Da: Diario della fame – inediti.
di Rossano Astremo
Divento di giorno in giorno, di ora
in ora, da un battito di ciglia all’altro,
sempre più astratto, sfocato, illeggibile.
Come una foto della Woodman
spingo il mio corpo oltre la soglia
che divide l’impresso dall’assente.
Richiedo sparizione con forza finale,
un modo per non guardare il risvolto
della giacca che sono diventato:
pellicola graffiata con unghie dorate,
proiettata al contrario in dono corporeo.
Ti sogno da notti che non so numerare,
c’è sempre l’immagine di te al centro
di una stanza, nuda sul letto che scaglia
una palla da tennis contro la parete,
sfiorando la tv, incuneandosi nella zona
che separa l’antenna dallo specchio.
Sei racchiusa in un gesto privato,
avvolta nel sapone onirico della mente.
Non sei qui. Non sei qui. Sei solo un sogno.
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Ho una polaroid tra le pagine della mia
copia dei Vagabondi del Dharma.
Dentro ci sei tu, poggiata sul
bordo della cucina che guardi
con sospetto l’obiettivo, convinta
che la macchina non compia il suo dovere,
visto che è in disuso dal 1992.
Eppure una luce intensa sorprende
entrambi, dopo la quale una pellicola
sottile scorre verso l’esterno,
lasciando, in pochi attimi,
il suo pallido colorito e
assumendo l’esile tua forma.
Ora quella foto è ben chiusa
in un libro, quel libro è riposto
in un cassetto, un doppio strato
di difesa contro quell’immagine
che, se osservata, fende e spacca.
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Una tenia ha fatto breccia nella tua mente,
ha divorato tutti i tuoi ricordi,
ha una testa dotata di uncini e ventose,
ha un aspetto orribile e non lascia scampo.
Ora mi dici non sei sereno,
mi tieni lontano, mi curi come si cura
un eroinomane: metadone per non precipitare
(ricordi quando anche tu eri tossica come me?).
Io sono oltre il precipizio, cara,
è per questo che ti chiedo di farmi
dono della tua tenia: voglio smemorare,
rendere il passato tempo non corruttibile,
essere mangiucchiato da un parassita:il tuo.
Questo non è un incontro di tennis.
Il risultato più consono mi sembra il pareggio.
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Non ho più versi per te,
ne restano una dozzina sulla
superficie bagnata di un tappeto.
È giunta l’ora di afferrarli,
inserirli in una busta trasparente
e buttare poi fuori tutta l’aria:
un sottovuoto di emozioni inutilizzate.
Tutto l’amore che prima c’era
ora è rimasto incastrato tra
le molecole asfissiate di un’utilitaria,
al termine di un reading di Lawrence Ferlinghetti
al quale inermi assieme abbiamo assistito.
:::
Prima di sparire verrò da te,
ti accarezzerò i capelli,
sfiorerò il bianco angelico
che copre una zona del tuo teschio,
poi mi volterò senza proferire parola.
Come milioni di altre volte
ci doneremo le spalle e
allontaneremo in progressione i nostri corpi.
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La prima immagine che ho di te
è un occhio di candido smarrimento
su un monitor divenuto prigione.
La seconda immagine che ho di te
è il tuo corpo perduto in un locale
e poi il suo liquefarsi in mesi di guerra.
La terza immagine che ho di te
è una bocca immobile in una stanza.
Tu mi ammali: è l’innesto perfetto.
(Immagine: Marc Burckhardt – The Martyr’s rest)
Sei racchiusa in un gesto privato,
avvolta nel sapone onirico della mente.
Non sei qui. Non sei qui. Sei solo un sogno.
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Dei tuoi scritti mi piace sempre la capacità che hai di indicare il confine tra mente e realtà.
Io invece apprezzo la candida capacità di non farsi sgamare nel cercare come una puttana il suo magnaccia letterario. Nonché la discreta capacità di occultare le citazioni, le copiature a destra e a manca; questo essere e non essere insieme magrelli, ponge, il ginzberg infimo delle origini. Insomma questo piangersi addosso è così ben mimtizzato, applicato ad una certa calunnia del carattere (anche letterario) che è quasi un merito. Come quello etologico del ramarro verde, del proteo cangiante degli abissi muti e incangianti.
Amo primo il titolo che porta il nome diario della fame.
La fame è un dolore concreto, ma un dolore aspettato come un desiderio che ti tiene alle calcagna. Nella fame, si vede il nucleo del senso della vita, è nel manco che si sperimenta la ragione vera dell’amore.
Perché si parla d’amore nei versi, un’ allucinazione della notte, è sempre la sofferenza nella notte, quando si incontra il manco, il desiderio crudo, con la voglia di incontrare sulla pelle la pelle dell’altro/altra, incarnazione della somma assoluta del manco, un deserto senza confine dell’attesa.
Ecco il punto giusto dellla poesia: il sogno dentro la realtà senza carne.
immagini e realtà si alternano nei versi di rossano a definire una mancanza che sembra essere già metabolizzata e conosciuta prima della genesi dei versi stessi. una mancanza che nel titolo stesso racchiude una sorta di richiamo, ricerca e assenza. fame d’amore qui, ecco.
la conclusione sono i versi su cui mi son soffermata perché dopo un’alternarsi di ricordo, sogno e realtà il poeta sembra voler mettere l’immaginazione al servizio della realtà stessa, ma adesso per sintetizzare e concludere con un verso che vuole licenziare l’immaginazione e restare solo una verità.
e ciao rossano,
un abbraccio,
i.
Per chi conosce la poesia di Astremo risulta evidente che la fame da cui è mossa è quella della trasformazione. Che sia per amore o morte o viaggio. Citando, sentendo, sfinendo i confini noti, l’affamato si nutre e trasforma il proprio segno grafico ed emotivo. Il tempo segna il passo e s’arretra rispetto alla fretta delle immagini. Questa poesia resiste con ogni mezzo ad una sorta di personale cupio dissolvi ed alterna ombre e pixel a momenti di lucida euforia.
Così mi pare.
Elisabetta
Il Vermone Intergalattico ha sparato la decade
e il sapone truculento ha strumentalizzato la pasta
e adesso il pistillo ha detto biscia, sì, biscia
e spalanca le tue stelle e risucchia il bollilatte
dalle squame del pescivendolo impastrugnato
nella notte di marrone rosa del riso frattaglia.
Le sinapsi elettriche hanno usurpato la mosca
e la nicotina squarcia e sbudella il vomitamento
dando la visione alla palafitta quando il bancone tracolla.