli verità dei più, e l’esoterico sapere dei pochi. In questa possibile lettura, che il testo montaliano rende plausibile, si avverte l’esitazione tra allegorismo e simbolismo di cui ho parlato inizialmente.
Un allegorismo intransigente non consente una simile valorizzazione del negativo. Cattafi ne costituisce una dimostrazione: in lui il nichilismo non acquisisce mai il carattere definitivo e in fondo rassicurante di una dottrina, per esoterica che sia. Nella sua opera, l’immagine del paesaggio-fondale, di questo ibrido inquietante, in cui natura e cultura si mescolano, costituisce un vero leitmotiv. Leggiamo Scena (AO, 29)
Tavoli e sedie vuote sulla ghiaia
un giardino un viale
foglie legate a un filo
immobili nell’aria
e davanti
fra il proscenio e loro
i presagi gonfiano il sipario.
Il titolo già manifesta una prima e fondamentale ambiguità: “scena” è innanzitutto termine che designa il luogo dell’illusione teatrale, ma è anche ciò che fa da sfondo ad un fatto reale (“la scena del delitto”), e sinonimo di “paesaggio”, “panorama”. La scena è dunque quella porzione sufficientemente elaborata di un artefatto in grado di sostituirsi ad una situazione o ad un luogo reale (naturale). Nello stesso tempo, la scena è quella porzione massima di realtà che qualcuno può percepire come sfondo di un evento reale, o come orizzonte del mondo osservato in sé. A partire da questa oscillazione semantica, ci viene presentato in modo telegrafico uno scorcio banale: degli oggetti inerti in un ambiente naturale e spopolato, ossia sedie e tavoli in un giardino. La soppressione delle virgole, già realizzata nella sequenza cruciale montaliana (“alberi case colli… ”), rende in qualche modo indeterminato l’ordine della serie, suggerendo che i suoi componenti possono combinarsi diversamente, o forse persino scomparire, o al contrario moltiplicarsi, poiché il vincolo sintattico della virgola, che isola e separa, non è più pertinente. La virgola non funge più da rotaia nell’elenco dei sostantivi: essi galleggiano nel vuoto della pagina, senza più esseri incardinati in una frase. Altro elemento da segnalare, è l’inerzia che dagli oggetti “spopolati” si trasmette alla natura, le foglie “immobili” nell’aria. Non solo, ma foglie che portano in sé l’ombra dell’artificiale: “legate a un filo”. Qui non c’è traccia d’intenzione metaforica, a suggerire una qualche levità o fragilità. Il filo veicola, su questa scena, qualcosa di più sinistro: legato alla trama del fondale di stoffa o al meccanismo di fili, che un abile burattinaio potrebbe tirare. La spaziatura, che interrompe il blocco strofico e isola sulla destra della pagina il verso “e davanti”, annuncia il distico finale. Quest’ultimo si manifesta in netta discontinuità con quanto lo precede, non solo dal punto di vista grafico, ma anche da quello figurativo: l’ombra di artificio che aleggiava sulla scena banale del giardino si palesa ora in tutta la sua forza. L’intero spazio di ciò che è stato descritto viene riorganizzato, mutando di statuto ontologico: vi è sul fondo una scena di teatro (luogo degli oggetti), e in primo piano un proscenio (luogo dell’osservatore). Tra i due piani, una terza realtà “perturbante”: “i presagi” che, come un vento, agitano i drappi del sipario.
Al primo rovesciamento di senso cui è confrontato il lettore – il passaggio da una scena reale ad una scena artificiale – si aggiunge un secondo movimento, più obliquo e indefinibile: quello provocato dall’intrusione dei “presagi”. A che ordine di realtà appartengono questi presagi? Sono interni all’apparato teatrale, e quindi innocui congegni illusionistici, oppure richiamano nella sfera protetta della finzione elementi alieni e minacciosi, che hanno a che fare con qualche realtà violenta e viscerale? L’effetto finale è il disorientamento del lettore, poiché il testo, pur nella sua nitidezza figurativa, rimane indeterminato quanto ai significati. Si sperimenta soltanto un’inquietante oscillazione tra la veglia e il sonno, tra la finzione e la realtà. Nessuna divisione pare ancora essere intervenuta, per permettere una controllata articolazione tra una sfera ontologica e l’altra.
La formula che potrebbe riassumere l’allegorismo di Cattafi come di altri autori del novecento è A≠A. La cosa non è se stessa. Mentre il simbolismo moltiplica le equivalenze, e sostiene che A=B, l’allegoria insinua una minacciosa dissomiglianza tra una cosa e se stessa. Il movimento analogico infittisce legami e parentele tra ordini diversi di realtà, l’allegoria evoca l’estraneità dell’identico. In termini più concreti, lo sguardo allegorico non conosce intimità e familiarità con il mondo. Tra l’occhio e il visibile sorge costantemente una distanza incolmabile, così come tra l’io e il suo patrimonio di ricordi, tra la coscienza e le sue salde nozioni sul mondo, tra colui che agisce e l’esito del suo gesto. E Distanza s’intitola una poesia di Marzo e le sue idi: “C’è una fredda distanza / lucente e nuda / che non si tenta nemmeno di coprire / nuda irreparabile lucente / tra una pietra e l’altra / due sponde / due invitati nella stessa stanza / che tranquilli la rigirano nelle mani / come i due capi di una lama” (7).
4. Cattafi e Caproni allegorici
Assumendo la prospettiva che ho appena delineato, diventa evidente la vicinanza tematica e figurale tra Cattafi e Caproni. L’anno in cui esce L’osso, l’anima, considerato il primo libro radicalmente innovativo di Cattafi, è il 1964. In quello stesso anno, Caproni pubblica Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee. In entrambe le opere è dominante un impianto allegorico, che ruota intorno alla figura del viaggio. Caproni, come Cattafi, predilige avanzare per paradossi e rovesciamenti. Anche in lui è costante il tratto allegorico della dissomiglianza della cosa da se stessa. (Si pensi, ad esempio, a La lanterna: “Non porterà nemmeno / la lanterna. Là / il buio è così buio / che non c’è oscurità” (8).)
Ciò che distingue profondamente questi due autori è la modalità di frequentare il tema del viaggio, e dell’esito nullo, impossibile o fallimentare, che esso ogni volta realizza. Simile è il dispositivo nichilista che fa di questo viaggio cieco ed illusorio la figura della vita. Il moltiplicarsi di itinerari, tra partenze e ritorni, smarrimenti e scoperte, ripete il moltiplicarsi di situazioni ed esperienze, che prolungano la vita senza garantirle un progresso conoscitivo od etico, un accumularsi di sapere o saggezza. E la distanza che Cattafi avverte tra l’occhio e il suo orizzonte (tra il proscenio e la scena), è un elemento costante anche in Caproni, seppure trasposta su di un piano diverso: quello che vede fronteggiarsi parola e cosa, nome e corpo. Si pensi ai Due Madrigaletti contenuti in Il conte di Kevenhüller (1986):
I
(Appassionatamente)
Mio nome, avvicinati.
Stringiti al mio corpo.
Fa’ che nome e corpo non siano,
per me, più due distinti.
Moriamo insieme.
Avvinti.
II
(Sempre con cuore)
Bruciamo la nostra distanza.
Bruciamola, mio nome.
Cessiamo di viverla come
il sasso la sua ignoranza.
Sappiamo poi come Caproni tematizzi in modo frontale ed esplicito questo nichilismo che investe il rapporto tra linguaggio e mondo, ma ancora prima la possibilità di un significato o di un fine che trascenda la storia e le vicende umane. Giorgio Agamben ha definito questo atteggiamento in termini di ateologia: “Poiché propria dell’ateologia poetica, rispetto a ogni teologia negativa, è la singolare coincidenza di nichilismo e pratica poetica, per cui la poesia diventa il laboratorio in cui tutte le figure conosciute vengono disarticolate per far posto a nuove creature para-umane o subdivine” (9). Considerazione, questa, appropriata anche per Cattafi, che dedica una plaquette intitolata Segni, uscita postuma nel 1986, alla scrittura intesa come esercizio di ratificazione dell’assenza: “(….) / e quando / chino sulla mia vita scrivo / l’atto di presenza / mi effondo mi circondo di parole / copro colmo comando / parole / l’assenza certifico / attesto la finzione” (10).
Di ateologia si può quindi parlare anche per Cattafi, i cui versi pullulano di “creature para-umane o subdivine”, creature che oscillano tra l’esterno e l’interno, tra i relitti della storia e le ferite della psiche. Ma ciò che distingue Caproni e Cattafi, sul piano strettamente testuale, dipende dai diversi paradigmi figurativi che sono in gioco nei loro rispettivi itinerari ateologici. Il paradigma prevalente in Caproni è quello dell’ascolto, e quindi della musica. Ciò si traduce in una pratica che, a vari livelli del testo poetico, predilige l’evanescenza delle figure, spettri ed ombre, e il rincorrersi dialogante o lamentoso delle voci. A questo si aggiunge la cantabilità tipica del verso caproniano, del tutto assente in quello di Cattafi, più percussivo e secco. L’atmosfera dei libri di Caproni, dal Congedo in poi, è prevalentemente purgatoriale, calata in un grigio diffuso, di nubi basse o vapori, attraversata da lampi argentei o da ombre fugaci. Ogniqualvolta poi, in questo universo di echi e brume, si stagliano sagome definite e situazioni ricche di dettagli, che sembrano preludere ad un sicuro innesco narrativo, nulla si muove davvero, come in una laboriosa ed eterna falsa partenza.
Il paradigma in Cattafi è invece quello della vista e del tatto, ed è quindi nel gesto, nella plasticità scultorea, nell’esplosione coloristica, che si traduce il suo universo. Se in Caproni le immagini sono costantemente soggette all’evanescenza, in Cattafi sono catturate in un corposo flusso metamorfico. Nulla rimane identico a sé, nulla giunge ad un approdo definitivo, ma questo comporta un succedersi di vortici e disgregazioni, che richiamano più un paesaggio infernale, od ogni caso la figura del crogiuolo, in cui ogni elemento subisce un processo di sfaldamento e di fusione con elementi ulteriori e diversi.
Non esiste in Cattafi quel minuzioso allestimento narrativo che caratterizza certi testi caproniani, in cui si muovono cacciatori o soldati, per selve o creste di montagna. Se è percepibile anche in lui una dimensione narrativa, questa si realizza in fulminanti parabole. Siamo agli antipodi delle “false partenze” di Caproni. In Cattafi, la concatenazione degli eventi è immediatamente catalizzata verso la fine, che è anche sempre “finale a sorpresa”, capovolgimento, smentita. Oppure, l’avventura anziché dispiegarsi s’interrompe, per lasciarne emergere una di tutt’altra natura, e lanciata in senso opposto. La pronuncia di Caproni indugia sul suo oggetto, quella di Cattafi lo travolge.
Sul piano della lingua, infine, Cattafi ama impasti lessicali contrastanti, che lasciano ampio spazio ad inserzioni di parlato, e in particolar modo di stereotipi, frasi fatte, proverbi. Siamo ben lontani dal calibratissimo lessico caproniano, dalla gamma selezionata e ridotta. Ma in Cattafi l’espressione della lingua comune è assunta come il dato percettivo o quello storico, ossia come un elemento apparentemente familiare nel suo offrirsi, che all’interno del congegno poetico, però, è destinato a perdere ogni ovvietà, aprendosi a nuove e impreviste interpretazioni. (Una dei suoi procedimenti favoriti è l’utilizzo della catacresi, per ridestarne la forza metaforica che si è persa nell’uso.) Da questo punto di vista, Cattafi ha ancora molto da insegnare alla poesia d’oggi. Egli non solo è estraneo ad ogni forma di petrarchismo, ma neppure è interessato a quegli esperimenti di proliferazione della lingua, che scommettendo sul montaggio delle lingue settoriali, saltano a piè pari quello strato linguistico apparentemente opaco e povero, che è il linguaggio parlato. In lui esiste sì una forma di montaggio e di utilizzo dei linguaggi settoriali, ma all’interno di una logica del prosciugamento, del discorso ellittico e concentrato, in cui devono stridere e configgere i vari registri della lingua. E soprattutto la lingua non emerge mai come flusso di segni ludicamente manipolabili, disponibile ad un costante prelievo. All’accumulo linguistico e oggettuale, Cattafi risponde con la logica del taglio, della scucitura, dello sfondamento. Inutile moltiplicare prospettive e situazioni, l’ossatura del destino umano affiora ovunque con una sorprendete monotonia, e anche nelle più marginali o banali circostanze.
Folate di primavera
Da un capo
all’altro del corridoio
da porta a finestra
folate di primavera
rientro intoccato nella stanza
passino pure i pollini
di tante e tante antere
non ritorni l’ingorda
l’ignorante speranza.
(A0, 92)
*
Note
1) Bartolo Cattafi, L’osso, l’anima, Milano, Mondadori, 1964 (d’ora in poi OA).
2) Francis Ponge, Méthodes, Paris, Gallimard, 1961, p. 9 (traduzione mia).
3) Bartolo Cattafi, Poesie 1943-1979, a cura di Vincenzo Leotta e Giovanni Raboni, Milano, Mondadori, 1990, p. 309.
5) Bartolo Cattafi, L’allodolo ottobrina, Milano, Mondadori, 1979, p. 98. D’ora in poi AO.
6) Romano Luperini, L’allegoria del moderno, Roma, Editori Riuniti, 1990. Si veda il capitolo Allegorismo in Montale.
L’altro brano illustre dell’allegorismo italiano, declinato stavolta in termini narrativi, risale al 1904 e si trova nel capitolo XII de Il fu Mattia Pascal di Pirandello. Si tratta dello “strappo nel cielo di carta del teatrino”, in cui le marionette dovrebbero interpretare l’Elettra. “Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cadere le braccia” in Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Milano, Garzanti, 1993, p. 151.
7) Bartolo Cattafi, Poesie 1943-1979, cit., p. 200.
8) Giorgio Caproni, Tutte le poesie, Milano, Garzanti, 1999, p. 259.
9) Giorgio Caproni, cit., pp. 669-670.
10) Giorgio Agamben, Disappropriata maniera, Prefazione a Res amissa, ora in Giorgio Caproni, cit., p. 1017.
11) Nero su bianco, in Bartolo Cattafi, Poesie 1943-1979, cit., p. 238.
(Questo è tratto dal volume La scoperta della poesia, a cura di M. Rizzante e C. Gubert, Metauro, Pesaro 2008. Il libro contiene inoltre interventi di Giuliano Mesa, Gabriele Frasca, Milo De Angelis, Franco Buffoni, Rosaria Lo Russo, Biagio Cepollaro, Alessandro Fo, Massimo Rizzante.)
Non si può commentare questo testo di Andrea Inglese che sembra aver conquistato il carattere di testo definitivo.
Solo un nota a margine.
Da parte di uno che nemmeno si sogna di aver sfiorato esiti poetici simili a quelli di Cataffi.
Che non ha, in questo contesto, nemmeno il coraggio di pronunciare il nome di Caproni.
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Il mistico nichilista sembra il più libero, colui che è più fedele alla propria ispirazione, si sarebbe tentati di dire; e infatti, poiché ha realizzato, nell’esperienza mstica, quella demolizione di ogni forma che gli appare come il supremo valore ora effettua anche tale demolizione in rapporto al mondo esterno, e cioè anzitutto la demolizione dei valori e dell’autorità che garantisce la validità dei valori.
Il mistico nichilista non discende solo nell’abisso in cui è nata la libertà del vivente. Non attraversa solo tutte le figure e forme esteriori così come gli si offrono senza legarsi a nessuna di esse, non nega solo valori e leggi abrogandoli nell’esperienza della vita, ma li calpesta, li dissacra, per attingere all’elisir della vita.
GERSHOM SCHOLEM, La Kabbalah e il suo simbolismo, Einaudi, 1980, pag. 37 e pag. 39.
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Mi scuso per l’errore sul nome di Cattafi, ma capita che, ogni tanto, venga fuori un mio genetico difetto di dosaggio delle consonanti.
trovo la citazione pertinente, anche se il vocabolario di Scholem mi è poco familiare; misticismo e nichilismo sono forme dell’esperienza e del pensiero che c’entrano con la lirica moderna, intesa in senso ampio. C’entrano sopratutto per certi autori, come appunto Cattafi e Caproni, ma non solo.
non essere d’accordo mi è vivamente vietato.
l.
pezzo blindato, sì, ma chisseneimporta: molto interessante, soprattutto – splendido cattafi a parte – per quest’occhio critico che sta così “dentro” “la cosa” (altro che “intorno”).
un saluto,
r
Mi unisco all’incondizionato apprezzamento tanto del saggio di Inglese quanto della figura poetica di Cattafi, viva anche alle latitudini dalle quali operiamo noi di nabanassar.