La funzione Fortini nei poeti contemporanei (un questionario)
Di recente la redazione de L’ospite ingrato, nella sua versione on-line, ha diffuso tra i poeti un questionario riguardante la “funzione Fortini” nella poesia contemporanea. Nella homepage del sito si legge: “Il progetto della rivista on-line nasce dalla volontà di creare uno spazio che, partendo dall’esperienza dell’«Ospite ingrato», proponga discussioni ed interventi su temi fortiniani”. Ma quali sono questi temi “fortiniani”? Sono fondamentalmente temi d’intreccio, che richiedono di pensare nello stesso spazio questioni che ovunque altrove vengono immediatamente separate: le forme del lavoro, dei conflitti che esse creano, le forme del pensare e dello scrivere, le forme del sapere istituzionale. Pubblico qui, precedute dalle domande, le mie risposte al questionario.
di Andrea Inglese
1. Nell’ultimo trentennio si sono verificati mutamenti economici, politici e sociali di grossa rilevanza. Quali sono secondo te le trasformazioni decisive nella realtà contemporanea? Che effetto hanno sul tuo lavoro?
La trasformazione che, in quanto scrittore, mi riguarda di più, è quella che ha subordinato in modo prepotente ogni forma di attività culturale alla logica economica del profitto. La cultura ha perso sempre di più quella relativa autonomia, che manteneva nei confronti delle pure logiche di mercato. La mercificazione della cultura non è certo un fatto degli ultimi trent’anni, ma zone dell’attività intellettuale e artistica avevano in precedenza mantenuto un’attitudine autocritica, denunciando in vario modo questa tendenza generale e mostrando i limiti della pretesa autonomia del campo culturale nei confronti di quello economico.
Questa attitudine faceva sì che la cultura non fosse solo compiaciuta celebrazione dei ceti privilegiati e della loro visione sofisticata del mondo, ma anche espressione di un’esigenza di trasformazioni materiali e spirituali radicali, tali da prefigurare una società più felice e più giusta.
La compiuta subordinazione dell’attività culturale a quella economica ha vanificato anche quanto persisteva di pensiero critico presso scrittori, intellettuali e artisti. E ciò è avvenuto nella forma dello spettacolo. Su questo punto, nessuna analisi ha potuto finora modificare nella sostanza quella operata da Guy Debord a partire dal 1967. Oggi nulla esiste nell’intelletto o nei sensi, che non sia già anche nel medium, sotto forma di prodotto a larga diffusione. Oggi nulla è pensato e sentito, per scandaloso che sia, se non ha già un suo pubblico. (La cosa dev’essere prima nella mente del pubblico, affinchè possa essere anche in quella dell’autore.)
I nuovi arrivismi di ogni forma e colore, inclusi quelli a tinte “situazioniste”, che tanto oggi vengono deprecati nel mondo letterario, non manifestano altro che la verità del campo: non è il successo personale la meta ultima, il successo è la sola forma d’esistenza che un prodotto culturale (artistico o letterario) può avere. Non ne esistono altre. Al di fuori di questa non c’è l’insuccesso, la marginalità, il dilettantismo, la bohème, la clandestinità. Non esistono margini: ogni differenza può infatti essere immediatamente investita dallo spettacolo e ottenere una sua funzione – può essere diffusa e avere un pubblico. Uno scrittore dilettante può avere il suo pubblico, in quanto “dilettante”, ed egli può divenire prodotto specifico, proprio in virtù di questa coloritura. Così pure lo scrittore “scomodo”; anch’egli ha di fronte redditizi circuiti, basta che sia disponibile ad essere diffuso, sempre rilanciato, sempre fedele al suo logo, alla sua coloritura specifica. E’ questo ritmo incalzante della diffusione – nulla esiste sulla pagina o nella testa, che non esista anche come prodotto già finito, autonomo, pronto alla diffusione indiscriminata – a indebolire ogni forma di elaborazione lenta, in contesti di sordità relativa rispetto all’eterno presente dello spettacolo.
Uno dei segni della definitiva perdita d’autonomia della cultura si è avuto con la celebrazione del presunto passaggio da una cultura elitaria, per pochi ricchi, ad una cultura democratica, per tutti. In Italia, sono state le televisioni private di Silvio Berlusconi ad inaugurare questa nuova era. Tale passaggio si è avvalso di un aspetto della tradizione del pensiero critico, per togliere ogni legittimità morale a quanto, dell’espressione umana, non possa essere ridotto a merce, a prodotto in grado di essere immediatamente diffuso. Da allora la diffidenza e lo scetticismo dei ceti popolari nei confronti di tutto ciò che risentisse di un’elaborazione intellettuale sofisticata si è mutata in aggressiva rivendicazione della povertà di strumenti e della ristrettezza di prospettive, come valore democratico indiscutibile. Ciò ha ridato, di conseguenza, legittimità a tutte le nuove forme di elitarismo culturale, di destra come di sinistra, che non fanno altro che prendere posizione su parcelle di mercato culturale ridotte, ma ancora in grado di godere di un plusvalore simbolico.
In un tale contesto, ciò che uno scrivente versi percepisce è la sempre maggiore irrilevanza della campo culturale nel suo insieme, per il destino della società e delle persone che ci vivono. Quello che viene a mancare è l’idea stessa che la scrittura e la lettura siano esperienze formative e trasformative, capaci di agire su di noi, di modificare la nostra visione della realtà, di esplorare aspetti dell’umano non funzionali alla società esistente. Di fronte a questa eventualità, colui che scrive senza preoccuparsi della possibilità che il suo prodotto abbia un pubblico, colui che scrive per realizzare innanzitutto l’avventura che la scrittura può essere, si percepisce oggi come una sorta di esperimento vivente. Questa condizione è un’ulteriore regressione rispetto a quella, tante volte ribadita in questi anni, dell’intellettuale o scrittore come testimone. Il testimone presuppone, almeno, che un ordine di valori esista da qualche parte, affinché la sua testimonianza possa essere compresa e valutata fino in fondo. Il testimone presuppone che un ordine di valori persista in forma minoritaria e che possa trasmettersi al futuro.
Oggi la situazione mi sembra ancora più difficile e incerta: il poeta in particolare diventa testimone solo di se stesso, della sua capacità di dialogare ancora con i morti (la letteratura del passato), del suo malinteso fecondo con il linguaggio, della sua capacità di esistere diversamente che come merce. Lo scrittore come esperimento vivente deve affrontare il rischio del solipsismo. Per sfuggire alla menzogna generalizzata, bisogna poter resistere ad ogni evidenza condivisa. Questo implica un lavoro assiduo e in solitudine, a partire dalle modalità più ordinarie di percezione. Lo scrittore come esperimento è colui che può forse parlare a nome d’altri, solo parlando a partire da sé, solo interrogando l’esistenza di un possibile ordine di valori che non sia quello dello spettacolo – ossia del profitto. E d’altra parte, questa condizione apre un campo sterminato per la scrittura poetica: Perec lo chiamava l’infraordinario, noi possiamo concepirlo come tutto quanto esiste al di sotto della soglia dello spettacolo, al di sotto di quanto è mediaticamente consistente, significativo. Tutta la strada che dall’esilio del reale ci riconduce ad esso.
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2. Molte poesie degli ultimi decenni sono caratterizzate da una forte componente metapoetica e autoriflessiva. L’atto della scrittura viene rappresentato già all’interno del testo, e qui interrogato. Come valuti l’incidenza di questa componente all’interno della poesia contemporanea? Pensi che sia cambiata rispetto alla poesia di trenta anni fa? Che peso ha nella tua scrittura?
Non mi pare che la dimensione autoriflessiva della scrittura poetica sia oggi più diffusa che trent’anni fa. Se davvero lo fosse, però, io interpreterei questo aspetto come parte di un fenomeno più ampio: il manierismo che ha preso piede a partire dagli anni Novanta. Manierismo e neometricismo, e forse anche un’enfasi sulla componente metapoetica, sono per me reazioni ad una perdita di prestigio del genere lirico, e si configurano come reazione corporativa. Di fronte ad un’indebolimento delle gerarchie di valore – eclissi delle collane di riferimento, moltiplicazione degli scriventi versi, ecc. –, il poeta reagisce mettendo l’accento sugli aspetti tecnici del proprio mestiere: si professionalizza.
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3. «Il costituirsi di qualsiasi forma, linguistica o letteraria, comporta caratteri severi di sforzo e progetto […] In questo senso il valore di ogni forma è anche etico-politico, comportando organizzazione, volontà, ascesi, selezione» (Fortini, Sui confini della poesia, 1978, in Id., Nuovi Saggi Italiani, Garzanti, 1987). Nel passo citato il processo di formalizzazione della poesia sembra implicare per Fortini diverse istanze tutte compresenti: quella straniante che tende ad immettere una forte distanza critica tra soggetto lirico, oggetto poetico e sguardo del lettore; la mascherata conferma di un preciso assetto sociale ed economico; una modalità di recupero della tradizione che diventa, grazie alla specifica progettualità della poesia e alle scelte formalizzanti, flebile ma al tempo stesso tenace anticipazione di un futuro.
Come entra in dialogo con queste riflessioni il tuo lavoro di poeta? Di quali significati investi le tue operazioni di formalizzazione?
Il termine “formalizzazione” come inteso da Fortini rinvia per me alla questione della figurazione. La conquista di una forma è sempre realizzazione di una figura di mondo. Ciò significa che ogni singolo verso deve poter sostenere come proprio sfondo la totalità del mondo, o almeno una tensione ad essa. Il verso, come meccanismo che governa il fondamentale scarto tra metro e sintassi, tra ritmo e senso, deve rendere palpabile il diramarsi contemporeano delle versioni del mondo. Il verso e più in generale l’organizzazione ritmica del componimento – anche quando si tratti di un brano di prosa – è la traccia dell’enunciazione vivente, del soggetto che nella sua fagilità esistenziale e conoscitiva apre comunque un mondo. Ma lo specifico della forma poetica è che al di fuori dell’enunciazione – prima e dopo di essa – nulla è veramente garantito, né il soggetto che parla né il mondo di cui si parla. Ogni garanzia esiste nella presa di parola non garantita, in questo rischio di tenere assieme soggetto e mondo, attraverso un discorso non di completezza (lineare, narrativo) ma d’intensità (puntuale, provvisorio). Ogni libro di poesia è una convocazione di un soggetto e di un mondo, di un certo soggetto e di un certo mondo. L’idea stessa di convocazione implica un’assunzione di responsabilità etico-politica. Di questo soggetto-mondo solo certi rilievi emergeranno, ed essi acquistano un peso decisivo proprio in rapporto a tutto ciò che nel componimento non è reso visibile, a tutto ciò che è taciuto. La forma è l’organizzazione di una figura, e la figura è uno spiraglio. Ciò che decido di far vedere si rapporta, ogni volta, a tutto ciò che non faccio vedere: il poeta si muove di continuo tra il visibile e l’invisibile sociale, così come tra il significativo e l’insignificante.
Il problema della forma si pone per me, innanzitutto, a livello di serie di testi (di sezione o di intero libro), e non a livello di singolo componimento. Per questo motivo sono ben poco interessato all’utilizzo delle forme chiuse. Non si tratta di vivificare o meno forme ereditate, si tratta di sperimentare una nuova forma ogniqualvolta si esplora un nuovo aspetto del mondo. E qui è implicito l’uso del patrimonio letterario ereditato, ma anche il riuso di una quantità di discorsi extraletterari.
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4. La traduzione «può essere aspirazione a ricevere da un’opera compiuta nel passato quel sussidio alla completezza che l’operare nel presente, per definizione, non ha.» (Fortini, Prefazione al Faust, 1980, in Id., Saggi ed epigrammi, Mondadori, 2005). Ritieni valida l’idea di traduzione come tensione vitale nei confronti di una tradizione? Qual è il tuo rapporto con la traduzione e con la poesia contemporanea in lingua straniera?
In tempi recenti, sono intervenuto diverse volte sul significato che per me e per altri poeti a me contemporanei ha l’esperienza della traduzione. In particolar modo, su invito di Paolo Febbraro, ho dedicato al rapporto mio e di altri con la poesia francese contemporanea un saggio approfondito intitolato Passi nella poesia francese contemporanea. Resoconto di un attraversamento, saggio che apparirà questo autunno nell’“Annuario di poesia”, curato da Febbraro e Manacorda. Qui mi limiterò soltanto a definire ciò che io chiamo “attraversamento” e che costituisce per me l’esperienza chiave della traduzione. Un attraversamento è legato ad una carenza originaria, ed è un movimento che cerca altrove quello che non riesce a trovare a casa propria. Esso si definisce, innanzitutto, in termini di critica della propria cultura, o più precisante d’insoddisfazione nei confronti delle proprie istituzioni poetiche. Questo vuole la logica dell’attraversamento: essa prevede sempre un “rimbalzo”, un possibile ritorno. Questo avviene in ultima analisi nel lavoro di traduzione, ma non solo. Lettura di testi in lingua originale, traduzioni dal francese all’italiano, riflessione sugli scritti teorici, tutti questi momenti agiscono poi sulla nostra consapevolezza di autori, di scrittori in lingua italiana.
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5. Mengaldo ha definito la “funzione Fortini” come «integrale politicità della poesia» (Divagazione in forma di lettera, in Per Franco Fortini, Liviana, 1980). La politicità della poesia consisterebbe sia nella scelta di rappresentare determinati contenuti politici e sociali, sia nell’uso non conciliante della forma. Riconosci una “funzione Fortini” nella poesia contemporanea? In che modo si rapporta al tuo lavoro?
Continuo a considerare l’opera poetica e intellettuale di Fortini un punto di riferimento fondamentale per il mio lavoro. Penso a Questo muro e a Paesaggio con serpente come due tra i maggiori libri di poesia del nostro Novecento. Quanto all “funzione Fortini”, essa solleva oggi diverse questioni. Innanzitutto, la considerazione di una “integrale politicità della poesia” ci può immunizzare dal rischio di una poesia “civile”, di cui tanto si reclama il ritorno. E’ probabile che tanta nostalgia di poesia civile sia legata al tasso d’inciviltà che regna nel nostro paese, tanto nei palazzi come nelle strade. Ma non si vede bene quale potrebbe essere un nucleo di valori condivisi dall’intera società italiana, nucleo che farebbe da sfondo al dettato del poeta civile. Una poesia cattolica, in Italia, per assurdo che possa sembrare, può essere certa di riscuotere più consenso, e trovare elementi ideologici di maggiore condivisione, rispetto a una poesia civile, che esalti valori popolari o valori repubblicani. Ma una poesia politica non presuppone nessuna condivisione, semmai esalta la sua dimensione di parte. E questa dimensione rimane per me legata alla scrittura poetica: dal momento che io scrivo, escludendo come molla fondamentale del mio agire il profitto, sono già parte di una minoranza, utilizzo un patrimonio culturale trasmesso nella forma incerta del dono. Ma questo scarto apparentemente irrilevante si pone come prefigurazione di uno scarto più ampio e di carattere politico: quello della circolazione del sapere e dell’esperessione artistica come forma gratuita e vitale, non governabile in termini di profitto economico o di rendita istituzionale.
Detto questo, per qualcuno nato nel 1967 non è probabilmente possibile immaginare una “politicità della poesia”, per il semplice fatto che è scomparsa l’esperienza che raccoglieva e promuoveva quella politicità. A partire dagli anni Ottanta non c’è più stata esperienza politica nei termini in cui poteva averla vissuta Fortini. Al suo posto abbiamo avuto esperienze di militanza eclettiche, scostanti, più o meno estranee alla vita di partito, o poco integrate in esse. Neppure l’esperienza da Seattle a Genova, nel movimento altermondialista, ha potuto sedimentare forme di agire politico consistenti. Di conseguenza, la stessa “funzione Fortini” è venuta storicamente meno.
A questo punto, però, andrebbe modificata l’ottica della questione. Un teorico della letteratura, il francese Jacques Rancière, può offrirci indicazioni in questo senso. Mi riferisco in particolare ad un suo saggio recente: Politique de la littérature (2007). Vi è un terreno “impolitico” nelle nostre vite, che può divenire occasione di una “politica” propriamente letteraria. Se la parola politica è quella che svela pubblicamente un nuovo campo di oggetti, e con esso una nuova dimensione della soggettività, la parola poetica è quella che viaggia ai margini del campo politico, laddove si gioca invece una disarticolazione tra oggetti e soggetti. La parola politica istituisce un noi e rivendica la capacità di questo soggetto collettivo di deliberare intorno a degli oggetti, che erano in precedenza sottratti alla sua deliberazione. La parola poetica coglie invece le linee di divergenza presenti all’interno del noi, e mostra come esista un sottrarsi degli oggetti alla presa e alla discussione collettiva, che non ha le sue ragioni in un conflitto per il potere o l’egemonia. Esiste un’opacità degli oggetti, che resiste ad ogni sforzo di appropriazione simbolica in termi politici: un’insensatezza del mondo che difficilmente può essere presa in conto dalla parola politica, che identifica fini e mezzi di un’azione ricca di senso. Anche per la politica in senso proprio non è irrilevante la “politica della letteratura”. Nei confronti delle più grandi promesse di emancipazione dell’essere umano, formulate in termini politici, la parola poetica ricorderà i vuoti, le lacune, il fondo tragico della vita, contro ogni chimera di un’umanità completamente risanata dal dolore, dalla morte, dall’insensatezza.
Alla luce di quanto detto seppure in modo estremamente sintetico, io interpreto l’integrale politicità della poesia come un rapporto costante tra la “politica della letteratura” e la politica propriamente detta, o come il costante cortocircuito che si può realizzare tra il terreno impolitico delle nostre vite e quello politico. Sciogliere questo rapporto sarebbe impossibile. In tale caso prevarebbe infatti una concezione semplicemente apolitica della scrittura letteraria.
“la parola politica è quella che svela pubblicamente un nuovo campo di oggetti, e con esso una nuova dimensione della soggettività […] La parola politica istituisce un noi e rivendica la capacità di questo soggetto collettivo di deliberare intorno a degli oggetti, che erano in precedenza sottratti alla sua deliberazione.”
Chi si fa portatore di questa “parola politica” oggi? Io non lo so.
Mi domando perché questo pezzo non abbia ancora ricevuto una manciata di commenti.
caro jacopo
forse, per ora, l’unico “noi” istituito è “noi consumatori”, un bel noi trasversale e universalistico, e l’unico “oggetto” su cui si vorrebbe deliberare è “il potere d’acquisto”. Questo modello politico ci è ugualmente proposto a destra come a sinistra. Ad ognuno di scegliere quale cordata sarà più efficace, se quella targata destra o quella targata sinistra. Non si vede ancora quel noi che ponesse come oggetto di rivendicazione non maggiori e più caritatevoli crediti al consumo, ma i tempi e gli spazi della vita, ad esempio.
Ma manca del tutto il vocabolario per articolare una tale discorso: per ora esso produce solo grugniti di rancore e gemiti di sofferenza.
Quanto alla mancanza di commenti… Fortini è un fantasma ingombrante: nessuno ha veramente voglia di seppellirlo fino in fondo. Ma nessuno ha neppure voglia di rianimarlo, come si è invece fatto con Pasolini. Nell’imbarazzo tra il non farsene nulla e il farsene qualcosa di poco chiaro, meglio tacere.
molto giusto quel sottolineare l'”imbarazzo” Fortini, e il silenzio che ne deriva nel qui-ora altamente impolitico, Viola
Io non ho commentato perchè avrei dovuto scrivere un commento lungo quasi quanto il post, soprattutto sul primo punto, il più problematico, che chiede un’argomentazione piuttosto articolata.
Nel mio caso Fortini non c’entra, o molto trasversalmente.
Si potrebbe averne almeno un sunto, Alcor?
Mi piace riportare qui di seguito il ricordo di un poeta-intellettuale scritto da un altro poeta-intellettuale, compagni di strada.
L’articolo è stato estratto (quasi per intero, e mi scuso per la lunghezza) dalla rivista Rendiconti, Fascicolo 37/39, novembre 1995.
Saluti
Francesco C.
Roberto Roversi
Fortini, Fortini…
La prolungata ostinazione di Fortini…Amavo il primo Fortini, temevo l’ultimo Fortini. Lo temevo però ascoltandolo sempre sempre, anche in ogni frammento discutibile di parola; violento con dolore come lo sentivo, dentro al frastuono del mondo che gli sfuggiva da ogni parte – ma lui, nonostante tutto (direi, nonostante tutti) sembrava dannarsi a trattenere ogni tracimazione serrandola fra le braccia, in una dedizione conoscitiva lungimirante e spasmodica. Sempre acuta, quasi sempre esemplare. In verità, per me, l’ultimo Fortini è il Fortini alto e sgomento, ferocemente addolorato, che a leggerlo dava sempre tormento. Invece, il primo Fortini è il Fortini alto e violento, implacabile ma senza troppo dolore, anzi con una punta di sgarbo dell’anima, che a leggerlo sollecitava,spingeva, sospingeva magari con l’astio di un furore squillante. A questo Fortini ritorno, e lì permango… Dunque uomo non facile, aspro da sopportare, talvolta impossibile da sopportare; persino epicamente disumano nelle durezze improvvise o previste…eppure cervello indispensabile, dietro il pungolo di rancori rinnovati intorno alle idee e ai fatti…Una presenza, insomma, quale manca del tutto in mezzo a mille dispetti del destino sociale in questo momento – calpestato da code e da piedi di pappagalli gazzettieri che non lasciano orme…
Allora, qua di seguito, trascrivo in breve alcuni riferimenti da agganciare a pagine e a riflessioni fortiniane: la negazione del comunismo di potere; la negazione della prepotenza con dolore del comunismo partitico, anche quando ha (aveva) il potere; in contrapposizione, la convinzione dell’indispensabilità di un marxismo rigenerato da un nuovo rigore e dall’indipendenza da ogni basso vile cavillo di interessi; tanto da poter tornare a proporsi, unico, come lava salvifica per riscattare il mondo dalle trappole mortali di uno sviluppo tutto denti e niente cuori oreccchi e testa attenta, con rigore, sulle cose…Fortini è stato uno dei pochi (e neanche Pasolini con questo lucido rigore), all’inizio con la pattuglia dei giovani degli anni ’50 da lui spesso ricordati con ammirata gratitudine, che limando le sbarre di ogni costrizione culturale, ha tentato di disporre i problemi e gli argomenti decisivi non secondo l’ordine ufficiale suggerito ma attraverso i continui incontri-scontri con i nodi effettivi della realtà sociale e culturale; convinto, e cercando di rendere convinti gli altri, che non si deve vivere per partecipare a modeste rassegnazioni personali ma per non cedere di fronte all’imprevisto delle idee e dei problemi emergenti; per evitare di consumarsi al lume di un prestigio raccattato e per dedicarsi invece con una fermezza che deve rasentare o toccare la durezza, alla frantumazione di idee che il secol nostro, spaventoso ballerino, ad ogni scadenza cerca di proporre o imporre in via definitiva come ottimali. Allora F. è, da un punto di vista rigoroso, un rivoluzionario? Nel senso di una ragione concreta, collegata al viaggio tumultuoso delle idee, quindi insoddisfatta sempre, placata mai. E se per rivoluzionario, a nostro uso e consumo, vogliamo ancora intendere, come si dovrebbe, la fatica di consumarsi sulle idee in movimento; di seguirle, fermarle, disperderle, affrontarle, placarle; sempre dividendo i momenti della ricerca, diversificando i problemi, riverificando i percorsi di metodo, affrontando e fermandosi sui particolari; trivellando idee, parole, deduzioni e conclusioni con la cauta pazienza da francescano del pensiero. Sono queste occorrenze e queste inquiete certezze prolungate e distribuite per quasi sessant’anni (e ancora, credo, indispensabili al presente) che inducono a mantenere i suoi libri, le sue pagine, sul tavolo di lavoro e non accartocciati negli scaffali delle saltuarie consultazioni. Per alimentarci alla sua ira ostinata che ti stanca – che deve stancare, per lo sforzo costante di sopportarla e viverla. Le sue pagine si rileggono ancora oggi come scritte con astioso rigore sul sasso (non per farle vincere contro il tempo ma per renderle incancellabili dalla rassegnazione) e come depositarie di una voglia di lotta intellettuale mai immobile o placata e sempre, in qualsiasi modo svolta, sconvolgente implicante. E, per fortuna e giustamente, spesso controversa. È lui, nostro contemporaneo, che continuerà a percuotere i sonni della nostra ragione impaurita, orrore lasciando e scompiglio (come ha scritto nel suo addio al grande Vittorini). L’orrore, riferendolo noi come gettato contro una società intera contratta nel busto di gesso delle sue mille magagne senza futuro; e che, cosi com’è, è proprio da spaccare in minutissimi frammenti come lo specchio delle sette brame nella favola di Biancaneve. Ma il nostro mondo non è una favola. E allora: Fortini, Fortini…
Ci provo domani, a dire la verità avevo già cominciato e non so come ho cancellato tutto, e adesso è troppo tardi e sono stanca. Buona notte.
Grazie Francesco per il bellissimo ritratto di Fortini fatto da Roversi.
Grazie a te Andrea, è sempre un piacere leggere
i tuoi post.
Francesco C.
Commento per punti la tua prima risposta. E’ un po’ lunghetto, mi scuso.
1. Nell’ultimo trentennio si sono verificati mutamenti economici, politici e sociali di grossa rilevanza. Quali sono secondo te le trasformazioni decisive nella realtà contemporanea? Che effetto hanno sul tuo lavoro?
La trasformazione che, in quanto scrittore, mi riguarda di più, è quella che ha subordinato in modo prepotente ogni forma di attività culturale alla logica economica del profitto. La cultura ha perso sempre di più quella relativa autonomia, che manteneva nei confronti delle pure logiche di mercato. La mercificazione della cultura non è certo un fatto degli ultimi trent’anni, ma zone dell’attività intellettuale e artistica avevano in precedenza mantenuto un’attitudine autocritica, denunciando in vario modo questa tendenza generale e mostrando i limiti della pretesa autonomia del campo culturale nei confronti di quello economico.
“Sulle prime non si può che darti ragione, poi però vengono in mente alcune domande. Ad esempio, di che natura era quella relativa autonomia alla quale fai riferimento? E soprattutto, era autentica? Ci sembra forse autentica proprio perché il dato economico era nascosto, o meglio, era estremamente indiretto. Il condizionamento economico è quello che adesso patiamo o ci sembra di patire di più proprio per la sua estrema invasività e visibilità, ma il controllo, e perciò la mancanza di autonomia, c’era, ed era ideologico. Se ieri la pubblicazione di Nietzsche, per fare un esempio, era problematica per ragioni politiche, oggi l’accesso ai testi non risponde più a quella logica. In questa estrema libertà ideologica e invece nel corrispondente vincolo al successo economico, cosa si è perso e cosa guadagnato, e soprattutto, è vero che l’attitudine autocritica è venuta a mancare? Il tuo stesso intervento farebbe pensare di no.”
Questa attitudine faceva sì che la cultura non fosse solo compiaciuta celebrazione dei ceti privilegiati e della loro visione sofisticata del mondo, ma anche espressione di un’esigenza di trasformazioni materiali e spirituali radicali, tali da prefigurare una società più felice e più giusta.
“Certo, c’era ancora la spinta ideale del dopoguerra, e la guerra fredda metteva in primo piano lo scontro ideologico, a quello scontro sono stati sacrificati comunque dei libri e degli autori, e sempre all’interno di una società nella società, dove però la classe “dirigente” aveva uno statuto di maggior peso, di guida. Rimpiangiamo? Non so, penso al dominio secco dalla DC nell’università.”
La compiuta subordinazione dell’attività culturale a quella economica ha vanificato anche quanto persisteva di pensiero critico presso scrittori, intellettuali e artisti.
“Non sono d’accordo, a meno che tu non mi dica quali. Certo, la enorme quantità di merce libraria è soffocante, ma mi piacerebbe (ovviamente non lo chiedo a te qui, ma in generale) uno studio statistico su quanta merce libraria c’era anche allora che ora non vediamo perché facciamo riferimento solo a quei nomi che sono rimasti vivi per la qualità del loro pensiero. Quanto vendevano, quanto erano letti, quanto peso avevano davvero nella società, e non solo in quel pezzo di società che vedevamo perché ne facevamo parte, ma anche in quella che non siamo stati capaci di vedere e che ha fatto la sua strada scegliendo Berlusconi. La famosa maggioranza silenziosa era silenziosa per noi, ma parlava, parlava eccome, e a chiunque volesse ascoltarla. Noi non abbiamo ascoltato.”
E ciò è avvenuto nella forma dello spettacolo. Su questo punto, nessuna analisi ha potuto finora modificare nella sostanza quella operata da Guy Debord a partire dal 1967. Oggi nulla esiste nell’intelletto o nei sensi, che non sia già anche nel medium, sotto forma di prodotto a larga diffusione. Oggi nulla è pensato e sentito, per scandaloso che sia, se non ha già un suo pubblico. (La cosa dev’essere prima nella mente del pubblico, affinchè possa essere anche in quella dell’autore.)
“Anche qui, di quale pubblico si parla? Ho l’impressione che tutti noi, me compresa, siamo abbagliati dall’apparenza, che è molto chiassosa.”
I nuovi arrivismi di ogni forma e colore, inclusi quelli a tinte “situazioniste”, che tanto oggi vengono deprecati nel mondo letterario, non manifestano altro che la verità del campo: non è il successo personale la meta ultima, il successo è la sola forma d’esistenza che un prodotto culturale (artistico o letterario) può avere. Non ne esistono altre. Al di fuori di questa non c’è l’insuccesso, la marginalità, il dilettantismo, la bohème, la clandestinità.
“La tanto evocata società letteraria (anche da me, che negli ultimi anni però sto correggendo il tiro) esisteva, ma era autoreferenziale. La cultura non è mai stata popolare, mi piacerebbe, se avessi tempo e voglia, andare a frugare tra le vecchie annate di “Gente” e altri periodici del genere. Lì c’era rappresentata una fetta molto consistente di Italia della quale non ci curavamo proprio. Eppure c’era.”
Non esistono margini: ogni differenza può infatti essere immediatamente investita dallo spettacolo e ottenere una sua funzione – può essere diffusa e avere un pubblico. Uno scrittore dilettante può avere il suo pubblico, in quanto “dilettante”, ed egli può divenire prodotto specifico, proprio in virtù di questa coloritura. Così pure lo scrittore “scomodo”; anch’egli ha di fronte redditizi circuiti, basta che sia disponibile ad essere diffuso, sempre rilanciato, sempre fedele al suo logo, alla sua coloritura specifica. E’ questo ritmo incalzante della diffusione – nulla esiste sulla pagina o nella testa, che non esista anche come prodotto già finito, autonomo, pronto alla diffusione indiscriminata – a indebolire ogni forma di elaborazione lenta, in contesti di sordità relativa rispetto all’eterno presente dello spettacolo.
“L’elaborazione lenta, mah, io credo che ci sia ancora. Non così lenta come un tempo, ma è anche vero che tutto è stato velocizzato. Questa velocizzazione ha certamente modificato le modalità, ma io non credo che abbia spento il pensiero. Certo, può dare una certa ansia, ma dovrebbe far parte della funzione dell’intellettuale anche resistere personalmente a quest’ansia, per poter elaborare secondo le proprie esigenze.”
Uno dei segni della definitiva perdita d’autonomia della cultura si è avuto con la celebrazione del presunto passaggio da una cultura elitaria, per pochi ricchi, ad una cultura democratica, per tutti. In Italia, sono state le televisioni private di Silvio Berlusconi ad inaugurare questa nuova era.
“Posso essere d’accordo solo se accetto l’accezione cultura per tutto quello che è prodotto non materiale, ma io non lo accetto e distinguo tra intrattenimento ed elaborazione.”
Tale passaggio si è avvalso di un aspetto della tradizione del pensiero critico, per togliere ogni legittimità morale a quanto, dell’espressione umana, non possa essere ridotto a merce, a prodotto in grado di essere immediatamente diffuso.
“Non mi è chiarissimo quello che intendi”
Da allora la diffidenza e lo scetticismo dei ceti popolari nei confronti di tutto ciò che risentisse di un’elaborazione intellettuale sofisticata si è mutata in aggressiva rivendicazione della povertà di strumenti e della ristrettezza di prospettive, come valore democratico indiscutibile.
“Questo è vero. Ma non vedo il vantaggio di tornare eventualmente a quella famosa diffidenza. Portava solo a un atteggiamento assai ipocrita e doppio, del genere, sei una “persona colta” perciòstesso sarai una persona che ha potuto studiare, e dunque fai parte della classe dirigente, perciò ho riguardo di te. Stop. Che non ci fosse altro, che fossero due mondi già allora separati lo dimostra la rapidità con qui quell’atteggiamento è stato buttato alle ortiche. La democrazia è la democrazia.”
Ma Ciò ha ridato, di conseguenza, legittimità a tutte le nuove forme di elitarismo culturale, di destra come di sinistra, che non fanno altro che prendere posizione su parcelle di mercato culturale ridotte, ma ancora in grado di godere di un plusvalore simbolico.
“Qui ti do pienamente ragione ed è una cosa ridicolissima.”
In un tale contesto, ciò che uno scrivente versi percepisce è la sempre maggiore irrilevanza della campo culturale nel suo insieme, per il destino della società e delle persone che ci vivono.
“Vedi sopra.”
Quello che viene a mancare è l’idea stessa che la scrittura e la lettura siano esperienze formative e trasformative, capaci di agire su di noi, di modificare la nostra visione della realtà, di esplorare aspetti dell’umano non funzionali alla società esistente. Di fronte a questa eventualità, colui che scrive senza preoccuparsi della possibilità che il suo prodotto abbia un pubblico, colui che scrive per realizzare innanzitutto l’avventura che la scrittura può essere, si percepisce oggi come una sorta di esperimento vivente. Questa condizione è un’ulteriore regressione rispetto a quella, tante volte ribadita in questi anni, dell’intellettuale o scrittore come testimone. Il testimone presuppone, almeno, che un ordine di valori esista da qualche parte, affinché la sua testimonianza possa essere compresa e valutata fino in fondo. Il testimone presuppone che un ordine di valori persista in forma minoritaria e che possa trasmettersi al futuro.
“Qui mi tornano in mente le olimpiadi di Pechino. E’ curioso come un certo ordine di valori che sembrava stato scardinato, quello confuciano, per intenderci, sia stato recuperato, magari in una accezione che non ci piace, ma comunque ibridato. Ho come l’impressione che gli ordini di valori siano strati galleggianti, placche, sempre in movimento e in instabile equilibrio, ogni volta sfruttabili da un’energia che è difficile definire con le categorie che siamo abituati a usare.”
Oggi la situazione mi sembra ancora più difficile e incerta: il poeta in particolare diventa testimone solo di se stesso, della sua capacità di dialogare ancora con i morti (la letteratura del passato), del suo malinteso fecondo con il linguaggio, della sua capacità di esistere diversamente che come merce. Lo scrittore come esperimento vivente deve affrontare il rischio del solipsismo. Per sfuggire alla menzogna generalizzata, bisogna poter resistere ad ogni evidenza condivisa. Questo implica un lavoro assiduo e in solitudine, a partire dalle modalità più ordinarie di percezione. Lo scrittore come esperimento è colui che può forse parlare a nome d’altri, solo parlando a partire da sé, solo interrogando l’esistenza di un possibile ordine di valori che non sia quello dello spettacolo – ossia del profitto. E d’altra parte, questa condizione apre un campo sterminato per la scrittura poetica: Perec lo chiamava l’infraordinario, noi possiamo concepirlo come tutto quanto esiste al di sotto della soglia dello spettacolo, al di sotto di quanto è mediaticamente consistente, significativo. Tutta la strada che dall’esilio del reale ci riconduce ad esso.
“E qui sono d’accordo. ma è quasi sempre stato così. Certo, se pensi a Montale puoi dirmi che no, che è stato un poeta in sintonia col suo mondo. Può darsi, non so, certamente nella mia famiglia che era una banalissima famiglia borghese si riconosceva il Montale poeta, ma veniva anche letto? Esisteva davvero, Montale, come qualcos’altro che non fosse un’icona, nella società del suo tempo, esclusa la piccolissima società letteraria?
Pasolini è stato l’unico che ha vagabondato tra i silenziosi.”
Grazie Alcor, di avermi passato a fil di spada (in modo bonario, ovviamente).
Provo a fare una grossa sintesi. Tu metti in guardia da un difetto di prospettiva, che ci fa vedere la trave nel mondo odierno (quanto all’autonomia o meno della cultura) e la pagliuzza in quello passato. Sono d’accordo, è un rischio che si corre sempre, e lo corro pure io nelle mie risposte. Non c’è granché da rimpiangere, nella cultura borghese ed elitaria a fronte di quella odierna eclettica e “democratica”. Ed inoltre, tu sottolinei come ci sia molta più continuità tra ieri e oggi di quanto non appaia.
Veniamo però ai criteri di selezione ideologici (di un tempo) contro quelli puramente economici (di oggi). L’idea stessa di una selezione che avviene sul terreno ideologico implica che la posta in gioco del prodotto non è solo economica, ma che s’inserisce in un conflitto per l’egemonia culturale. Questo implica una percezione, magari falsata o esagerata, ma che va nella direzione di una RILEVANZA di un fatto culturale al di là del suo campo specifico. Ma che cosa significa, che oggi davvero non esiste più nessuna questione relativa all’egemonia? Questo è quello che appare… Ogni prodotto è considerato nella sua singolarità in mezzo mille altri, e la sua efficacia è garantita innanzitutto dalla sua capacità di vendita. La sua consistenza ideologica pare del tutto secondaria, se non è supportata dal valore quantitativo del numero di vendite. Ma io ci vedo qualcosa di altrettanto ideologico, e di un’egemonia avvenuta, realizzata, nell’idea è rilevante perchè vende molto o perché è suscettibile di vendere.
Grazie per la sintesi:-)
Non so se quello scarto è ideologico. Ho letto con estrema fatica, e capendoci anche poco, a dire il vero, il libro di Guido Rossi sul mercato globale e le sue regole e quello che ne ho tratto è l’impressione di un organismo famelico pre-ideologico fatto di grandi imprese spersonalizzate e perciò straordinariamente sregolate che di fatto ci governano, ne ho tratto l’impressione che l’ideologia ( capitalistica in questo caso) sia solo uno degli strumenti che vengono messi in campo e più dai livelli medi, che da quelli alti, che probabilmente se ne servono isolo come strumento comunicativo e pubblicitario.
Il prodotto, a leggere Rossi come meglio ho potuto, è secondario, il vero protagonista è il denaro, la finanza, che sfrutta il prodotto per mantenere in vita se stessa.
Ma non vado avanti per non diventare ridicola, la mia ignoranza in questo campo è grande.
L’mpressione è che il dibattito ideologico si situi a un livello inferiore, come un enorme campo giochi per bambini, mentre i grandi giocano a poker.
Naturalmente poichè tutto è connesso non è propriamente così, ma la sensazione che per esempio un libro ideologico come quello di Tremonti, la paura e la speranza sia fuffa, capace solo di smuovere il dibattito ai margini, è forte.
Se questo abbia influenza sulla poesia, e addirittura sulla sua qualità, non so, onestamente.
Un poeta che pensi “male” cioè ingenuamente, ha o non ha scampo in quanto poeta? Secondo me sì, comunque.
In soldoni, mi sembra di essere più pessimista e al contempo più ottimista di te.
Io credo che di molti successi letterari non resterà niente. A volte di loro non resta niente dopo poche settimane. Le ideologie invece hanno spesso segnato solo esteticamente le epoche. Molta fuffa in giro comunque è sempre circolata.
il poeta per me è congenitamente un ingenuo idealista, o farebbe il “pokerista”.