E se facessimo sul serio?
[Raffaele Donnarumma replica alle critiche che Cortellessa esprime sull’inchiesta svolta da «Allegoria». Il testo da cui Cortellessa toglie le citazioni può essere letto qui. DP]
di Raffaele Donnarumma
Su «Specchio+» di novembre, Andrea Cortellessa ricalca, parodizza e cerca di screditare Ritorno alla realtà? Narrativa e cinema alla fine del postmoderno, l’inchiesta condotta su «Allegoria» 57 da Gilda Policastro, Giovanna Taviani e me. Simulando di avere a che fare con individui che riescono a essere al tempo stesso polverosi zdanovisti, fustigatori dell’arte degenerata e complici opportunisti o sprovveduti dell’industria culturale, Cortellessa stravolge il senso del discorso: neppure si accorge del punto interrogativo che accompagna la formula. Cerchiamo in primo luogo di fare un po’ di chiarezza, e di abbandonare passioni settarie o provinciali. Non si può ignorare che, anzitutto al cinema, qualcosa come un ritorno alla realtà ci sia (e per favore, risparmiamoci l’etichetta miserella e sciapa di neo-neorealismo): «Allegoria» ricostruisce questo panorama con una cura e un’estraneità al semplicismo che meritano attenzione. E non si può ragionare come se i libri che hanno contato a partire dagli anni Novanta fossero quelli di Franco Arminio e Leonardo Pica Ciamarra (mi perdonino!), anziché quelli di Saramago, della Munro, di Richler, di Philip Roth, di Yehoshua, di Oz, di Coetzee, di Edmund White, di Cunningham, di Franzen, di Schulze, di Houellebecq, di Littell. Il postmoderno letterario internazionale si è esaurito negli stessi postmodernisti (pensate a DeLillo); mentre in Italia gli scrittori trenta-quarantenni o radicalizzano il postmoderno, di fatto rompendo con le cautele dei Calvino, dei Tabucchi, degli Eco, o esibiscono la loro estraneità ad esso. È per questi ultimi che possiamo parlare di un ritorno alla realtà (bisogna precisare che è una formula d’effetto?), dopo le ironie, gli scetticismi, i ripiegamenti dei decenni scorsi; e in due forme: recupero di modi realistici, impegno civile. Tracciare questa mappa non serve a dare pagelline di merito: ci sono scrittori postmoderni di grande intelligenza e forza, come Walter Siti; ci sono sedicenti realisti che inseguono a fatica il successo di reality derealizzanti. Chi oggi si misura con il realismo, lo fa sempre sull’orlo dell’irrealtà mediatica. Chi pratica l’impegno, è a un passo dal diventare una star televisiva da programma di denuncia. Ma quanto più si sforza di resistere, quanto più svela il guasto, o quanto più vi si butta dentro per farne esplodere le contraddizioni, tanto più ha qualcosa da dirci. Non si può far finta che, negli ultimi anni, nulla sia cambiato, e continuare a intonare la vecchia litania secondo cui la realtà non esiste, la storia è finita, dell’esperienza non si vede neppure più l’ombra. Parlare di sciopero degli eventi oggi non vuol dire pronunciare una denuncia critica, ma riciclare un’ideologia di comodo, un alibi, una menzogna (e basta guardare qualche telegiornale…).
Non c’è da stupirsi che questo mutamento sconcerti, infastidisca o irriti alcuni critici e scrittori italiani. Il precariato o la camorra sono in fondo così di moda, così banali, così volgari! Fatuità da gazzettieri. Merce da furbacchioni che vogliono spillar soldi agli ingenui con qualche instant book, per beneficio loro e del solito grande editore. Formati negli anni del postmoderno, questi intellettuali sono, se va bene, fermi a un’oltranzistica difesa della letteratura in quanto letteratura: della quale, però, non si sa cos’altro dovremmo fare, se non lasciarla all’irrilevanza cui la destinano lo specialismo accademico, le chiacchiere da bar del dipartimento, l’industria culturale. Hanno reazioni allergiche a sentir parlare di realtà, di realismo, di impegno: tutte categorie che suppongo evochino alla loro mente cafoni con la roncola in mano e i piedi sudici, tetri e sanguinari funzionari di partito, ammorbanti predicatori di un dopoguerra stento e pulcioso. E Roth o Littell, Yehoshua o Houellebecq? Come non avessero pubblicato mai una riga; come non fossero, per un lettore italiano, gli scrittori che davvero pesano. L’ipotesi che ci sia una letteratura perfettamente consapevole della propria artificialità, e che insieme sappia parlare del nostro stare nel mondo qui e ora, non pare sfiorarli. Di fronte a questi romanzi, le stracche tiritere di una letteratura chiusa su di sé, occupata a farci capire quanto è letteratura, imprigionata nella fatica dei suoi procedimenti, come qualunque sperimentalismo da dottorandi, hanno ben poco senso. Tutta questa mostra di complessità è soprattutto ora, nel 2008, insufficiente, unilaterale, povera, falsa. Ci culla in una marginalità dalla quale dobbiamo uscire. Per capire, abbiamo bisogno non certo di un realismo di facciata, patinato, mid-cult o bacchettone: ma di una tensione realistica vera, di una volontà di strappare la materialità dell’esperienza alla falsificazione, del coraggio di guardare sino in fondo i conflitti che ci attraversano. È vero: in Italia, oggi, ogni reportage e ogni non fiction rischia di travestire la più pettinata delle fiction, per un ritardo e una sudditanza all’immaginario televisivo che difficilmente si registra in altri paesi. Guardiamoci da questo equivoco, dalle ambiguità di tanta letteratura di genere, dal carattere fuorviante dell’opposizione fiction / non fiction. Ma sono solo questi i problemi? Non sarà più grave, invece, che nel nostro paese si fatichi ad avere una narrativa all’altezza del tumulto in cui siamo? Possiamo liquidare un bisogno sociale così urgente e giusto di agire sul presente con la solita nenia della televisione che detta legge su tutto e si è mangiata il mondo? Dobbiamo fermarci qui, a snobbare il giornalismo e protestare i privilegi di uno specifico letterario ormai logoro e indifendibile? Bisogna storcere il naso davanti a Gomorra di Saviano perché non è né un vero romanzo né un esatto reportage, senza capire che la sua forza sta proprio nel sottrarsi a queste caselle pacificanti? E perché mai una letteratura murata in se stessa per arroganza, spavento o malinconia dovrebbe dire qualcosa alle migliaia di persone che in queste settimane scendono in piazza per affermare i loro diritti e la volontà di partecipare alla cosa pubblica? Non è una scelta culturalmente e politicamente colpevole rifiutare le possibilità che si potrebbero dare anche alla narrativa italiana, in nome di mitologie che non reggono all’urto con i fatti? La generazione che riconosco come mia non è quella che ha patito il trauma mancato della guerra del Golfo, stupita davanti ai fuochi verdi della diretta da Bagdad: è quella che vive tutti i giorni le fatiche, le ansie, le umiliazioni del precariato. Ha ragione Cortellessa: la pressione sugli scrittori è alta. Era ora. Hai visto mai che siano tirati per i capelli a farci riflettere su qualcosa che è nel nostro interesse collettivo, a liberarci di luoghi comuni e moralismi, ad abbattere le semplificazioni ideologiche, a scrollarci di dosso l’inedia e la sensazione consolante che non c’è più niente da fare? Chissà che non ne approfitti un certo ceto intellettuale e accademico italiano, così screditato di fronte all’opinione pubblica anche per il suo narcisismo, il suo corporativismo, la sua angustia, la sua renitenza a guardare in faccia un mondo, che, tutt’al più, diventa il babau del Reale lacaniano, davanti al quale è meglio scappare per tornare al computer o al televisore.
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del discorso sul realismo, nei termini “classici”, mi ha sempre infastidito il presupposto che la realtà fosse quella che precede il testo e che il testo, di conseguenza, si dovesse attenere ad una specie di fedeltà (da report giornalistico?). mi è sempre sembrato molto più utile, invece, pensare che la realtà sia uno degli effetti della presenza del testo (ma, in effetti, del linguaggio).
chiarisco. non penso che la realtà sia prodotta dal testo, ovvero che basti dire unicorno per avere un unicorno. dico che quella che chiamiamo realtà è un’ipotesi che facciamo all’interno di un discorso e che articoliamo attraverso dei discorsi (e che tra questi discorsi, chiaramente, ci sono i testi letterari – che, in questo senso, sono sempre fantastici).
l’indizio più forte per avanzare quell’ipotesi è l’ignoto che viene segnalato nell’articolo di cortellessa, che mi sembra un ottimo modo di intendere il reale, ovvero ciò che non sappiamo. sappiamo che c’è qualcosa che non sappiamo, ne parliamo e tutto quell’incrociarsi di discorsi, di testi, individua un ambiente che possiamo tranquillamente chiamare realtà.
a questo punto, vorrei tirar fuori una citazione del vecchio calvino, che ho spesso usato e, in questo caso per esempio, abusato, ma che mi sembra sempre un ottimo punto di partenza: “la letteratura non conosce la realtà ma solo livelli. Se esista la realtà di cui i vari livelli non sono che aspetti parziali, o se esistano solo i livelli, questo la letteratura non può deciderlo. La letteratura conosce la realtà dei livelli e questa è una realtà che conosce forse meglio di quanto non s’arrivi a conoscerla attraverso altri procedimenti conoscitivi.” direi che a partire da queste frasi si potrebbero fare molte considerazioni, che però lascio da parte.
mi preme di più considerare brevemente l’altro corno della questione, ovvero quello stile che viene citato nell’articolo di cortelessa in opposizione al realismo, che viene implicato anche in questo di donnarumma (con l’attacco, un po’ stantio, al solito post-moderno), e che mi lascia un po’ perplesso. in verità è l’opposizione che non mi convince tantissimo, ovvero mi sembra che l’opposizione di realtà-stile sia una specie di scacco implicato nella nozione di realtà precedente il testo.
chiarisco di nuovo: se la realtà precede il testo, il testo deve esserle fedele. oppure si ribella, ed è fedele solo a se stesso. decide di investire il proprio valore sulle sue forme, sullo stile, appunto. ma – mi sembra – non è riuscito a dire ciò che doveva. cioè che non deve essere fedele a nessuno; che il testo è un tentativo di triangolare nell’ignoto (in questo senso è bellissima la definizione di jean-marie gleize di letteratura come puntuale esercizio di ignoranza); che, se la letteratura ha senso, ha senso fuori di sé, non prima né dentro.
la mia impressione è che lo stile, le forme, siano una specie di epifenomeno, un risultato effettivo ma secondario di un fenomeno più grande che è quello della contrattazione del senso che avviene attorno al testo, al suo statuto e alla sua relazione con quel pezzo che ci manca e che chiamiamo reale. contrattazione che, per me, costituisce la letteratura ancora prima delle sue forme.
La generazione che riconosco come mia è quella che ha sperimentato l’infanzia e l’adolescenza più bella delle storia dell’umanità, ma ha scoperto che non gli bastava. Non è realtà questa?
Mi accorgo che solo ora ho capito, abbastanza, forse, Cortellessa.
A cui, semmai, va imputato il fatto – ma è tempo suo – di avere perso tempo.
Perdere tempo sul nulla da capire.
L’equazione è questa: tutti gli scrittori che non mi piaciono e che, probabilmente, sono mediocri o pessimi scrittori, li metto dentro una scatola a cui appiccico l’etichetta: postmodernismo.
Poi prendo tutti quelli che mi piacciono, che sono i migliori scrittori di questo tempo e li metto in una scatola su cui appiccico un’etichetta con su scritto: “realismo”.
Qundi dico che “realismo” è: impegno sociale, sensibilità politica e, se non avete ancora capito, quello che ha fatto Saviano con “Gomorra”.
A questo punto?
A questo punto: Chi non è con me peste lo colga.
Vi voglio vedere mettervi dalla parte di quelle “merde postmoderne” che vi sono state lasciate, per cercare di imbastire su di loro un discorso serio sulla “verità degli oggetti immaginari” o su “linguaggio come immagine o come gioco”.
Mai in vita mia avevo visto qualcuno fare in questo il gioco dei propri avversari: con un po’ di stile spalmato sul proprio articolo coprire il vuoto e farlo apparire reale.
*
l’atteggiamento ironico esibito dai “modernisti” nei confronti della “verità” sarebbe impossibile senza una vigente tradizione filosofica che mantiene in vita l’immagine dell’immagine della mente o del linguaggio.
Senza il precedente della lotta dei filosofi per inventare una forma di rappresentazione che ci costringa alla verità pur lasciandoci liberi di errare, per trovare immagini là dove ci sono solo giochi, non ci sarebbe niente su cui esercitare dell’ironia. In una cultura priva del contrasto fra scienza e poesia, non ci sarebbe poesia della poesia, scrittura che sia la glorificazione della scrittura stessa.
Quel che più specificamente moderno vi è nella letteratura moderna deriva i suoi effetti dagli uomini tutti d’un pezzo, e in particolare dai filosofi che difendono “il realismo del senso comune” contro gli idealisti, i pragmatisti, gli strutturalisti, e tutti coloro che impugnano la distinzione fra lo scienziato e il poeta.
RICHARD RORTY, Esiste un problema a proposito del discorso immaginario? in “Conseguenze del pragmatismo”, Feltrinelli 1986,
pag. 148.
*
Che anche Rorty faccia dell’ironia? E che con quegli “uomini tutti di un pezzo” volesse intendere “reazionari”. E noi, invece, neo.togliattiani?
la perdona, caro donnarumma.
nn ho letto allegoria
e mi farebbe piacere se mi mandasse il file del vostro lavoro.
magari le mando qualcosa di mio: immagino che non mi abbia mai letto.
arminio17@gmail.com
Colgo ora, rileggendo il mio intervento, ancora di più le ragioni che mi avevano spinto a prendere un posizione così netta, da rasentare l’aggressione, contro i contenuti dell’articolo di Donnarumma.
Infatti, essendo uno scrittore tale da poter essere classificato tra i “postmodernisti”, non potevo che fare la figura di “merda” di chi non riesce a farsi capire.
1. Il riferimento a Cortellessa era essenzialmente di tipo ironico:
lo rimproveravo scherzosamente di aver perso tempo nel controbattere a una posizione – quella rappresentata da una articolo su un rivista chiamata “Allegoria” e intitolato “Ritorno alla realta?” – che io giudico inesistente, dimezzante e, sopra tutto, rampante.
2. La risibile equazione di cui parlo – post.modernismo/realismo – è quella formalizzata nell’articolo di Donnarumma, che richiama sfilze di nomi di scrittori – che non c’entrano per nulla – per sostenere una tesi che, a questo punto, non può che essere ridicola, come l’utimo onorevole che usa il:”lei non sa cosa io”.
3. L’unica cosa di apprezzabile che mi era riuscito di dire sull’articolo di Donnarumma, è che dava ragione ai suoi avversari, perché
“con un po’ di stile spalmato sul proprio articolo copre il vuoto e lo fa apparire reale.”
4. Alcune volte si tirano conclusioni soltanto in base a indizi e sospetti, quindi prima ero stato un po’ imprudente, mascherando un po’ le cose. Ma siccome perseverare è diabolico, faccio una dichiarazione ufficiale:
io non ho letto mai “Allegoria” e, visto come stanno le cose, non penso che mi verrà mai voglia.
Ma se un giorno qualcuno mi chiederà qual è l’organo del “neo.togliattismo”, penso che non avrò dubbi a indicare “Allegoria”.
p.s.
“Allegoria”, naturalmente non c’entra: infatti uso il prefisso “neo”.
Ma chi voglia sapere quale è stato il peso della predicazione togliattana sul “realismo” e ricostruisca la storia delle interferenze e delle imposizioni ideologiche sul mondo delle lettere, non potrà non rendersi conto della responsabilità degli stessi portatori di questa ideologia nel costringere Pavese a suicidarsi.
micro-contributo. non so se può essere utile:
http://slowforward.wordpress.com/2007/09/05/lostfound
“Lilliputziano”. “Pantagruelico”. “Donchisciottesco”.
Sono parole che si possono usare o devono essere bandite, dal momento che non hanno un referente in ciò che alcuni, maldestramente, definiscono “reale”?
Non abbiamo bisogno di tirare Gadda per la giacchetta e chiedergli di ripetere a qualche somarello sgobbone, di rito luperiniano, che il reale avviene e che conoscere è sempre “inserire alcunché nel reale, è deformarlo”.
Questa non è una perorazione della causa espressionista (mi aggrappo allora anche a Weber e a Genet): qui è in ballo la conoscenza (e dunque: ricostruzione o decostruzione; punti di vista etc), non il reale in sé – lemma più fangoso e infido del sarchiapone.
La realtà può essere reimpastata o se volete, “ri-conosciuta”, con stile minimalista o espressionista o dadaista o situazionista: tutti gli isti che volete. Ciascuno stile ha una sua ragione d’essere. O volete lanciare una moda autunno-inverno, per poi stancarvene perché tutti si vestono allo stesso modo, manco ce lo avesse ordinato un Luperini qualsiasi o un, pace-all’anima-sua, DFW?
Ma non si può – nel 2008 quasi 2009 – continuare a parlare, a suon di indagini, di “reale/realta” come fosse una forza inerte, uno scatolone di roba/eventi che succedono fuori dalla finestra: il linguaggio non è forse parte della realtà? Non è allo stesso modo mio e di tutti? Intimo e alieno?
Suvvia, parrucconi di Allegoria: i realisti più bravi sanno da sempre che l’unica responsabilità che può accollarsi sul serio un autore è quella dello stile. E che il linguaggio è reale come lo è un decreto legge, un funerale, un pestaggio, un furto di auto, un licenziamento, un’isola inventata, un viaggio sulla luna.
(A darvi retta, non saremmo nemmeno curiosi di sapere se c’è acqua su Marte: o dobbiamo rischiare di credere che la donna licenziata e invitata dalla Deusanio sia un frammento di realismo perché, chissenefrega dello stile, basta che sta sul pezzo?).
Ditemi piuttosto se non scambiate il reale con l’impegno civile (e se sì, non starete ancora una volta scambiando i contenuti – le trame!- sottese alle opere con un elenco più o meno aggiornato di “ordini del giorno?”).
Qui non si discute di “realismo” o “postmoderno” (gli zebedei traboccano liquido seminale stantio, del tutto infecondo): ci sono autori grandi e piccini, per tutti i gusti; e il sincretismo sarebbe auspicabile in ques’era di pensiero unisex, invece delle solite barricate coi sacchi di riso forniti a iosa dall’università di Siena, in gravissimo deficit di bilancio.
D’altronde, il simbolo è una calamitia che attira a sé scaglie infinite di roba e linguaggi e eventi e punti di vista.
L’allegoria è una chiave che apre una sola porta. È, di per sé, autoritaria. Solo che mentre Dante trovava, oltre la soglia, mille e più stanze, voi grasso-che-cola trovate un monocale.
Ma non vi sentite soffocare?
(lo dico io, che sono un profano; gli addetti ai lavori non possano fare altro che provare a togliervi la polvere dalle giacche)
Gino
Irresistibile il “Donnarumma all’assalto” , senza ironia..
diceva uno scrittore molto popolare come Jorge Amado che la scrittura è sempre sangue e inchiostro… quel che conta (visto che il cuneiforme è nato per contare capi di bestiame e giare di grano) è forse la capacità di costruire un mondo condiviso o condivisibile…ogni artista testimonia,…ha -volente/nolente-questa responsabilità genetica…dire lo sguardo, e l’orizzonte che vi scorge, auguri, V.
@Bortolotti
mi ha sempre infastidito il presupposto che la realtà fosse quella che precede il testo e che il testo, di conseguenza, si dovesse attenere ad una specie di fedeltà (da report giornalistico?). mi è sempre sembrato molto più utile, invece, pensare che la realtà sia uno degli effetti della presenza del testo (ma, in effetti, del linguaggio).
Direi che non si può essere più chiari di così. La rincorsa del romanzo allo stereotipo sociale o alla sociologia di denuncia farà anche bene alla politica, ma non fa bene al romanzo.
Dice Bortolotti: “in verità è l’opposizione che non mi convince tantissimo, ovvero mi sembra che l’opposizione di realtà-stile sia una specie di scacco implicato nella nozione di realtà precedente il testo.”
Gli do ragione, messa così, non ha senso.
Ma non mi pare che l’opposizione fosse tra realtà e stile, bensì tra la coazione al realismo attraverso il quale soltanto passerebbe il necessario impegno dello scrittore e l’ interesse collettivo (“interesse collettivo”, qua si dovrebbe aprire una nuova pratica) da un lato e l’esito del singolo libro e del singolo scrittore dall’altro, che si dà nello stile. E vorrei aggiungere che ognuno ha il legittimo proprio, purché ci sia.
Del resto lo stesso Donnarumma dice: “ci sono scrittori postmoderni di grande intelligenza e forza, come Walter Siti; ci sono sedicenti realisti che inseguono a fatica il successo di reality derealizzanti.”
Appunto. E cosa fa la differenza?
Cos’è la “tensione realistica vera” di cui parla?
Cos’è per esempio in Saramago?
Perché se mette Saramago tra i virtuosi, come fa, deve rinunciare a “dare la linea” per manifesta contraddizione interna.
In realtà Donnarumma è migliore dei suoi slogan.
Vendendo frutta ho una visione delle cose molto pratica:
qui si parla di realismo e di stile come entità contrapposte. Hai voglia a dire che il Donnarumma voleva – sottiglieggiando nella polemica – intendere altro. Che poi lui sia (o valga?, ma qual è il criterio?) migliore dei suoi slogan vogliamo crederci tutti- e lo crediamo; perché è bello sapere che i critici non devono
scrivere per ottenere consenso nel mondo (e)lettorale.
ecco, per chiarire il discorso sullo stile riprendo una citazione dal post che ha linkato marco (giovenale): “questa immobilità [delle prime fotografie] a volte non funzionava, movimenti impercettibili creavano sfocature, intere sessioni di posa risultavano diversissime dalle pur millimetricamente calcolate intenzioni dell’ “artista”. ebbene: questo non significa(va) immagini “brutte”. poteva accadere il contrario.”
mi sembra molto giusto cogliere questo particolare. lo stile (è una parola che non può essere esaurita ma diciamo che intendo le scelte/intenzioni dell’autore) non è sufficiente a spiegare il “valore” del testo. e mi sembra che quando si parla di realismo si stia mettendo sul tavolo la questione del valore del testo – da misurarsi, nel caso del realismo ovviamente, nella riuscita del suo rapporto con la realtà (con il mondo).
è così che leggevo l’opposizione: testi “validi” perché in grado di dare conto del mondo vs testi “validi” perché felicemente risolti nelle proprio forme. quello che cercavo di proporre è che non ci fossero testi “validi”.
Mi sembra, però, che qui non si stia contrapponendo stile e realismo (concordo con alcor), né che per D. realismo implichi necessariamente valore. Non mi pare che emerga questo né da questa replica né dal suo saggio (che si può scaricare sopra, nell’intestazione al post). Tra l’altro, gli autori che vengono qui indicati come esemplari sono tutto tranne che realisti in senso dogmatico e zdanoviano. E mi sembrano anche molto diversi l’uno dall’altro (Roth e Saramago, Houellebecq e Cunningham, etc.) ma forse inseriti in uno sfondo ideale comune, cioè quello di una ricerca letteraria che recupera modi delle zone auree della tradizione del romanzo moderno (il realismo ottocentesco, francese e russo ad esempio; il modernismo inglese di inizio Novecento) e ne ripostula, con ansie, temi e movenze contemporanee, la tensione verso il reale. Che, molto semplicemente, messa in forma di intrigo e configurata in stile (impronta individuale, ma anche effetto delle implicazioni reciproche tra individuo e mondo) mi pare l’unica cosa che conti in letteratura.
Forse se si uscisse dalla contrapposizione la discussione ne guadagnerebbe.
La componente polemica della replica mi pare sia indirizzata ad alcuni bersagli, quelli sì ideologici, che sono diventati l’abc logoro del nostro “spirito del tempo”. Partiamo ad esempio da cose come la fine dell’esperienza (povero Benjamin…) e la derealizzazione: vi sembrano adeguate a descrivere, ad esempio, i meccanismi sociali in cui viviamo? Vi pare che i romanzi debbano fare da retroguardia a questi trastulli autoapologetici?
Cristina
Lo stile non è “un esercizio di”: è forma è sostanza ed “informa” il rapporto della lingua e del pensiero
con i cosiddetti “realia”: solo qui, nello stile inteso come creazione di un mondo parallelo al mio mangiare qui e ora questa minestra, si può giocare un rapporto con la Storia/le storie e i riflessi di un’epoca.
Solo nello stile (per favore: non in senso ombelicàl-trastullese) si può dare una letteratura che morde e mastica e plasma.
Dunque abbiamo tutti ragione: non c’è conflitto tra stile e realismo.
Epperò questi discorsi sono vecchivecchi, tutti. E risalgono la corrente, ci portano indietro (risospingendoci ancora una volta nel passato).
Gino
Se tornano Cossiga e Gelli può tornare benissimo la polemica
contro il Metello, il Gattopardo e il Dottor Zivago.
Appuntamento a Villa Vanda per un grande revival d’antan.
Non mancate.
Grande buffet e assaggi di Critica Letteraria vintage. D’ottima annata.
Per l’occasione, verrà riesumata la salma di Muscetta (sempre che sia ancora morto)
Gino
gino: vuole fare l’arbasino ma è solo un cretino.
con tutto il rispetto.
ma poi, se la polemica per lui è vecchia, non è più vecchia ancora la sua tiritera antiaccademica? gli accademici, tout court. viva viva la gelmini.
ahi: ospite ingrato, ti adoro. Tu mi consideri!
gino-arbasino
@ospite
son degno di te. O sei degno di me.
Ma mi costringi a rettificare: non aspiro a fare l’incendiario.
Né l’arbasino inculiero, falòttario.
Dicevo solo – con ironia (si può ancora?) – che questa, specifica, è
una vecchietta polemica.
Last but not least: stimo il Cortellessa e la sua grande capoccia.
E Viva l’Accademia tutta, Donnarumma compreso nel prezzo!
gino
tangenzialmente, ma mica troppo, a quel che si dice qui scrissi un paio di cose oltre due anni fa. Vi rilascio il link, putacaso vi interessi…
https://www.nazioneindiana.com/2006/02/22/una-lingua-che-dice/
e
https://www.nazioneindiana.com/2006/03/02/chiose-di-tutti-i-giorni/
Magari ognuno parla – ci sembra di parlare – di “realismo”, e poi ognuno intende una cosa diversa: alcuni, addirittura, lo legano al classico, altri al romanzo russo e francese di fine Ottocento, altri ancora ne fanno una questione di “lingua”- che sarebbe una cosa del tipo: lingua pulita, che designa le cose “vere” o costruisce i personaggi alla Siti – ancora altri, poi, troppi, sottintendono “impegno sociale della letteratura” e tu non sai più cosa devi temere di più: che siano comunisti o nazisti o
i nuovi militanti di una nuova forma di “dittatura larvale”.
Io per esempio ci vedo, invece, la contrapposizione tra “classico” e “manierista”. Come ci ha insegnato quel grande maestro che è stato Ernst Robert Curtius, con quella bibbia che è “Letteratura europea e Medio Evo latino”
E qui classico non ha niente a che vedere con “classico”, come età, o come canone, o di riconosciuta autoverevolezza, ma si riferisce alla forma.
Qual è la forma del classico? E’ la forma che non è manierista.
Qual è la forma manierista? E’ la forma che non è classica.
Per intenderci: Calvino e Gadda.
E per non fraintederci, ecco ciò che penso:
Calvino ha bruciato ogni possibilità che ci fosse ancora una Letteratura Italiana. Dando vita a una generazione di mostri clonati che, come gli aghi del pino, impedisce la vita di qualsiasi altra pianta sotto l’ombra di quello. Le nostre librerie sono il cimitero narrativo che lui ha voluto.
Difficile trovare un libro italiano per chi non vuole soltanto sentirsi raccontare storie. Anche mia nonna lo sapeva fare, ma lei, almeno, lo faceva in dialetto: una goduria.
Gadda, assieme a Pizzuto, ultimo e penultimo esempio di Scrittore italiano, che restano isolati nella loro grandezza, come gli Ultimi a cui si può concedere credibilità letteraria.
Di fatto i due maggiori manieristi del nostro tempo sono gli unici “classici” di cui ci possiamo vantare. E fidare.
La leggerezza degli altri li ha resi fantasmi. Quali erano sin dall’inizio.
La loro importanza sta tutta nella funzione che sono stati chiamati ad assolvere.
Quella di essere poco più o poco meno che illustratori, per mezzo di parole, di testi scolastici. “One minute manager” linguistici per l’istruzione dei pargoli
Nulla.
Sarà questa la prova a cui verremmo sottoposti dai nuovi Mus?
Quella della verifica, per essere assunti nel loro olimpo, che le nostre pagine siano state accolte nella antologie scolastiche dell’era Gelmini?
*
Manierismo.
“Ma ogni composizione letteraria ed ogni sfera di argomenti si avvantaggia del *concepto*, che la arrichisce.”
E.R. Curtius.
il *concepto* è “correlaciòn entre dos o tres cognoscibles extremos, expresada por un acto del entendimiento”
Baltasar Graciàn. [in op.cit.]
Abbasso L’Accademia tutta!
anche se poche mi divertono come l’alterco Donnarumma/ Gino Grande Gatsby, mi piace che si arrivi a questo punto:
Donnarumma: “Non si può far finta che, negli ultimi anni, nulla sia cambiato, e continuare a intonare la vecchia litania secondo cui la realtà non esiste, la storia è finita, dell’esperienza non si vede neppure più l’ombra. Parlare di sciopero degli eventi oggi non vuol dire pronunciare una denuncia critica, ma riciclare un’ideologia di comodo, un alibi, una menzogna (e basta guardare qualche telegiornale…) […]
E perché mai una letteratura murata in se stessa per arroganza, spavento o malinconia dovrebbe dire qualcosa alle migliaia di persone che in queste settimane scendono in piazza per affermare i loro diritti e la volontà di partecipare alla cosa pubblica?[…]
Ha ragione Cortellessa: la pressione sugli scrittori è alta. Era ora. Hai visto mai che siano tirati per i capelli a farci riflettere su qualcosa che è nel nostro interesse collettivo, a liberarci di luoghi comuni e moralismi, ad abbattere le semplificazioni ideologiche, a scrollarci di dosso l’inedia e la sensazione consolante che non c’è più niente da fare?
e Gino che viene dall’altro mondo, quello dei rispospinti senza posa nel passato, gli risponde:
“gli addetti ai lavori non possano fare altro che provare a togliervi la polvere dalle giacche”
ecco, bene bene, esattamente, è quando si arriva a questo punto che le cose cominciano a farsi interessanti… ;-)
@ soldato blu
Sono d’accordo su una cosa: che la polemica, come dice anche “Gino”, sia vecchiotta anzichenò. Stiamo ripetendo, epistemologicamente aggiornati (e manco tanto), contrapposizioni vecchie di almeno un secolo e mezzo – in questi termini. O, come giustamente dici tu, addirittura originarie e ideal-tipiche (Curtius docet). La “realtà” è oggetto naturale dell’arte. Il manierista, anti-naturale per definizione, in effetti non la nega (non lo fa quasi mai, men che meno lo facevano Gadda o Pizzuto), piuttosto ne complica la resa proprio perché a sua volta “realista” (la “passione della realtà” era rivendicata dal manierista Pasolini in nome e per conto del manierismo). Perché la realtà “reale” è complicata, appunto (“Barocco è il mondo”, con quel che segue; come Donnarumma sa benissimo), dunque rifiuta le astrazioni, le semplificazioni, le standardizzazioni del “realista classico” (dove, a complicare le cose, ci sono le forme storiche del realismo, che non sempre – di volta in volta – coincidono con quelle descritte da Curtius per lo stile “classico”).
Non sono invece affatto d’accordo con la solita solfa del babau Calvino che ha rovinato la letteratura italiana ecc. ecc. Anche questa polemica è vecchiotta, e nelle tue parole ricalca in particolare la semplificazione-banalizzazione della quale s’è reso responsabile il combinato disposto Moresco-Benedetti, da queste parti ben noto. Calvino è a sua volta un manierista, come ha dimostrato a più riprese e con dovizia di argomenti Marco Belpoliti. Lo è psicologicamente (à la Binswanger), lo è storicamente (nel suo post-marxismo), lo è letterariamente (nel suo sperimentalismo strutturale) e persino (che è il piano in cui ciò meno facilmente appare) linguisticamente. La sua lingua simplex, che tanto verrà amata e presa a modello dagli stenterelli neonarratori dei primi dieci anni dopo la sua morte, non è quella “tecnologica” del neorealismo vittoriniano, né quella esistenzialmente intorbidata dell’altro maestro Pavese, né quella “sporca” ma epicizzante dell’amatissimo Fenoglio; è una superficie perlucida che nasconde turbamenti profondi. E’ la lingua di Cecchi, di Bontempelli, di Savinio, di de Chirico, di sua maestà Tommaso Landolfi. Tutto questo viene a giorno con l’opus ultimum Palomar che è un capolavoro assoluto, uno dei dieci più bei libri in prosa del secondo Novecento.
Infatti anche questo Calvino, il Calvino sperimentale o per meglio dire iper-consapevole della quintessenziale artificialità di ogni manufatto linguistico, viene detestato dai neo-neorealisti d’oggidì. I quali nemmeno prendono in considerazione Gadda o, figurarsi, Pizzuto; mentre non a caso sentono con urgenza il bisogno di “ridimensionare” Calvino, riconducendolo (quando va bene) al bravo ragazzo del Sentiero dei nidi di ragno, o all’engagé (ma quanto sui generis!) della Giornata di uno scrutatore.
E’ su Calvino che si gioca la partita militante della narrativa del nostro tempo: proprio perché a lui e alla sua lingua (non a quella dei traduttori di Houellebecq, mi dispiace per gli affannati cosmopoliti) guardano, hanno concretamente guardato i narratori degli ultimi trent’anni (sostituendolo, negli ultimi dieci, con l’altro mal-letto feticcio Pasolini). E’ sua la lezione davvero inascoltata, perché infinitamente banalizzata e resa a-senso-unico. Ed è lui, dunque, che dobbiamo ristudiare e ri-interpretare. Debanalizzandolo.
Calvino classicista, per esempio. Ma quando mai? prego di rileggere (sul piano teorico) la Notizia che accompagnava il Discorso sulla difficoltà di comunicare con i morti di Manganelli, sul Menabò del ’65. E (sul piano operativo) prego di rileggere (o leggere) pezzi come Dall’opaco o Il nome, il naso (in Sotto il sole giaguaro), dei primi anni Settanta. Il teorico predicava benissimo, lo scrittore praticava piuttosto bene a sua volta.
C’è un piano, nella sua ultima stagione, sul quale in effetti ha fatto parecchi danni: quello del critico giornalista e del consulente editoriale (ruolo però, a quell’altezza, svolto ormai molto alla lontana) che interpretava il montante post-modernism proponendo narratorucoli che erano i suoi primi, dimidiati imitatori; e che hanno infestato, e in qualche caso infestano tuttora, le nostre librerie: come lamenta Soldato blu. Perché abbia fatto queste scelte è un enigma affascinante, per risolvere il quale bisognerebbe fare quello che, obbedendo ai suoi precetti, nessuno degli studiosi di Calvino ha ancora fatto: sondare la sua psiche, i suoi risentimenti, il suo – sottilissimo, non patente ed esplicito come quello dei cugini neoavanguardisti – complesso di Crono.
Detto questo, avercelo oggi uno che sappia scrivere un libro come Palomar.
Gentilissima Maria:
che gioia che mi dà.
Lei l’ha capito: la critica dà consigli alla letteratura quando essa ipsa stessa, cioè la Critica con la c maiuscola, avrebbe bisogno di convocare gli Stati Generali:
c’è malessere e l’alzheimer va a pescare sempre i vecchi compitini al lapis, letteratura-fratto-realtà, di zio Romano e Nonno Asor, sperando che annacquandoli con la vodka del grande Bachtin si possa dare un po’ di allegria alla pagina.
La letteratura mi pare più viva dei suoi ermeneuti.
Avrei apprezzato, da un Donnarumma, un esame di coscienza sulla necessità – quella sì, attuale – di leggere, oggidì, critica letteraria di tal fatta, che ancora chiede alla letteratura “quel” tipo di corrispondenza con la realtà, e “quel” tipo di impegno civile.
Veniamo al dunque: è legittimo rovesciare la prospettiva e chiedere alla critica: e tu? Che rapporto avresti con la realtà?
Questi invece lanciano il sasso eppoi non c’è un cane che venga a riportarglielo.
Questa critica non m’illumina.
(Io vorrei abbassare l’Accademia, ma dopo mi prendono
per un arbasino qualsiasi)
cordialmente risospinto nel passato,
suo Gino
Liberare Santo Pasolini dai pasoliniani.
(e scoprire quanto di reazionario c’era in lui, senza
che ciò scalfisca d’un punto il suo valore).
Liberare l’Algido Calvino dai calvinisti.
(e scoprire le temperature effettive del sue stagioni)
Questo mi pare un progetto di lavoro concreto. Sensato.
Sradicare le radici dei luoghi comuni che poi diventano
orti conclusi della critica. Percorsi didattici. Bolle
speculative per alzare/abbassare le quotazioni nell’asset
nazional-popolare.
E’ che a molti gli basta un assegno di ricerca per infilarsi
le pantofole eppoi gridare al complotto postmoderno se qualcuno
gli sposta dal comodino la dentiera di marca “engagé”, ormai
smussata e senza più canini per triturare la carne ruspante, notoriamente
più dura e resistente.
La rete neuronale d’un Cortellessa almeno stimola la corteccia cerebrale a fare il suo lavoro.
E’ bello sapere che ogni tanto non c’è bisogno di prendere il Litio
prima di chiedersi: sarò impegnato abbastanza agli occhi dell’accademia?
umilmente profano
gino
Cito da Moresco, che mi piacerebbe liberare e reimprigionare legandolo al tavolo di montaggio:
“C’è evidentemente un sacco di gente che ritiene di avere il possesso esclusivo della definizione di cosa è ‘realtà’ e di cosa non lo è. E, sulla base di questo, anche di essere autorizzata a dare pagelle sul tasso di ‘realtà’ presente nei libri, come se questa fosse una materia codificata una volta per tutte e una cosa sola e non ci fossero invece infiniti modi di intercettarla e stanarla e di aprirla e di sbudellarla. Come se questa cosa, che non abbiamo trovato di meglio che chiamare ‘realtà’, la si potesse intercettare solo dentro un unico orizzonte e un pensiero unico e fuori di esso ci fosse solo …a proposito, chissà che cosa? ma comunque qualcos’altro, e allora quella che si diceva essere tutta la ‘realtà’ finisce per essere solo una parte di essa, addirittura una parte infinitamente piccola…
(Lettere a nessuno, Stile libero, pag. 414, e poi ce ne sono altre 300, con una richiesta al lettore di dedizione condivisione e amore davvero smisurati.)
@ Cristina
D’accordo col cercare di evitare contrapposizioni ideologiche, e soprattutto sul piano personale. Due cose: proprio l’estrema diversità ed eterogeneità degli autori citati da Donnarumma su Allegoria mi pare più una debolezza che una forza della sua argomentazione, un’esibizione retoricamente muscolare ma, a mio modo di vedere, particolarmente inefficace (“ecco gli stati generali della narrativa-che-conta, e voi ancora ve ne state lì a baloccarvi!”). Per non parlare dei narratori importanti che tiene fuori (da Mc Carthy a Cercas, da Ballard a Ellis, da Ourednik a Sebald: per dirne solo alcuni che si mangiano a colazione quasi tutti i citati), et pour cause, o di quelli che mis-interpreta clamorosamente (DeLillo “realista”? se è “realistico” Body art, suo capolavoro dopo Underworld, allora siamo tutti d’accordo e chiudiamola qui).
Seconda cosa. Che la derealizzazione sia un “trastullo autoapologetico” è curioso da sentir dire. Dunque il meccanismo che ha condizionato l’esistenza individuale e sociale in Occidente (l'”esperienza” effettiva, non il safari nella realtà che ci viene venduto ogni giorno, safari nella realtà degli altri beninteso), il meccanismo che condiziona le nostre scelte politiche dall’inizio degli anni Ottanta (presidenza Reagan) e sempre più massicciamente le condiziona (anzi ormai le incarna, in Italia, dal ’94 a oggi) è un trastullo, qualcosa che bisogna lasciar elaborare in pace ai funzionari dell’irrealtà? qualcosa che non abbisogna della nostra vigilanza critica (e dunque artistica)? qualcosa che dobbiamo continuare a subire sedati e cullati dal convincimento che l’arte-invece-è-nella-realtà? che la “realtà” è senzaproblemi a portata delle nostre mani, conoscitive e dunque politiche?
Benissimo allora: continuiamo così, facciamoci del male.
Aggiungo, a quella di Gino, una dichiarazione di stima personale e un ringraziamento per l’intervento Cortellessa.
Non sempre il merito della chiarificazione di certi tuoi offuscamenti può essere attribuito a chi consideri più vicino a ciò che pensi tu.
Doppio ringraziamento, dunque.
Si potrà comunque capire, dal tono esagitato che ho usato, che si tratta di calvinismo deluso.
Io ho amato questo scrittore. Ma la delusione – non ultimo il suo impegno editoriale che coincide con la distruzione dell’eredità di Pavese – si accumulava ad ogni nuovo libro, sino a quando con “Metti una sera, una viaggiatore” mi convinsi – a torto o a ragione – di avere davanti un magliaro della letteratura che inseguiva il successo piuttosto che la gloria.
Allora smisi di leggerlo. La mia convinzione – giusta o sbagliata che sia –
mi impedì da allora di cogliere quelle ricchezze che invece un critico obiettivo, come dice Cortellessa, può cogliere nelle sue ultime opere.
Io non sono un critico.
Baso il mio giudizio su ciò che provo mentre leggo. Soggettivo
e quindi oggettivamente inaffidabile.
Ma, da questo punto di vista, anch’io potrei indicare qualcosa di sommo, nella letteratura italiana, dovuto a Calvino
(non lo avrei detto in alcun modo per non rischiare di favorire l’infestazione da parte dei suoi epigoni: ma questo che indico ora è, fortunatamente, fuori della loro portata)
parlo di “Una giornata di uno scrutatore”, un’opera che parrebbe tra quelle che di più possono ornarsi del nastro rosso dell'”impegno sociale”, ma soltanto del gesto silenzioso del padre che sfiora la testa del figlio malato.
Realismo?
L’unica cosa reale è una commozione irresistibile – mia: prodotta da me, dai mie neuroni che innescano un processo ormonale – provocata da una serie di segni neri su una pagina bianca.
@cristina
La mia NON-contrapposizione riguardava stile/realtà, non stile /realismo.
La prima cosa perché non ha effettivamente senso, la seconda perché il concetto di realismo è ambiguissimo, mi pare che Donnarumma, che pure offre una lista di autori che col realismo hanno poco a che fare, lo usi come grido di guerra per un mondo migliore.
Tutto mi si aggriccia.
Quanto a Benjamin e alla crisi dell’esperienza, io non credo che si possa parlare dell’oggi prendendo una gran forbice e tagliando fuori il sapere novecentesco che ha formato il nostro di ora, il linguaggio con cui lo indichiamo e lo analizziamo.
Che l’esperienza non fosse più raccontabile, che il soggetto non riuscisse più a dominarla, rinunciando al grandangolo a favore del vetrino, è stata, se mi passi il paradosso, la grande esperienza del secolo nel quale tutti noi siamo nati. Come si fa a negare?
Io credo che questa negazione, quando c’è, dipenda anch’essa dall’ansia, dal bisogno di semplificazione e di ordine, dal desiderio di una bussola in qualche modo più semplice, ma questa bussola non c’è.
Un ultimo dubbio:
voler essere, a monte (e volerlo fortissimamente, deliberatamente)
“impegnati dentro il testo”, “affamati di realtà”, non è anche questa una finzione originaria?
Et, deinde, letteraria?
Per fortuna, molti talentuosi sono andati e vanno ancora
oltre la tirannia delle loro buone o cattive intenzioni.
Da questa lotta mi pare nascano grandi opere.
scusate i disturbi
gino
@ Alcor
Non ho ancora visto Lettere a nessuno reloaded, anche se so che dovrei (quanto meno come parte in causa). La prima ed. secondo me è uno dei libri più belli di Moresco, il più bello anzi dopo La cipolla che è un piccolo capolavoro (un capolavoro, cioè, in quanto piccolo; Moresco non è né Joyce né Musil, purtroppo s’è convinto precisamente del contrario).
Ma la questione della realtà che citi è la questione. A quale livello di realtà si colloca il nostro realismo? Ancora Calvino, certo, I livelli di realtà in letteratura di Una pietra sopra, che qualcuno mi pare abbia già citato; ma su un piano meno teorico (sennò subito salta fuori qualche razzista per il quale gli accademici non hanno diritto di parola in quanto accademici; e dunque sì, viva la Gelmini), al riguardo, per me la parola definitiva l’ha detta, aforisticamente, uno che Moresco non credo ami (immagino anzi lo detesti più ancora di Calvino, se possibile): “Lo si è detto poeta della realtà, proposizione che non mi è agevole capire, giacché sono persuaso che la realtà sia piuttosto irrealistica” (Giorgio Manganelli, Gioachino Belli, in Id., Laboriose inezie, Garzanti 1986, pp. 218-9).
quoto andrea su calvino in toto (anche se io tifo le città ;-) soprattutto sul proposito di sbanalizzarlo.
Appena mi è venuto il dubbio, sono andato a controllare – naturalmente sapevo già di aver sbagliato. Il titolo del libro di Calvino è: “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, non “Metti una sera, un viaggiatore” come avevo scritto io. E’ del 1979, prima edizione, finito di stampare il 2 giugno di quello stesso anno. Fatti i conti e pensando con quanta impazienza lo si aspettava (erano anni che Calvino non pubblicava) dovrei averlo letto tra settembre e novembre.
Lo apro ora e provo esattamente le stesse reazioni di ripulsa, a quella specie di introduzione, come la prima volta. Falsa, macchinosa, spiritosa di quello spirito che giù, da noi, chiamano spirito di patate.
E poi brutta, alla pagina 5, come può apparire brutta una pagina brutta tipograficamente.
Non riesco, oggi, ad andare avanti oltre questa.
Meno male, dico, che c’è “Palomar”. Era nello scaffale a fianco di “Se una notte…”
Apro Palomar, è del 1983. Mi accorgo che non è vero che avevo smesso di leggerlo, Calvino.
Palomar, finito di stampare il 19 novembre di quell’anno. Devo averlo letto attorno a Natale.
Non ricordo quali furono allora le mie reazioni.
So invece quali sono state oggi.
Un déjà vu.
Ma non per colpa di Calvino.
Un incubo.
Mi è parso che stessi leggendo le prime pagine di “Oceano mare” di Baricco.
Sapete il pennello nell’acqua di mare per dipingere una realtà che sparisce e i cognomi e i nomi tutti stranieri.
No, non come in “Palomar”, come in “Se una notte ecc. ecc.”
Meno male che c’è il Litio – per dire qualcosa di diverso da quello che dice Gino. E’ grave non sapere quale realtà si sta vivendo e correre il rischio di reazioni violente e ingiustificate.
Cosa significa?
Che quando lessi le prime dieci o quindici pagine di “Oceano mare” – non so la data di pubblicazione, perchè me ne sono disfatto – alla dieci o quindici scagliai il libro contro la parete della della stanza.
Io “Palomar” oggi ho paura di rileggerlo.
E’ già troppo sognare mucche che divorano arance prodotte dalla Snia Viscosa.
Onestamente: non ho nulla contro l’accademia in quanto tale.
Né trovo sia scandaloso parlare di “livelli di realismo” (cfr Cortellessa),
a patto però che il “realismo” non venga brandito dal critico come un randello, un a-priori estetico o, peggio, gnoseologico.
O, peggio ancora, assiologico.
Detto questo, ribadisco che alcuna critica farebbe bene ad aggiornare i propri strumenti; e che il Litio ha avuto, forse, il merito di tenere Cossiga al di qua di un golpe pienamente “realistico”, a suo tempo.
Oggi ci vogliono strumenti nuovi per penetrare
l’essenza del golpe e sottoporlo al “test-realismo” e constatare
quanto e come ci si può infeltrire.
gino
@ Soldato blu
Interessante che Baricco si possa ricollegare a Calvino, credo che qualcuno l’abbia già detto in passato. E’ stato certo una sua fonte d’ispirazione (basta pensare a Seta e alle Città invisibili – anch’io le amo, Gherardo, ma a loro volta vanno sbanalizzate d’urgenza), e il tu indiscriminato al lettore deriva certo dalla cornice (ma, attenzione, solo dalla cornice; il libro è anche altro) di Se una notte. Ma pensiamo davvero che Baricco abbia la forza che ha Kafka, secondo Borges, di rendere suoi precursori coloro che sono venuti prima di lui?
Che un autore, penso per es. allo stesso povero Borges, abbia in sorte imitatori disastrosi, non è mica colpa sua. Naturalmente poi, come una volta memorabilmente fece Derrida con Nietzsche precursore involontario dei nazisti, altra e più interessante domanda sarebbe chiedersi come mai i nazisti si scelsero proprio quel precursore.
@Cortellessa
la prima parte, che credo corrisponda pari pari alla prima ed. è in effetti un bellissimo libro. Meno sicura sono della seconda, ma ammetto di essere collassata, lo riprenderò quando mi sarò ripresa a mia volta. Tenendo conto di quanta pelle leva a Berardinelli, tu ne esci bene, solo come nemico.
Condivido le parole di Manganelli, ovviamente. Qua su NI, se non mi ricordo male, e anche nel mio defunto blog ho già avuto modo di incrociare la spada con i suoi detrattori o non lettori per pregiudizio manifesto.
Appunto, A quale livello di realtà si colloca il nostro realismo?
Donnarumma, pur sostenendo che “il realismo mostra oggi tutta la sua vitalità” poi li condanna tutti salvo Saviano, Pascale e in parte Nove.
E in più gli scrittori intervistati sarebbero a suo dire ostili al realismo per antichi pregiudizi e idee ricevute. (Ho fatto i compiti, ho letto l’intervento su Allegoria.)
Poiché Pascale non lo conosco, Nove poco e mi resta Saviano, del quale però non è possibile ancora parlare perché ha già un carico eccessivo sulle spalle per potergliene addossare un altro, mi rifugio in Arminio, del quale sto leggendo Vento forte tra Macedonia e Candela, Laterza. E che Donnarumma spinge di lato con un gesto lieve.
A quale livello di realtà si colloca Arminio? A mio avviso alto anche nel senso donnarummiano. Ma alto soprattutto perché si espone ai fenomeni, alle cose, ai paesi e se ne fa impressionare, elaborando queste impressioni nella scrittura. La SUA scrittura, che nasce dalla sua natura fisica e psichica, che è quanto mai reale, direi, o no? Certo, è la realtà di Arminio. La mia è differente. Io, come gli ho detto una volta, non sono di Bisaccia. E questo fa una notevole differenza, non secondaria neppure nel confronto tra gli scrittori degli altri paesi e i nostrani. Vivendo già la mia “realtà”, cioè la mia natura, struttura psichica, vissuto, rapporto con i fenomeni, le idee, le posture ecc, vado incontro a quella di Arminio con desiderio di conoscenza, esattamente come vado incontro a Moresco. E il problema di quanto sia distante lo stile di Arminio da un ideale ( e però ancora estremamente vago) realismo, davvero non mi tocca. Quel che mi interessa è che ogni parola di Arminio sia davvero di Arminio, nata in Arminio dalla frizione tra Arminio e quello che Arminio vede, sente e gli toglie le parole di bocca. Essendo ammutolito, Arminio scrive, e le ritrova. Questa è la realtà. Artificiale. Ma fatta di natura.
Doveva scrivere un romanzo, Arminio, per essere preso sul serio? magari lungo? confluendo persino nel binomio grande qualità/grande leggibilità tanto richiesto dalle case editrici e cinto magari alla vita da un plot? trasformarsi in un fiume narrativo?
O non sarà che questa idea di narratività piena, fluviale, “relistica” che ci viene dalla maggior parte dei romanzieri stranieri che leggiamo, nati in paesi di tradizione diversa, e a volte ancora in piena storia, mentre noi siamo ai margini, ci ha colonizzato?
Dov’è finito il mio commento? Spero che non mi tocchi riscriverlo.
@ andrea cortellessa
due osservazioni a margine di quanto scrivi:
– l’eterogeneità tra gli autori indicati non è necessariamente una debolezza. Ho anche io qualche perplessità a mettere Franzen nel novero, o ad escludere Ellis (più che American Psyco Lunar Park, che maneggia miracolosamente i numerosi livelli di reale mantenendo comunque una tensione al reale fortissima); ma quando si cerca di sondare in via trascendentale un orizzonte di forme simboliche non si può restringere il campo solo alle famiglie di simili; si deve per forza ragionare sulle discontinuità tra opere esemplari. Semmai dovremmo trovare un terreno comune sul concetto di esemplarità, che per me (non so per donnarumma, per te o per chiunque altro partecipi alla discussione) è la capacità di un testo di impregnarsi della sua condizione storicamente data e, contemporaneamente, di spogliarsene.
– sui “trastulli autoapologetici”: io non credo che il concetto di derealizzazione, in sé e per sé, descriva poco efficacemente gli anni Ottanta etc. Anzi, credo che, a suo tempo, abbia costituito, su un piano non più intellettuale ma politico, una forma di resistenza critica. Penso, però, che adesso siamo fuori tempo massimo e che ci stiamo facendo ingoiare allegramente da categorie che di politico in senso lato non hanno più niente e che fanno il gioco di chi davvero vorrebbe che gli esseri umani fossero tutti storditi e convinti della propria derealizzazione.
@ alcor
Non penso affatto che il pensiero che ha fondato il Novecento vada buttato a mare. La perdita dell’esperienza benjaminiana secondo me fonda, in senso lato, il modernismo europeo e le sue domande essenziali: cosa si può narrare nelle società di massa? come si fa a mettere in forma di intrigo un blocco traumatico? Penso però che continuare a usare Benjamin per leggere il nostro presente sia inadeguato: i nostri modi di produzione, le nostre guerre (simboliche e reali) e i nostri reduci non sono più quelli del primo dopoguerra.
Forse più che una bussola, bisognerebbe cercare di costruire una nuova rete di concetti che affrontino il confronto con le categorie del passato dialetticamente. Ma i concetti sono validi se nascono dallo studio dei fenomeni e non da un’applicazione pregiudiziale.
Cristina
Ho solo il tempo di sottoscrivere come mie le parole di Cortellessa su Calvino. Mi vergogno della mia laconicità ma ho una figlia che deve finire i compiti, subito! Non so se questo è realistico o postmoderno, ma è, per me, la realtà.
@ Alcor
Secondo me Arminio, che Donnarumma liquida in mezza riga e che secondo me non ha mai letto (ma è troppo occupato a sprovincializzarsi a dosi massicce di Cunningham e Littell, mi rendo conto), è precisamente l’esempio che ci mostra come sia mal posta (o imposta in modo, questo sì, superato) la questione. Il modo in cui la scrittura di Franco si radica al suo territorio (penso appunto a Vento forte tra Lacedonia e Candela, dove la prima metà è consustanziale al suo territorio ed è secondo me perfetta, mentre invece quando si sposta altrove, per es. in Piemonte, dice cose interessanti ma perde mordente), per esempio, cos’è, “realistico”? “moderno”? “postmoderno” o, piuttosto, “premoderno”? A me ricorda Zanzotto, l'”artificiosa terra-carne” di Vocativo: che se lo togli da un raggio di dieci chilometri da Pieve di Solìgo non può più scrivere una riga. Sono matericamente tutt’uno, la scrittura e il suo oggetto (il territorio, qui e in Viaggio nel cratere, o la “terra-carne” del suo corpo, nel precedente Circo dell’ipocondria); e quest’effetto lo chiamerei “realistico”, sì (nonché “civile”, moltissimo), ma in modo molto, molto diverso dalla tradizione che a questo termine si richiama.
Altro esempio che mi pare molto eloquente è quello di Body art di DeLillo. E’ evidente che non siamo più, con un libro come questo, nel postmodernismo “classico” di Rumore bianco o di Libra, ma il vettore della ricerca non è neppure quello “affrescato” di Underworld (che deve a sua volta a scrittori difficilmente riconducibili a una tradizione “realistica” come Ballard, pressoché parafrasato per lunghi tratti, o lo stesso Carver). Siamo in una specie di ghost story à la Henry James (il plot può essere considerato una riscrittura di Giro di vite, ma appunto non “postmoderna” come possono essere considerate tante cose non entusiasmanti di Ivory o, più da vicino, The Others di Amenabar), la cui logica è però inseparabile dal post-human, da Cronenberg, dalle tradizioni mistiche. “Postmodernista”, nel senso dei primi libri di DeLillo, certo lo è. “Realistico”, forse; ma non, credo, nel senso in cui predica Donnarumma. Semplicemente, si tratta di un capolavoro: ossia di un testo letterario che fonda, o contribuisce a fondare, un nuovo paradigma.
Che è erroneo – solo in questo fra l’altro concordo con Cristina – vincolare a paradigmi precedenti. Se però questi paradigmi, come quello della derealizzazione o della perdita dell’esperienza di Benjamin (si veda sempre Infanzia e storia di Agamben, su questo), sono ancora utili per capire il presente, dire che non sono nuovi non ci esime dall’impiegarli. Magari se non altro per capire che un pensiero che pretende di prescinderne è solo un wishful thinking. Cioè un’ideologia. Liberi di professarla, per me: a patto che se ne sia consapevoli.
refuso:
“‘Postmodernista’, nel senso dei primi libri di DeLillo, certo non lo è”
Sì confesso, il mio sguardo su Calvino è offuscato dall’opera degli epigoni di Calvino.
Ma, parafrasando Cortellessa, sarebbe interessante sapere perché questo accade con certi scrittori e non con altri.
Dopo tutto sono esisiti anche i “nipotini di Gadda” per non parlare, poi, dell’infinità dei kafkiani, per i quali, però, il riconoscimento di questa figliolanza risulta spesso positivo, in un senso e nell’altro.
Non ce l’ho con Calvino: è come quando, da ateo, attacco papa e Vaticano e vengono ad esaltarmi Cristo. E’ vero che non amo neanche lui, ma, se non ci fossero stati quegli altri, non avrei calcato la mano sino alla blasfemia.
Ribadisco: non sono un critico, solo un lettore. Il desiderio è di trovare, in libreria, il maggior numero possibile di libri che attirino il mio interesse e che valga la pena di leggere.
Alla fine, comunque, pane al pane:
*
In tutte le epoche e in tutte le letterature troviamo opere che a un certo punto si rovesciano su se stesse, guardano se stesse nell’atto di farsi, prendono coscienza dei materiali con cui sono fatti.
Questi sono i nodi da cui dobbiamo partire per qualsiasi discorso sui livelli di realtà dell’opera letteraria: non possiamo perdere di vista il fatto che questi livelli fanno parte di un universo *scritto*.
[…] è quella credibilità speciale del testo letterario, interna alla lettura, una credibilità come tra parentesi, alla quale corrisponde da parte del lettore quell’atteggiamento definito da Coleridge *suspension of disbelief*, sospensione dell’incredulità. Questa*suspension of disbelief* è la condizione di riuscita d’ogni invenzione letteraria, anch’essa si situa dichiaratamente nel regno del meraviglioso e dell’incredibile.
ITALO CALVINO, La letteratura e la realtà dei livelli, in “Livelli di realtà” a cura di Massimo Piattelli Palmarini, Feltrinelli 1984.
*
Questo è ciò che si può trarre, oggi, dalla lezione di Calvino:
la possibilità di riconoscere come “fondamentalismo” quello che gli amici di “Allegoria” definiscono “realismo”.
La pretesa, cioè, che le cose – compresa la letteratura – per essere “giuste” debbano uniformarsi a qualcos’altro.
Che esiste “là fuori”, per loro, e “là fuori e là in alto” per Benedetto Sedicessimo.
sottoscrivo anch’io proprio su Palomar che invece mi è capitato di rileggere proprio di recente per un’associazione con l’uomo avanzato di Baino, e però dopo averlo riletto, mi è venuto piuttosto spontaneo affiancarlo a Quello che si vede (e in fondo pure “Prati”) di Andrea Inglese, ma solo per modificarlo subito dopo in “Quello che NON si vede”…ma si tratta di riflessioni mie, di cui nemmeno l’autore è al corrente, e blablabla, bando alle chiacchiere che non interessano a nessuno se non a me, alle mie ipotesi interpretative e dichiarazioni poetiche…sì sì sì, il Palomar di Calvino è La questione – ( e zio Asor resta zio Asor per quell”insopprimibile duplicità dell’essere”)
ps: non mi sembra corretto definire “razzista” uno che è allergico all’accademia, non è colpa mia se ho sviluppato una grave forma di celiachia nel corso della mia vita
e sempre Calvino insegna: a Maria Corti che gli chiedeva quale tipo di cammino creativo avesse percorso: uno solo coerente, linee spezzate e cambi di rotta o diversi approcci ad un unico libro per tutta la vita, Calvino senza mezzi termini “cambi di rotta per dire qualcosa che con l’impostazione precedente non sarei riuscito a dire”
e comunque interessanti tutti i commenti e tutti gli interventi che vado a rileggermi con calma. cordiali saluti
beh, per il nascosto lato calviniano di inglese in “quello che si vede”, ecco qua:
“solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose, – conclude, – ci si può spingere a cercare quel che c’è sotto. ma la superficie delle cose è inesauribile” (palomar. 2.1.1. dal terrazzo)
@ andrea
Interessante, perché, ad esempio, io trovo Body art più postmodernista di White noise, che mi sembra sì un capolavoro assoluto!
Quanto al problema della ‘novità’: io non ho mai detto che un paradigma nuovo è, per statuto, migliore di uno concepito un secolo fa. Ammetterai, però, la possibilità che certi paradigmi possano parlarci meno in determinate epoche storiche. Per me ad esempio Il discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani parla meglio del qui e ora (Italia 2008) rispetto a Lacan. Non ne faccio di certo una questione di updating.
Non capisco poi per quale motivo un pensiero che ridiscute criticamente certi paradigmi e che magari li dialettizzi o li ricusi in toto diventi immediatamente ideologia. Chi l’ha deciso?
Vedo che in molti di questi post compare il nome di un mio omonimo, servo dell’Accademia e nipotino di Salinari, che avrà sul comodino della sua triste cameretta in bianco e nero la Viganò e l’opera omnia di Togliatti. Fate bene a bastonarlo. Che schifo! È gente così che ha spianato la strada a Berlusconi.
Vedo però anche che, talvolta, si citano cose che ho scritto io. Devo allora precisare:
1. Il saggio Nuovi realismi e persistenze postmoderne, sin dal titolo, evita la parola realtà e pone due possibilità contrapposte della narrativa italiana di oggi (ce ne sono anche altre: ma da qualche parte si potrà pur cominciare). Nel titolo dell’inchiesta di «Allegoria», ‘realtà’ sta per «forme di realismo» (al plurale) e «partecipazione politica». Un po’ di retorica, signori! Vedo che la provocazione ha funzionato anche meglio di quanto si potesse sperare. Della Realtà, invece, pensi ciascuno ciò che vuole. Per i rozzi materialisti saranno le bollette da pagare, le mestruazioni, i conflitti simbolici e di potere, la Gelmini; per menti più fini e scaltrite i sogni da indigestone peperonacea, l’ippogrifo, le rime leonine e il mago Zurlì. La categoria a me fa venire in mente Balzac, Stendhal, Flaubert, Tolstoj o Dostoevskij, oppure Auerbach, Bachtin, Barthes, Jameson; ad altri Pratolini e Muscetta. Mi spiace: avranno avuto un’infanzia ben triste. Ora, però, potrebbero cambiare libreria.
2. Le categorie che uso hanno anzitutto un valore descrittivo: l’ho già detto, far finta di non aver capito è, come minimo, falsa coscienza. Esistono scrittori postmoderni grandissimi (DeLillo, Rushdie, Pynchon – non tutto, se anche Omero…; e allungate l’elenco a vostro piacere). Peccato che tanti postmoderni italiani, invece, siano un po’ miserelli, a petto di questi. Ma questa è davvero una storia vecchia. E non rimando a quello che ho scritto altrove in proposito: mi basta esser manipolato e falsificato una volta sola.
3. Il realismo di scuola, o socialista, o da reality, non mi interessano ora, e non mi hanno interessato mai. Sono del tutto inadeguati al presente. L’impegno politico non è un criterio di valore (infatti, cito Houellebecq e Littell; e ho scritto due libri su quel Gadda che, prima di diventare antimussoliniano, era un fascistone. Pensate che apprezzo pure Pirandello…). Parlo, invece, di tensione realistica: cioè di una letteratura che non creda di bruciare tutto in se stessa, che non pensi che non ci sia nulla che le opponga una qualche resistenza, che non ci vada cantando che il mondo se l’è inventato lei. Questa letteratura è la sola che ci possa servire contro l’irrealtà mediatica, la fine dell’esperienza come diagnosi autoassolutoria per il proprio sonno, il degrado del presente. Questa letteratura può avere qualunque forma: può essere Kafka o Mann, Saviano o la Pugno. Non detto alcuna linea, non faccio lavagne di buoni e cattivi, non sono in giuria per la Sanremo delle patrie lettere o della Weltliteratur.
4. Se c’è una letteratura scomoda ora, come molti di questi post dimostrano, è proprio quella in cui la tensione realistica viene fuori in modo più scoperto. Altro che irritazione o sconcerto! Qui, a qualcuno, sono proprio venute le convulsioni. Ma fatemi capire: in tanto scandalo, non ci sarà mica un tantinello di censura? un pochetto di castrazione? uno zinzinino di… (ora la sparo grossa) dittatura? Com’è che uno può intortare parole a iosa sui propri onirismi, e invece dovrebbero cioncargli le mani se racconta una fabbrica di guanti, un divorzio o la camorra? Com’è che narrare il qui e ora è una vergogna da emendare a suon di stilismi? Nelle interviste ad «Allegoria», siamo andati ad ascoltare le voci più diverse. Sullo «Specchio», Cortellessa allinea, qualche mese dopo, un coro ordinato di consenzienti. Alla faccia del pluralismo!
5. Le mucche fanno muuu, le pecore beee, gli scrittori stile. E chi lo nega? Chi nega che il realismo sia, come ogni scrittura, una costruzione, un codice, una convezione? Ma è un codice che ha delle pretese: anzitutto, quella di dare forma alla nostra esperienza del quotidiano (e non sfondate porte aperte: certo che nel quotidiano ci sta pure il flusso di coscienza di Molly Bloom. Difatti il monologo interiore non è pensabile senza prima, oltre a Dujardin, il naturalismo e Anna Karenina che va verso la morte). Non c’è modernista che, per nemico che sia della realtà e della verità, non scriva di fronte ad esse. Quello che manca a certi postmoderni è proprio questo: mettono la letteratura da sola davanti allo specchio. Questa letteratura, a me, non interessa, a meno che non sia così oltranzistica da farmi aprire gli occhi su quello di cui non vuole o non sa parlare (e per questo leggo, tanto per dire, Borges o Pynchon).
6. La lingua, la lingua! E va bene, ma dopo la fase orale traghettiamoci verso la fase genitale! E poi, cosa sarebbe la letteratura sporca? Quella fatta con le brutte parole, e l’indice inverso delle occorrenze? Tutto lì? Chi si contenta gode.
7. Ma con la fine dell’esperienza e la fine della storia si interpretano anche Roth e Cunningham? Spieghiamo anche gli immigrati, la crisi economica e l’onda anti Gelmini?
8. Ogni tanto, ho l’impressione che Cortellessa scriva e ragioni come se fosse nato negli anni Venti, o alla fine di due secoli fa. Ha un bello stordirci con il post-human e un novero di nomi che fanno concorrenza allo stato civile. Gira e rigira, si cade sempre su Manganelli, su Landolfi, su Pizzuto, su Calvino; c’è pure Gadda ma perché, suppongo, è il fàmolo strano delle Belle Lettere. Sono proprio contento: e poi dicono che si è rotto il patto fra padri e figli. C’è bisogno di qualcuno che sorvegli i Valori della Tradizione e metta i paletti per tutelarci dalle zozzerie dei reporter d’oggidì. Però: com’è che siamo bloccati a una difesa così intransigente della Letteratura come Istituzione? Com’è che qualunque tentativo di scuoterla con qualcosa che viene da fuori è un attentato contro la sua Santità, o peggio un revanchismo da nostalgici? Questa non è ideologia? Qui non si sente aria di chiuso?
9. Perdonate, ma proprio mi sfugge: di tutto questo stile, di tanta Letteratura, che ve ne fate? Proprio non avvertite un minimo di responsabilità di fronte agli altri? Degli amici, dei figli, degli studenti, non ce li avete? Non dovete legittimarvi di fronte a nessun altro che non stia dentro il campicello delle Lettere? E che gli raccontate? Vatti a vedere Shakesperare perché è pieno di metafore eufuiste? Finisci Guerra e pace perché in russo suona tanto bene? Leggi Body art perché è una «ghost story à la Henry James»? Assegnate alla letteratura un posto così marginale? Non serve proprio ad aprire la testa, a far vedere dell’altro, il suo altro? (Toh! ecco che risbucano le allegorie…).
E dire che l’arte per l’arte era una cosa seria: Baudelaire e Flaubert li hanno portati davanti al giudice. Ma già, quello era un problema di vile contenutismo e donne nude… Mica li avrebbero messi in gabbia per la sonorità del verso e una frase che cade bene! E a noi è quello che interessa, no? Meno male. Mi sa che se stiamo dietro a Cortellessa possiamo dormire tutti sonni tranquilli.
Oh, eccolo qui, finalmente.
Vedete che ci avevo visto giusto: qui si contrappone
“realismi” e “stile”. Accidèrbola se è così.
Però, Dottor Donnarumma, mi perdoni: qui nessuno mi pare abbia preso
le difese (o abbia fatto coincidere la Letteratura con) gli eufuismi scespiriani, i meteorismi metrici di Cacciatore,
gli onanismi implosi di Gadda o dei servizietti autorefernziali che
la letteratura (quand’è mediocre) si fa fare dal primo chirurgo plastico
sul corpo della lingua.
Anche noi sappiamo raccontare ai nostri figli le favole.
Con tanto di trama.
E dunque veniamo al dunque: uno scrittore che non lotta contro la finzione dell’impegno prescritto dallo spirito del suo tempo che scrittore è? (lo scrittore innanzitutto si ribella alle buone intenzioni che vorrebbero
farlo a tutti costi profeta del suo tempo).
Riflettiamo allora meglio su cosa sia “impegno”.
Ripeto: ci vuole la lotta tra buone intenzioni (che si traducono spesso in pessima letteratura d’appendice; al pari delle masturbatorie verbali) e effettiva tensione nella visione complessiva di un mondo.
La ringrazio comunque per il suo sforzo:
onestamente anch’io faccio del mio meglio
per essere un uomo realistico, ogni giorno.
Suo Gino
Da: “E se facessimo sul serio?” di Raffaelle Donnarumma.
***
Peccato che tanti postmoderni italiani, invece, siano un po’ miserelli, a petto di questi. Ma questa è davvero una storia vecchia. E non rimando a quello che ho scritto altrove in proposito: mi basta esser manipolato e falsificato una volta sola.
Se c’è una letteratura scomoda ora, come molti di questi post dimostrano, è proprio quella in cui la tensione realistica viene fuori in modo più scoperto.
Questa letteratura [post moderna], a me, non interessa
Proprio non avvertite un minimo di responsabilità di fronte agli altri? Degli amici, dei figli, degli studenti, non ce li avete? Non dovete legittimarvi di fronte a nessun altro che non stia dentro il campicello delle Lettere? E che gli raccontate?
***
Una cosa sola: Donnarumma non poteva fare semplicemente un elenco degli scrittori che gli stanno sui coglioni?
Perché se ancora – perseverare è diabolico – è convinto di avere un elenco di scrittori da poter collocare in un’unica categoria, senza individuare affatto le carettistiche unitarie che ne fanno degli elementi che appartengono a quella, e che, proprio per quelle caratteristiche, stanno sui coglioni agli altri, che poi sarebbero i nemici della “tensione realistica” in letteratura (vorrei solo vedere un singolo scrittore a cui scrivendo “scopa” non venga in mente “scopare”), allora davvero è possibile definire il suo “sforzo teorico” come “gioco delle tre carte”.
E dal momento che cerca di coprire il suo non avere nulla da dire, con l’altro giochetto, quello del “non rimando”. Ma per farti capire invece
che le sue vere armi stanno in ciò “che ho scritto altrove in proposito”. Così scaricando sugli avversari la responsabilità di non averlo capito.
Allora anche io mi prendo questa libertà di rifermi a quello “che ho scritto altrove in proposito”, ma, almeno, mostrandolo:
“Mai in vita mia avevo visto qualcuno [Donnarumma] fare in questo [modo] il gioco dei propri avversari: con un po’ di stile, spalmato sul proprio articolo, coprire il vuoto e farlo apparire reale.”
Solo in riferimento al punto 9, ché ho già detto quello che penso.
Ma davvero Donnarumma crede che i romanzi cambino le persone?
Che chi legge romanzi sia migliore di chi non li legge?
I romanzi al più le attraversano, lasciandole uguali a se stesse, magari più sensibili alle forme del romanzo, alle forme interne della letteratura, le raffina, ma certamente non cambia loro la testa politica e sociale.
Anzi, la gente si sceglie i romanzi da leggere a seconda di come è fatta, di come è GIA’ fatta.
La letteratura sfonda, diciamo così, porte aperte, e non serve proprio ad aprire la testa, a far vedere dell’altro, il suo altro, come dice, se già non ha deciso di farsela aprire.
Forse la saggistica da questo punto di vista ha un ruolo maggiore.
E poi, vogliamo fare i numeri? Quanti lettori ha un libro di Sebald, o di Roth?
E quanto a Gomorra, che invece ha avuto più di un milione di lettori, Donnarumma è davvero convinto che abbia cambiato il paese?
E che non lo abbia cambiato è forse la parte più tragica della condizione attuale di Saviano.
E’ preoccupante che invitando a una maggiore consapevolezza politica e sociale attraverso la letteratura si sia poi così inconsapevoli del raggio d’azione e soprattutto della capacità di penetrazione che hanno i testi.
Sì la letteratura ha un ruolo marginale nella formazione politica e civile del paese, è nei numeri, e la poesia ne ha uno ancora minore.
Del resto, se lo avesse, non saremmo sempre uguali a noi stessi da secoli.
Proprio perciò, perché è minoritaria, lasciamo che si cerchi le sue forme da sé, che ci vuol poco a soffocarla.
alcor, sapore di solaria.
ma ora che si sono sfidati, indirettamente e col fioretto con punta avvelenta e virtuale, i duellanti tra i più in gamba delle avverse accademie (e duelleranno per secoli, statene certi, proprio come insegna ridley scott), perchè non si affacciano gli scrittori italiani implicati in questi discorsi? anche per vedere se hanno idee o ideologie poetiche ricerche al livello del dibattito. chessò, oltre il sullodato arminio, pugno, pica ciamarra o come si chiama, mari, bajani, supersiti, lagioia e trevisan, nove o dieci, desiati. desiati (sic). perchè il rischio, come dice qualcuno, è che l’intensità (conoscitiva) delle scritture migliori, oggigiorno, spiri più dalle parti del saggio (e quindi anche della critica, quando non è en artiste), e forse presso qualche appartato poeta, che non altrove. con buona pace dei (due) duellanti.
@ Alcor
«Ma davvero Donnarumma crede che i romanzi cambino le persone?»
Naturalmente! Pensi a Paolo e Francesca, a don Chisciotte, a Emma Bovary! Aux captifs, aux vaincus!… à bien d’autres encor!
«Che chi legge romanzi sia migliore di chi non li legge?»
Ci mancherebbe: è spesso vero il contrario. Vedi sopra.
«E poi, vogliamo fare i numeri? Quanti lettori ha un libro di Sebald, o di Roth? E quanto a Gomorra, che invece ha avuto più di un milione di lettori, Donnarumma è davvero convinto che abbia cambiato il paese?»
Grazie, i numeri lasciamoli dare ad altri che saranno di certo più bravi di me e di lei. Ma come mai per lei la letteratura è una pratica così solitaria, e mai, invece, anche una pratica sociale? Come mai è così convinta che non ci sia più nulla da fare? Si legge solo per malinconia o per evasione? Anche Proust, quando diceva che «chacun est lecteur de soi même», intendeva che dall’atto della lettura sarebbe nato un mondo intero di cose, di relazioni umane, di pensieri: che, insomma, non leggiamo mai da soli.
Che vuole: io insegno. Leggo di fronte ad altri, per altri. Devo rendere ragione di quel che faccio. Il mio primo problema è: perché mai i ventenni che ho di fronte dovrebbero interessarsi a Svevo, a Pirandello, a Gadda, a Calvino? Cosa hanno da dire questi scrittori a noi, non solo come individui abbandonati a noi stessi, ma al nostro vivere qui e ora? Non è che possono farci capire giusto un pezzetto del mondo in cui stiamo? Aiutarci a pensare? Renderci un po’ più consapevoli? Le favole (hai visto! mo pure gli zdanovisti parlano delle favole…), che le raccontiamo a fare? Il mondo incantato di Bettelheim non vi dice nulla? E un po’ di caro, vecchio, sano senso critico? Dove e come volete che se lo facciano? Tra i videogiochi e la metaletteratura, non c’è proprio nulla in mezzo? Altrimenti, perché mai dovremmo avercela con la Gelmini e la 133?
Certo, finché uno si ripete che la letteratura è marginale, stai fino! Ho il sospetto che sia questo soffocare la letteratura. E se provassimo, invece, a fare sul serio?
@ospite
Magari! E detto tra noi: credo lei abbia ragione.
Se la letteratura che conta non “cambiasse le persone” non ci sarebbe alcun vero motivo per scrivere.
E nemmeno per leggere, del resto.
(Per chi vuol divertirsi senza correre il rischio di cambiare la soluzione più vantaggiosa rimane la playstation).
“a Paolo e Francesca, a don Chisciotte, a Emma Bovary! Aux captifs, aux vaincus!… à bien d’autres encor”
ma sono tutti personaggi romanzeschi, persino i captifs:-)
“Ma come mai per lei la letteratura è una pratica così solitaria, e mai, invece, anche una pratica sociale? ”
Ma cosa vuol dire? E’ una pratica solitaria perché si legge da soli, ed è anche una pratica sociale, ovviamente, perciò sono qui, ma certamente è una pratica dai riverberi politici e sociali limitati.
E non sarà certo un appello al realismo, sia pur corretto rispetto a quello ottocentesco, plastico e responsabile a cambiare la situazione.
Per svariate ragioni che non sto qui a dire mi capita spesso di attraversare mondi che di letteratura non si occupano. E’ molto istruttivo. Uno stage ogni tanto farebbe bene anche a chi la letteratura la insegna. E’ una buona cosa avere molti punti di osservazione. Anche se ammetto che a volte è uno choc.
Che la letteratura avesse un peso maggiore in passato rispetto ad adesso, mi spiace dirlo, è un fatto. Le classi dirigenti che sessanta o cinquant’anni fa leggevano magari il loro Mann, oggi non hanno autori di riferimento, leggono – se leggono – a caso, e solo quei libri che arrivano a sfondare il muro del suono dei bestseller: Eco e Saviano, la Tamaro e La profezia di celestino, Bocca e Stella. E lo fanno nei ritagli di tempo, perché sono ormai decenni che un professionista che nella generazione dei nostri nonni aveva il tempo di leggere Aurora, adesso non ce l’ha più ed è tanto se va al cinema una volta ogni tanto.
E se a leggere non sono le classi dirigenti, ma il ceto medio diffuso, si diffonderà al massimo un labile sentimento del tempo, diverso a ogni libro. L’idea che la letteratura possa cambiare il mondo può venire solo a chi vive al chiuso di una università.
La letteratura lo accompagna, non lo cambia.
Ma questo non ha niente a che fare con il discorso sul realismo e le sue varie declinazioni, sul quale continuo a pensarla – ovviamente, visto che è un giudizio che ho maturato nei decenni – come ho detto sopra.
@Alcor
“L’idea che la letteratura possa cambiare il mondo può venire solo a chi vive al chiuso di una università”.
Ma qui nessuno ha detto che la letteratura può “cambiare il mondo”.
Si è detto invece che (se è davvero buona) può “cambiare le persone” (alcune singole persone).
Il che è molto diverso.
Ma nemmeno le persone, caro Stavrogin, o almeno non le persone rispetto al mondo, caso mai, ma è ineffettuale, le persone rispetto alla letteratura, perchè se ne leggerai di buona, sempre che tu sappia leggerla, ne vorrai di buona e migliore, e cambierai nel senso che ti affinerai, che dopotutto è un cambiamento come un altro.
Stavrogin, tu scrivi? E se lo fai, davvero lo fai per cambiare le persone? Se è così varrebbe la pena rubarti e studiarti.
E se lo fai per cambiare le persone dubito che tu scriva qualcosa che valga invece la pena leggere, a meno che tu non ti racconti una favola, ed è anche vero che gli scrittori a volte se le raccontano, oltre che raccontarle agli altri. Ma una favola così non l’ho davvero mai sentita.
Ma adesso non tirarmi fuori Dostoevskij, che è troppo facile, e sarebbe facile anche replicare: l’idea grande russa ecc, non sono propriamente il tentativo di cambiare le persone, ma di dar forma all’opera che aveva dentro di sé.
I servizi accessori di un opera sono sempre faccenda di chi vien dopo.
@Alcor
Nessuno ha detto che la letteratura “deve” cambiare le persone.
In effetti credo che nessun vero scrittore scriva “per” cambiarle. Credo che le cambi e basta, senza saperlo e spesso senza volerlo.
Questa però è solo un’ipotesi. Io infatti non scrivo.
Ma leggo…
@ Raffaele Donnarumma
Anch’io vedo che ce l’hai con un mio omonimo che è il cugino scemo di Pietro Citati, uno che “sorveglia i Valori della Tradizione e mette i paletti per tutelarci dalle zozzerie dei reporter d’oggidì”. Facciamo insomma che amor di polemica e delle sue retoriche tende a prenderci un poco la mano (quella che terrebbe il fioretto di Ridley Scott; no, Ospite, mi pare proprio fosse sciabola, almeno prevalentemente; e il duello più figo era alla pistola, poi) e che tendiamo entrambi, un poco, alla caricatura del contendente (vivaddio un po’ d’ironia, ché in “Allegoria”, mi concederai, non ce n’era granché; ma già, ricordo che qualche illustro critico, e qualche illustre scrittore suo amico, da queste parti una volta, alla faccia del pluralismo, proclamò essere l’ironia – tout court – sempre e comunque serva del potere e schiava del sistema, da bandire di conseguenza, con formula immediata, da ogni umano sentire).
Evitiamo per favore di dire, dunque, che vieni “manipolato e falsificato”, neppure fossimo alla Stasi. E prendiamoci tutti un po’ meno “sul serio”. (Il che non significa dire la prima cazzata che ci passa in mente, certo.)
Punto 1) prendo atto che l’espressione “Nuovi realismi” eviterebbe “la parola realtà”; ammiro molto la retorica, come si sarà capito ad abundantiam , ma non apprezzo altrettanto la mano che scaglia il sasso e nasconde la mano; sul numero 57 di “Allegoria” c’è una decisa opzione militante in favore delle “forme di realismo” (al plurale), cioè per un’arte o una letteratura che anzitutto sia rivolta a, e prenda senso in nome di, detto valore; di questo stiamo parlando infatti. Non solo: sul medesimo numero si proclama morto il postmodernismo, non certo solo quello italiano degli stenterelli, che sarebbe stato travolto dall’11 settembre (secondo un’analisi di Luperini ma anche di molti altri; anche all’indomani immediato di detto 11 settembre, come ricorderanno gli avventurati lettori di Scrivere sul fronte occidentale, si diceva e scriveva, con particolare virulenza, qualcosa del genere).
2) Le categorie da te impiegate non hanno valore meramente descrittivo, altrimenti non staresti fra l’altro, qui, tanto accalorato a difenderle. Negare il contrario, questo sì è falsa coscienza. Non hanno valore prescrittivo solo perché non hai il prestigio e l’autorità di Benedetto Croce, Gyorgy Lukàcs o Roland Barthes (e non hai ancora messo a punto un edificio teorico paragonabile a questi); hanno però un evidente valore propositivo e nettamente, perentoriamente militante. Ribadisco: non nascondiamoci dietro un dito.
3) “Tensione realistica”. Su questo siamo d’accordo, l’ha detto persino Soldato blu (e nell’inchiesta di Allegoria l’aveva detto Lagioia. A proposito, ha ragionissima Ospite: Lagioia, batti un colpo se ci sei). La letteratura, fra le arti e a differenza della musica per es., ha sto difettaccio di usare dei materiali linguistici che designano anche referenti i quali appartengono alla nostra esperienza percettiva. Sul fatto che non detteresti linee, rinvio al punto 2.
4) Ah, il pensiero unico sulle diciotto cartelle dello “Specchio”. Siamo di nuovo alla Stasi. A parte che non mi pare che Giglioli, per es., lì dica cose molto simili a quelle che dico io; e a parte che fra gli scrittori invitati Bajani, per es., professa una poetica sostanzialmente esperienziale che è più o meno agli antipodi di quanto possa pensare io, non mi pare che su Allegoria ci siano analisi critiche o quadri teorici, sulla letteratura, alternativi al tuo saggio. E sì che lì di pagine ne avevate un po’ di più, a disposizione. Diciamo che a proposta assai decisa e convinta è stata contrapposta una critica altrettanto diretta e frontale (il che non dovrebbe spiacere a chi in Saviano pregia la “parola diretta”).
Ahi, anche se fra parentesi ho fatto il nome che non andava fatto. E’ la “letteratura scomoda”, quella che nientemeno fa “venire le convulsioni” al cugino scemo di Citati. Tanto “scomoda” che in questi mesi sono usciti dagli opifici dell’industria culturale, per fermarmi a quelli soli che ho potuto intravedere, una quindicina di cloni di Gomorra; negli Oscar è uscita persino un’antologia di racconti usciti su “Nuovi argomenti” dove in copertina c’è scritto “SAVIANO” a caratteri cubitali, poi “Piperno” piccolo, poi “e altri” in caratteri minuscoli (roba che, se fossi uno di quegli sfigati “altri”, saprei che pensare dei miei curatori); da Gomorra sono stati tratti nell’ordine: l’audiolibro della Emmons, lo spettacolo teatrale di Gelardi, il (bellissimo) film di Garrone. Ci manca solo il videogioco. Che sia “scomoda” la poetica di Saviano, oggi, è una barzelletta. (Che sia scomodissima la sua esistenza è un’altra questione, e teniamola per favori fuori da questa discussione.) Altro che “dittatura”! “Dittatura” di chi? delle poetiche sperimentali forse? Il questionario di Allegoria è stato rivolto esclusivamente ad autori (ce ne sono alcuni che sono fra i miei preferiti, beninteso) pubblicati da majors (solo le prime due delle cinque majors, anzi), evitando accuratamente qualsiasi escursione nell’editoria piccola (o anche media) di ricerca; evito riferimenti al mio lavoro editoriale ma qualche curiosità per le migliori collane italiane di narrativa, che da almeno sei-sette anni sono quelle di Sironi e minimum fax (non solo gli autori da lì prelevati dalle majors, cioè), si poteva averla. Magari sarebbe stata l’occasione per fare un ragionamento sulle forme letterarie oggi meno accreditate e che, magari, potrebbero crescere in futuro. Magari si sarebbero persino trovate “forme di realismo” diverse da quelle brevettate e autorizzate dal premiato opificio di cui sopra (certo, se poi sento dire – come pure m’è capitato di questi tempi – che Michael Cunningham, per dire, è autocostitutivamente incomparabile a Franco Arminio in quanto il primo è di Cincinnati, Ohio, e il secondo di Bisaccia, Irpinia d’Oriente, non so proprio chi sia più provinciale). Magari si sarebbe evitato di liquidare in mezza riga (in sede di replica) uno dei migliori testi narrativi scritti in Italia negli ultimi dieci anni, Ad avere occhi per vedere di Leonardo Pica Ciamarra (minimum fax appunto) solo perché funestato, pure lui, da un nome da fàmolo strano.
5) Concordo su quasi tutto. Quando dici “Quello che manca a certi postmoderni è proprio questo: mettono la letteratura da sola davanti allo specchio. Questa letteratura, a me, non interessa, a meno che non sia così oltranzistica da farmi aprire gli occhi su quello di cui non vuole o non sa parlare (e per questo leggo, tanto per dire, Borges o Pynchon)”, metti però involontariamente il dito nella piaga. Il realismo più vero e lacerante è probabilmente, quasi sempre, preterintenzionale. All’interno di Gravity’s rainbow (da p. 504 a p. 556 dell’ed. italiana) c’è la più straziante profonda e conturbante storia che io abbia mai letto sulla Shoah.
6) Riguardo alla fase orale e a quella genitale, due le ipotesi. O tu sei molto più cazzone di quanto io possa mai arrivare ad essere, oppure alludi piuttosto superficialmente alla “genitalità” del rapporto (sessuale) col Reale, di cui parla Giglioli sullo “Specchio”. Immaginario che evochi peraltro, sia pure en passant, quando parli di “castrazione” al punto 4. Dico subito che è una metaforologia che detesto, così come quella (che ne discende) della letteratura onanistica in quanto autoreferenziale. A parte le solite angherie salutiste e cattoliche riguardo all’onanismo (Woody Allen: è solo fare sesso con qualcuno cui voglio davvero bene) si tratta di un immaginario, fra l’altro, storicamente connotatissimo come destrorso – e non aggiungo altro se no finisce che si offende un sacco di persone (Daniele, beninteso, lo usava in una torsione retorica pressoché antifrastica; il che non toglie che la cosa mi abbia dato, lo stesso, un certo fastidio).
7) A mia volta non dico certo che “colla derealizzazione e la fine dell’esperienza” si possa fare tutto. Dico solo (e ho scritto un sacco di volte) che i migliori postmodernisti – non solo quelli di Cincinnati, Ohio – hanno messo a punto una tecnica di desengano strutturale [non so fare la cedilla, pardon], chiamiamolo così (io l’ho definito, guarda un po’, “realismo della derealizzazione”), che peraltro sistematizza (senza ancora aver fatto a tempo a meccanizzare, però, visto che li date per ormai morti e sepolti) una dote che è consustanziale ai picchi supremi della tradizione narrativa occidentale (Cervantes, Flaubert).
8) Ho chiuso fuori dalla porta il cugino scemo di Citati, e visto che c’ero anche lo chaffeur di Marc Fumaroli. Dunque fammi capire: da un lato sono uno che bàzzica con dubbia insistenza il sottobosco degli scrittorucoli dell’Irpinia d’Oriente, per di più inguaribilmente e attardatamente invischiato in “sperimentalismi da dottorandi”, invece di svettare aquilesco sulla Spectre del Grande Realismo Occidentale. Dall’altro però sono anche l’Alfiere della Tradizione e dell’Autonomia del Letterario; più che Ridley Scott siamo a George Lucas, o direttamente a Highlander. Penso una cosa più semplice; e cioè che la dote che mi riconosco migliore sia cercare, e talora trovare, degli scrittori nuovi che sono davvero tali, cioè non già preselezionati e preimpacchettati dall’internazionale pollaio in batteria che è l’opificio di cui sopra; autori che suonano, e suonano eccome, nella mia lingua, l’unica cioè che davvero padroneggi e goda a tutti i livelli, senza necessariamente passare per la continua riserva mentale delle recensioni, e diomio delle recensioni comparate (è una boutade un po’ cazzona quella cui sono più affezionato, e cioè che il mio poeta preferito, hélas, è Giuseppe Bevilacqua, quello della Rosa di nessuno, e il mio narratore preferito Ervino Pocar, quello della Colonia penale). Solo che la novità di cui sono in cerca non pretendo sia assoluta, come invece certa critica che grida di sdegno al solo pretendere di parametrare quella novità sulla sua relatività al canone (ricordo benissimo un articolo di illustre italianista sulla Rivista dei libri di qualche tempo fa, circa Moresco che sarebbe uno scrittore nuovo non in virtù di qualche effettiva o sostanziale soluzione di continuità, formale o meno, con la tradizione; ma perché e unicamente in quanto autoproclamatosi tale). Se la definizione di Body art quale “ghost story à la Henry James” ti fa tanto irritare è perché invece tu preferiresti bypassare questo tipo di percezione comparativa: che per me non è certo volta a limitare e depotenziare e “castrare” il “nuovo”; al contrario tende a convalidarlo, collaudarlo, metterlo – appunto – al paragone. (Certo che se poi Giro di vite è minorante, castrante ecc., non so più cosa pensare.)
9) Siamo al punto chiave, alla perorazione esistenziale e politica. Non mi sottraggo, anche se ciascuno forse a queste domande può e deve rispondere, soprattutto, in quello che una volta si chiamava foro interiore. La risposta è: no, non credo di dovermi “legittimare di fronte a nessun altro che non stia dentro il campicello delle Lettere”. Per me quello delle “Lettere” non è un “campicello”. E’ la vita; anzi, se ti fa piacere, la Vita. Non nel senso di Carlo Bo, ti anticipo (suo cognato, qui, s’è appena svegliato in un bagno di sudore). Parlo della mia vita, personale e soggettiva. Una cui parte integrante, ormai da un quarticello di secolo, è rappresentata dal godimento artistico (senza il quale probabilmente l’avrei fatta finita da tempo). Quel godimento lo pretendo assoluto, anarchico, irresponsabile. Questo dice, questo ha sempre detto la mia “passione”. Altro che “posto marginale”; non so quanto darei perché se ne stesse un po’ più al margine, sta passionaccia. Poi, naturalmente e per fortuna, c’è anche l'”ideologia”: la quale professa le brave cose progressiste che dici anche tu. E cioè che la libertà della letteratura e dell’arte siano un fomite trascendentale a cercare e procurarsi la libertà anche fuori dalla letteratura e dall’arte. Che le forme dell’arte siano una prefigurazione e un’allegoria (già) di forme dell’esistenza che dobbiamo conquistarci con lo stesso coraggio con cui se le conquistano, per sé, gli artisti (e insomma, già, una promesse de bonheur). Pure, tutto ciò riconosco come ideologia: proprio nel senso marxiano del termine. Pure, detta ideologia rivendico e difendo: difatti, a mia volta, insegno. Spesso mi chiedo se insegnare questa passione (che è l’unico modo efficace con cui si possa insegnare, o comunque l’unica con cui possa insegnare io) sia un gesto davvero responsabile; ha scritto Berardinelli nel suo saggio più bello, Insegnare la letteratura moderna (sta in Casi critici) che, ragionando e riragionando su questo, alla fine si decise di smettere, di insegnare. Non so se a me capiterà mai qualcosa del genere, non credo (una volta ho scritto perché). Però il dubbio lì espresso da Berardinelli mi tormenta spesso. Davvero è giusto cercare con tutti i nostri sforzi di infettare le giovani menti del nostro stesso morbo, la letteratura e l’arte moderna con tutta la loro spesso spaventosa negatività (altro che igiene, Raffaele!), questa benedetta e maledetta letteratura che tra l’altro ci ha fatto scegliere status e professioni tanto palesemente perdenti, sul piano sociale, nonché un rapporto con la realtà (parlo per me) così poco “frontale” e “genitale”? Davvero?
cara alcor se la peggior merda televisiva cambia le persone, perché mai la letteratura no? (Poi ad ogni medium il suo vettore di cambiamento) Noi siamo metà fatti con la stoffa dei personaggi di cui abbiamo letto. E che oggi si legga di meno di un tempo, è un’ipotesi probabile, se riguarda le classi dirigenti. Ma questo è ancora un’altro discorso. Gli studiosi universitari hanno innumerevoli limiti e debolezze, ma magari qualche idea plausibile sul loro oggetto di studio riescono anche a farsela.
@ Alcor e Andrea Inglese
Tutto preso dal mio Esame di coscienza di un letterato, per la lunghezza e i toni del quale mi scuso fin d’ora, ho trascurato la non trascurabile questione da voi qui dibattuta. E mi dico tutto d’accordo con Andrea (per le ragioni esposte al punto 9. di detto Esame di coscienza). La mia vita è stata sostanzialmente e radicalmente mutata, più forse che da qualsiasi altro evento capitatomi, dalla lettura di tre libri: I dolori del giovane Werther a sedici anni, Il castello a diciotto, Le relazioni pericolose a venti (tutti e tre fra l’altro, ci faccio caso solo adesso, letti in traduzione). Altroché se la letteratura cambia la vita: purtroppo.
@ Alcor e Andrea Inglese
Non so perché racconti queste cose. Questa discussione mi ha preso un po’ la mano.
intervengo solo sul punto geografico.
è vero quello che dice cortellessa. è vero che uno di cincinnati è chic rispetto a uno di bisaccia. se pure i loro libri dovessero capitare a fianco in libreria, quello di cincinnati è favorito.
e pure qui o a cena tra amici fa più fino citare il cincinnatese che il bisaccese.
mi pare che ogni critico letterario ha li suoi gusti. quello che si può chiedere a tutti è di parlare solo delle cose che si conoscono.
io, per esempio, non ho letto le allegorie di donnarumma e non ne parlo.
la faccenda in fondo è più di semplice di quel che pare.
ultima cosa: prima che uno scrittore amato da cortellessa e da altri critici, io sono uno scrittore che scrive sui giornali locali, un paesologo, uno che è conosciuto nei luoghi in cui vive per le battaglie che conduce. e questo forse fa piacere anche a donnarumma.
armin
Cortellessa quando si lascia prendere la mano mi è molto più simpatico
;-)
sì, io credo che la vita di tutti noi sia stata influenzata o adulterata e corrotta fino alla radice dalle nostre letture, scambiandoci confidenze: il mio amico d’infanzia è stato leopardi che a 7 anni una suora pazza ci faceva imparare a memoria, ma per me era come canticchiare le sigle dei cartoni animati ;-)
poi un grande vuoto fino a Jacopo Ortis a 16 anni, credo, poi ad un passo dalla maturità apparve Rimbaud a quel punto gli eventi precipitarono
;-)))…stendo un velo pietoso su tutto quello che ne seguì ;-)
Galeotto fu l’anno: ’61.
Non so come sia capitato a casa mia – mia sorella più grande, il Premio Strega – “Ferito a morte” di La Capria.
Non c’erano, non ci sono, librerie nel mio paese di mare.
L’incontro con la spigola nel mare di Napoli, ancora oggi, è la scena marina più esaltante e più vera che mi sia capitato di vivere.
Fu un’iniziazione.
Poi, lo stesso anno, per il compleanno, la mia ragazza mi regalò “Delitto e castigo”, mentre sua madre, romana, portò da Roma “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”.
Lo posso dire: fu destino.
Bene, sola contro tutti. E’ la discussione che preferisco:)
Mi autociterò:
“Anzi, la gente si sceglie i romanzi da leggere a seconda di come è fatta, di come è GIA’ fatta.
La letteratura sfonda, diciamo così, porte aperte, e non serve proprio ad aprire la testa, a far vedere dell’altro, il suo altro, come dice, se già non ha deciso di farsela aprire.”
E mi la butterò anch’io sul personale, sono stata una lettrice mostruosamente precoce, tutti raccontano fieri che hanno letto Guerra e Pace a undici anni, a tredici, bene, io l’ho letto per la prima volta a nove. Saltando le parti di guerra, ovviamente, che non ne capivo la ragione. E in prima elementare venivo mandata in giro per le classi, povera bambina, a mostrare il mio talento precoce. Le opere più che cambiarmi, mi hanno fatta. Ma se fossi stata di un’altra natura, non avrebbero fatto niente.
Volete spiegarmi perché I dolori del giovane Werther cambiano e un’opera di Burri no? Perché Du coté de chez Swann sì e un quartetto di Beethoven no?
Perché La vita nova sì e un tradimento no?
Ma a voi, scusate, hanno insegnato a leggere i vostri professori? O vi siete tuffati da soli?
I lettori (e lasciamo perdere la distinzione tra semplici lettori, professori critici e scrittori) sono una razza a parte. Ai non lettori si può insegnare, certo, io dopo aver seguito per un anno un corso di De Grada ho finalmente capito la struttura dei quartetti di Beethven, ma solo di quelli, perché non ho l’orecchio assoluto.
Credete a me che son più vecchia e che perdo un sacco di tempo con gente che ha letto pochi libri, la letteratura vi ha cambiato perché eravate già strani.
Anch’io ero strana, e da bambina ne ho anche molto sofferto, perciò, da tutte le mie feritine, sono entrate un sacco di parole.
E se Donnarumma, e magari anche voi, pensate che la letteratura vada insegnata per far del bene al prossimo, va bè, non voglio negare il valore sociale dell’arte in genere, ma se invece pensate che la letteratura vada giustificata con il suo valore sociale, per farne qualcosa che valga la pena, qualcosa di utile, beh, allora avete bisogno di una ragione più forte della mia per occuparvene. A me non interessi che serva, che cambi, a me basta che ci sia.
@ Inglese, la peggior merda televisiva non cambia, intercetta, quello è il guaio. Io non nego che si producano cambiamenti, ma lenti, lenti, così lenti che non è UN libro, UN reality, Un incontro a cambiare, ma una serie lunghissima di micro eventi psichici che ci arrivano attraverso i fenomeni, ognuno i suoi.
@ Cortellessa
“Per me quello delle “Lettere” non è un “campicello”. E’ la vita; anzi, se ti fa piacere, la Vita.”
e anche tutto quello che scrivi dopo, appunto, è questo, perciò non ti ha cambiato, ha solo perfezionato quello che già eri, ricongiungersi con se stessi, lo chiamo io. Se capita di essere degli umani cosiffatti c’è poco da scegliere, l’unica possibilità è acuminarsi e vivere fino in fondo quello che si è.
Alcor dice:
“[…] la letteratura vi ha cambiato perché eravate già strani.
Anch’io ero strana, e da bambina ne ho anche molto sofferto, perciò, da tutte le mie feritine, sono entrate un sacco di parole.”
Sembra semplice.
Ma con questo, Alcor non fa altro che aprire le porte di una infinità di stanze. E in ogni stanza c’è uno specchio – non proprio deformante – che riflette una diversa immagine di noi stessi e che, a sua volta, si porta dietro un’immagine diversa di letteratura.
E io non so più cosa significhi parlare di letteratura.
Qualcuno ci salvi, perché il Litio non basta più.
L’intelligenza capace di formalizzare un discorso così complesso, e tale da tenere conto di tutti i temi, non avrei alcuna remora a definirla “divina”.
@Alcor
“Volete spiegarmi perché I dolori del giovane Werther cambiano e un’opera di Burri no? Perché Du coté de chez Swann sì e un quartetto di Beethoven no?
Perché La vita nova sì e un tradimento no?”
Non vogliamo spiegartelo, perché nessuno l’ha detto.
Nessuno ha neppure detto che la letteratura vada insegnata “per far del bene al prossimo”.
Si profilano cataloghi di letture personali e di adolescenze tumefatte: segno che è ora di cambiare argomento
@Stavrogin
non è che posso ripetere le stesse identiche parole degli altri, le spingo un po’ verso le loro possibili conseguenze, non sono mica in catene.
Adolescenza tumefatta sarà la tua, comunque hai ragione, quando si entra nel personale si corrono altissimi rischi retorici. Ma a volte il personale da carne al discorso.
@ Alcor
Dando subito e completamente ragione a Stavrogin (uno che si chiama così, poi) circa l’indulgere sulla propria lacrimosa e più o meno tumefatta esistenza, prima di tacermi in tal senso mi riallaccio a quanto da lui affermato: a ventiquattro, appunto, op. 132 di Beethoven; a ventotto, appunto, i metalli di Burri e Crash di Cronenberg.
Capisco, o credo di capire, il movente retorico che ti spinge a sostenere una tesi così estrema. Ma è estrema. Certo che ciò che leggiamo viene incontro a ciò che già siamo nella gadameriana “fusione di orizzonti”. Certo che non facciamo altro che divenire ciò che siamo. Ma per l’appunto “ciò che siamo” è ciò che è stato lentamente (o, a volte, bruscamente) deformato e modificato dagli incontri che abbiamo avuto: con persone ed eventi o con testi ed opere. Non credo che si nasca già wertheriani o laclosiani (anzi, sempre per stomacare Stavrogin, preciserò che Laclos mi ha guarito proprio da Werther, ovviamente per danneggiarmi in altra direzione), si nasce con un’intelligenza e una sensibilità che oscilla all’interno di una forbice più o meno media, e che poi sta alla nostra esistenza coltivare & affinare. La letteratura e l’arte sono un bellissimo posto dove fare queste cose (appunto, non un “orticello”). Ma fare queste cose espone anche ai pericoli che conosciamo tutti.
“bisogna cambiare la vita”. Ogni letteratura che non ci aiuti in questo intento, magari contro il suo autore, a più o meno breve scadenza (e la pressione e l’urgenza degli eventi è tale, la malattia del mondo è diventata così acuta che tendo sempre più a credere che sia a brevissima scadenza) è ineluttabilmente condannata.
M. Butor
@ cortellessa
E infatti “bisogna cambiare la vita” vuol dire che bisogna cominciare e arrivare a cambiare la propria vita: “fare del proprio passato qualcos’altro da quel che rimarrebbe inevitabilmente se lo si lasciasse in pace, una fonte d’oscurità e d’errori, la serie confusa e opaca delle esperienze d’uno di quegli individui perduti in un’irresponsabilità folle, qualcosa d’altro, cioè una fonte di conoscenza; bisogna estrarne tutto l’insegnamento”, ancora Butor
per parte mia, cioè obiettivamente, sul Malecon Joyce mi ha smontato il cervello e Proust lo ha rimontato.
@ Lezama
Butor genio. Pure tu però hai scritto delle robe mica male.
@ cortellessa
che dire, il talento può tutto, il genio fa quello che può. Un abbraccio
@Cortellessa e tutti
E’ vero, non è senza conseguenze. E la mia tesi è estrema. E retorica.
Ma è proprio l’estremismo che mi permette di rispondere a Donnarumma che la griglia interpretativa che lui propone è una gabbia, quando dice, al punto 3:
“Parlo, invece, di tensione realistica: cioè di una letteratura che non creda di bruciare tutto in se stessa, che non pensi che non ci sia nulla che le opponga una qualche resistenza, che non ci vada cantando che il mondo se l’è inventato lei. Questa letteratura è la sola che ci possa servire contro l’irrealtà mediatica, la fine dell’esperienza come diagnosi autoassolutoria per il proprio sonno, il degrado del presente. Questa letteratura può avere qualunque forma: può essere Kafka o Mann, Saviano o la Pugno. Non detto alcuna linea, non faccio lavagne di buoni e cattivi, non sono in giuria per la Sanremo delle patrie lettere o della Weltliteratur.”
L l’irrealtà mediatica, la fine dell’esperienza sono reazioni ai fenomeni e forme del racconto, organizzazioni che plasticamente rispondono al cambiamento del tempo e del mondo. La loro deperibilità non dipende da un gesto di volontà, cadranno quando non saranno più adeguate. Spintonarle non serve.
Se “realtà” in letteratura sta, come lui dice, per «forme di realismo» (al plurale) e «partecipazione politica», non ci sto, perché trovo che indebolisca lo statuto di quella che per me è la forma del mondo, consapevole come sono che di forme del mondo, di racconti, ce n’è più d’uno, anche extraletterari e che interagiscono nel soggetto. Ma rivendico “questa” forma del mondo come autonoma dagli usi politici o sociali, non perché non sia permeabile, non mi verrebbe mai in mente di pensarlo, ma perché trasformare la letteratura in uno strumento sociale è ai miei occhi quasi ridicolo. Né vorrei che accadesse. Di cosa dovrebbe essere ancella, la letteratura?
E’ vero, le parole hanno dei referenti. Ma si strutturano in forme poetiche.
Voi insegnate. Come ho detto ho seguito per un anno il corso di De Grada sui quartetti di Beethoven. Anche Beethoven è stato utilizzato a volte per trasmettere idee extramusicali, ed è stato letto con strumenti extramusicali; l’ascolto della Terza, o della Nona, soprattutto, dove l’inno di Schiller ha coperto la struttura musicale per generazioni di ascoltatori comuni, in questo senso è esemplare, ma non mi ha mai permesso di ascoltare meglio, non ho mai capito, prima di essere portata per mano attraverso la struttura dell’opera a vedere come era fatta, e solo allora sono riuscita finalmente ad ascoltare, e ancora adesso, ascoltando, il mio ascolto è più limpido. Sento (con le orecchie e non solo) di più.
Io questo vorrei, da chi insegna letteratura, che insegnasse a leggere i testi, non che spingesse a trovare all’esterno le ragioni della lettura: nella consapevolezza sociale, nel sogno del mutamento delle persone. Invece di far capire il mondo attraverso gli autori vorrei che venissero indagati gli autori e le forme nelle quali prende corpo la loro opera, poi, per quanto riguarda il rapporto col mondo, gli allievi si arrangeranno da soli. Nessuno può autoproclamarsi maestro di vita. Perché alla fine, scusate, c’è anche questo, il furore pedagogico può prendere la mano. Benjamin era un indagatore, anche per questo lo leggiamo ancora, non è chiuso.
@ alcor
insegnare il mondo? insegnare gli autori e le forme? maestri, allievi? usare poi le opere per “il rapporto col mondo”? la paura del furore pedagogico? no, davvero troppa confusione di concetti e di parole….e dunque di forma espressiva
@ alcor,
perdonami, non ti sto irridendo, solo che non che mi sfugge l’urgenza -che dovrebbe improntarle per giustificarle in un contesto “pubblico” come questo – delle tue preoccupazioni. Cioò detto, sono d’accordo che la griglia di donnarumma nient’altro è se non una gabbia, diciamo il riflesso della sua sclerosi interpretativa o percettiva.
per restare ai consimili:
scambio 3 Calvino per 1 Queneau
@ Scambista
questa è vecchia, siamo al trovarobato. e nemmeno di pregio, figurati che l’ha scritto più di vent’anni fa anche Busi (che non è un paragone lusinghiero)
@lezama, dearest, mi hanno sempre detto che i quadri piccoli sono i più facili da fare, e gli interventi brevi i più spiritosi.
@ alcor,
carissima, hai ragione, ma vale sempre? tra una facezie e l’altra cellini con le sue manone ha realizzato quel miracolo in miniatura che è la saliera di Francesco I. Ti abbraccio forte, cherì
Alcor,
che la letteratura cambi la vita ne sono certo. Figurati: da un paio d’anni mi paga pure l’affitto di casa…
;-)
Eviterei che la discussione declini verso i cuori messi a nudo, le memorie dall’oltretomba, la contumelia da trivio (un po’ di invenzione linguistica! un po’ di stile!). Eviterei anche il giochetto del ‘senti chi parla’ (es.: Donnarumma non è Croce o Barthes; in effetti: c’è scritto pure sulla mia carta di credito), del ‘guarda quanti libri ho in casa’, del ‘lo dico a mio cugino che poi ti pesta’, dell’amico degli amici. La responsabilità, in Italia, è personale: rispondo di quello che scrivo io, e già mi pare una fatica. Non gioco a fare il critico ggiovane che porta su di sé i tormenti del secolo, e che traccia le linee della propria biografia intellettuale (e mica solo…) a beneficio delle genti avide di chiacchiera. Il Maurizio Costanzo Show, per fortuna, non lo guarda più nessuno.
Sulla manipolazione e falsificazione, potrei accumulare prove. Una minima (sta al punto 2). Scrivo: «Le categorie che uso hanno anzitutto un valore descrittivo»; e Cortellessa rettifica: «Le categorie da te impiegate non hanno valore meramente descrittivo». Se sono «anzitutto» descrittive, non saranno ‘solo’ descrittive. La militanza senza un’analisi e un’interpretazione il più possibile attenta dei fenomeni non è militanza: non è niente. I due piani sono implicati, ma distinti. Non si dica che vado con l’accetta (che, nel caso, è meglio della clava): il mio saggio è anche troppo pieno di distinguo, di sfumature, di progressioni.
1. Non so quale sia la scelta militante di quel Leviatano che, dal di fuori, a Cortellessa appare «Allegoria»; la mia non abbraccia indistintamente tutte le forme di realismo: anzi, alcune le respinge come false, insoddisfacenti, compromissorie. Dove starebbe la mano nascosta? Qualcuno può pensare che in quel saggio, o ora, nasconda quel che penso?
4. «Allegoria» non è né la «Pravda», né un allegato del «Vernacoliere»: i redattori discutono su problemi che avvertono come comuni, ma ciascuno ha la sua posizione; l’ironia si fa anche lì, ma, in questo universale obbligo al facce ride (o facce sognà), sentiamo pure il bisogno di far sul serio (o non s’era capito?). Non credo affatto che l’11 settembre abbia ucciso il postmoderno: lo sostengono altri. Cortellessa scriva allora un bel saggio contro Luperini, così leverà ai maligni il sospetto che se dice certe cose il Grande Italianista & Cattedratico gli stende tappeti rossi (http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cultura/200805articoli/33287girata.asp), se invece ne do io una versione più dubitosa, botte da orbi.
Mi si dà troppo credito: basterebbe un saggio di questo tal Donnarumma per dettare la linea, mettere a tacere ogni dissenso, coprire tutto lo spazio dell’esistente sul tema? Oltretutto, l’inchiesta parallela sul cinema ha una struttura piuttosto diversa. Lo «Specchio» di Cortellessa non pecca invece per polifonia: il suo editoriale sottolinea i punti d’accordo con Giglioli e Bajani, un po’ gigionescamente; il mio saggio mette in luce la mia divergenza con Nove o Lagioia o Genna.
Quanto a Saviano e alla trasformazione del suo caso, come di tanta altra letteratura che ha a che fare col reportage, in moda e in commercio: di nuovo? Ma che c’è scritto nel saggio di «Allegoria»? Quanto dovrò ripeterlo in queste repliche? È ovvio che sono d’accordo!
Certo: questa letteratura si presta facilmente a essere risucchiata e neutralizzata nella fasullaggine mediatica e mercantile; a volte, anzi, è prodotta apposta. Ma proprio per questo, e solo quando ne valga la pena (solo quando, cioè, opponga resistenza), merita di essere difesa. Che però sia anche scomoda, per chi si affanna a difendere la Letteratura Dura Vera e Pura e crede che il postmoderno sia la nostra seconda natura, lo dimostra Cortellessa ogni volta che ne scrive. Faccio anche presente che una discussione seria dovrebbe chiedersi: come mai in Italia il realismo prende queste forme, anziché quelle del romanzo come accade altrove? Come mai siamo così ostaggi dell’equivoco?
Il criterio dell’editoria è facilotto e pregiudiziale. Anzitutto, studiare la grande editoria ha un significato sociologico, in senso bourdiesiano, preciso: oppure vogliamo raccontarci che pubblicare da Sironi (che seguo con interesse) è lo stesso che uscire da Einaudi? E poi, di narratori minimum fax come Aloja, la Parrella, o Raimo (ma tutti e tre si sono venduti, dopo…), parlo ampiamente; Lagioia, che abbiamo intervistato, ha esordito in quella casa editrice, e ne è l’editor; altri li ho letti, e ho ritenuto (si può?) che non aggiungessero molto; altri non li ho letti, e spero di farlo. Fra l’elenco del telefono e un saggio vige una qualche differenza. Che le case editrici minori possano pubblicare cose interessantissime e imprevedibili, lo credo bene; come credo anche che, a volte, facciano il gioco di clan e consorterie.
Tuttavia, questo discorso è viziato. Cortellessa non vede nient’altro che la promozione di Tizio contro Caio. Siccome la critica, per lui, è stata desertata da una qualunque idea minimamente alternativa e combattiva di società, non le resta che scaramucciare su chi mettiamo fra i big, chi fra le nuove proposte, e chi lasciamo a casa. Anzi: la gloria più vera è nello scovare talenti nascosti, nel promuovere gli esiliati da Mondadori o Feltrinelli, nel difendere le linee altre, meglio se carsiche, sotterranee e sepolte. Benissimo: chi lo fa, specie se con l’impegno che ci mette Cortellessa, ha la mia stima sincera. Ma le questioni di cui parlo stanno a questo livello? Non occorrevano autori all’altezza degli argomenti, o almeno rappresentativi del corso delle cose? La parola canone è un’altra di quelle che scatenano il putiferio dell’equivoco e della malafede, e fanno strabuzzar gli occhi per l’indignazione? Non possiamo neppure più dire che la letteratura è un campo di rapporti di forza e di conflitti simbolici e materiali?
(Cincinnati non sarà Bisaccia, ma rimane un posto da cui, appena possibile, scappare a New York: lo dicono Cunningham e i suoi personaggi. Esserci nati non è un titolo di merito, ma neppure di demerito).
6. Che imbarazzo! Mica si chiedeva ci venisse mostrato tanto! E non dovevamo essere quelli che non si prendono troppo sul serio? Non ricorro alla retorica dei letterati che si fanno le pippe: la lascio alle suore cattivissime e ai pedagoghi in orbace. Ma mi viene un dubbio: Cortellessa avrà mica letto ‘onanismo’ dove ho scritto «onirismo»? Un lapsus? L’allusione, come ha capito benissimo, era a Giglioli; e ad altri.
8. Certo che il cortellessese è una lingua difficile. Comunque, sì: l’autoritratto ha qualche somiglianza.
9. Apprendo che Cortellessa non ha bisogno di legittimarsi di fronte a nessuno. Sicuro? Proprio nessuno nessuno? Vive in una bolla di idealità, ignorato da qualunque istituzione pubblica, remoto da case editrici e giornali? Non conosce narratori, o poeti, o professori universitari? Mai entrato in nessun salotto, in nessuna trattoria? Non ha amici? Non si è procurato dei nemici? Infila i suoi saggi in bottiglie tappate col sughero, che poi abbandona ai pigri flutti del Tevere?
Apprendo pure che i libri gli hanno occupato tutta la vita. Mi spiace. Gli auguro comunque di esser pago di sé, di risolvere tutto nel suo foro interiore e , soprattutto, di continuare a insegnare.
Alla fine, arriva la rivendicazione del piacere anarchico e soggettivo. E a noi? Tutti lì a rivendicare i nostri piaceri anarchici e soggettivi, quindi incommensurabili e solitari? Siamo al Piacere del testo? Allora, di che stiamo parlando? È una diatriba tra i fautori dei gelati alla crema contro quelli dei gelati alla frutta?
No, grazie. Par di capire che a Cortellessa i libri interessino perché gli interessano i libri (e un po’ anche, come giusto, se stesso); a me, e non a me solo, perché interessano quello che ci sta accadendo, e cosa combinare.
@ Raffaele Donnarumma
Ecco, era un po’ che sentivo la mancanza di una bella dose di tono ultimativo e ricattatorio. Se non sei d’accordo con noi sei un delibatore di gelati (come quel tale che ne crepò a Nàpule), un asociale & autoreferenziale & autoriferito, un esecrabile postpiacione di post-testi che si permette pure di mettere piede nei salotti e in trattoria. E noi, invece, qui in trincea a preoccuparci dei destini del mondo! Al massimo, per ritemprarci, un pomeriggio nel tinello!
Mi pareva di aver risposto alla tua replica in un modo un po’ più dialogante di quanto non ti mostri tu in questa tua; magari sbaglio (o mi sbagliavo prima). Allora, mi pare di aver detto con una certa quale (troppa) ampiezza che per quanto mi riguarda soggettivamente (il foro interiore ti consiglierei di disprezzarlo meno e consultarlo un po’ di più, almeno una volta ogni tanto) le mie passioni di lettore gradirei che fossero libere da condizionamenti, reprimende, squilli di tromba, campane a stormo, clash of civilizations, rabbie & orgogli. Se mi piace più Tizio di Caio, se mi convince molto di più Sempronio, vorrei essere libero di valutare tutto ciò con metri di giudizio che non dipendono dalle ideologie o dalle ubbie più o meno di giornata, del mio capo universitario, del mio capo editoriale, del mio capo giornalistico. Per questi signori (e per i sistemi che essi rappresentano) lavoro, il che è un’altra cosa. Abbiamo già avuto la stagione in cui ci si chiedeva seriamente se andasse bruciato Kafka, grazie (e non sto alludendo all’arte degenerata).
Poi mi pare pure di aver aggiunto che mi sono costruito, faticosamente costruito aggiungo, un’ideologia. La quale mi dice, per esempio, che se (a torto o a ragione) ho accesso a giornali, case editrici, aule universitarie non posso disinteressarmi delle ricadute che ogni scelta, ogni singola scelta, finisce per avere (sempre senza prendersi troppo sul serio, certo). E’ una responsabilità, certo; non me ne faccio una bandiera ma mi pare di sapere bene di cosa si tratti. In quelle sedi, in tutte quelle sedi, mi pare di fare quel che posso, quello cui ho accesso, quello che è in mio potere: anche per i destini del mondo (nel mio piccolissimo). Come, in nome di detta ideologia, credo sia dovere di ciascuno. Se non lo sai o non ti interessa, non so che farci. Non devo fornire prove a te di come la penso, di quanto codesto modo in cui la penso sia minoritario (assai minoritario) e di come ciò malgrado cerchi di farsi sentire, di come qualche microscopico esito finisca persino per averlo, ogni tanto; al di là, voglio dire, dell’anima bella che ciascuno di noi può compiacersi di essere: per il modo in cui si preoccupa del mondo.
Comunque sono più tranquillo ora che so che ci sei tu, e non tu solo, a vegliare sul nostro destino.
@ AC
in un articolo, l’arte di maturare, che sicuramente avrai già letto, Cesare Pavese indovina, a mio parere, con largo anticipo il piano di cui dotarsi per stabilire una riterritorializzazione del fare della letteratura, sospesa com’è tra mito e realtà,estremamente attuale in questi giorni. Uso il termine riterritorializzare nell’accezione deleuziana, e non innocentemente avendo il filosofo francese dedicato alla letteratura anglo americana dei saggi assai illuminanti. Ve ne riporto uno stralcio:
Ora, è chiaro che nulla di ciò che il secolo ha scoperto (ricchezza e tortuosità infantile, molteplicità delle culture, ecc.) va rifiutato. Noi crediamo che un valore è un valore per sempre (le culture riescono diverse, non esclusive): si tratterà d’interpretarlo e inserirlo in una struttura. E siamo alla grande tara dell’arte puerale e storicistica del secolo: quest’arte o manca di struttura, di funzionalità (crede ancora sufficiente il cosiddetto impulso naturale) o si compiace della struttura per se stessa, per amore storicistico di originalità culturale (siamo nipoti dell’illuminismo). Definire la struttura viva non è facile: incontro d’intuizione e di schemi, confluenza di miti individuali e collettivi, funzionalità del gratuito, stilizzazione del dialetto ‒ si può continuare. Ma c’è un esempio che per la sua esoticità e relativa contemporanea vicinanza si fa piú agevolmente comprendere: l’arte poetica e narrativa americana. A prima vista, in questa manca ogni struttura, regna l’impulso naturale, la libertà dalla tradizione. Scrittori come Melville, Emerson, Whitman, Twain, Dreiser, Anderson, Stein, Faulkner e anche Wolfe, sono sensibilità nude e primordiali ‒ quasi adolescenze ‒ scatenate tra le cose; e insieme il loro storicistico programma di costruire l’arte democratica, l’arte nuova dell’epoca, richiama il volontarismo velleitario di tutti i futuristi. Eppure non sappiamo quale altra cultura contemporanea abbia creato un paragonabile mondo mitico ‒ individuale e collettivo, ‒ fatto di un dialetto linguaggio, fornito stilizzando l’irrazionale una piú larga messe di simboli, che la cultura poetica americana. In essa è diventata scrittura viva, maturità virile, struttura, ciò che in altre culture piú sapute rimane documento, travaglio, letteratura. Perfino i bambini (di Twain e di Anderson) rimangono in essa bambini, cioè non aduggiano troppo con le pur necessarie irresponsabili scoperte (l’odore di piscio e il sapor delle lacrime) la statura e l’azione dei grandi.
Un aspetto che salta agli occhi in quest’arte americana è il suo intemperante autobiografismo, il franco carattere di trascrizione diretta di un’esperienza storica in discorso chiarificatore. Sono autentiche «storie di un’anima» ‒ e di un corpo, ‒ memorie, per cui il reale non è un dato, ma una scoperta inesausta. Ma qui è appunto il segreto della loro eccellenza: mentre per la nostra arte europea la maturità è solitamente un adeguarsi al tradizionalecollettivo, un riconoscere i limiti e le norme della storica classicità preesistente, e quindi le mitologie individuali non hanno sinora nei casi di punta potuto rivelarsi che celebrando l’anarchia infantile, per quelli anche l’età matura ‒ il regno della storia e del conformismo ‒ ha sinora presentato un irrazionale da risolvere in chiarezza simbolica, una selva da ridurre a coltura, e il loro futuristico sforzo ha trovato un suggello di utilità collettiva.
Quest’esempio del secolo americano, a cui si potrebbe aggiungere il russo, ha già portato alla disperazione parecchi, in quanto pare uscirne una generale condanna d’ogni sforzo di chi non appartenga a quella cultura. Ma con questo timore noi proiettiamo una posizione passata su una realtà presente. Un tempo le generazioni sopravvivevano alla cultura perché a quel tempo l’unica cultura esistente era la loro, e perciò senz’accorgersi del sopravvenuto inaridimento andavano cincischiando vuote formule e convenzioni e in sostanza vivevano convinte di svolgere un compito essenziale, mentre tutt’al piú si scaldavano ai raggi di una nuova e straniera cultura. (Beninteso, ciò facendo contribuivano allo sviluppo di questa e insomma si giustificavano).
Ma adesso che ci rendiamo conto della contemporanea molteplicità delle culture, con ciò stesso possiamo dissociare la nostra vita spirituale dalla decadenza della singola cultura toccataci. Il semplice fatto che ne possiamo mettere a confronto e far parlare almeno due ‒ l’americana e la romanticoeuropea ‒ chiarisce che siamo relativamente liberi di fronte a entrambe e che insomma stiamo lavorando a costruirne una comprensiva, piú complessa, di cui le due in questione non saranno che componenti provinciali.
Perdonate l’intrusione. Sono tedesco, non padroneggio bene la vostra lingua. Non capisco che cosa ci sia di male parlare di realismo o di un ritorno alle cose. E’ un dato di fatto della letteratura europea (in Germania, Inghilterra, Francia almeno) e americana. E’ così, si può essere scontenti, ma i fatti sono questi…. E non capisco tutto questo orrore per il realismo in un paese come l’Italia che è stata per qualche decennio la culla del neo-realismo. La polemica mi sembra francamente del tutto fuori luogo, così come sono del tutto immotivate le continue allusioni alla nozione di perdita dell’esperienza di W. Benjamin. Deve essere un tedesco a ricordarvi che la seconda guerra mondiale ha prodotto nel vostro paese uno degli sforzi realistici più intensi e commoventi di tutta la letteratura mondiale del secondo novecento (per non parlare del cinema)? Di quale perdita dell’esperienza parlate? La guerra ha prodotto da voi i tentativi più ostinati e ammirevoli di riappropriarsi della realtà, di provare a descriverla, a misurarne i confini, le forme, le oscillazioni. Persino Calvino non è riuscito a sottrarsi a questa esigenza, e ha iniziato a scrivere come facevano tutti, perché quello era il modo in cui era necessario scrivere…. Se oggi questa necessità è tornata dov’è il problema? Nel fatto che degli scrittori provino a disegnare carte del nuovo mondo che ci circonda? Chiamate questo “colpa”? E quale sarebbe la colpa della rivista Allegorie? Chiamate colpa la volontà di difendere o elogiare i nostri nuovi (unici) cartografi? Non capisco….E scusatemi, ma cosa c’è di riprovevole nel preferire Roth o Houellebecq a un presunto scrittore che scrive su internet definendosi “paesologo” e amante del “locale” bisaccese senza nemmeno accorgersi della contraddizione?
Alles Gute
R.
E meno male che non padroneggiavi bene la lingua, Reinhard! ;-)