Credere, obbedire, combattere (di quando l’esercito scendeva per strada)
di Francesca Matteoni
Il 4 agosto è sempre stato un giorno speciale per me: in questa data nel 1792 nasceva infatti nel Sussex Percy Bysshe Shelley, il poeta romantico che amavo da ragazzina. Avevo circa tredici anni – dopo aver letto Ode to the West Wind su una vecchia antologia liceale, mia madre mi regalò un’edizione italiana delle sue poesie con traduzione di Roberto Sanesi. Nella mia fantasia Shelley divenne molto di più dell’autore di poesie o del bel volto efebico dei ritratti – morto giovane, al largo di Livorno, personaggio idealista che conversava con le rovine di regni immaginari, con la maga di Atlantide, con il cantore del mattino (l’allodola, dove Keats che avrei conosciuto dopo, sceglieva la malinconia lunare dell’usignolo) e naturalmente con il turbine di foglie nel vento occidentale, si trasformò in uno spettro inquieto che rispondeva alla mia adolescenza. Il fatto che in realtà non lo “vedessi” se non tra i versi tradotti e le mie prime faticose incursioni nell’originale, non costituiva un problema: avevo collezionato una serie di amici fantastici di cui lui era soltanto l’ultimo ed il più eccezionale.
Il 4 agosto rappresentava quindi fino ad oggi uno dei giorni-simbolo per i miei dialoghi con i morti, nei quali sempre più spesso vorrei indugiare, fuggire.
Perché continuo a ritenere questi dialoghi nella loro inutile introiezione molto più fertili, o per lo meno felici, di quelli con la maggioranza dei miei contemporanei e conterranei. Ma il 4 agosto 2008 non posso esimermi dall’Italia che scende in piazza, nei centri cittadini, e non è la nazionale di calcio. È l’esercito. L’ultimo successo del pacchetto sicurezza del nostro attuale governo. L’avvocato Ignazio La Russa si dichiara contento della scelta di pattuglie a piedi, che guadagnano così maggior visibilità (mitra compresi). In fondo è simpatico, il personaggio La Russa, baffuto e occhio-ceruleo, tifoso dell’Inter, ospite di svariati contenitori televisivi, doppiatore dei Simpson, imitato da Fiorello nel suo accento siciliano, fedele alla linea, ma sempre generosamente disponibile al confronto nei talk-show. Ispira un certo moto affettivo, anche se per esaurimento mediatico, per abitudine involontaria. Davanti a questo straordinario curriculum, il fatto che sia Ministro della Difesa passa legittimamente in secondo piano, le sue dichiarazioni esuberanti diventano accettabili nel bonario paese del bengodi, dove l’umana simpatia è tutto. Resa giustizia al nostro ministro e all’ambito a cui appartiene mi resta però un dubbio. L’esercito scende per strada. Ma in quale conflitto, in quale guerra civile si trova esattamente coinvolta l’Italia? Chi è il nemico dove si nasconde? In quale modo lo riconosceremo? I nemici di una volta avevano per lo meno il buon gusto di rendersi identificabili. Emanavano una puzza terribile, si lavavano con il sangue di bambini cristiani, nascondevano un marchio diabolico, un occhio torvo infetto in un corpo guasto di vecchia, si aggiravano nei luoghi pubblici con strani barattoli colmi di un grasso biancastro per diffondere il morbo, avevano il carnato bruno del feroce Saladino (in seguito una famosa figurina), parlavano una lingua straniera. Queste ultime due categorie, in effetti, le abbiamo ancora. Ma il nemico ha imparato il mestiere, si è fatto scaltro, abile trasformista: nel tempo di uno zapping riesce ad essere simultaneamente il più classico clandestino (un must assoluto), il gruppo giovanile nazifascista che massacra un coetaneo in branco, (ma sia chiaro senza traccia di ideologia e dopotutto non bruciano bandiere), un branco di allegri stupratori, l’anonimo venditore di anfetamina, il bullo della scuola, l’aspirante redattore di testamento biologico, la donna che abortisce, il professore universitario che scrive una lettera… Un aggressore eclettico insomma, che, nutrito dal solito humus genetico-culturale, risponde alla capacità camaleontica dei suoi persecutori più in voga, i quali al saluto romano antepongono il sorriso dell’imbonitore, all’attentato politico preferiscono lo sberleffo e la prepotenza verbale, al posto delle bonifiche e della Libia ci “regalano” Milano 2 e Milano 3, le più belle città d’Italia, a detta del filantropo supremo, ché Venezia e Firenze sono solo muffa e pantegane dell’Arno. Le care vecchie pantegane. Il male, si sa, ha dinamiche prevedibili eppure ci coglie sempre impreparati. In questa situazione di smarrimento identitario-collettivo il ruolo dell’esercito diventa allora necessario per il bene di ambo le parti. Perché da chiunque sia estirpato il nemico, perché il potere trovi conferma della sua natura primigenia, nonostante gli scossoni e le pelli cambiate nell’ultimo cinquantennio. C’è bisogno non tanto del singolo, del soldato esperto che fa il suo lavoro, che come tale, si spera, sa anche quando non farlo, ma dello spauracchio stolido di arma e divisa sollecito al richiamo di grandi parole. Si nasconde da qualche parte, implicita, la solita vecchia formula come una carta moschicida per la coscienza – “Credere. Obbedire. Combattere”. Parole piene di speranza, lealtà, coraggio, tradite nella loro essenza. A cosa? A cosa? Per cosa? Per cosa marcia l’esercito in strada? In cosa credono? In cosa crede chi ce li manda? A cosa educano intimidazione, repressione, paura? Perché tanta solerzia governativa non viene spesa nella conoscenza dell’altro oltre che nella sua espulsione radicale, come un corpuscolo morto dall’occhio? E molte altre domande spontanee a raffica, domande dettate dal comune buon senso, domande che si fa mia nonna che ha la quinta elementare, che pure in pochi sembrano porsi. Nemmeno i morti mi danno consolazione. Perché parlo da sola. Certo non mancheranno coloro che la pensano come me e coloro pronti a viziare le mie intenzioni, ma mancano gli interlocutori reali, la dialettica: ovunque si diffonde la stessa omologazione acritica, la tendenza aprioristica a schierarsi “contro”, una sorta di rassegnazione sognante per cui qualsiasi cosa succeda non ci riguarda, in fin dei conti.
Credere. Obbedire. Combattere. Come sarebbero nobili, svincolati dall’ideologia in cui fioriscono, questi verbi. Ne mancherebbe però un quarto. Il meno altisonante, il più umile, sempre esule, malsopportato nel vocabolario di ogni tempo. Riapro un buon libro, il segno si trova da solo per quante volte ho letto quella pagina, che mi commuove, da sciocca quale sono. È l’Apologia della storia di Marc Bloch. Lo apro per illudermi forte nella materia che ho scelto su tutte, anche su letteratura inglese che pure amavo di più, ho amato fin da bambina. Storia. Il tentativo di indagare un frammento del nostro passato, per trovare una strada, lasciare testimonianza, così che, se non noi, coloro dopo di noi potranno apprendere, riflettere, criticare, essere migliori. Tesi di dottorato, articoli, libri chiusi nelle biblioteche, noiosissime lezioni scolastiche piene di numeri e date.
“Un motto in sintesi, domina e illumina i nostri studi: “comprendere”. Non diciamo che il bravo storico è estraneo alle passioni; ha per lo meno quella. Motto, non nascondiamocelo, carico di difficoltà, ma anche di speranza. Soprattutto, motto carico di amicizia. Persino nell’azione, noi giudichiamo troppo. È comodo gridare: “a morte!”. Non comprenderemo mai abbastanza. Chi è diverso da noi – straniero, avversario politico – passa, quasi necessariamente, per un cattivo. Anche per condurre le lotte che non si possono evitare, un po’ più di intelligenza delle anime sarebbe necessaria; a maggior ragione, per evitarle, quando si è ancora in tempo. La storia, purché rinunci alle sue false arie da arcangelo, deve aiutarci a guarire da questo difetto. Essa è una vasta esperienza delle varietà umane, un lungo incontro fra gli uomini. La vita, come la scienza, ha tutto da guadagnare dal fatto che questo incontro sia fraterno”.
Per contrasto, con il 4 agosto rovinato, mi rivedo qualche mese fa, a Milano, in piena campagna elettorale. Non ero mai stata a Milano in quella situazione. Alcune stazioni della metropolitana erano chiuse per via di un tentato suicidio e da Piazzale Loreto ho dovuto prendere l’autobus, viaggiando in superficie. Ovunque capeggiavano manifesti di Alleanza Nazionale e Forza Italia, inneggianti a grandi lettere la questione sicurezza. Ne ricordo uno in particolare con Gianfranco Fini, la posa rassicurante, composta, lo sguardo senza emozione che gli è tipico, sopra una frase che diceva più o meno “Mai più clandestini sotto casa”. La corsa in autobus era affollata e lenta, un’anabasi in delirio, l’effetto del mezzo unito a quello dei manifesti mi aveva stordito con una leggera nausea – credo di aver tenuto per dieci minuti buoni la bocca spalancata come davanti a cose mai lontanamente sospettate. Mi è sembrato per un po’ di essere dentro uno di quei film americani anni Cinquanta sugli alieni, La cosa da un altro mondo oppure L’invasione degli ultracorpi. I clandestini (ma a posteriori avrebbero potuto essere individui qualsiasi appartenenti alla categoria del nemico, elencati sopra) scoppiavano come enormi baccelli viscidi dentro la testa, il torace, il sesso. Prendevano le mie fattezze, si impossessavano delle mie cose fino a gettare la mia carcassa inservibile in una discarica di corpi a cielo aperto. Avvertivo una terribile sensazione sudaticcia di asfissia. Solo che non era un set cinematografico. È il mio paese.
Immagine: Kevin McCarthy, Dana Wynter ne L’invasione degli ultracorpi (Don Siegel, 1956)
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Io ascolto le chiacchiere della gente e mi chiedo quale film stia guardando. Non credere, non obbedire, non combattere. Chiedere, semmai. Comprendere, come dici tu, almeno provarci.
Cara Francesca Matteoni, è bello e terribile questo tuo pezzo.
Mi sarebbe piaciuto scriverti un commento intelligente e dialettico, di quelli che fanno scattare la discusione, ma non mi è venuto in mente nient’altro che un complimento (sconfortato).
Di passaggio, ma sono fatti miei e li scrivo solo perché è agosto e il clima vira al relachement des moeurs, dirò che mi sono ritrovato quasi perfettamente nelle tue parole, dall’amore precoce per Shelley alle espressioni di sbigottimento terrificato degli ultimi tempi durante i senofontici viaggi sui mezzi pubblici milanesi.
Hai ragione, credere, obbedire e combattere sono tre concetti nobili, se li si scioglie dal contensto ideologico cui generalmente li associamo. Credere: come si può vivere degnamente se non si crede davvero in ciò che si fa? Se uno ha un ideale grande, dovrebbe forse crederci “con moderazione” o con un occhio solo o con distacco ironico? Te li immagini Emiliano Zapata o Francisco Ferrer o anche il nostro Piero Gobetti nei panni di credenti moderati?
Dell’obbedienza, anche, si sente un grean bisogno, perché oggi più che altro si vedono in giro sottomissione e servitù volontaria; mentre cosa c’è di più bello e più nobile che obbedire al proprio imperativo categorico?
Della bontà del combattere, be’, è persino superfluo parlare: del resto, questo blog si apre con una dichiarazione di combattività, “in attitudine di combattimento e di sogno” (Ci fu chi definì questo gergo “da brigatisti”, mostrando di non aver capito un cazzo).
Anch’io penso che questo provvedimento che manda l’esercito a pattugliare le città (a proposito, in questi giorni di vacanza lontano da casa ascolto sempre mio malgrado i notiziari radio della Rai: sono tutti un fiorire d’interviste a cittadini entusiasti: “Che ne pensa dei soldati per le strade?” “Èbbello, soccontento, soddaccordo”, si direbbe che l’intervistatore incontri difficoltà insormontabili a scovare una voce di dissenso) sia una cosa gravissima, un vulnus come si dice; ne sono spaventato, e questo è il mio modo di confermare i sondaggi sulla paura degli italiani; e nel mio spavento sono sconcertato nel vedere come la cosa stia passando nella più totale assenza di reazioni. Eppure sono sicuro che le mie non sono solo paranoie.
La radice del comprendere è nel domandarsi, appunto quello che fa tua nonna con la quinta elementare (ennesima dimostrazione di come in sé l’istruzione superiore non significhi nulla: del resto mio nonno, che aveva la seconda e compitava le parole leggendo il giornale, leggeva per l’appunto il giornale, anziché sfogliare City o Leggo per dieci minuti sul metrò, e sospetto che la sua comprensione dei fatti fosse molto più approfondita di quella di certi miei compagni di università). Come dice un motto zapatista, bisogna saper “camminare domandando”.
Quel che mi sconcerta (tutta la mia vita in questi ultimi anni mi sembra a volte un continuo passare di sconcerto in sconcerto) è la cauterizzazione della facoltà di porsi domande e di porre in relazione i fatti le cose.
Poi dici che manca l’interlocutore reale. Oggi a chi dice le cose che dici tu nel tuo pezzo, va di moda rispondere “sei tu che sei avulso dalla vita del popolo, separato dalla vita reale”. Io resto convinto siano gli interlocutori reali delle nostre perplessità a sottrarsi. A vivere separati in una vita che è reale ma figlia di uno svuotamento e di un incubo.
Vabbe’, insomma, ci sarebbero tante cose da dire ancora, ma mi fermo qui e mi scuso se ho scritto delle banalità. Grazie ancora.
Francesca e Sergio sono “la vita reale” per me. Nel senso della realtà e della regalità, della loro intrinseca nobiltà.
Sono in partenza, non leggerò più NI per tutto il mese, ma sono certo che resta in ottime mani.
Mandare l’esercito a presidiare le strade è una pratica dei regimi dittatoriali.
Anche fare in modo che alcuni cittadini siano al di sopra della legge, come Silvio Berlusconi tenta sempre più spesso, è una pratica dei regimi dittatoriali.
Pure un sistema elettorale che impedisce ai cittadini di scegliere i parlamentari, è una pratica da regime dittatoriale.
Questi indizi significano che l’Italia contemporanea è governata da una dittatura?
Sembra di no. Ci sono indizi di altro tipo (come la possibilità di esprimere liberamente il dissenso) che non sono abituali dei regimi dittatoriali.
D’altra parte c’è chi sostiene che il ventennio mussoliniano nel nostro Paese non fu una dittatura perché molti cittadini erano sinceramente, spontaneamente fascisti, e non c’era bisogno di imporre loro niente.
Guido Tedoldi
Allora che faro a Milano? Mi facevo una gioia di tornare in Italia, e ecco un sentimento di vuoto, come qualcosa che vuole accendere e subito si è spento. Non vorrei scoprire una città in un ambiente di sospetto.
Milano che voglio incontrare, forse amare sembra sottrarsi e non vorrei essere nella strada e dirmi: che faccio ora? Dove incontrare un sorriso amico?
un pezzo bellisssimo emozionante da custodire come un pegno sotto la pelle.
bravissima francesca
una persona in cui credere
c.
Vèronique, vieni a Milano? D’agosto? Ma sei matta? Non ha alcun senso! ;-)
cara Francesca,
hai scritto un pezzo davvero bello e valoroso.
L’ho so, Gianni, che questo non ha alcun senso. ma forse la città si delineerà con una malinconia strana. Vedro forse il rifletto dei tuoi libri
danzare nella calore, nel nuvole di calore che sfuma i contorni.
E I Navigli sono per me l’illusione del venticello, l’illusione dell’acqua che non esiste, un desiderio che si trova nel assenza.
Spero non troppo entrare nella solitudine e gustare il piacere di essere in Italia, con un po’ di tristezza nel cuore, vedendo una città troppo in stato di ansia.
grazie Francesca. Aggiungo alle ultime righe di Sergio sulla mancanza di un interlocutore reale una considerazione ancora più amara: anche coloro che condividono le tue ansie, le tue preoccupazioni e il tuo orrore spesso rispondono sì, ma cosa ci possiamo fare, la maggioranza degli italiani hanno votato questa banda.
Vi ringrazio tutti per i vostri commenti.
@Sparz questa rassegnazione ci coglie tutti – non so quanto si possa credere alle persone, ma essendo un’idealista di fondo credo che si dovrebbe trovare ancora la forza di credere nelle idee. Se accendiamo la tv o sfogliamo un quotidiano c’è un continuo richiamo ai sentimenti, qualsiasi cosa si racconti. Io vorrei trovare invece qualcosa che faccia riflettere, che ci “costringa” a recuperare le idee.
Mi chiedo spesso cosa sia successo alla gente, che razza di torpore sia sceso sull’Italia, però purtroppo spesso mi rispondo un po’ come suggerisce Guido che il fascismo dall’anima italica non è stato affatto debellato. Tutt’altro. Lo dimostra il fatto che per apologia del fascismo nessuno viene condannato. Sempre riguardo ciò che dice Guido sulla possibilità di esprimere ancora liberamente il proprio dissenso: è vero, ma mi viene il sospetto che dietro ci sia all’opera una sorta di profonda derisione: dissentite pure, tanto nessuno vi ascolta. Tanto siete un gruppetto di nicchia che non scalfisce il potere. Se parli in mezzo ad un popolo di sordi non è un problema… In Italia non si nega esplicitamente la libertà (tanto che è abusatissima ormai la citazione di Voltaire, una cosa che mi fa ancora più rabbia), la si annacqua fino ad annegarla. La si isola, la si ghettizza. Perché essere liberi è la più grande responsabilità che abbia l’essere umano, significa riuscire a formulare un pensiero indipendentem accettarne i rischi. A Sergio dico un doppio grazie e aggiungo che sono perfettamente d’accordo su come lui discute il problema dell’interlocutore. Buona Milano a Veronique e buone vacanze a Gianni!
Grazie a te, Francesca per la gentilezza.
Francesca! Bellissimo, crudelmente reale questo tuo articolo-reportage. Una visione attuale lucida e spietata.
Il tuo grido lacerante passa tra fili distorti, è un cuore spinato nei meandri della Storia, un frammento allargato di verità conclamata che tutti viviamo, e che in pochi rivendichiamo. Perché il problema sta qui: dov’è finita la gente? In mezzo alle strade c’è il deserto. Bisogna abbeverare le pietre, dopodiché indurle a protestare contro un’afonia dilagante.
Parafrasando, diceva Bob Marley: “Non sono io che non voglio il sistema. E’ il sistema che non mi vuole”.
Io sono disposta a scendere in piazza, ma senza ascoltare petulanze di una sinistra “chic” con epicedi alla Travaglio-Guzzanti-Grillo: puzzano, non odorano di santità né emanano soluzioni ragionevoli. Bensì, gli ingenui menzionati, incrementano la popolarità degli avversari: uno ha la faccia monoespressiva (Fini, appunto), l’altra possiede un toupet vero che garantisce il capello ma non il futuro dei miserabili. Il patto d’acciaio, con una percentuale di bassa Lega.
Non abbiamo statisti. Ma funzionari di marketing, bancari, affaristi, splendidi contabili, ma non STATISTI!
Esistono individui menzogneri che hanno una forma-pensiero limacciosa, così da scivolare più facilmente sul verbo “comprendere”, oltrepassarlo senza scalfitture, dimenticarlo come parola-modello per condurre a riva chi sta affogando.
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Italietta, oh Italietta storna, quale vergogna!
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Mi sovviene spontanea l’associazione “Credere. Obbedire. Combattere” – perdonami Francesca – con “Marciare per non marcire”. Entrambe frutto di idealità diverse, provenienti da aree politiche diverse. Eppure mi chiedo, nell’Anno Domini 2008, quale monitorare tra i due slogan.
Il primo ha un pregio assoluto: riportare alla coscienza claudicante un monito severo, un idealismo ed una voglia di fare che, personalmente, mi appartengono.
Il secondo è dei nostalgici.
Il nostalgico, secondo un codice antropologico identificato, vive ancora tra ricordi mussoliniani, trovando apici esultanti nel rammemorare Almirante: ma sembra che non intendano comunque marciare! Marcire, forse sì.
A loro insaputa.
Comunque, sono da tenere d’occhio: alimentano fiamme verdi-bianco-rosse d’età giovane.
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Ci si rapporta alla Storia, alla memoria contemporanea con questo tuo importante scritto – cara Francesca.
La Storia è tra le uniche possibilità per formare le coscienze delle nuove generazioni, e ripulire da ragnatele quelle più anziane.
Noi scrittori, sono pienamente d’accordo con l’amico Eraldo Affinati, abbiamo un dovere: la responsabilità della parola. Il rapportarci alla realtà circostante, considerando come valore imprescindibile l’etica. Il rispetto, la comprensione, la consapevolezza degli eventi sociali, civili, umani. Senza dimenticare che la Storia di oggi è la conseguenza o, peggio, la ripetizione, di scelte ideologiche, spesso prevaricatrici, estreme, drammaticamente sbagliate. Ma pure, come nel caso germanico che portò alle elezioni democratiche il fautore del nazionalsocialismo, con il consenso dei cittadini. E qui sta l’aberrazione.
Grazie, Francesca.
Nina
PS: sono andata fuori tema?
Il nemico sta sempre all’orizzonte del nostro sguardo. Qui a Verona l’esercito sta esercitando il monopolio della violenza principalmente su etnie altre (presunti spacciatori, presunti mendicanti, presunti lavavetri, presunti irregolari), tutta gente di cui si sa poco, osservata per lo più attraverso la lente deformante del meme-stereotipo dello straniero secondo Mediaset. Ma chi sono poi questi nemici, non lo si viene mai a sapere. Qui chi esercita il potere fa leva sull’inconscio desiderio di preservare il piccolo mondo antico (Verona non è Roma, Milano o Napoli e sfortunatamente vive ancora il sogno di essere un’oasi) del cittadino per bene, pulito, morigerato, campanilista (e per lo più ignavo) dal panta rei della storia.
Tornato dalla vacanza waldeniana in un bosco, vado a Pistoia da Francesca per cena. L’occasione è anche un ritorno da una vacanza intellettuale, che dura da tempo. Abbiamo trascorso insieme ore, a notte: la ho ascoltata esporre le stesse idee di questo articolo, replicando poco, per lasciar sedimentare il pensiero. Rispondo ora, e poco sarebbe dire un semplice grazie, non riduttivamente irenico. Questa è un’occasione per rifare il punto su problemi comuni, per rifare la punta al pensiero, testarne la resistenza. Condivido animo poetico e volontà di coscienza che l’articolo esprime. Ma rilevo anche, con rammarico solidale alla visione idealista, che gli strumenti dell’ottimismo della volontà e del pessimismo della ragione, se non rinvigoriti da un diverso modo di vedere il mondo, risultino sterili. È tristemente vero ciò che le parole elencano: sfila palese ogni giorno sotto gli occhi, rafforzando il senso d’indignazione e insofferenza che inevitabilmente s’accende se si ha coscienza critica o memoria storica. Ma il saggio di Francesca non porge strumenti interpretativi, se non una constatazione di fatti e una commossa espressione di sentimenti. Oltre a stimolare impulsi affettivi, non dà strumenti razionali per affrontare lo stato di sfacelo, la realtà del quotidiano teatrino dell’esausto. La forza dell’articolo risiede nel bilanciamento tra constatazione della realtà, esperienza personale e calibrato uso di citazioni colte. Fascismo, razzismo, oblio, sono categorie umane ricorrenti, che tornano ciclicamente nella trama sociale. È indubbio che nella storia dell’Occidente stia esaurendo il ciclo di valori positivi innescatosi a seguito della catastrofe della seconda guerra mondiale. Se la fede positivista nel progresso si è estinta a metà del secolo, si stanno esaurendo oggi i valori le energie positive dell’umanesimo critico che ha permesso a almeno tre generazioni di sperare in un futuro migliore, in fatto di sviluppo economico e di diritti umani. Dagli ultimi bargagli di tale umanesimo, sul finire degli anni Settanta, ci siamo formati, io come Francesca, prima di venire schizofrenicamente distorti dalla legge del più forte nel mercato, dall’imperialismo delle coscienze del nuovo benessere anni Ottanta. I volti e i proclami, i simboli del potere esposti quotidianamente sulla carta e sugli schermi, sono una manifestazione esteriore e estrema di dinamiche magmatiche precedenti. Per riprendere la nota dialettica marxista, ancora efficace, ciò che si manifesta nella comunicazione è sovrastruttura, che non cambia lo stato delle cose, se non di riflesso. Ciò che determina processi di rimozione e crimini sociali è la struttura, dinamiche economiche produttive. Il vizio risiede nello scambiare gli effetti per delle cause; sopravvalutare il valore simbolico, sovrastrutturale, di segni, icone e parole, già gestiti da chi detiene il potere, senza comprende le strutture economiche, le dinamiche produttive alla base della oscietà. Per ricollegarmi alle parole di Francesca, forse l’esercito è stato mandato nelle città per un motivo meno evidente di un Golpe (tema usato dalla destra come spauracchio per frastornare l’opinione critica della cosiddetta sinistra) quanto piuttosto e più semplicemente (ma non meno tragicamente) per supplire all’incapacità del governo di pagare in modo decente la polizia, istituzionalmente demandata a tale compito. L’economia occidentale, così come è impostata adesso (e bisognerebbe quindi comprendere come è impostata) è un castello di carte che, se non reinventa e rifonda le sue basi (una idea può essere quella di Al Gore, ma confidiamo pure in Obama, o in una nuova Cina democratica), è arrivata agli ultimi piani, per un fatto strutturale di risorse, di materie prime, e rischia di collassare. Servono nuovi progetti sociali, idee strutturate. Non una dialettica basata sull’opposizione di slogan esteriori, di gesti simbolici. Un individuo che volesse agire sulla realtà andando oltre la constatazione angosciata della dissoluzione dei valori dovrebbe acquisire prima conoscienze economiche, matematiche, scientifiche e giuridiche, oltre che consolidare la pregressa formazione umanista. Gli ideali restano tali, ossia sovrastruttura, se non si mettono in gioco le competenze specifiche per agire sulla struttura. Non credo sia efficace constatare e indignarsi per gli effetti, soprattutto se mediatici; sarebbe più saggio comprendere le cause che spingono il mercato, l’economia, e di conseguenza gli individui che determinano le leggi del mercato e dell’economia, ad agire in tale maniera, a fare queste leggi, imposte poi alla popolazione. Non trovo infine, in alcun contesto possibile, degno di ammirazione il motto “credere, obbedire, combattere” che rispecchia, in prima istanza, un modo di essere fascista in primo luogo verso se stessi. La voce che comanda è la voce del nemico. Il nemico è la faccia di Fini sui manifesti elettorali, il simbolo della divisa, il logo, il marchio, la bandiera, il denaro, dio. L’appartenenza a un ideale che uniforma e legittima a imporsi sugli altri, oltre l’umana differenza. Occorrerebbe piuttosto insegnare a spengere il flusso di informazione che veicola l’ideologia del potere. Proprio da se stessi occorrebbe ripartire, nell’atteggiamento quotidiano verso la struttura mutevole e frammentata della cosiddetta identità, attraverso esercizi spirituali di meditazione, che si rispecchino nella comprensione verso gli altri, interpretati quali irriducibile alterità, e proprio per questo compresi. Questo è anche il punto di forza delle parole dell’articolo di Francesca, quelle conclusive. Partire da presupposti individuali, per non cadere in ripiegamenti scettici o in massimalismi ideologici, interpretando magari liberamente la Ginestra leopardiana. Considerare l’intrinseca fragilità e miseria umana, e la comune sorte, al di là di ogni articolo di fede o di mercato.