Tra zero e due meno meno
[Gilda Policastro, redattrice di «Allegoria», risponde a Cortellessa, proseguendo il discorso che Donnarumma avvia a partire da questi articoli. dp]
di Gilda Policastro
Se la domanda che poni a uno scrittore trentacinque-quarantacinquenne in Italia oggi è “quanto la realtà entra in quello che scrivi e lo condiziona” la risposta è: “zero”. Questo è l’esito (semplificando con la brutalità indispensabile all’operazione di tirare le somme) dell’inchiesta pubblicata sull’ultimo numero di «Allegoria». Nel saggio che la introduce, il co-curatore (assieme alla sottoscritta) Raffaele Donnarumma cerca di incrementare questo zero, di portarlo almeno a due meno meno, salvando una parte buona degli scrittori, che consiste in ciò che concretamente scrivono, a danno di una cattiva, che è ciò che invece dichiarerebbero per gusto del paradosso o per insufficienza teorica. Così Nicola Lagioia, uno degli intervistati, in Occidente per principianti raccontava la storia buona di un giovane precario, ma poi nell’intervista sbaglia a dire che della realtà lui si disinteressa completamente, visto che gli piacciono solo i libri che lo fanno «inginocchiare e piangere di gioia», come quelli di Faulkner. Aldo Nove, che l’anno scorso ha pubblicato l’inchiesta sul precariato Mi chiamo Roberta, ho quarant’anni, guadagno 250 euro al mese, scrive invece che la realtà non è altro che «cattiva letteratura». E Laura Pugno, che ritorna poi a parlare di realtà nella contro-inchiesta sullo stesso tema pubblicata dallo «Specchio +», dice che la scrittura è il miglior modo che conosce per occuparsi del mondo: di che modo si tratti lo esprime meglio delle dichiarazioni di programma Sirene, il suo primo romanzo, in cui si allevano e si ammazzano le bestie ibride del titolo in un mondo futuribile. Per chiudere sulle essenziali, a dir poco, risposte di Vitaliano Trevisan alle sollecitazioni sull’impegno, sul ritorno della letteratura ai temi sociali, sull’impatto dell’11 settembre nelle narrazioni occidentali, risposte tutte più o meno a calco del tipo tra il serafico e lo schizoide: “io? ma quando mai?”.
Ma la sorpresa vera viene dall’inchiesta sul cinema, che non reagisce compattamente all’input di Giovanna Taviani sul ritorno al documentario, e, in alcuni casi specifici, questo debito col documentario come forma privilegiata di indagine sulla realtà, rinnega o misconosce. Leggo dalla risposta di Saverio Costanzo: «Se dovessi indicare un film che quest’anno a mio parere ha raccontato meglio il nostro contemporaneo, citerei Grindhouse-Death Proof-A prova di morte, di Quentin Tarantino, e credo difficile trovarne uno più lontano dal documentario di denuncia alla Moore o dal pedagogico film di Al Gore». Gli fa eco Gaudioso, per il quale esistono «solo buoni e cattivi film», per tacere poi di Crialese che «fugge la realtà come la peste» (né ci si poteva aspettare altro, a pensare anche solo a Nuovomondo).
A rincarare la dose, gli editor di narrativa segnalano per gli anni a venire un incremento ancora maggiore del disinteresse ai temi sociali: il successo editoriale dei “numeri primi” di Giordano sta incoraggiando una generazione di venticinque-trentenni bellettristi tornati paciosamente a guardarsi l’ombelico.
Il reale, la realtà, non interessano dunque a nessuno?
Interessano ai critici, se ne nasce appunto la controinchiesta di «Specchio+», in cui le posizioni (schematizzate anche qui con l’accetta) sono le seguenti: Giglioli dice che il trauma è altrove, e inattingibile, come la donna sulla spiaggia del Candide per l’eunuco. Scurati che ha inventato (ma Cortellessa gli ricorda che prima di lui fu Benjamin, accidenti) l’ «inesperienza», ci racconta il suo personale momento di Erscheinung, e cioè di quando guardava le bombe in televisione sorseggiando della birra fredda. Cortellessa e Pedullà vogliono leggere libri e non reportage. Pur essendo due militanti a pieno titolo, editori o consulenti editoriali, della realtà come impegno a tutti i costi non saprebbero come fare letteratura, se non quando appunto questa realtà è, si fa racconto, letteratura (Cortellessa inventò una volta la categoria critica dello «stato di grazia»: parlava dei racconti non ricordo se di Raimo o di Meacci).
A me pare che la verità stia nel mezzo. Che «Allegoria» abbia liquidato (mea culpa) troppo frettolosamente, con la scusa del provincialismo, una serie di autori meglio rappresentativi del nostro presente, autori che praticano sì un iper-sperimentalismo oltranzista, ma non per questo si collocano (tanto programmaticamente quanto negli esiti) fuori dal reale. Penso al Pincio di Cinacittà (meno sperimentale che in precedenza, certo, e forse però addirittura per questo meno convincente), che racconta una Roma travestita da città orientale che è sempre più la città in cui viviamo tutti, cinesi e soli, senza stagioni e (apparentemente) senza storia. Penso all’Ottonieri de Le strade che portano al Fucino, che squarcia in un videogame memoriale le ferite della terra, lasciandone emergere racconti di vicende storiche recenti e personali. O all’Aldo Nove di Indeepandance, progetto multimediale (con videoartisti, musicisti) che riscrive il presente per slogan (da “Pietro Maso fan club” a “Money doesn’t buy happiness” a “Roberto Saviano” a “Io non ho paura”) proiettati su quattro enormi schermi posti all’interno di una cattedrale-discoteca, ripercorrendo, insieme, attraverso immagini cosmiche e suoni da trance, la storia del pianeta e dell’uomo.
D’altro canto «Specchio +» secondo me, anche a voler prescindere dalle birre di Scurati, si arrocca su una posizione snobisticamente fuori, che poi non rende nemmeno giustizia dell’impegno attivo (e quanto) nel presente di tutti i critici coinvolti.
Infine, quello che manca alla generazione dei trentacinque-quarantacinquenni di oggi, non è tanto l’impegno nel presente e dunque l’interesse per la realtà, quanto la capacità di trovare delle occasioni (questa inchiesta col relativo dibattito forse lo è stata, tra le rare) di confrontarsi apertamente pur partendo o anche rimanendo su posizioni diverse e diametralmente opposte. Scannarsi, anche, come facevano ai tempi della neovanguardia, l’epoca in cui, mi viene in mente, le battaglie tra impegno e disimpegno, mimesi e deriva iper-reale erano state più accese, prima dell’ondata postmoderna che ha messo tutti dentro e tutti d’accordo (almeno così pareva).
A emergere dalle interviste di «Allegoria» non è tanto, io credo, una contrapposizione tra autori realisti e no, per dirla così, ma tra autori che rifiutano (perlomeno nominalmente) l’ideologia, e autori che invece ne fanno una chiave di accesso primaria (vedi Barilli vs Sanguineti, ai tempi). E, in secondo luogo, proprio tra autori che si accomodano sotto l’egida della neoavanguardia e autori che sdegnati la rifiutano. Di nuovo Aldo Nove, da una parte, e Nicola Lagioia, dall’altra. E dunque, se si deve ripartire proprio da lì, dalla neoavanguardia, come si affrontava allora il problema della realtà, dopo che Sanguineti aveva declassato i narratori tradizionali al ruolo di “Liale”? Nel dibattito sul romanzo, al convegno del ’65, Balestrini ricordava ai suoi sodali l’imperativo di «tagliare i fili con la realtà» e, nel frattempo, di quella stessa realtà a lui contemporanea, non solo non si disinteressava (vedi, poi, non per caso, i libri a venire sugli operai, sui tifosi, sui camorristi), ma, soprattutto, cominciava a fiutare precocissimo le possibilità formali, tanto che il Tristano del ’66 così come l’aveva immaginato, in una serie di copie uniche aumentabili all’infinito, si è potuto concretamente realizzare soltanto nel 2007. E non come esercizietto sperimentale, ma come modo concreto per contrapporsi a un mercato che macina le opere in un amen, alla ricerca perenne di novità: Tristano sarà sempre nuovo, visto che le copie sono tutte diverse una dall’altra.
«Quale realtà», si chiedeva poi Sanguineti nel ’64, in un saggio sul Trattamento del materiale verbale nei testi della neoavanguardia, rimasto emblematico di quella stagione: «in che senso parliamo di realtà, di modi del reale, di fronte a un organo dell’immaginazione?». Peraltro in straordinaria consonanza con quanto accadeva fuori d’Italia: nel Romanzo come ricerca, dal Repertorio di Studi e conferenze, Butor si era già precocemente interrogato sul problema dell’invenzione formale, che «ben lungi dall’opporsi al realismo come troppo spesso immagina una critica miope, è anzi una condizione sine qua non di un realismo più radicale».
Il problema cruciale rimane ancora quello delle forme (Gabriele Pedullà in «Specchio+» dice lo «stile»), che ci si è posti ad esempio – se si procede oltre l’inchiesta, nello stesso numero di «Allegoria», fino alla rubrica Il libro in questione – rispetto a Gomorra di Saviano. Un problema che riguarda evidentemente anche il cinema, il quale comunque, come ripeto, nell’inchiesta ha dato di sé un quadro più vario dell’atteso. Se, indubbiamente, negli ultimi anni il cinema italiano ha smesso di essere il “cinema degli stenditoi” e ha preso a interrogarsi su fenomeni sociali come la camorra o il governo democristiano, come però lo faccia, è tutto da dire o da ridire. Gli ultimi film di Sorrentino e di Garrone, a Cannes passati praticamente per neorealisti, guardano più a Le iene che a Ladri di biciclette: in entrambi i casi la traduzione delle storie reali nei modi iper-reali del presente non dico che ritorni al postmoderno, ma di certo non lo rinnega del tutto, come forse si era un po’ troppo definitivamente ipotizzato. Il discorso sulla rappresentazione del reale, magari è proprio da qui che deve ripartire, se vuole stare nel presente e interrogarsi su di esso senza pregiudizi. Voler cambiare la realtà, intervenirvi, impegnarsi in essa implica un’operazione preliminare: ri-conoscere la realtà. Nei suoi modi di espressione, innanzitutto, e nei suoi linguaggi, che non sono orpelli accessori, se molti di noi continuano a preferire Gomorra ai documentari televisivi, e forse anche (adesso internatemi!), il Sandokan di Balestrini a Gomorra.
Leggo:
“Il discorso sulla rappresentazione del reale, magari è proprio da qui che deve ripartire, se vuole stare nel presente e interrogarsi su di esso senza pregiudizi. Voler cambiare la realtà, intervenirvi, impegnarsi in essa implica un’operazione preliminare: ri-conoscere la realtà.”
Non mi pare che l’articolo di Gilda Policastro sia un contributo che possa sciogliere tutta una serie di ambiguità che si trascinano dall’inizio di questa discussione. Sembra che i proponenti, individuato il nodo, non abbiamo mai trovato la lama giusta per dargli un taglio netto. Ma convinti che di “taglio” si debba trattare, si ostinino a impugnare sempre lo stesso tipo d’arma. Fioretto o spada che sia.
Il nodo è invece metallico.
Ecco. Perciò. Quando sento parlare di “rappresentazione del reale”, buttato lì, come fosse il nome di Tina Pica [ lei perché, in effetti, moltissimi giovani non sanno cosa si nasconda dietro quel nome] mi viene voglia di andare a fornirmi di dinamite.
*
Più in generale possiamo dire che il discorso normale è quello che viene condotto all’interno di un insieme concordato di convenzioni, su quel che vale come contributo rilevante, su cosa sia una risposta a una domanda, su che cosa significhi disporre di una buon argomento per quella risposta o di una buona critica.
Un discorso anormale è quel che ha luogo quando uno entra nel discorso. ignorando queste convenzioni o avendole messe da parte.
*Episteme* è il prodotto del discorso normale […]
Il prodotto del discorso anormale può essere qualsiasi, dal *non sense* alla rivoluzione scientifica, e non c’è nessuna disciplina in grado di descriverlo, proprio come non c’è disciplina che si possa dedicare allo studio dell’imprevedile o della “creatività”.
RICHARD RORTY, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani 1986, pag.243.
Abbiamo un duocorno: il cogito che cerca di ingrigliare il fenomeno e il fenomeno -estetico prima di tutto, oggi lo dimentichiamo- che si manifesta induttivamente e per via di senso.
A livello di cogito, mi ritengo soddisfatto nell’apprendere ipotesi di lettura dei fatti testuali e loro catalogazione, secondo i diversi punti di vista dei vari studiosi (qui cortellessa e donnarumma). Sara’ mia briga verificarli o falsificarli, come in un normale procedimento sperimentale.
A livello di fenomeno, quindi dell’opera letteraria, il cogito non puo’ che intercettare una parziale fetta del totale messo in gioco dal testo stesso. La letteratura “accrescitiva” del nostro totale vivente, soggettivamente elencata (come “libri che mi hanno cambiato la vita”) cozza quindi con i libri di altri totali viventi, che si sentiranno accresciuti (o non toccati, o diminuiti) dai libri che noi riteniamo fondamentali.
Tema: sviluppino gli intervenuti (smaniosi) commentanti e i candidati (guardiani) topicanti le similarita’ cogitanti che tutti possiamo arrivare a concordare e le differenze (insanabili?) fenomeniche che non faranno mai di un libro un oggetto chiuso interpretabile da tutti i lettori allo stesso modo.
Avete qualche luna di tempo. Incarico il soldato qui sopra di tracciare una linea di creta rossa sul masso totemico per ogni nuovo sorgere del sole e una linea nera per ogni nuova luna. Buon lavoro!
Scusate… visto che vengo chiamato in causa. Dedurre dalle mie risposte su “Allegoria” che mi disinteresso completamente della realtà significa veramente metterle a testa in giù. Contestavo l’incidenza immediata della letteratura nella realtà, che è una cosa molto diversa. Ho detto (in soldoni) che Thomas Mann non ha salvato la Germania dal nazismo e Pasolini non ha impedito il cinquantennio di governo democristiano ma che – senza lo specchio dell’arte, anche di quella letteraria – l’umanità sarebbe completamente persa dopo disastri quali Hiroshima o i campi di concentramento. Il che, è una cosa molto diversa e un pochettino più complessa.
Che la letteratura si nutra della realtà che la circonda – e che dunque gli scrittori facciano lo stesso – lo davo invece per scontato e lo ribadivo a più riprese. Mi dispiace che sia tutto semplificato e banalizzato e piegato alle esigenze del dibattito in questo modo. Davvero. Un saluto a tutti,
Nicola
La realtà non esiste.
@ Gilda Policastro
Mi pare di capire dunque, dalla tua sintesi (che però, vedo, non tutti accettano; ma di ciò ad altro post), che il realismo (anzi le forme-di-realismo-al-plurale) oggetto della militante proposta di Allegoria 57 sia una specie di “realismo della volontà”. Le Weltanschauung, e di conseguenza le poetiche, dei narratori interrogati (in tal senso ben scelti, fatta per il momento parentesi del dubbio criterio macroeditoriale altrove già contestato: perché tutti in possesso di poetiche, vivavvio; se non altro questo babau del postmodernismo “debolista” all’italiana – l’odio forsennato per l’istituto della poetica, demonizzato come ideologico, già allora termine impiegato in guisa d’insulto si noti, ai tempi della Parola innamorata – appare un ricordo del passato) sono atrocemente debitrici del tempo atrocemente postmoderno in cui essi si sono formati (e in cui magari si sono formati pure i successivi intervenuti sullo “Specchio”), però poi l’esempio concreto delle opere, questo sì è Serio, Realista, Occidentale (un Aldo Nove d’antan, quanto mai profetico, ricordo lanciò lo slogan: “Statale, Immenso, Progressivo”). In sede di poetica Lagioia è nichilista euforico postmodernista, però poi in Occidente per principianti ci racconta la storia, Seria Realista Occidentale, di un precario. Nove è nichilista disforico postmodernista, però poi in Mi chiamo Roberta… ci racconta la storia di addirittura una dozzina di precari (il solito esagerato). Però sto realismo a me appare davvero “della volontà” (cioè ideologico; e spero sia chiaro che per me questo non è un insulto, rispondo così anche a una domanda di Cristina nella discussione precedente). Non solo: è miope misinterpretazione dei testi (come, ribadisco, nel caso citato da Donnarumma di DeLillo), che se i loro autori la pensano e la esprimono nel modo che sappiamo forse dovrebbero consentire una lettura un po’ più profonda, o almeno obliqua, che non li appiattisca sul “realismo”: quanto meno non nel senso del post-postmodernismo con tanta urgenza perseguito (dalla suddetta proposta militante di Allegoria 57). E infatti chi se la sentirebbe di sostenere che il libro di Lagioia sia, essenzialmente, “un romanzo su un precario” come il pollaio industriale ne sta sfornando a dozzine al mese (per non parlare di Virzì e compagni al cinema)? (forma particolarmente fètida, agli occhi di un materialista volgare come – più spesso che non si creda – questo cugino scemo di Citati – si veda la discussione precedente – si compiace di essere, di sfruttamento industriale di filone: dal momento che molti autori specializzatisi in harmony per precary non hanno certo i problemi economici dei loro lettori, loro sì per lo più dramatically precary). E come dimostra la personalità sempre ambivalente e autocontestante di Nove (che dopo Roberta, infatti, non trova di meglio che produrre Maria, riuscendo nell’impresa virtuosistica di far incazzare praticamente tutti), come dici del resto anche tu ricordando l’esperienza visionaria-gesamtkunstwerk di Indeepandance. E allora?
E allora secondo me ha ragione Soldato blu: quel nodo di Gordio che Donnarumma pretende di tagliare, non si lascia tagliare tanto facilmente. Di certo non con una petizione di principio volontaristica (= ideologica). Quel nodo di Gordio è in definitiva – stiamo girando intorno a questo sin dall’inizio di questo dibattito – il doppio legame che si chiama “arte”. Recito il mio, di Credo: “lo stile mi sembra essere, senz’altro, il modo che un autore ha di conoscere le cose. Ogni problema poetico è un problema di conoscenza. Ogni posizione stilistica, o addirittura direi grammaticale, è una posizione gnoseologica” (Gianfranco Contini 1937; ma già che Donnarumma qualche anno fa ridimensionò con furore pure lui). E’ proprio così, ed è così sempre. Aveva naturalmente ragione chi, non mi ricordo più chi fosse, all’inizio dell’altra discussione ci incitava a contrapporre “forma” a “realismo”. Come Donnarumma sa a memoria, dal momento che è devoto di Auerbach, quelle storiche del realismo sono per l’appunto formalizzazioni, e assai codificate come tali. Se così stanno le cose, se così continuano a stare le cose e (temo) così continueranno sempre a stare, è giusto ragionare sul “realismo dell’avanguardia” da sempre predicato da Sanguineti (e dal Butor da te citato; sicché per es. davvero non ho capito l’ostracismo dato a Ottonieri, in passato al contrario abbondantemente ospitato e recensito dall’Allegoria pre-Donnarumma). Ma, mi spingo a dire, bisognerà pure cominciare a ragionare seriamente sul “realismo postmodernista”. Lo ricordavo ieri a proposito di Pynchon; ma non fanno niente di diverso, ciascuno a suo modo, il DeLillo di Libra e Underworld, il Siti della trilogia, il Nove di Roberta e il Lagioia di Occidente (fatte salve tutte le proporzioni del caso). C’è un libro di qualche anno fa che forse è stato un po’ trascurato, nel dibattito teorico (certo nel nostro), Romanzi di Finisterre di Alberto Casadei, che, con qualche forzatura secondo me, ma con notevole precocità, impostava alla fine proprio questo discorso. Il “realismo della derealizzazione” del Pincio dei libri “buoni”, o del Cordelli del Duca di Mantova, si inquadra bene in questo discorso.
Che apparirà fuorviante solo a chi continuerà a contrapporre manicheisticamente “realismo” a “postmodernismo”. Così facendo, in realtà, non si fa altro che prendere per buona la narrazione di sé dei postmodernisti (proprio quelli, cioè, che lyotardianamente ci diffidano sempre sull’attendibilità delle “narrazioni”…), proibendosi di leggerli in una maniera obliqua, magari a contraggenio: ma estremamente più produttiva.
Leggere Calvino nel modo in cui voleva essere letto lui è una trappola: ormai dovrebbe saperlo anche l’ultimo dei dottorandi che affliggono Donnarumma.
uffa, sempre refuso:
aveva ragione chi ci incitava a non contrapporre “forma” a “realismo”
cocncordo in pieno…
@ Soldato Blu
Caro Soldato Blu, con la mia identità “tutta aperta”, direbbe il padre Dante, ho avvertito a un certo punto, perdonerai la simplicitas, il bisogno di un po’ di concretezza, in una discussione un po’ divagante, cui è mancata solo la distinzione kantiana fra fenomeno e noumeno (credo, almeno, oppure devo essermela persa), e poi c’era dentro veramente di tutto. Mi riassumi brevemente di che si stava parlando? Di quali siano i libri buoni e cattivi? Veri o finti? Se un libro cambia la vita e a chi? Marcuse: no, non la cambia. Quello che accade in un libro non crea nessun obbligo (citando a memoria). Comunque mi vorrei astenere il più possibile dal battibecco d’ora in poi, per lasciare la parola ad altri (a proposito, ma tu chi sei?). Mi rallegra molto, ad esempio, aver stimolato a intervenire uno degli scrittori coinvolti nell’inchiesta e totalmente assenti, invece (perlomeno nella loro identità tutta “aperta”), dall’altro dibattito. Ma è ancora poco: iper-realisti di tutto il mondo, ditelo!
@ Nicola Lagioia
A proposito, Nicola, sì, avevo specificato che si trattava di una semplificazione e dunque inevitabilmente di una banalizzazione del tuo pensiero, che nell’intervista hai espresso in modo molto più articolato e argomentato, per chi avesse (ancora) voglia di leggerla. Poi, se della neoavanguardia pensi che sia una specie di via d’accesso privilegiata al potere (non unico peraltro in Italia), va forse ricordato, tanto perché ci si riferiva alla realtà nei termini di “impegno”, che Balestrini parlava del movimento operaio quando io te e Saviano eravamo in fasce o in mente Dei, così come l’11 settembre. Valeva la pena ribadirlo, secondo me.
@ Andrea Cortellessa
Non so perché si è fatto finta di non comprendere, in tutta la discussione che ne è derivata, che la tesi di fondo di Allegoria, condividibile o meno che fosse, non questionava sul rapporto tra il Reale, sia pur messo tra tutte le nabokoviane virgolette che si vogliono, e le sue illimitate possibilità di rappresentazione, dal risotto gaddiano al volapùk per i morti di Manganelli. Allegoria, perlomeno nella tesi iniziale, provava a scommettere su una nuova narrativa non più avvitata su se stessa come nella deprecata postmodernità, da Se una notte in poi, ma fortemente motivata a essere nel presente, a interrogarsi su di esso (posso citare Luperini, o a qualcuno viene l’orticaria? “quando ti cadono le bombe sulla testa, è difficile pensare che non esistano fatti ma solo interpretazioni”).
Il problema di Allegoria era questo: non canonizzare il già canonico (ancora siamo a Pasolini contro Calvino? spero di no…), ma scommettere su un cambiamento. Questa scommessa in parte l’abbiamo persa alla verifica dei fatti, e cioè quando ci viene risposto alle domande sull’influenza della realtà nella narrativa (scusa Nicola, se taglio anche qui con l’accetta): la realtà? quale realtà? chi se ne frega della realtà? Un romanzo è un romanzo riuscito oppure no (e mi interesserebbe a questo punto molto capire da Lagioia, che oltre a scrittore è anche editor, come sceglie i romanzi o gli scrittori, come scommette sui “buoni” romanzi, quali caratteristiche lo fanno “piangere di gioia”. E a te Andrea, che accidenti fosse quella “grazia” di cui parlavi per quei racconti di non ricordo più chi). E il paradosso è che le ragioni della nostra “sconfitta” vanno ricercate (provavo a dirlo nel mio pezzo) proprio nelle scelte se vogliamo commerciali che ci siamo costretti a fare per sondare, citando un titolo del da te esaltato minimum fax, la “qualità dell’aria”. Ubi sunt, ci chiedi giustamente, Arminio, certo, il cui Circo dell’ipocondria (reale? Irreale? Iper-reale?) ho sostenuto sin dall’immediata uscita con una recensione partecipatissima, e Ottonieri, di cui ho già detto, perché no, certo. Perché? A mio modestissimo parere risposte molto più incoraggianti sulla nostra “scommessa” sarebbero arrivate da lì, piuttosto che da Pascale, per il quale il Mondo non esiste, e teniamoci stretto almeno l’ombelico.
Mi piace ricordare qui che Sanguineti, quello che esordisce scrivendo “composte terre in strutturali complessioni sono Palus Putredinis”, cita poi, nello stesso Laborintus, Foscolo e Stalin: “i poeti traggono la qualità dai tempi” e “le condizioni esterne esistono realmente”. Ma questo a Soldato Blu pare che non risolva nulla, che non tagli.
Aspettiamolo, dunque, il Taglio della sua spada, o il colpo decisivo della sua baionetta.
complimenti sul serio a Domenico Pinto, per la stura data a tutto questo vino, novello e non, Viola
Credo che sarebbe cosa buona e utile dire a chiare lettere chi sono questi cattivoni calviniani postmoderni di cui ci siamo liberati (i nomi), anche perché altrimenti è veramente difficile capirvi, tra allusioni e smorfiette.
“…a proposito, ma tu chi sei?” fa rabbrividire.
Simpatia totale a soldato blu
“Quando ti cadono le bombe sulla testa, è difficile pensare che non esistano fatti, ma solo interpretazioni”….: Luperini che non inventa molto mai, citava evidentemente Benjamin.
Ma l’asserzione mi pare agire quanto quello che dice il genio, Manganelli, circa la letteratura: è un sistema che agisce.
E’ per questo che io che sono il massimo poeta italiano ogni tanto (visibilmente o invisibilmente; metaforicamente o fuor di metafora; ma certo realmente) taglio o faccio tagliare la testa a qualcuno. Uno di prossimi sarà proprio Cortellessa.
Se non dovesse capirsi bene la prescrizione (riguardo ai maialini che si ingrassano nel lardo del populismo) mi avvarrò per una volta e per la proscrizione, della facoltà ermeneutica.
Tag uerreotype de la realitad
lato a
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@ elogiodelleccedenza
Per tagliare la testa a qualcuno gliela devi trovare. A te, si farebbe fatica.
@ effeffe
Realitad de effeffe
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lato b
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L’unico autore vivente tra quelli citati da effeffe è Vitaliano Trevisan.
@ WTF
caro WTF, che ne pensi de ”L’incanto del lotto 49”? A me pare uno dei capolavori assoluti del Novecento, ma alcuni di noi “allegoreuti” (viva il pluralismo!) pensavano che costruire un romanzo su un complotto che è piuttosto una paranoia fosse poco militante, e che solo grazie ai Franzen e ai Roth si fosse tornati a parlare di famiglia, fabbrica, società etc., senza giochi metaletterari o intertestuali, bensì nei modi della grande tradizione del realismo (ossia attraverso la rappresentazione delle contraddizioni materiali), sia pur corretta dal soggettivismo modernista. Ho già chiarito che questa posizione non ci vedeva (noi redattori di Allegoria, intendo, ma anche solo noi curatori dell’inchiesta: io, Donnarumma e Taviani) compattamente allineati, e per quel che mi riguarda non ci siamo “liberati” proprio per niente dell’ “ilare cinismo” postmoderno, se Scurati (su Specchio + nelle vesti di critico, ma poi, come sappiamo, anche e soprattutto scrittore) le bombe su Bagdad se le guardava con le birre in mano, lui-critico, e quando scrive, lui-scrittore, racconta ossessivamente delle cinque giornate di Milano. Il trauma è altrove, certo, ci spiegava, sempre su Specchio+, Giglioli. Ma siamo sicuri sia proprio lì, nelle cinque giornate di Milano, il trauma dell’oggi? Non siamo, ancora e ancora, a un uso postmoderno, appunto, ma anche solo post-echiano (da Nome della rosa, cioè) del romanzo storico (che tra l’altro “tira” di più in termini di vendite) inzeppato di citazioni e di altra letteratura?
Allegoria dal canto suo ha dedicato due dossier di seguito a Saviano e Littell, più difficilmente canonizzerà ”Woobinda” e annessi e connessi (i narratori fine anni Ottanta/ Novanta: bisogna fare tutti i nomi, proprio tutti?): troppo cinici, troppo ilari, troppo cannibali, troppo…reali?
Forse il problema è proprio quello di ragionare sempre in termini di “superamento” (il ritorno alla realtà che “supera”, azzerandolo o quasi, il postmoderno). Che ne pensate, Cortellessa, Donnarumma? Troppo comodo? Troppo ecumenico? E se Hegel, però, fosse morto davvero?
@ Niky-lismo
(rabbrividisci così poco esposto? mi scuso comunque se ho violato la netiquette)
@ Andrea Cortellessa
Questi giochi mi hanno fatto venire in mente la poesia sonora (ascoltavo in rete i Poemi della Vicinelli, poco fa): ma nessuno dei poeti vuole intervenire? Nessuno degli artisti? La discussione deve rimanere confinata entro lo specialismo accademico, e recidivante restare la nostra malattia del Romanzo, quella bestia trionfante aborrita dal più volte citato Manganelli? Ri-citazione: “Dimentico che non v’è discorso letterario se non come macchinazione, il romanziere si è via via persuaso che quel che egli faceva aveva qualcosa a che fare col mondo in cui viveva; critici pazienti gli hanno spiegato che, di quel mondo, il romanzo era volta a volta specchio, testimonianza, interpretazione; indotto da queste insinuazioni a sottovalutarsi, il narratore si è coinvolto in un rovinoso compito ideologizzante; non pago del messaggio, ha tentato la visione del mondo”. Giorgio Manganelli, contributo al convegno sul romanzo sperimentale. Ancora Neoavanguardia (per Nicola).
@ Gilda Policastro
Io mi vergogno perché non son Nessuno
(Ulisse volevo dire)
e non riuscire ad accecare un qualche Polifemo
per poi tornare a casa con i remi
I remi a me mi cascan sulla testa
(le tegole volevo dire)
e mi fan veder le stelle
Questa è una parte di uno “scherzo poetico” attorno a cui ruotano gli avvenimenti di un mio “racconto lungo” che, in forma di libro, si trova attualmente in libreria.
Quello precedente, un libro di poesie, pubblicato nel 1985, non si trova più perché, secondo dichiarazioni dell’editore, la tiratura è andata esaurita.
Veniamo al dunque.
Inquadramento storico: quando Balestrini scriveva della classe operaia, e alcuni degli intervenuti ancora non nati, non solo ero amico di Alfonso, che è l’operaio della cui narrazione si nutre “Vogliamo tutto”, ma, con lui, intervenivo alla porta 2 della Fiat.
Andai a Milano a prendere Balestrini e, con due pacchi contenenti il suo libro, lo accompagnai a Torino perchè lo presentasse ai compagni.
Quel libro, né allora né oggi mi piace.
La mia era militanza politica e non mi sono mai sognato che quella fosse
“letteratura” e il mio un impegno culturale.
Iniziai a scrivere per mio conto qualche anno dopo. Per lo più poesia.
I riferimenti diretti erano allora, in una piccola cerchia di cui la maggior parte aveva militato nei gruppi, “OULIPO. La littérature potentielle. Atlas de littérature potentielle”, 2 voll., Editions Gallimard, 1981.
Con la rabbia covata dentro per il calviniano “Se una notte..” e un’isterica furiosa reazione al Perec di “La vita, istruzioni per l’uso” tanto acclamato quanto poco letto o capito, bisticciai a sangue con i miei compagni e mi ritirai.
La mia teoria, allora e oggi? Saper fare i nodi non è sufficiente, bisogna farne tanti sino a completare il tappeto, ma facendo in modo che non si vedano. Alla fine se ne fa uno sbagliato, come in Persia, per non rischiare la perfezione e provocare così l’ira degli dei.
Chi pensa che in letteratura sia importante il virtuosismo può andare a leggersi un romanzo in sala operatoria: si sa che i chirurghi sono i migliori nel fare i nodi.
Per finire. Non credo, Gilda, noi ci si possa mai intedere, e non perché non si possa essere d’accordo su qualcosa. Vedi, tu parli di contrapposizione tra Calvino e Pasolini e poi nomini Sanguineti, mentre io voglio parlare di ciò che mi appassiona: Letteratura e Poesia.
Per me Pasolini non è uno scrittore, ma un giornalista, e per giunta reazionario. Sanguineti – a meno che tu non lo abbia richiamato soltanto come critico – di poeta ha solo il naso. Come me d’altronde.
Se vogliamo poi parlare di letteratura e sperare di sciogliere un nodo e sciogliendolo riuscire a deciderci per qualcosa, allora l’unico nodo è questo: Gadda e Calvino. Io per conto mio l’ho già fatto.
E’ Gadda l’uovo di Colombo.
@ Gilda Policastro
Non entro nel merito della questione, non ne avrei i mezzi (noto en passant che “la militanza” non mi sembra un granché come metro del valore letterario, ché altrimenti l’editoriale di Giordano sul Giornale vale più di tutto Magrelli. Altrettanto en passant, benché più seriamente, noto anche che, secondo me, dal pt di vista “politico”, della “critica all’ideologia”, e quindi credo anche della militanza, dica molto di più il Pynchon del Lotto49 che i pur eccellenti Roth e Franzen). Quello che notavo io è questo: voi “allegoranauti” e loro “cortellessiani” concordate almeno su un punto, ovvero che ci siamo finalmente, salutarmente, liberati nei “nipotini di calvino”, stentarelli epigoni di un postmoderno italico esangue et esausto. Ora, io chiedevo semplicemente di esplicitare chi sarebbero questi autori (italiani, post-calviniani), che portano sulle spalle tutto il peso della negatività, del cattivo postmoderno. Perché altrimenti sembra una fumosa costruzione teorica quando non semplicemente retorica.
Ad esempio: il Calvino di Se una notte, Eco tutto, Scurati in versione Homer Simpson che beve birra spaparanzato sul divano in mutande e canottiera mentre buttano bombe sui poveri negretti. Poi?
@ cortellessa
:-)
tuscé
effeffe
ps
Faldo Fove, Fandrea Fortellessa, Fenjamin, Futor, Frialese, Faniele Figlioli, Fabriele Fedullà, Faudioso, Filda Folicastro, Fiovanna Faviani, Faura Fugno, Feoavanguardia, Ficola Fagioia, Fottonieri, Fincio, Fostmoderno, Fuentin Farantino, Faffaele Fonnarumma, Fanguineti, Faviano, Fcurati, Fitaliano Frevisan
Ho letto il testo di Donnarumma linkato da Pinto, ma non le interviste.
Perciò non so se tra le domande poste agli scrittori ci fosse anche questa:
“Come scegliete i nomi dei vostri personaggi? Avete delle difficoltà a dare nome e cognome ai vostri personaggi, sentite che non potete chiamarli Mario Rossi e Adelina Tumistufi? E se sì, perché?”
Sul nome del personaggio non si bara, non è questione di volontà, ma di necessità.
Se la letteratura fosse considerata un’arte come tutte le altre sarebbe una domanda legittima, dopotutto il nome è il primo dei materiali. E forse gli artisti potrebbero uscire, almeno alcuni, dalle secche dell’astrazione e parlare con maggiore facilità del loro lavoro. Ma purtroppo così non è, c’è la maledetta questione del referente che confonde le acque.
Brava Alcor: è un’idea che mi ha sempre frullato in testa. Scrivere una storia della letteratura italiana (diciamo degli ultimi 50 anni, dai) a partire dai nomi dei personaggi dei romanzi: quante cose si scoprirebbero!
Peccato che i critici letterari e quelli che si appassionano alle loro discussioni frequentino poco la filosofia, in particolare l’estetica.
La definizione dell’arte che mi ha convinto di più è quella di Susan K. Langer (discepola di Cassirer, il suo capolavoro “Sentimento e forma” è tradotto in italiano ma il volume Feltrinelli è introvabile da vent’anni):
“L’arte è uno schema puro d’esperienza”.
Senza dissanguarsi nella disquisizione di categorie post-kantiane, si può parafrasare dicendo che l’arte trasfigura ciò che è sperimentato in uno sperimentabile puro, liberato dagli interessi, dalle idiosincrasie, dagli affanni della Cura quotidiana e dalle premure della Cronaca. La realtà è riconoscibile nell’opera d’arte quanto il polline originario di una margherita o di un papavero da un vasetto di miele Millefiori. Che l’oggetto della narrazione sia la camorra dei casalesi o le ossessioni di una ragazza anoressica, le 5 giornate di Milano o le passioni di un impiegato di concetto, tutto questo è meno importante ai fini del giudizio su un romanzo della sua portata “gnoseologica” che però è tutta nel linguaggio (attenzione, dico linguaggio, non lessico e nemmeno stile), cioè nella costruzione di una forma sperimentabile. L’obiettivo dell’arte non è la diffusione di opinioni sul sociale, ma la catarsi di un lettore. Però, oltre all’opera d’arte e alla sua fruizione, esistono le pressioni della doxa, la difesa o la contestazione dei costumi, le ragioni della politica. Questo fa si che forze storiche concrete possano sposare certe opere letterarie per ragioni non letterarie, e ingenerare in sede critica equivoci come quello annoso del rapporto tra realtà e letteratura. Tornando alla definizione della Langer, la letteratura è scuola di purezza (di sguardo), non d’esperienza e tantomeno di cronaca. Quando si sposta su questo versante, produce opere utili a questa o quell’altra causa, ma letterariamente mediocri. Come Gomorra.
Due piccolossimi commenti [per non rischiare il “ci hai rotto…]
@Alcor
la faccenda dei nomi interessa tantissimo anche me, infatti l’avevo messa in evidenza, a proposito di Calvino e Baricco, in un commento all’articolo di Cortellessa.
@Binaghi
finalmente una sopresa piacevole per i tuoi amici!
Riesci anche tu, come noi, qualche volta, a dimenticarti delle tue ossessioni – le abbiamo tutti – e a comunicare con gli altri.
Con quella “purezza (di sguardo)” tradisci non solo la tua evidente autoscienza, ma anche un’intelligenza pronta di ciò che provocano negli altri le tue esternazioni.
Sai cosa mi ha fatto pensare tutto questo? Che quando parli di Cristo tu voglia pigliarci per il culo.
C’è un refuso non da poco nel mio commento.
Avrei dovuto scrivere Mario Rossi o Adelina Tumistufi.
O, non e.
Quando leggo frasi tipo… Il discorso sulla rappresentazione del reale… Penso subito a Lacan, di cui molti hanno abusato, quando sosteneva che reale è solo ciò che resiste alla simbolizzazione. Trent’anni dopo questi sperano ancora di poter raggiungere il reale attraverso la sua rappresentazione. Teneri.
@ Morgillo
Teneramente le segnalo che il concetto lacaniano di “reale” (in alternativa a quello di “realtà”) è ampiamente tirato in ballo (non mi pare in Allegoria, certo nello Specchio). Un importante critico d’arte statunitense, Hal Foster, ha parlato già nel 1996 di “Ritorno del reale” esattamente in questo senso. (Per questo, fra l’altro, ad alcuni è parsa superficiale e fuori tempo massimo la formula di Allegoria, sebbene ornata di punto interrogativo, di “Ritorno alla realtà”.)
@ Binaghi
Non mi pare proprio che i partecipanti alla discussione prescindano dalle (pressoché) infinite bibliografie filosofiche implicate da un concetto quale “realismo”. Dopo di che, di scuole filosofiche e filosofici presupposti ce ne possono essere anche di assai diversi dai suoi. Non saremo filosofi professionisti, ma di filosofia contemporanea (a partire proprio da Lacan, per esempio, ché tale è la sua) abbiamo masticato abbastanza da convocare ampiamente in dubbio, per dire, il suo postulato che compito dell’arte, nel 2008!, sia “la catarsi di un lettore”. Mio presupposto, le dirò anzi, è quasi il contrario.
Non pretenderà che mi occupi di Allegoria e Specchio? Perché dovrei? Sì, conosco Hal Foster.
Anche se gli preferirei l’omomino fumettista. Quello di Prince Valiant. Mi è sempre piaciuto re Artù… Quando ero piccino ho visto il cartone animato di Prince Valiant su Italia 1 o Canale 4 o Rete 4. Non ricordo.
O.M.O.N.I.M.O
@ Morgillo
“Non pretenderà che mi occupi di Allegoria e Specchio? Perché dovrei?”
Per esempio perché stiamo discutendo a partire da questi testi critici. Liberissimo di non interessarsene, ma allora perché ci viene qui a ricordare l’esistenza di Lacan?
don’t feed the troll!
Perché Lacan è imprescindibbìle quando si discute di certe cose.
@Morgillo e Cortellessa
Se Lacan è un filosofo e per giunta imprescindibile, mi ritiro in buon ordine.
@Soldato Blu
Sai che non ho capito un cazzo di quello che mi vuoi dire?
Prova a parafrasare senza fare l’ironico e il saputo a tutti i costi.
Parto proprio dalla Vicinelli citata da Gilda Policastro. Perché, nell’ascoltarla, provo una grande noia mista a fastidio? Non certo perché, in quel tipo di operazione, il procedimento evita ogni contatto col referente; ma proprio per la sua dinamica interna: timbro vocale, scansione ritmica, primitivismo dell’approccio alla parola … L’ascolto non fa sbocciare in me nessun senso ulteriore. Forse il problema, allora, non è tanto la presenza o meno della realtà, quanto la modalità specifica attraverso cui i segni sono organizzati nell’opera. Il significato di un’opera – la sua valenza qualitativa – è prima di tutto nel modo stesso in cui si presenta, anche se non tutto si risolve nel suo interno. E infatti poi mi chiedo: può un’opera – ogni opera – non lasciare dietro di sé un residuo di realtà? Direi di no, e a maggior ragione se si tratta di un’opera basata sul linguaggio … Anche la poesia sonora della Vicinelli ha una peculiare relazione con la realtà: ad esempio interagendo con il contesto in cui è nata; e racconta a modo suo qualcosa di quello stesso contesto. Se la isolo, potrà anche sembrarmi un’operazione interessante, ricca di sollecitazioni, innovativa; se invece la colgo avvicinandola alla destrutturazione fonica della parola per come realizzata in campo musicale e teatrale, la sua portata diminuisce e anzi, almeno per me, perde ogni sua piacevolezza. Insomma, in un’opera è comunque l’intreccio espressivo a creare i significati, e non la realtà. Allo stesso tempo, però, quello stesso intreccio è parte del mondo reale: in esso si sedimentano i segni del tempo … Un cortocircuito. Ecco, se dovessi trovare una sintesi, direi che l’opera più interessante è quella che problematizza l’impossibilità di rappresentare compiutamente la realtà senza però smettere di tentare di rappresentarla. Per questo anch’io, come la Policastro, preferisco il Sandokan di Balestrini rispetto a Gomorra: perché la realtà è problematizzata a partire dal linguaggio, che è la prima vera essenza di un’opera letteraria.
ng
banalizzando e da signor NESSUNO, (ma in quanto lettore mi sentirò pure autorizzato a prendere posizione, così come soldato blu e tanti altri intervenuti, perfettamentre in grado di rigirare la domanda ai critici )
che non mi sento di appartenere a nessuno dei 2 schieramenti (o 2 e mezzo se quest’ultimo si presenta come una sorta di inevitabile rettifica, una rettifica basata però su premesse fuorvianti:
– non è al quizzone dell’intervista che compete l’assegnazione dello statuto di un’opera, del suo significato, del quoziente di realtà o finzione che racchiude.
– come a dire: beh, dal momento che gli intervistati non hanno risposto correttamente alle domande, forse siamo stati troppo frettolosi nel redigere i canoni (??? ma ho capito bene???)
– forse dovreste proprio rivedere la vostra idea di canone, perché se io sono una che sente tutto il peso della scrittura in questi tempi tristi, per cui dissento da tutto il discorso di Cortellessa sull’onanismo e diventa totalmente irrilevante per me la questione dello stile (un feticcio resta un feticcio, anche se di pregevole fattura)
– devo però rendergli il merito di aver perorato la casa della libertà della scrittura e prima ancora del significante dalla dittatura ideologica e contenutistica
– infine noto un pericoloso e dannoso riduzionismo dei termini realtà-reale come se tutto dovesse ridursi alla cronaca: camorra, precariato, morti bianche, di cui nessuno disconosce l’urgenza, ma la pars destruens è necessaria e NON sufficiente. se l’idea di reale o di realtà che pretendete è qui che si esaurisce, vi rispondo come Giuliani che criticava aspramente, non dico Pasolini, ma addirittura Fortini: “Una poesia così, se cambia la realtà, la cambia soltanto in peggio”
– Sì, certo, Gomorra ha cambiato qualcosa, ma è stato più terrificante che imbarazzante il momento in cui alla domanda di Saviano : “ma voi la vostra terra come ve la immaginate?” ci siamo accorti di non saper rispondere.
– Senza Astolfo, o che ne so il Cyrano degli stati della luna, voi credete si sarebbe mai verificato allunaggio?
-l’arte ha il compito non secondario di precorrere, se la tristezza dei tempi è tale da far arrogare alla critica il diritto di veto, proprio quando c’è più che mai bisogno del contrario, direi che stavolta siamo davvero spacciati.
-se c’è qualcosa che scarseggia alla generazione 35-45 non è certo il pricipio di realtà, piuttosto quello d’immaginazione, siamo nati già vecchi e voi ci vorreste ancora più incanutiti?
in verità ho 30 anni, non sono scrittore affermato, ma poeta dilettante, ho usato “ci” nell’ultima domanda perché come al solito mi son fatta prendere la mano
Io non vedo tutta questa antinomia fra il realismo e il postmodernismo, a meno che se ne prendano in esame solo le caricature: appunto i reportage da “safari della realtà” e il carnevale dell’interiorità feticizzata. In linea di principio mi dichiaro un amante del realismo, e fra una saga fantasy (o un romanzo ucronico tipo avoledo o wu ming4) e l’autobiografia di uno sconosciuto non ho dubbi, scelgo la seconda, pur sapendo che solo pochissimi ombelichi vengono col buco. Al contempo non amo l’instant novel sul precariato (o sulla scuola e quant’altro detti l’agenda di matrix o porta a porta), perché quello per me è “il corpo morto della realtà, il residuo fecale della storia”. Non nego che molti di questi libri siano interessanti, scritti bene, con una notevole vivacità intellettuale, ma quasi sempre gli manca il passo giusto. Andrea Bajani, per esempio, a mio avviso è più un *creativo* – nella migliore accezione pubblicitaria del termine – nel senso che il suo immaginario poetico si estrinseca tutto in un’effervescenza da trouvaille, in una certa abilità linguistica, in una certa brillantezza, ma non ha grande spessore e potenza espressiva. La sua poiesi è fiacca, il suo *mondo* letterario è una manipolazione o una deformazione grottesca della realtà, sempre in qualche modo parassitario e mai davvero concorrenziale rispetto a questa, come può esserlo invece l’inverosimile mondo di Giorgio Vasta (parlo de “Il tempo materiale”). Dice bene Cortellessa: è sullo stile che si gioca tutto, è col linguaggio che si costruisce un mondo altro, nella nostalgia di un al di là della parola, di una redenzione dal linguaggio senza altro te absolvo che il linguaggio stesso, che costituisce in fondo il purgatorio interminabile di ogni scrittore che si rispetti.
@ Sergio Garufi
Condivido pressoché tutto, e non mi stupisco. Solo sei ingeneroso con Bajani. Non ho visto l’ultimo libro sulla scuola, quelli precedenti sul precariato avevano le caratteristiche che dici tu. Ma in mezzo c’è stato Se consideri le colpe che invece è il libro di uno scrittore vero. Posso non condividere la sua poetica (peraltro assai brillantemente esposta sullo Specchio), ma Se consideri le colpe è un signor libro. Anzi, funge piuttosto bene da esempio di realismo “buono”, cioè tutt’altro che “instant”. Volendo, uno potrebbe dire che è uno spaccato sociologicamente interessante (e dunque letterariamente nullo) di un fenomeno come l’invasione dei capitalisti italiani in un paese, come la Romania, che riceve di rimando un’immagine dell’Italia deformata e orribile; un problema che è sineddoche di tutte le cotali asimmetrie fra i vari Nord (o Ovest) del mondo e i corrispettivi Sud (o Est). Ma questa è solo la cornice. Dentro c’è un mondo: emotivo, psicologico, in primo luogo linguistico. Ergo: un libro. Ergo: un autore.
@ Soldato Blu
devi dirle, mi dici, le tue perplessità: ma sono troppo perplesso, oggi, per dirle:
e mi rendi perplesso proprio tu, guarda, con le tue associazioni coatte:
perché la sentinella mi ricorda Gramsci, a me, che sono un uomo da Quaderni
[…]
sei un vecchio filosofo nuovo, tu, con i tuoi anni,
con la tua esperienza, con la tua tanta coscienza:
e allora, caro Soldato, passo
[e chiudo:
Edoardo Sanguineti, critico ma soprattutto poeta, non se ne avrà a male se lo cito leggermente modificato, peraltro “col gesto tipico” (citandolo ancora) “di colui a cui cascano le braccia”. Mi chiedo di cosa si debba parlare, qui, se non di scrittori, di libri, di ideologie (nel senso di “visioni del mondo”), di conflitti, anche, e soprattutto di strumenti, di codici. Mi sento a disagio tanto con le pagelle, i giudizi impressionistici, il “mi piace-non mi piace”, “mi ha cambiato la vita-mi ha cambiato l’adolescenza-mi ha cambiato questo pomeriggio”, quanto con tutte le maiuscole del caso, LETTERATURA (nientemeno!) e REALTà comprese.
@ Maria(v)
non sai “se hai capito bene”? no, non credo. nel contesto cui ti riferisci non parlavo affatto di canone, quanto piuttosto di campo d’indagine, osservatorio e caso mai di “scommessa” su una tendenza, su un cambiamento che ci pareva in atto. ma in effetti nemmeno io so se ho “capito bene” te: in caso contrario, ce ne faremo una ragione.
Quando leggo di presunte differenze tra postmodernismo e realismo metto mano – subito – alla pistola.
Cortellessa condivide pressoché tutto di Garufi e non si stupisce.
La vita riserva a me deliziosi stupori.
@ Alcor
non mi stupisco perché assai spesso, in passato, ho condiviso del Garufi giudizi & opinioni.
Legittimissimissimo.
E analizzato il commento di Garufi ti do ragione:–)
Garufi non vede antinomia tra realismo e postmodernismo, poi però preferisce il realismo, che diventa sinonimo di autobiografia. I libri che non gli piacciono, non gli piacciono perché non hanno il passo giusto, (una nuova categoria critica) e dà ragione a Cortellessa perché è sullo stile che si gioca tutto, stile che non abita però nei libri, come credevo io, ma nei generi (autobiografie, magari di uno sconosciuto e comunque scritta, a questo punto, ma non ad esempio reportages).
Per fortuna c’è il linguaggio, che costruisce un mondo altro, ma non in Bajani, (che ovviamente non leggerò, benché Cortellessa lo difenda perché, come si vedrà sotto, porto doni al Garufi-pensiero) e dove lo costruisce? nella nostalgia di un al di là della parola (silenzio? mimica?), sorella (mi par di aver capito perché la sintassi si eleva a vette troppo alte per me) della sua redenzione da quello stesso linguaggio, che però è altro, e si autoassolve – essendo se stesso e altro – dall’essere purgatorio, o forse anche accetta e gode dell’essere purgatorio.
Cortellessa concorda.
E Alcor? Plaude:-)
G – Noi giapponesi non restiamo né sorpresi né urtati, quando un colloquio lascia quello che ne costituisce il vero termine intenzionale nell’indeterminato, anzi lo riconduce, inviolato, nell’indefinibile.
I – Questo è proprio, ritengo, di ogni colloquio tra persone che pensano, il quale possa dirsi felicemente riuscito. E’ ovvio che quell’indefinibile non solo non sfugge, ma viene nel corso del colloqio sempre più radiosamente dispiegando la sua forza concentrante.
Grosso emoticon, e non vogliatemene troppo.
non ho capito!
neanch’io:–)
Quanti danni fa la cattiva filosofia. Quella che porta a rimuovere termini come “trascendenza” (non parlo di religione neh, sciur Cortellessa), impedendosi in questo modo di dar conto dello scarto che separa non tanto realtà e linguaggio (ciò che resiste alla simbolizzazione è semplicemente inconcepibile), ma linguaggio e poesia.
Non Lacan (che ha elaborato una teoria del narcisismo primario, gonfiata alla francese in metafisica del Dire, come quella rana che voleva diventare un bue) ma il buon Heidegger, di cui Alcor cita se non sbaglio da “In cammino verso il linguaggio”, ne sapeva qualcosa. Per esempio quando sosteneva che la realtà è sempre frammento (mezzo, pragmata) e non si dà mondo se non nell’Opera d’Arte.
@ Binaghi
Se non parli di religione, quello che tu chiami “trascedenza” oggi viene definito “emergenza”.
Il banale tutto che è più delle parti che lo compongono.
E che non “trascende” proprio nulla.
Come un kit di montaggio di un frullatore dell’Ikea.
Solo dopo montato frulla.
Prima si trattava, al più, di motorino elettrico e rotelle.
Soldato Blu, confondi totalità con somma.
La trascendenza è del conoscere rispetto all’opinare, della forma rispetto al segmento, dell’opera rispetto al fenomeno. Solo che in un mondo interamente risolto nell’orizzontale, di tutto questo non si può dar conto. Questa discussione su realtà e letteratura, è più importante di quel che sembri. Se affrontata con una certa onestà intellettuale, rivela l’insufficienza non di questa o quell’altra poetica, ma di un’intera cultura. Quella dell’immanenza, appunto. Dove sono possibili le gradazioni, ma non lo scarto qualitativo. E dove ci si affanna a distinguere tra arte e artigianato senza più avere le categorie per farlo.
Heidegger era una truffa. Punto.
Luciano Parinetto, in “Gettare Heidegger” (Mimesis, 2002), l’ha spiegato ottimamente. A un passo dal 2009 citarlo ancora come oracolo mi pare davvero ancora più anacronistico di questa discussione para-crociana (con tanto che persino Croce aveva più numeri del tedesco coi baffetti, a mio modesto avviso).
@Biondillo
Heidegger era una truffa. Punto.
Questo si che è parlare da oracolo, Gianni. E se ce l’hai con me, guarda che non è Heidegger che m’interessa, ma quello che definisco trascendenza della poesia rispetto alla mimesis.
Comunque, se Heidegger era una truffa, è una truffa che è finita sui manuali di storia della filosofia. Per Parinetto non credo ci sia speranza.
Biondillo, non vorrei deluderti, ché ti vedo già in armi, ma qui la mia citazione aveva uno scopo parodistico.
Detto questo, io non ho letto Parinetto e non ho idea di chi sia, ma In cammino verso il linguaggio lo ho letto e riletto, tu non so.
Quanto a Lacan, ammetto di aver letto davvero solo La cosa Freudiana e in particolare il seminario sulla lettera rubata, e per di più parecchi anni fa, perciò non so cosa dire.
Definire Heidegger anacronistico è come dire che è anacronistico il Palladio.
E vero è al tempo stesso è falso, anche se la parola esatta sarebbe un’altra.
E adesso, per quanto mi riguarda, vado a vedere chi vince e incrocio le dita.
Valterone, non posso avercela con te, lo sai che ti voglio bene. E, Alcor, non mi deludi affatto. Non mi deludi mai (tranne quando dici cose tipo: “io l’ho letto e riletto, tu non so.” Che caduta di stile!) ;-)
E’ che con Heidegger (anzi: diciamo con gli heideggeriani) ho lottato per anni, poi alla fine ho vinto io. Quando arrivò il testo postumo di Parinetto (straordinario filosofo davvero così poco conosciuto) mi parve addirittura liberatorio.
Insisto: Heidegger (per me) era una truffa (ma non solo per me: http://www.carmillaonline.com/archives/2008/09/002785.html). E per quanto, invece, Palladio fosse un genio, pensare di applicare i suoi canoni estetici all’architettura contemporanea è degno solo di Carlo d’Inghilterra. Cioè anacronistico.
Vince Mc Cain su Donnarumma all’assalto. Do Binaghi vincente 3 a 1 su Gilda Policastro. Cortellessa piazzato (facile il pronostico). Garufi stavolta di un’incollatura su Forlani. Morgillo ritirato.
Io l’ho letto e mi è anche utile in rete per scrivere commenti incomprensibili, tu non so, lo hai letto?
Certo che se hai lottato con Heidegger e hai vinto, letto o non letto, taccio e mi inchino.
@ gianni biondillo
Confesso che giunti ormai ad Heidegger, “Valterone”, Carlo d’Inghilterra e Obama, non mi raccapezzo più. Mi limito a omaggiare, data anche l’ora tarda che tutto consente, i miei commentatori più “agguerriti”.
Ballata di Pólemos
Al nodo s’è ritorto poveretto
cercando lame per tagliarlo netto
(s’è capito che parlo del soldato
con pronta spada subito immolato
alla causa della Letteratura
ch’averlo perso è proprio una jattura):
A quel punto interviene Nic. Lagioia
con argomenti un po’ venuti a noia:
Pasolini non ha impedito niente,
d’accordo, ma ti parla del presente,
se soldato gli dà del “reazionario”
è per il suo reale visionario:
che prima di Saviano fu Petrolio
a dire “io so i nomi dell’imbroglio”
ma niente si capisce se si mischia
ogni discorso con destra e sinistra:
in Salò si mangiavano escrementi
se realisti capisco che spaventi:
meno male che arriva Cortellessa
vietando a polemós di esser la stessa
che da mill’anni parla di Reale
e di quello che gli si può negare:
quel che è reale se non è ottimista
gli pare zdanovista, disfattista:
piace la soluzione libertaria
a chi vuole abitare in mezzo all’aria:
libertà innanzitutto di celarsi,
per andar predicando la catarsi
o Lacan, col reale ch’è irreale
Heidegger e il frammento funzionale:
infine mi ribello o mi rilasso?
La rete, il blog: disbroglio e grande ammasso.
(A margine, chiamato con discrezione in causa, l’Ottonieri timidamente interviene). – Vedo che siete andati un bel po’ avanti, seppure tra gli inevitabili (per ogni blog) sciami di ricorrenze. Forse però non s’è tornato abbastanza (non è possibile forse tornarvi mai abbastanza…) sulla scabrosa prospettiva, reintrodotta nell’intervento di Gilda, di un “realismo radicale”; che passa per la cruna d’un processo concreto e anzi quasi creaturale, come è il tragitto della formalizzazione: lì, dove si forgia la realtà, metastabile, di un testo.
Si tratta di una questione credo cruciale, e che dovrebbe essere ovvia, per chiunque elabori scritture; e persino anteriore, rispetto a quella che innegabilmente è la condizione sola del rappresentare verbalmente (ossia la voce, lo stile).
Il problema, sempre assillante per chi (veramente) scriva, è, non quello di porsi fuori dal reale, da un punto d’osservazione che provi a discernere o descrivere un’oggettività che, di fatto, resta aliena e irrappresentabile; ma invece, di riuscire a posizionare il linguaggio sufficientemente (adeguatamente) “dentro”. Per poterlo smembrare e fondere ex-novo, come in tempo-reale: e cioè alla stessa altezza di un’esteriorità sempre altra, che non può essere replicata mai, e non può darsi, se non come evento.
Raccontare, è vero, ossia ridurre l’evento ad atto verbale, è pur sempre provare a render presente ciò che è di per sé l’irrappresentabile.
Eppure, se si utilizza la verbalità per tutt’al più (provare a) riportare l’oggetto, si opta per una documentazione (più ancora che di documentarismo, che è “forma” spesso ben radicale), la quale risulterà utile forse in chiave testimoniale, ma inerte, e di fatto muta, se incapace di innervarsi e prendere vita a sé, rendendosi autonoma persino da quel dato, l’oggettività che la giustifica. Com-prendere l’oggetto (e tantopiù se integrato dell’alone, alea fantasmatica, che lo avvolge), vuol dire piuttosto reinventarne le condizioni, in tempi suoni sintassi capaci di ricostituirlo, cioè restituirlo “formato” al modo che di per sé non avrebbe potuto mai (la realtà, non meno del Reale, è un informe). E tantopiù, se nel testo quel che si “restituisce” è proprio la natura (dicevo) irrappresentabile, che pervade l’oggetto; l’ambiguità del vivente, la sua fuggevolezza.
Un realismo “radicale”, può voler dire allora provare a situarsi alla radice, indicibile, refrattaria alla simbolizzazione, del reale o anche della pura sfera dell’oggettualità; e, trovato quel punto, non semplicemente stilizzare: ma, assai più Elementarmente, “formare”. (Che forse, pur in catàbasi, o amniotica natazione nel guazzo della materia, è ancora una forma di trascendenza).
OBAMA
Meno male che c’è chi se la vince
con la pelle ch’è nera, e che dice
non la verità certo, ma quel che piace
convince (si contano a milioni)
che il solo vero è quello che lui dice
L’impero ora è nelle sue, le mani
un poco di speranza per domani
Noi sudditi, noi soldati perchè al soldo
di qualcuno per sbarcare il giorno
sappiamo invece che la realtà, ch’è ingrata
non cambierà certo in un’unica giornata
Ancora abbiamo bisogno di due cose
la “conoscenza” e l'”edificazione”
stabilito che con dio si edificano prigioni,
lager, nevrosi ed ossessioni
per avere un momento di respiro
ci affidiamo a chi ci sembra vivo
chi vede un mondo un po’ diverso
(lo stesso che vediamo noi, ma per l’altro verso)
ci affidamo allora alla sua vista
come se portassimo gli occhiali
bene a male li vediamo meglio
con gli occhi nostri, lo sguardo sveglio
Ma è tutta fantasia (Dewey) come sempre
che ci concede solo di prendere partito
per un mondo di fantasia che sentiamo nostro
E’ vero. Tanto reale, però, quanto l’uomo nero
@ gilda
che parlava di “scommessa”, ricordo:
“[…]
Ma ciò che distingue l’uomo è la scommessa
ecco una frase inventata dalle élites, in ogni modo è vero che qualcuno
scommette di non morire.
ci vuole orgoglio: credere
che il proprio lavoro la pena non se stessi ma il proprio modello sia utile
agli altri; fiducia: che la storia
paghi il sabato; eccetera: e il bello è che di questa scommessa
l’unico a non avere le prove se l’opera gli sopravviva magari di una sola luna
è chi ha scommesso, che muore…..
(da lezione di fisica e fecaloro
Elio Pagliarani)
@ Ottonieri
Mi trova concorde, quello che dici, Ottonieri. Del resto già nel tuo intervento su Specchio+, che consiglio a tutti di leggere, avevi posto la questione della “creazione” e della “forma” che sono esse stesse “reali”, com’è ovvio magari molto di più nelle arti figurative. E il linguaggio, lo “stile”, in quella torsione spitzeriana dal già noto, è il modo in cui si dà, concretamente, questa creazione, ma anche il modo in cui il la “forma” (prendiamo il tuo ultimo libro ad esempio, che qui viene a proposito) si “sforma” (era un romanzo? era un videogame su carta? era un ipertesto? si leggeva dall’inizio alla fine? si attraversava?) per rappresentare, sì, ma, soprattutto, per mettere in crisi, per forare (avrei voluto scrivere forzare, ma quella realtà più reale del reale che è il correttore di word ha scritto per me “forare”, che forse è addirittura più adatto).
Ritornavo alla neovanguardia perché è leggendo “Laborintus” che quanto dici mi si è reso materialmente evidente: quelle “composte terre in strutturali complessioni” non sono l’ “ermo colle” leopardiano, ma non sono più e non sono meno di quello, creazione, rappresentazione, linguaggio, sabotaggio, realtà, simbolismo, visionarietà, torsione, messa in crisi. La crisi è l’altro concetto cruciale di quella stagione, secondo me. Insieme al sabotaggio. Sanguineti è non solo critico, come diceva qualcuno qui dentro, ma scrittore pieno innanzitutto perché ha una voce, una lingua, uno stile (pure se dice in un suo verso di non averlo). Tra gli scrittori italiani di oggi (visto che qualcun altro evocava lo spettro del “canone”) io questa voce la sento poche volte, ti confesso. L’ho sentita nello straniamento della voce bambina di Nove, in “Woobinda”, nella “Balena”, la sento nel tuo “Ipertrofico”, la sento nel “Circo” di Arminio e nei “Passi” di Trevisan (i folli), la risento in Pincio (il fuorilegge). Quando dicevo che alla generazione dei trentacinque-quaranticinquenni mancano spazi di confronto in cui parlarsi e scannarsi, è perché se leggo “Il romanzo sperimentale” post-convegno del Gruppo 63, ci trovo un progetto comune, o meglio un’idea comune ma tantissimi modi diversi di declinarla (vedi il Pagliarani che mi viene ritorto contro, mentre scrivo questo post…). L’idea comune è proprio che la Letteratura come tale, con tutta la sacralità che le vuole conservare in questa discussione Soldato Blu, non ha nessun senso, non (r)esiste, è destinata fatalmente a soccombere ad altre forme più “vitali” e poi però quanto più “virtuali” di messa in relazione (profetici sia Sanguineti che Pasolini, in questo, cercavo di dirlo nella mia notturna spero non troppo folle esternazione in versi, anche stavolta pensando alla “Polemica” proprio tra Pasolini e Sanguineti, appunto in versi, su “Officina”). Non per caso tu vieni da una stagione che da quel movimento, dalla neoavanguardia, appunto, traeva i modi di incisione-perforazione (non voglio dire di intervento), nel presente (non voglio dire nella realtà o nel reale). E trovavo quasi paradossale, nell’ottica allegorica da cui partivo, che questo contributo alla “modificazione” del reale nel linguaggio venisse dai fautori della forma o dello stile e che invece quelli che avrebbero dovuto essere i paladini dell’impegno, per la loro adesione ai temi sociali, se ne siano riparati come dalla peste. Era questo, e spero di averlo spiegato meglio adesso a maria(v), quello che intendevo. Ma poi non c’era un intento di canonizzazione, nell’inchiesta di Allegoria, perché altrimenti tu non saresti potuto mancare. Nelle antologie del 3000 scommetto che tu ci sarai, e non con molti altri presenti (o fantasmi evocati) in questa discussione.
Un altro punto, mi accorgo ora, che nessuno ha toccato, è il montaggio. Lo stile, la lingua, d’accordo. Ma il montaggio, vedi ancora Sanguineti, ha rivoluzionato le possibilità della rappresentazione. E ti chiedo se secondo te c’è qualcuno in Letteratura (chiedo anche a Soldato Blu, magari), che usa il montaggio ad esempio come Iñarritu, con funzione “realmente” scardinante e perforatrice. Il tuo “Fucino” si attraversa, dicevamo, e dunque il montaggio, il “taglio” finale imposto d’autorità dal farsi comunque libro, oggetto chiuso (pur con tutta l’apertura del suo sformarsi all’interno) vi è forse meno decisivo, alla fine?
@ maria (v)
“scommetto”, per la mia antologizzazione profetica di Ottonieri andava virgolettato, naturalmente
@ng
non ho ancora risposto al tuo dissenso su Vicinelli. ma sulla poesia “sonora” e “orale” rimanderei senz’altro a Lello Voce, in particolare a un’intervista che si trova nel dvd allegato al suo ultimo libro, “L’esercizio della lingua”, appena uscito per Le Lettere.
Gilda
prima di chiudere definitivamente con lei, vorrei farle notare
che liquida tutto con una faciloneria, spesso, a dir poco imbarazzante.
non per ng, che sa (essendo come me co-redattore di Absolute), ma per quanti leggono il suo ultimo commento:
-per la Poesia “Sonora” si consiglia la lettura di Giovanni Fontana “La voce in movimento”
-quanto al riferimento a Voce, beh bisognerebbe citarlo in tutto, dal momento che c’è un intero repertorio critico Baldusiano da rispolverare a monte della discussione, ma che glielo dico a fare…
@maria (v)
Faciloneria: atteggiamento o comportamento eccessivamente confidente e ottimistico che denota superficialità o scarsa preparazione.
Ottimista è la parola giusta. A pensare di poter dialogare con lei.
Chiudo notando come la mia superficialità e la mia scarsa preparazione si siano sempre e comunque avvalse in questa discussione di concetti e di categorie critiche. I distributori automatici di patenti, giudizi liquidatori ed etichette (facciamo insulti?) stanno tutti dalla sua parte: di chi si nasconde pavidamente dietro una maschera, mentre i “faciloni”, guarda un po’, si mettono in discussione, alla lettera, tutti esposti e a disposizione di qualunque confronto-verifica.
“ma che glielo dico a fare”.
OT (per Policastro)
tutti gli “anonimi” qui sono commentatori storici di NI, se pure non si sa il nome che usano nell’altra vita, la loro voce è coerente e sono riconoscibili, non ho visto troll (per i quali tra altro ho una debolezza) in questo thread.
maria (v) del resto dice chiaramente chi è.
Cosa sia una discussione in rete, quali siano i suoi limiti e i suoi pregi lo dice bene Inglese a Donnarumma sotto il suo post:
“credo che le discussioni che i blog inneschino sopportino, per la forma e il mezzo in cui avvengono, un grado di complessità ridotta e di grande dispersione; ma hanno alcuni vantaggi: franca parola (che non è la derisione sistematica dei “leoni di tastiera”) e tempestività;”
L’anonimato può essere ignobile, quando è usato a fini ignobili o semplicemente squallidi, ma può rispondere a esigenze diverse e varie.
La parola franca sotto pseudonimo non è uguale a vigliaccheria.
Il mio invito è dire quel che si ha da dire senza preoccuparsi delle maschere.
@ ng
ecco: ORA che verifico (appunto) su “absolute”, come solo l’indizio di maria (v) mi permette di fare, capisco che non c’è certo bisogno di rimandarti all’ “Esercizio”. né forse ad alcunché, sull’ “oratura”, visto che mi pare ci sia una tua recensione a Carmelo Bene, nel sito.
Maria (v), viceversa, non solo da ciò che scrivevo in risposta a Ottonieri, ma dalla mia identità tutta aperta, avrebbe dovuto altresì evitare di rimandarmi a una rivista che ho 1) letto, 2)studiato, 3)presentato, 4)recensito. noi faciloni siamo così. ma che glielo diciamo a fare.
E anche questo tono un po’ intimidatorio è un prodotto della rete, in realtà volevo esere spicciativa.
@Alcor
da neofita del blog, non ne discutevo certo le regole e le convenzioni. mi limitavo a osservare come spesso il nick dia facoltà a chi vi si cela di attribuire un giudizio di merito o un voto di condotta agli interlocutori, cosa che non trovo così di frequente nei commenti di chi si espone direttamente con nome e cognome, e che argomenta sia pur a volte con toni virulenti comunque delle idee critiche. donnarumma, cortellessa, io e altri ci siamo confrontati sulla questione del Ritorno alla realtà da punti di vista talvolta opposti e da prospettive diverse. di solito gli interventi che ho letto, quando sono firmati per esteso, partono dalla discussione di un’idea, e quelli anonimi (con poche eccezioni, a partire da te) da un giudizio personale. questo, semplicemente, notavo. non la legittimità o meno del nick, ma la possibilità di discutere, dissentire, o anche ignorarsi, ma senza dover esordire ogni volta con un giudizio o una pagellina. quelle mi piacerebbero per i calciatori, se mi piacesse il calcio. qui mi aspettavo di trovare, certo, idee diverse, livelli distinti, piani che si intersecassero più o meno, ma non, ogni volta che si apre un commento anonimo, un esordio del tipo “tizio è così, caio e cosà”, tanto più scorretto quanto più si è protetti da un’identità celata. questo intendevo.
@ Alcor
per la saga del refuso “caio è cosà”, of course.
volendo, anche “anonimo” tra virgolette.
@Alcor
di refuso in refuso: sagra. il blog logora chi non ce l’ha.
Policastro la smetta, per pieta’… e se non di lei, almeno di noi leones. Non stiamo parlando di astrofisica probabilistica in spazio novedimensionale o di reattori nucleari a gas di quarta generazione, sa? Ha detto molto, moltissimo, ma non s’e’ capito punto. E non e’ questione di fedelta’ al discorso, che mancherebbe in noi leones: e’ che lei e’ scesa in campo (…) come un trattore in un plate’ di fiori, fiorellini e qualche erbaccia. Quando si dice: lo stile.
L’argomento sta poi diventando un “serial” e il mezzo inizia a dare il peggio di se’ (le smanie e le piccole vanita’ di chi vuole stare sul pezzo senza la vostra preparazione preliminare), ma la stura in questo topic l’ha data chi ha dettato il discorso e sta dettando anche i commenti, cioe’ lei. Le avanzo una domanda, a lei come agli altri intervenuti: chi tira fuori i soldi per produrre questo asfalto di parole?
Aggiungo un altro OT, che avevo scritto senza leggere Policastro, ma mi pare in linea, infatti concordo quando dice “ma senza dover esordire ogni volta con un giudizio o una pagellina”. Pagelle e giudizi dovrebbero essere limitati ai dopo cena, anche se è vero che le strisce dei commenti assomigliano a volte ai dopo cena della rete, e mi ci metto.
Il mio nuovo OT è questo:
Io leggo la critica, quando ha caratteristiche di stile che mi soddisfino – e condivido la definizione di stile data da Bortolotti sotto il post di Inglese, allargandola al genere – come un’opera autonoma. Da quella maggiore traggo anche metodo e metodi di lettura, anche se ormai credo di essere troppo in là con gli anni per modificare i miei, ma sono sempre interessata.
Non vorrei però veder passare l’idea, alla quale sono davvero contraria, che per quanto riguarda il contemporaneo la ricchezza di strumentario tecnico corrisponde automaticamente all’ autorevolezza del giudizio di valore. I molti strumenti sono indispensabili per organizzare bene il discorso e sono certamente puntelli conoscitivi, ma a volte, anche da parte dei critici, passa un’equazione un po’ facilona.
Se Policastro (la prendo a caso per esemplificare il discorso) mi dice che maria (v) (scusa maria:–) è una grande poetessa, non la prenderò certamente sul serio senza essere andata e verificare, e solo poi darò il mio giudizio, relativo come quello di Policastro.
Diverso se Policastro mi dice che è una poetessa importante e significativa per la sua generazione.
In questo caso gli strumenti di Policastro sono maggiori dei miei, filologici, di metodo, compresa la quantità di letture, la conoscenza del panorama attuale della poesia, delle mappe, delle relazioni, delle interferenze, della novità ecc.
E’ banale, ma volevo ricordarlo a tutti, compresa me.
@ Gilda Plicastro
non penso ci sia alcuna differenza tra lei che usa il suo nome e io che uso come nome: Soldato blu.
Io so su di lei quanto lei sa su di me: niente.
Dirà: ma lei “può” saperlo, andandosi a leggere quello che ho scritto, o
prendendo informazioni.
Dico io, anche lei lo può sapere andandosi a leggere tutti i commenti che ho fatto in questo blog.
Anzi riuscirebbe a sapere anche gli altri nomi che ho usato e, una cosa tira l’altra, riuscirebbe anche a sapere il mio vero nome.
Potrebbe a quel punto leggere qualcosa che su N.I. non è apparso come
commento, leggere quindi quel poco, pochissimo, che è in libreria e avrebbe quindi una risposta alla domanda se
“c’è qualcuno in Letteratura (chiedo anche a Soldato Blu, magari), che usa il montaggio ad esempio come Iñarritu, con funzione “realmente” scardinante e perforatrice”
L’unica riposta possibile che le resta è dire che non ha ne voglia né tempo di fare questo.
Per quanto riguarda me la risposta è esattamente la stessa.
Entrambi restiamo ignari uno dell’altra.
Quello che non può dire è che quello che io posso leggere di lei è “un’altra cosa” rispetto ai mei commenti.
Perché altrimenti dimentica che siamo sul web e qui anche
“Gilda Policastro” un nick name.
Mi scusi per il refuso iniziale sul cognome.
La rappresentazione della realtà. Davvero singolare che la critica militante che più ha sostenuto l`esigenza della deformazione e dello straniamento si proponga ora di raggiungere “l’impegno nel presente e dunque l’interesse per la realtà”. Mi sembra di tornare indietro di 50 anni. Non voglio parlare del neorealismo e della neoavanguardia, nè dei loro presunti superamenti o ritorni, ma a volte bisogna interrogarsi sulle premesse teoriche e sulle storie culturali piuttosto che sbandierarle come chiavi d`accesso universali (il nome di Benjamin sta diventando una specie di grimaldello che sfonda tutte le porte, totalmente destoricizzato e decostruito, senza ebraismo, messianismo e shoah – assurdo). Il punto, a mio avviso, è che lo “scrittore impegnato”, come in Italia è stato definito e concepito (dall`idealismo e dal comunismo), è colui che insieme possiede la realtà, perchè la vede e la rappresenta, le dà voce, ma anche la oltrepassa, perchè non se ne fa catturare, la guarda dall`alto, punta a cambiarla, denunciandola. In tal modo lo “scrittore impegnato” (notoriamente rabbioso) possiede insieme il passato, il presente e il futuro, assumendo uno sguardo metafisico, perchè conosce il bene e il male. Vi ricordate Croce quando diceva che l’estetica include uno sguardo etico, perchè la storia è (e non può non essere) etica? Non voglio dire che non si può rappresentare senza giudicare, che non c`è realismo senza interventismo, che l`impegno è sempre e solo moralismo, ma bisogna stare attenti a non confondere osservazione della realtà e costruzione della realtà. Senza questa distinzione il realismo è di per sè monco. Intendo, cioè, visto che la letteratura è necessariamente costruzione e soggettività, finzione e menzogna, intendo dunque l`esibizione del doppio livello, il rapporto tra l`autore che struttura e l`oggetto con cui dialoga. Allo stato attuale (scusatemi la solita lagna sugli scrittori italiani oggi) io vedo o solo autore (Pincio, Ottonieri, Nove) o solo oggetto (Saviano, Scurati, &Co). Cioè sempre e solo autore, in fondo. O “lingua di parole” o “lingua di cose”, come se non si potesse uscire da questo binomio: tocca al linguaggio, appunto, come leggo in alcuni interventi, esibirsi per attingere, avvicinarsi ma non toccare, rendere palpabile la propria insufficienza rispetto al reale, che è sempre al di là. Inviterei, perciò, a recuperare categorie come “umorismo” e “ironia”, che facciano convivere e stridere le varie opposizioni di cui leggo (neorealismo-avanguardia, disimpegno-ideologia, conoscenza-inesperienza, ecc.). La letteratura non spiega il mondo, ma lo interroga. Possiamo ripartire da Pirandello?
@Soldato Blu
Il dialogo critico, per come lo conosco e lo pratico (e non credo che il mezzo possa mutare la sostanza di quello che vado dicendo) si sviluppa a partire da un’idea, che poi si legittima attraverso il discorso. Un discorso si compone di parole e un discorso critico coretto si compone di categorie critiche (lo stile, la forma lo sono: ed è di questo che ho parlato nell’intervento che ha dato la “stura” e anche in alcuni dei commenti su cui conto di avere prima o dopo qualche risposta concreta, in modo che il dialogo possa avanzare e diventare anche conflitto, se si vuole, ma, ripeto, corretto).
Ha del malcostume televisivo questo imporsi violento e fascistoide (e non a caso chi lo pratica si chiama qui “spettatore”): non la smetterò assolutamente di argomentare, e di esprimermi liberamente come tutti. Ma dal circo Barnum dell’insulto libero e dell’intimidazione, per dirla con Caproni, “scendo. Buon proseguimento”.
p.s. perdonato per il refuso sul cognome, ma Freud avrebbe detto lapsus.
@ Gilda Policastro
quello che mi infastidisce di lei è che fin dall’inizio lei non ha fatto altro che chiedere ad ogni milite ignoto che passava di qui:
“favorisca patente e libretto”
io Non sono nessuno né quando sono v puntato, né col cognome per esteso, ma mi creda, lei non è nessuno quanto me per presumere di riconoscere quale sia la mia identità e quale la maschera.
@ Jossa
anni ’50, vuoi scherzare, sul mio defunto blog avevo postato qualche citazione che aveva come tema proprio il realismo, soprattutto gustose quelle di Brecht contro Lukàcs e Thomas Mann, ed erano del ’38, tanto per non tornare all’800.
Cambia la decorazione del piatto, ma la pietanza poco.
@ Stefano Jossa
(agnosco fratrem!!!)
Ma non c’è affatto contraddizione tra “straniamento” e “impegno”! E non penso solo a Brecht, ovviamente, ma ancora e di nuovo a Sanguineti dove lo straniamento è la modalità di un linguaggio che non dice il reale pretendendo di restituirlo integro ma, anzi, quel reale vuole interpretarlo, ma anche poi violarlo, contaminarlo, dissotterrandone, caso mai, la faccia impresentabile (e più che Benjamin, allora Bachtin, la serie del corpo, e dello sporco). Ripartiamo, hai ragione, da Pirandello, ma non, magari dagli apparati formali (le impalcature retoriche che forse preludono già a quei postmodernismi deteriori delle cornici infinite, delle sovrastrutture esornative) ma dall’ “incesto”, magari, la contaminazione primaria, che Sanguineti rivitalizza ed esalta nei “Sei personaggi.com”. Un “travestimento pirandelliano” (ripartire da Pirandello e dal “rapporto” col reale, più di così?). E che cos’è il travestimento se non il riaggiornamento in chiave contemporanea del “sentimento del contrario”, dell’umorismo, dunque, della capacità di vedere diverso, straniato, quello che l’illusionismo televisivo ci abitua a considerare “reale”? La rabbia, dici benissimo. Pensiamo entrambi, evidentemente, all’intervista che chiude la versione di Bertolucci dell’omonimo documentario pasoliniano. In Italia non c’è l’arrabbiato, diceva Pasolini. Perché? Perché la rabbia è collettiva, e lo scrittore è individuo, più che mai oggi, in Italia. Narciso, singolare. In questo ti dò ragione: ed era proprio per questo che tornavo alla neovanguardia e ci ritorno ancora. l’ultimo movimento plurale (oltre poi ai suoi “nipotini” del Gruppo 93).
Scrivere in prima persona, dicevamo, ma forse ancora meglio scrivere al plurale, scrivere di un “noi” (in letteratura ma anche nella critica), cioè parlare a nome di qualcuno e qualcosa che non sia il proprio sgabuzzino interiore, ma il “grande magazzino” del mondo, dove ci sono, “il colera, i colori, il mare” (Cataletto 13). Era questo che si provava a fare, nell’inchiesta. Non il canone, ma esattamente questo: scommettere sul “noi”, su qualcosa che ci superasse come individui, che è quello che ci aspettiamo anche da un libro. A volte sembra che la Letteratura sia in Italia un patrimonio in via di estinzione, da proteggere a tutti i costi. Ma perché? Che cos’ha di privilegiato la Letteratura (quella con la L maiuscola che qui invocavano) rispetto ad altro? Mi pare che lo spettro crociano sia paralizzante: la bella pagina, che resta tale, non si fa corpo, non vibra, e non fa vibrare, “a che vale?”
Direi allora, così, visto che è stato nominato lo straniamento, ovvero una delle invenzioni più alte del Novecento, e restando ancora dentro la questio realtà/opera, ecco direi che forse quel secolo può dirci ancora «qualcosa di decisivo per il nostro presente», ad esempio:
• La necessità di interfacciarsi criticamente con la produzione artistica corrente, come corollario della necessità di porsi criticamente rispetto al presente.
• La forza espressiva del grottesco e della parodia (la loro capacità di produrre «sorpresa conoscitiva»).
• La crudeltà (Artaud).
• Il distacco tra significato e significante, così come proposto dal concetto di straniamento (interferenza tra il piano sintattico e quello semantico).
• L’anti-lirismo inteso come rifiuto dello sguardo privato e narcisistico del poeta.
• Il rifiuto delle funzioni salvifiche della parola (e il rifiuto di una parola “neutra”).
• Un atteggiamento critico-semantico indiretto (allegoria).
• Il ritmo come capacità di produrre senso.
• La semantizzazione dei suoni (phoné, il corpo orale che sdelimita lo scritto – secundum Carmelo Bene).
• L’anti-economicità delle opere (sottrarsi ai meccanismi perversi del mercato, ma anche come assenza di finalità).
• Il verso libero (l’inessenzialità della metrica tradizionale).
ng
Policastro, ma com’è veltroniana questa risposta a Jossa.
Io mi sono fatta l’idea che ci sia una forma mentis originaria, una struttura psicofisica in gran parte innata che determina la risposta ai fenomeni e l’organizzazione della risposta, aritstica o critica che sia.
E che tutto quello che viene dopo, strumenti, conoscenze e opere, vada a sistemarsi funzionalmente in quel primo stampo. Prendendo dal tempo le forme funzionali a quel tempo.
Se è così, ogni richiesta che venga a uno scrittore dall’esterno, è vana.
Gli si potrà chiedere solo di portare a compimento quella sua originalità nello stile come risulta dalla citazione continiana di Cortellessa, ripresa da Bortolotti e che riprendo a mia volta: “lo stile mi sembra essere, senz’altro, il modo che un autore ha di conoscere le cose. Ogni problema poetico è un problema di conoscenza. Ogni posizione stilistica, o addirittura direi grammaticale, è una posizione gnoseologica”.
E’ il massimo impegno di un autore, e non si tratta di arte per l’arte o ombelichi, di saghe o autobiografie, ma di una pratica di verita – se posso usare questa parola esagerata – che si manifesta indipendentemente dalle forme scelte e che è la sola, a mio avviso, che valga la pena chiedere.
Qualcuno potrà farlo a partire dal precariato (anche se mi sembra un punto di vista stretto, a meno che non lo si allarghi metaforicamente a una condizione umana e del tempo che però, di nuovo – perché si casca sempre qui – ha bisogno di stile), ma potrà anche farlo allontanandosi a dismisura dalle manifestazioni più visibili e riconoscibili della crisi del suo tempo.
Persino essere anacronistici può essere a volte un modo per stare nel proprio tempo.
@ ng
Sul punto primo: e cos’altro può essere la “militanza” (e cos’altro può essere la critica, se non militanza, aggiungerei, alla Fortini)? se non un corpo a corpo con l’oggi? ma in un senso che sia il più possibile plurale, e di una pluralità intesa non per forza come adesione ai “partiti politici dell’arte”, come lamentava Berardinelli in un pamphlet recente. Bensì un dialogo (anche un conflitto, se necessario) continuo, costante, inesausto, inesauribile, ininterrotto. Il problema cruciale (che ci porta un po’ lontano dal tracciato principale, ma credo non infruttuosamente) è quanto sia miope quel pensiero che ancora vuole contrapposti “militanti” (i critici dei giornali, quelli che “perdono tempo” a interrogare il loro presente) e gli “accademici” custodi della Tradizione, dell’Edizione Critica, della Parola Autoriale (la superstizione filologica, la chiamava Sanguineti: e che colpa ne ho, se ha detto già tutto lui?). Questo lo dico anche in risposta all’intervento di Jossa, naturalmente. Nell’altra discussione, e nella più recente generazione di critici, queste due figure molto spesso coincidono, e l’impegno nel presente non è disgiunto, non vuole disgiungersi, dalla vocazione formativa (un portato di quella dialogica, a mio vedere).
La parodia (punto secondo, e scusa se per ora non li posso toccare tutti, comincio dai più brucianti, a mio parere), certo. Quanto ci abbiamo messo in Italia (soprattutto nell’accademia) a capirne la funzione critica non meno decisiva di altri generi o modi, la natura di de-formazione e storpiatura non (solo) giocosa o caricaturale, ma spesso terribilmente seria, la voce che dis-suona per contestare, decostruire, sabotare il mondo e non la parola o la letteratura, dinamica che Linda Hutcheon ha messo in evidenza perfettamente in pagine illuminanti? Quanto ci metterà la critica sedicente accademica a capire che le forme non possono essere uguali a loro stesse nei secoli dei secoli, come ho sentito dire da un difensore della Tradizione e della Letteratura, a un convegno in cui un’Ode di Orazio e un’Ode di Parini erano forme identiche, e dunque perpetuamente invariabili? Ma stiamo scherzando? Ma lo leggiamo, una buona volta, un “romanzo” di Ottonieri, la “ascoltiamo” la “poesia” di Vicinelli (su cui dissentiamo negli esiti ma della cui serietà e validità nessuno di noi due dubita, mi pare).
Vengo a un altro punto caldo: l’antitesi museo e mercato. Qua si è parlato più del primo (canoni, tradizione e contro-tradizione), e poco del secondo. Effettivamente, un discorso su quanto l’editoria schiacci fino all’annullamento tutte le forme di sperimentazione e di “oltranza”, finendo col vanificarne in partenza ogni possibilità di interazione con una dimensione pubblica (s’è mai visto da Feltrinelli il “Fucino” di Ottonieri? o la bellissima recente antologia di Leonetti per No Reply? temo di no), al di là delle intenzioni dell’autore, si rende ormai indifferibile. L’impegno, senza il mercato è inutile. Saviano sa i nomi e ha le prove, certo, ma in libreria devo trovare solo pile su pile di Gomorra?
@ Alcor
i tuoi temi mi interessano sempre, ma quando cominci con un’etichetta (scusa ma è più forte di me, è proprio un mio limite strutturale, mi rendo conto) ma non riesco a dialogare. riproviamo?
quale etichetta?
@ Gilda Policastro
Restando io ancora un irriducibile lettore di Marx, mi guardo bene da fare propaganda per l’anti-mercato … L’estraneità, però, è per me doverosa, ovvero il tenersi a distanza dalle imposizioni (e scrivo proprio IMPOSIZIONI), anche a livello formale, che il mercato comunque realizza … Nel mio settore (il teatro), se non proponi “teatro di narrazione” (o “civile” che dir si voglia), sei costretto a una distribuzione semi-clandestina … Prova a proporre, a qualsiasi centro di produzione, poniamo la Hamletmaschine di H. Muller … «Il pubblico non lo capirebbe» (mi hanno risposto in tanti così, davvero) … L’anti-economicità, allora, è non cambiare e mettermi anch’io a fare il tipo di teatro che il mercato richiede, ecco … Ma è anche sapere che, in campo artistico, si lavora “per niente e per nessuno” (qui è l’assenza di finalità, di cui era teorico grandioso Artaud) … Perciò non credo alla “militanza” in campo artistico … Milito però tutt’oggi, nei limiti di una partecipazione personale, a quanto si oppone in strada … E poi credo che la contrapposizione (quell’interfacciarsi criticamente con la produzione artistica corrente di cui ho parlato nel primo punto) vada agita dall’interno delle forme, destrutturando ciò che porta compatibilità … Non mi interessano i “gruppi” di artisti, al limite le tendenze …
ng
Qualcuno, poi, si chiederà cosa ha fatto Soldato blu per essere “confuso” con um milite della repubblica di Salò.
Se fossi freudiano penserei che è una vendetta per il “lapsus-refuso” sul cognome Policastro. Ma io non sono freudiano e quindi non credo né a quello che dice la Policastro né a quello che potrei pensare io se fossi freudiano.
Sgombriano, invece, subito, il terreno da cose secondarie, per poter almeno individuare quello che è il vero motivo del conflitto.
1. Il mio giudizio, drastico, sull’inesistente opera poetica di Sanguineti.
Certo che non mi piace. Ma penso anche che il suo modo, formale, di
comporre poesia non sia altro che un’altra faccia [concetti come misura, per dire] del metodo praticato fall’Oulipo [numeri, per dire].
Una cosa disastrosa per il mio modo di intendere la poesia e la letteratura.
Verrà richiesta verifica: cosa vuol dire con…
Non sono un critico, né tantomeno universitario: sono sicuro che non avrei il tempo per scriverci un saggio e – in effetti – poco sicuro anche di poterlo fare e essere pubblicato.
Ma di questo non ne sono certo, cioè che non sia capace di scrivere un libro in cui dimostro che Sanguineti di poeta non ha che il naso.
La cosa più difficile sarebbe dimostrare che ha naso.
Intendendo la presenza del senso nella sua produzione detta poetica.
Ma non senso nel senso di significato, proprio nel senso degli odori o dei rumori o di una qualche sensibilità corporea.
E non perchè questa sia, invece, sufficiente a fare poesia, ma perché, oltre quello, gli manca il sentimento e la ragione.
Ho detto non sono freudiano, non sono nemmeno junghiano, ma, nella mia vita, ho anche tentato di analizzare la poesia dal punto
di vista delle quattro componenti junghiane, che soltanto se equilibrate e compresenti (anche se la cosa è quasi impossibile) indicano l’uomo completo. Intelletto, intuizione, sentimento, senso.
E perchè non un’opera?
Sbaglierò, ma per me Sanguineti è solo intuizione.
Altri la pensano diversamente? Io desidero che gli altri la pensino diversamente. E certo non andrò da loro che se non leggono le opere complete di Jung non sapranno mai niente sul passero solitario.
E’ per questo che mi sono scagliato contro Allegoria.
2. La Letteratura con la maiuscola.
Vengo rimproverato (?) o vengo investito del ruolo di difensore di questa.
Su questo, in questo momento, non ho voglia di dilungarmi.
Faccio solo un appunto: e se quella Letteratura lì non è che letteratura dei Grandi Scrittori, che non hanno certo bisogno di guardiani?
Perché l’altra la letteratura, quella degli scrittori diciamo normali, la possono conoscere soltanto quelli che sono pagati per questo, per conoscerla.
Gli altri quelli della Letteratura, pescano poco in quel mare,
pensando che comunque quella dei Grandi può dare ciò che occorre.
Salvo poi, quando si presenta un nuovo Scrittore, accorgersene per primi. E’ sempre accaduto così.
scusate:
E certo non andrò loro a dire che…
@ Jan
ma non si può fare come in bacheca, dove hai possibilità di correggere?
(….Ancora un margine da seconda serata: natura poesca, e in questi giorni anche di più, che si sfoga nei riboboli tracciati lungo i bordi di questo dialogo invisibile…. sotto gli occhi muto-gracchianti d’un cornacchione, che lo si dica il Reale o invece il Principio-di-Realtà)….
– Non può non essere motivo di vanto, per chiunque, poter suscitare, in panorami così soporiferi come quelli nostri letterari, ancora sane idiosincrasie. Se un poeta come Sanguineti ne suscita, ancor più risibili che non livorose, vuol dire che malgrado la sua ineludibile centralità nell’orizzonte letterario, resta sempre una variante inassimilabile al sistema (alle convenzioni letterarie appunto, e non certo solo). Ed è tutt’altro che poco; ogni prodotto qualificabile come testo, dovrebbe procurare un’interruzione (uno straniamento) del flusso inerte del comunicare; dovrebbe essere, in questo senso, ir-rituale (e dunque, in larga misura, ir-ritante).
Non mettiamo in dubbio che esista, anzi si sia imposto, un realismo tutto referenziale; portatore sì d’un ethos indubbio ma in parte malinteso (se coincide con l’intimidazione della “presenza”, d’una testimonialità insomma incontrovertibile e non meno, derridianamente, “metafisica” – quell’ “io c’ero” di cui parla Giglioli sullo Specchio), ma che di rado riesce ad andare oltre una citazione dell’oggetto: per approdare, invece, alla cosa (costruzione o comprensione, prensile, che sia).
Eppure, ci sembra che esser riconosciuti scrittori di parola, è qualcosa che dovrebbe riempire di soddisfazione, in verità; nessun artista rinuncerebbe all’aspirazione demiurgica del suo dire (in-principio-era-il-verbo, ad esser capanei). Ma, anche senza massimalizzare fino a tal segno: che cos’è poi la realtà, l’esterno, che si “costruisce” (appunto…) nello scrivere, se non questo tempio mobile, fatto di viventi parole? O (anche a tenersi più bassi) qualcosa che può essere suscitato e fatto vero e solo proprio dalle/nelle parole? – Testura, che si allarga appunto nelle maglie di un codice: forandolo. Tessuto di (inevitabilmente) corrispondenze, che non può che tramarsi in un infinito incorrispondere. Quello della parola alla cosa.
E nello scorrere della lettera, che è in opera dentro la scrittura, se le parole rincorrono le cose è assai meno per stabilirne i confini, che non per scavarvi dentro, per vie spesso oscure a se stesse, subliminali, persino tattilmente, con la forza ultrasonica delle loro invisibili, infinite tastiere.
È straniando/si, portando/si altrove, che il reale (o lo stesso viscere dell’irreale… del dereale… del Nevermore persino) può suscitarsi, pur immane e spaventoso che sia, dalla sua cenere. “Noi” scrittori-di-parola, è quest’incarnante alchimia che cerchiamo; realismo-radicale, che non sia null’altro (ancora artaud-sanguinetianamente, ecco) che Scrittura della Crudeltà.
L’ho riletto.
Se l’avessi fatto prima non avrei ritenuto necessario accennare ai motivi con cui mi permetto di giustificare la mia idiosincrasia per la poesia di Sanguineti: Per giunta accennando a un paradigma che non è certo comune nel mondo letterario e critico attuale. Beccandomi il “non tanto livoroso quanto il risibile”.
E’ certo meglio avere credibilità all’interno di un’organizzazione, o fare parte di una qualsiasi combriccola che riconosca la tua appartenenza, che essere lo scemo del paese.
Io non ho alcuna paura di essere lo scemo del paese.
*
Così
forse, se vorrà credermi una volta,
“la serie delle esperimentazioni
risulterà una strada d’amore”,
precisamente come dice Lei,
con molto sentimento, perchè, dice
bene lei, e creda a sé stesso, è proprio
*col sentimento* , e non già con le piccole
trappole storiche, che ci si trova
“al punto in cui il mondo si rinnova”.
[…] è certo Lei, che è tanto certo,
che la mia formuletta non conduca,
con eguale speranza, a quella autentica
“opposizione critica e ideologica
agli istituti precedenti”, che
Lei giustamente vuol tentare? è certo
che nei miei versi lo “sperimentare”
non debba fatalmente mai coincidere
con l'”inventare”?
EDOARDO SANGUINETI, Segnalibro. Poesie 1951-1981, Feltrinelli 1982, pag. 355-356.
Dare risposte a queste domande, oggi, non avrebbe senso.
Il concetto decisivo è quello di “istituti precedenti”.
Istituti, non poeti o scrittori, precedenti.
E’ istituzionale la centralità di Sanguineti. Non poetica.
Interessa la critica non il lettore.
Il lettore che non è critico, quando legge un libro come “Segnalibro” – letto non so quanti anni fa – al massimo scrive – come mi è capitato di scoprire oggi – durante quella prima lettura, a pagina 101: e.e. cummings.
Perplesso va a vedere e.e. cummings e nella pagina a cui è stato rimandato, trova un altro rimando: alla pagina 208 dell’edizione “I grandi narratori d’ogni paese” della Mondadori dell'”Ulisse” di Joyce.
Ho pensato di mollare N.I. per tentare di ricostruire questo tragitto.
Poi mi è venuto in mente che comunque questa storia andava conclusa.
Perciò ad Ottonieri posso soltanto rispondere che al centro ci stanno gli spartitraffico. I segnali stradali stanno, normalmente, in una posizione
eccentrica. Visibili, non fanno parte della strada. E uno s’incazza se invece il palo se lo trova in mezzo strada.
Ah, rileggendo.
Quella faccenda che Sanguineti di poeta non avrebbe che il naso: non me la sono inventata io. L’ha suggerita lui:
*
sembra il Petrarca [io avrei detto Dante], ha concluso Constant, che meditava sopra il mio profilo con Lambert
(e non parlava dei miei versi, dunque)
op.cit. pag. 167.
*
Io non so se Sanguineti sia freudiano, ma certo questa amarezza per il disinteresse verso le sue poesie, sostituita però da una profonda attenzione per il suo naso, dimostra che a lui di Constant non gliene fregava niente. Qualcosa avrebbe provveduto ad acuirgli i sensi…
@ Soldato Blu
Confermo di non credere nelle maiuscole. Così come provo a dire per l’ultima e definitiva volta che non ho niente contro le identità fittizie, e, anzi, mi viene in mente solo ora che tutti gli scrittori del presente che mi piacciono (Aldo Nove, Ottonieri, Tommaso Pincio) ne hanno assunta una, con motivazioni diverse e che ora non rilevano. Quello che contestavo (ma poi sul serio non toccherò mai più questa questione di metodo, e rimarrò per sempre nel merito delle argomentazioni) era che l’occultamento dell’identità diventasse proporzionale all’incremento di aggressività.
Su Sanguineti. Della sua poesia/poetica non devo certo rendere testimonianza io: tra “Laborintus” (1956) e “Cose” (2001) ci sono cinquant’anni di attività ininterrotta. Quello che mi spiace, veramente, è che tu dica che non ci sono i sensi, nella poesia di Sanguineti. Perchè vuol dire che non stiamo parlando dello stesso Sanguineti. A me sembra che ci siano solo i sensi, nella sua poesia: il corpo, gli odori, le “cose” appunto. È una poesia concreta, tra le più concrete che io conosca, in cui, tanto per dire, la donna non è più il visiting angel (ti pare poco?), l’ombra che appare e “poi più nulla” di Montale, ma “mia moglie”, quella che è gravida, che partorisce i quattro figli, che lo accompagna nei viaggi, l’ “amata mantide”. Mi dirai: frega a me, della moglie di Sanguineti…se parliamo dello stesso Sanguineti, però, non puoi dirlo. Perché stiamo pensando a “Cose” 24, magari, alla “spudoratezza” ( i sensi continuamente esibiti, anche nella loro grottesca decadenza senile) e al “pudore” (come inevitabile mediazione intellettuale: del resto mica crediamo alla poesia come invasamento del dio o come improvvisazione, no?) come chiavi d’accesso, a ritroso, a tutta la poesia e la poetica sanguinetiana. Che tra l’altro torna utilissima in questo discorso sulla realtà, perché la poetica del “piccolo fatto vero” consiste nel dire la verità, solo la verità (e tutto ciò che si nomina esiste o è esistito nella concreta esperienza) ma non tutta la verità, perché quello che si è vissuto sarà inevitabilmente una scheggia, un frammento, benjaminianamente (posso Jossa, anche se l’olocausto qui, no, non mi pare c’azzecchi?) irriducibile a un senso “per tutti”. E però torno allo straniamento, come foratura del reale. La capacità di dire le cose nei modi “giusti” (un aggettivo molto usato da Sanguineti) non è la capacità di dirle “come sono” o “come appaiono” (la verità invocata da Alcor, e però in un senso tutto opposto, un po’ più “mistico”: sbaglio?) ma di dirle come le vediamo noi, cioè in questo caso Edoardo Sanguineti nella sua concretezza materiale, di uomo nato a Genova il 9 dicembre 1930. Niente più aura, non più aureola (e niente più maiuscole). Oggi rispondendo a Jossa mi tornava in mente come Sanguineti desacralizzi la tradizione, i classici: catapultandoli in un orizzonte stracontemporaneo, televisivo, sporcandoli con la lingua di oggi, gettandogli l’aureola nel fango. Ma la ragione profonda non è vedere quanto resiste l’aureola, piuttosto in cosa consista quel fango.
@ ng
Questa concretezza materiale non ha niente a che vedere col narcisismo. Quando leggo le poesie di Sanguineti, non ci vedo le dimensioni del suo naso, ma come il suo naso entra nel mondo, come ne diventa parte e come lo viola. Quando dici che non ama i gruppi, forse non li amo nemmeno io, ma amo ancora di meno gli individui, di cui la mia generazione è tanto piena che non si sa cosa farne (i famosi precari, mica li ha inventati Aldo Nove, lo Scrittore).
@Soldato Blu
Ma vedo solo ora, mentre ti scrivo, che lo stai rileggendo: bene! Freudiano, non proprio (junghiano, e molto, in “Capriccio italiano”). Sanguineti ama piuttosto definirsi un groddeckiano. Da rileggere anche Groddeck, in effetti: il teorico dell’Es molto più di Freud. Un analista che curava tutte le malattie, anche quelle del corpo, come se avessero un’origine pischica. E che a Sanguineti avrebbe detto che quel naso, in fondo, se l’era voluto lui. E che, ancora, gli ha ispirato il verso in cui dice che “morire ancora non gli serve”. Per Groddeck tutte le morti sono infatti un suicidio. Vado, allora, con Sanguineti-Groddeck, “a fare fine finalmente” (almeno per ora).
@ ng
“quando dici che non ama” stava per “quando dici che non ami”. refusite recidivante.
@ soldato blu
mi riferivo assai meno a Lei, di cui comunque apprezzo l’onestà e (malgrado il nick) l’entusiasmo dell’esporsi, quanto a un consesso di esimii parrucconi ma anche di intellettuali non disprezzabili, che non fanno che metter mano all’impugnatura della colt non appena spunti fuori il magico nome del Sangui.
è uno sport nazionale, denigrare uno dei pochi nostri poeti e intellettuali che veramente contino (e che davvero resteranno); anzi un dopolavoro accigliato, che (per la pretestuosità delle ragioni che adduce) non fa che ammantarsi di ridicolo.
(quanto agli spartitraffico, ai segnali stradali… non capisco troppo l’allusione. Sanguineti come Brecht? a me è sempre arrivata, la sua scrittura poetica, come magma; fin da quando la lessi antologizzata, al liceo. e comunque, massimo rispetto al grande Bertolt! quanto ai cartelli, io sono cresciuto in una città dove i segnali, se non sono stati già divelti, si trovano rovesciati, e anarchicamente deturnati direi. Dadapolis. per alcuni aspetti, può essere addirittura un vantaggio)
@Policastro
mistico? sono incerta sull’uso che gli dai.
Se lo intendi nel senso della svalutazione di un approccio intellettuale direi di no, e anche l’aspetto intuitivo ha alle spalle una pratica di lettura.
Potrei dire, per quanto mi riguarda, che analizzando un testo tutto ciò che è eccedente rispetto alla sua economia stilistica, tutto ciò che non ha valore gnoseologico, per riprendere la citazione continiana, tutto ciò che è puro ornamento, irrilevanza, trucco, si allontana dalla quella pratica di verità che io chiedo a un testo.
Un testo che tiene dal punto di vista di quella pratica di verità è ai miei occhi un testo in cui la parte ornamentale, irrilevante (ma non manieristica, perché essendo un linguaggio a sè il manierismo risponde alle stesse leggi) e conoscitivamente debole sia per chi l’ha scritto che per me – e in questo processo io lettore e lo scrittore siamo come gemelli siamesi- inquina il processo di conoscenza.
Non so se risco a essere chiara (per di più la finestrella dei commenti è così piccola che non ho una buona visuale di quel che scrivo) e preferirei fare degli esempi, ma non è questa la sede.
Forse riesco a spiegarmi così: poniamo che un autore ne imiti un altro. Se l’imitazione è un’imitazione che porta a un’apertura del senso, si dà quella pratica di verità che dicevo. All’interno di questa pratica metto la citazione. Se l’imitazione è passiva, puramente parassitaria, quella pratica non si dà. In questa imitazione parassitaria, sia di un autore che di una postura stilistica altrui, le zone inerti, ripetitive, morte, portano a una scrittura morta.
Come distinguerle? Gli strumenti teorici non valgono molto, in questo campo. Servono all’organizzazione del discorso, servono alla comunicazione, ma da soli non bastano. Io credo che ci siano tre posture, nella lettura dei testi, una culturalmente organizzativa, canonizzante, una strumentale al discorso critico, che trovo interessante e autonoma ma della quale al tempo stesso diffido, e una terza più libera e indagatrice, molto spregiudicata, ma purtroppo arbitraria, me ne rendo conto, e difficile da sostenere teoricamente, ma che mi attira di più.
No, credo che non si capisca.
corrige
impossibile non essere Refusi
(sparita la correzione… non “quanto” ma “che a un consesso”… dal refuso alla sparizione. direbbe il Frasca: la lettera che muore)
Mi riferivo naturalmente agli autori non canonizzati.
Ma certamente la verità invocata da Alcor (che non invoca:–) NON è la capacità di dire le cose
“come sono” o “come appaiono”
soprattutto non so cosa sono le cose. La parola cose è generica. Oggetti, eventi, fatti accadimenti, le cose rappresentate di Foucault?
@Alcor
Io non credo che le tre operazioni siano poi così incompatibili e inconciliabli. io vedo nella scrittura e nell’attività critica la stessa tensione conoscitiva, la stessa ricerca, come tu dici, di senso. poi quello che la critica deve porsi come fine è la comunicazione di questo senso, e ciò, perdonami, al di fuori di un dialogo critico, cioè di un linguaggio, di un codice comune (le famose categorie critiche di cui si parlava in altro commento), non si dà, secondo me. tu puoi avere tutte le accensioni di senso che ti pare, e procurartele con tutte le pratiche di lettura che vuoi, ma se poi alla fine questo tuo senso rimane incomunicabile, l’esperienza è solo tua, individuale e, in un contesto critico, non rileva. che è il motivo per cui quando scrivo una recensione a un libro di Soldato Blu, a titolo di esempio, non posso solo dire “mi fa schifo” , “è un capolavoro”, anche se è l’impressione che mi ha dato. il discorso critico è legittimo in forme diverse certamente dalla costruzione del canone e dall’accademismo, ma non può prescindere da un codice comune, o se ne propone uno diverso, nuovo, poniamo la categoria della ”grazia stilistica”, cui facevo riferimento qualche post fa, occorre che ne mostri la necessità, la fondatezza. a me pare così. alla mistica attribuivo esattamente questo valore, di ricerca solitaria, di raptus, se vuoi. il dialogo e la mediazione critica mi paiono tutt’altro.
quanto all’imitazione sfondi una porta aperta e, per la gioia del succitato Soldato Blu, voglio citare ancora una volta Sanguineti. se “Commedia dell’Inferno” non mi restituisse un senso nuovo rispetto all’Inferno di Dante, perché dovrei leggerne una infedele imitazione? Sanguineti parla per i travestimenti cui lavora negli anni di “devastazione sfigurante”: dove quella devastazione non è il virtuosismo di rifare Dante ma una doppia interrogazione sul senso dell’opera (il comico medievale) e le sue possibilità di frizione, contatto, scontro, violenza, urto col presente.
quanto ai fatti, come definizione piuttosto arida e provvisoria, direi che sotto questa categoria si può racchiudere tutto ciò che si dà come materialità verificabile e condivisibile. per esempio un fatto è che ora devo prendere un treno, e devo interrompere questo commento. ma è chiaro che “parole e cose” sono convenzioni, e quello che oggi chiamiamo treno non è il treno di quando è stato inventato, e l’ora in cui lo prendo non è la stessa in tutto il mondo. ma (r)esiste la possibilità di riferirci a qualcosa che non sia solo nella nostra testa, ma fuori, partecipabile, condivisibile?
forse sono stata veltroniana veramente, ma anche il treno mi parte veramente.
Per ovviare a una meno ovvia semplicità di indicazioni e riferimenti esibita quando si mostra di utilizzare strumenti un po’ diversi da quelli dei propri interlocutori.
E per chiarire che, per me, quando si parla di “corpo” non è detto che lo si faccia con la “corporeità”.
Che sempre, in questo, ci siano sensazioni.
Premesso che lo stile, a mio parere, non riguarda solo il testo.
Ma, se “lo stile è l’uomo”, lo stile è la “disposizione complessiva” dell’autore, che, quando riesce, si può cogliere *anche* nel testo.
*
Dall’introduzione all’”Ulisse” di Joyce di Giorgio Melchiori, Mondatori, 1960, ed. 1982.
“[…] i primi tre episodi non hanno correlazioni con alcun organo del corpo umano, Joyce commenta “Telemaco non soffre il corpo”.
4° episodio. Organo del corpo: i reni.
5° “ “ “ “ : genitali, pelle.
6° “ “ “ “ : cuore.
7° “ “ “ “ : polmoni.
………
………
e così via sino al 18° episodio.”
*
In breve, da C.G. JUNG, Joyce, “La realtà dell’anima”, Bollati Boringhieri, 1963, ed. 1978.
[…] si rende manifesta persino la scissione della personalità dell’autore in Bloom, l’uomo delle sensazioni, comune e materiale, e in Stephen Dedalus, uomo dello spirito, pressoché gassoso, speculativo;
[…] Le funzioni spirituali, lungi dall’essere spontanee e disordinate, appaiono sottoposte a controlli severissimi. Le funzioni percettive, le sensazioni e le intuizioni sono sempre preferite, mentre le funzioni di giudizio, il pensare e il sentire, sono represse con uguale consequenzialità e appaiono come meri contenuti o come puri oggetti della percezione.
*
“[…] Joyce non perdonò mai a Jung questa recensione. Tuttavia gli apprezzamenti junghiani, proprio perché alieni da preoccupazioni di indagine o polemica letteraria, sono forse tra le affermazioni più lucide sulla portata teorica dello *Ulysses*.”
UMBERTO ECO, Le poetiche di Joyce, Bompiani, 1962 , ed. 1982.
*
Facendo questo piccolo di sforzo per almeno indicare ciò a cui cercavo di riferirmi qualche commento fa, ho iniziato a ricordarmi qualcosa sul tragitto triangolare tra Sanguineti, e.e. cummings, Joyce.
Sanguineti non ne esce troppo bene.
Epigono, turlipinatore, non.creatore, come diceva Pasolini?
@Policastro
(per quando ti ricollegherai, se ti ricollegherai)
non so perché ti devo aver dato l’impressione di rivendicare una specie di innocenza di sguardo.
tu scrivi:
“tu puoi avere tutte le accensioni di senso che ti pare, e procurartele con tutte le pratiche di lettura che vuoi, ma se poi alla fine questo tuo senso rimane incomunicabile, l’esperienza è solo tua, individuale e, in un contesto critico, non rileva.”
sottopongo a critica queste tue righe (io qui sono una nota scassapalle, per ora sopportata, spero anche da te): se dici questa frase all’interno di una pratica e disciplina critica che si percepisce però come l’unica via per arrivare al giudizio e che ritiene che solo quel giudizio valga, la condivido.
Tra l’altro io non faccio la cuoca, perciò vengo da quelle stesse letture, anche se non essendo una specialista e non dovendo darne conto faccio lo slalom tra quello che mi interessa e mi è utile e quello che non lo è.
Ma tu sai anche che i libri che ti arrivano in mano e di cui nutri le tue categorie hanno già subìto un vaglio. E che quei libri viaggeranno indipendentemente dal tuo giudizio critico. Un po’ come è accaduto con la Bibbia.
(Lascerei da parte per il momento la critica al sistema editoriale, sulla quale mi butterei a pesce, ma non è il caso qui; immaginiamolo – per un breve momento – virtuoso)
Un vaglio non da poco, perché esclusa l’ editoria universitaria, che qui da noi circola solo in ambiente accademico e non contribuisce a fare diffusamente senso se non in piccolissima parte, (penso che anche la tua bilbioteca sia più piena di libri Laterza Einaudi Adelphi Bollati Boringhieri ecc, che non di libri dei tuoi colleghi), le prime scelte, quelle sulle quali poi tu eserciti la critica sono state fatte da altri.
Anche quelle scelte hanno a che fare con la critica, e se non con il discorso critico, con un atto che in parte è critico, e in parte ovviamente opportunistico.
Tutta una parte (mi riferisco solo a quella virtuosa, che c’è) del sistema di valutazione – e non piccola – riposa su quella alla quale ti riferisci quando dici “alla mistica attribuivo esattamente questo valore, di ricerca solitaria, di raptus”.
Che ovviamente del raptus ha poco.
Mi fermo, perché così dicendo aprirei due discorsi dibattutissimi, uno è quello sull’editoria, l’altro è quello sulla critica.
A proposito di quello sulla critica ricordo, solo per dirne uno, il pamphlet di Lavagetto, Eutanasia della critica, e parliamo del fondatore di Pratiche, cioè di uno che viaggiava sui due piani. Cito solo una sua citazione da Foucault: “Ma esistono anche ‘altri tipi di discorso e di pratiche la cui importanza per la nostra storia e la nostra società non dipendono dallo statuto di scienza che possono o meno acquisire’ ”
Allargo questa citazione a tutta la filiera del libro e della trasmissione del sapere.
Ho lanciato solo un amo, e posso aggiungere che penso che questa iniziativa di Pinto, di postare i vostri interventi qui, dove vi siete trovati di fronte per la prima volta i lettori e su un piano necessariamente paritario, può avere un beneficio, in qualche modo, anche per voi. Naturalmente più che per il valore dei commenti dei lettori, per la postura alla quale costringono, se uno vuole accettare di prenderla, anche solo episodicamente.
La “patente antichità” di Ottonieri sta prima, dentro e attorno a queste lettere, da lui scritte poco sopra: “direbbe il Frasca: la lettera che muore”.
Volevo chiedergli se veramente comprende ciò che scrive, cioè quanto vi crede? C’è dentro? O forse abbraccia, stringe troppo la materia? Intendo dire: non si sente carico di “letto”, soporifero?
Si rende o no conto di non essersi ancora trovato e di nemmeno impegnarsi a farlo, se artaud-sanguinetianamente scrive, crudelmente?
Non si sente un soperchio?
A me pare che sia impossibile “formarsi” in abito di poeti e critici emanazione.
A tal punto connotate, le vostre parole, da vederle comprabilissime al mercato delle Lettere. Questo è il vostro reale. Come io ho il mio.
Gilda Policastro e Raffaele Donnarumma sono nomi inventati?
Soldato blu invita la signora Gilda Policastro, se ne avesse il tempo e la voglia, a dare uno sguardo, sempre su N.I., al post di Domenico Pinto
intitolato “Una raccolta preziosissima”.
Io dopo aver seguito questo thread ricavo la triste impressione che la critica contemporanea sia prolissa, autoreferenziale e assolutamente incapace di illuminare la natura misteriosa dello spazio artistico, anzi tesa piuttosto a dissolverlo nella difesa di poetiche e di opere d’elezione che certamente dallo spazio artistico traggono origine, ma ne rappresentano incarnazioni episodiche. Aspetto qualcuno che dica qualcosa di nuovo sull’arte e la scrittura nell’epoca dell’autoproduzione di sè e della spettacolarizzazione della cronaca, come Benjamin ha fatto con l’opera all’avvento dell’epoca della sua riproducibilità tecnica. E soprattutto che i critici scongiurino l’impressione di essere scrittori mancati imparando a scrivere, con pulizia, partendo dalle e tornando alle cose, senza sostituire il pensiero con un collage di citazioni, senza presupporre in chi li legge la conoscenza o l’adesione a sodalizi letterari che hanno il perimetro di una rivistina parauniversitaria.
Se questo è lo spessore della ricerca letteraria in Italia, verrebbe voglia di dare ragione alla Gelmini. Poi, per fortuna, t’imbatti in un libro che ti riconcilia con la buona lettura e col pensiero critico, e ti ricorda che le due cose possono anche coincidere.
Antonio Spadaro, Abitare nella possibilità (Jaca Book).
E’ un libro che fa alla letteratura il miglior servizio che si possa immaginare: fa venir voglia di leggere e rileggere, opere che pure credevi di conoscere, perchè pone domande semplici e fondamentali intorno al rapporto tra vita e letteratura, e fa rispondere i grandi scrittori con grande scrittura.
Consiglio, caldamente.
@ Alcor
Non so se questa occasione di incontro, come tu dici, fra i “critici di mestiere” e i “lettori appassionati” abbia costituito davvero una novità. Sicuramente è stata una novità, almeno per alcuni dei critici coinvolti, confrontarsi con questo mezzo e con i suoi codici. E, di solito, fra codici diversi c’è sempre un’iniziale frizione: quando Forese non risponde a Dante esattamente per le rime, Contini parla di un “dialogo tra sordi”. Quello che succedeva ieri fuori da questo blog è poi piuttosto emblematico, si parva licet, di quanto è accaduto talvolta anche qui dentro: un evento storico, trasformato in slogan goliardico dal nostro capo del Governo per carenza di mezzi. Pace.
Io continuo a credere che il punto caldo dell’inchiesta fosse altro da quello di cui poi si è prevalentemente discusso. Se si parte, come si era partiti, dall’idea che lo “sciopero degli eventi” sbandierato dall’ideologia postmodernista fosse stato brutalmente smentito dal crollo delle Twin Towers, era parso necessario andare a verificare, interpellando gli scrittori contemporanei, come questa smentita fosse stata recepita in letteratura, se in qualche modo era stata recepita. Era questo il punto, ancora tutto da dibattere. E se il crollo delle Twin Towers, che secondo le tesi sostenute, invece, da alcuni dei critici di Specchio+, non può darsi come evento simbolico per noi, essendo stato vissuto in Italia come evento inevitabilmente mediatico, ci sono dei fenomeni che hanno avuto, invece, degli innegabili e immediati riflessi sulla nostra realtà contingente, dal terrorismo, all’immigrazione alla crisi economica al precariato. Perché la letteratura italiana non riesce a raccontare tutto questo? Perché non dovrebbe saperlo fare, o poterlo fare? La storia della nostra letteratura è attraversata dall’incapacità di dare, prima e dopo I Promessi Sposi, un vero romanzo, paragonabile a quello della grande tradizione europea. Oggi direi che l’incapacità endemica della narrativa italiana, intesa nel senso più ampio possibile, è quella di tradurre certe tensioni in atto nel presente in opere durature e riproponibili anche nel tempo. Cortellessa profetizzava su Specchio + che i posteri, del film di Garrone tratto da Saviano, avrebbero ricordato più la scena dei ragazzini che giocano coi mitra sulla spiaggia, che non il fatto che parlasse di camorra. Cioè quello che rende tale uno scrittore, per risponderti su un punto più specifico, distinguendolo dal giornalista e dal reporter (anche se alcuni grandi scrittori del secolo passato, pur diversissimi tra loro, da Manganelli a Pasolini, erano entrambe le cose ed entrambe le cose facevano in modo eccellente) è la capacità di tradurre in un’immagine che resti il senso (o il non senso) di ciò che ci circonda. E qui se tu proponevi qualche commento fa una storia della letteratura recente che passasse per i nomi, io procederei piuttosto con quella delle immagini allegoriche, che restituiscano, cioè, un senso non immediato dell’immediato, per dirla così, e che possano resistere al tempo, dal fantasma del padre che ritorna dai solchi della terra marsicana nel “Fucino” di Ottonieri all’incipit di “Woobinda” al cellulare che trilla sulla bara della ragazzina in “Gomorra”. Senza per questo voler tornare al crocianesimo che s’imputava a Cortellessa nell’altra discussione. Croce o non Croce, se leggo un libro non mi aspetto di trovarci una filza di citazioni come nella “Storia romantica” dell’ultimo Scurati, né però di leggere un lungo elenco di “mortiammazzati” come talvolta in Saviano (per questo forse conservo quella medietà di posizione che mi guadagnava, credo, la sua etichetta di veltrononiana). Un’immagine, dicevo, memorabile, di quella memorabilità che ha costituito da sempre, come si diceva una volta, lo “specifico letterario”o, detto altrimenti, la chiave di resistenza e di permanenza della letteratura, non credo offenda nessuno volerla ancora cercare in un libro (e nel racconto che Soldato Blu mi invitava a leggere, non la trovavo, invece, malgrado la presenza dei “sensi”, e del “corpo vivo” o della “Fede”, addirittura).
@Soldato Blu
Il limite è ancora una volta per me il linguaggio: parlare del corpo senza forare, forzare, violare è peggio che non parlarne, magari, e però sempre e comunque sabotando la comunicazione normale e piana. Sostenuta, in questo caso, ma anche banale talvolta, mi conceda. La lingua, come la struttura. Perché se non vuole chiudere, chiudere così, l’autore di questo racconto? Che si fermi, con coraggio alla non conclusione, o che, se vuol concludere, vada fino in fondo, ci dia il fabula docet. Perché se non c’è il genio, ci sia almeno il chiaro, il visibile, il condivisibile.
@ Alcor, Soldato Blu
…oscillando dal tu al lei per non aver ancora preso (abbastanza) confidenza con queste benedette identità celate. sorry.
@valter
pur non con-dividendo il tuo giudizio negativo su questo thread, voglio astenermi dall’argomentare.
voglio invece chiederti se secondo te è vero, come dice benjamin, che siamo nell’epoca delle ri-producibilità tecnica dell’opera d’arte.
ti chiedo anche di indicare eventualmente di quale tipo di opera d’arte si tratterebbe.
e di quale tennica di ri-produzione.
ton pec
@Tashtego
A botta calda, senza pensarci troppo (è trent’anni che ci penso a quel librino di Benjamin) direi che si, siamo nell’epoca della riproducibilità tecnica, ma non dell’opera, bensì della “cosa” o del “lavoro” che l’opera presuppone, cioè di quella materialità di cui l’opera si sostanzia senza lasciarsene risolvere. E, si, in questa distanza tra cosa-lavoro e opera c’è qualche cosa della distinzione operata tra i due termini dalla Arendt di Vita Activa. Voglio dire che, pur avendo perso la sua “aura”, l’opera non può perdere la sua unicità: l’evidenza singolare che porta una forma inedita alla luce dell’essere è in effetti l’essenza dell’opera d’arte. In questo misticismo della poiesis non è difficile riconoscere l’eco delle riflessioni di Heidegger (non solo “in cammino verso il linguaggio”, già citato da Alcor, ma anche “L’origine dell’opera d’arte”, in “Sentieri interrotti). Per tornare al thread. il primato dell’estetica sulla critica si dimostra, secondo me, nell’incapacità da parte della seconda di cogliere l’attinenza della distinzione di cui sopra all’argomento trattato. Perchè, per quanto la realtà non si sia messa in sciopero e l’informazione sulla medesima sia più abbondante che mai, non si producono più grandi romanzi capaci di trasfigurarla in modo memorabile? Perchè ciò che è facilitata è l’attingibilità del “materiale” di cui l’opera si sostanzia, mentre il momento “poietico”, che vive di purezza sorgiva, è piuttosto ostacolato dall’asservimento degli scrittori (ma anche dei critici) di questo paese a una scolastica post-marxista che punta al “realismo”, all’iperrealismo o alla parodia (sono gemelli triovulari) o post-modernista, che traduce l’evento artistico in sofisticata ruminazione del già dato (citazionismo più o meno colto).
Mandami tu invece un pensiero tuo su questo (cosa, lavoro, opera). Ho sbirciato già sul tuo blog ma non ho tantissimo tempo. Vorrei fare una serie di post con testi non solo miei sull’argomento.
@ Poilicastro, ma non solo
(Ah, ecco a cosa si riferiva l’ etichetta, a veltroniano:–)
Più che alla medietà della posizione, mi riferivo alla struttura linguistica del commento.)
Due piccole, ma non secondarie, precisazioni. La prima: la distinzione tra “critici di mestiere” e “lettori appassionati” non è mia. Io sono stata una lettrice “appassionata” in gioventù, poi per forza di cose mi sono spostata verso l’ermeneutica. Questo riferimento alla passione è la spia (ma ammetto che in parte è giustificata dalla sede) della convinzione che i commentatori del blog siano prevalentemente lettori dilettanti. Ce ne sono, ma chi è intervenuto qui, mi par di aver capito, non lo è. Io almeno non considero lettore dilettante uno scrittore, quale che sia il suo rango.
La seconda: anche la proposta di “una storia della letteratura recente che passasse per i nomi” non è mia, ma di un altro commentatore. Io parlavo di una eventuale domanda agli scrittori sui criteri della “scelta del nome”, o sigla o definizione verbale di qualsiasi genere, dei loro personaggi.
E la cosa a a che fare con il “punto caldo” perciò abbandono i miei quesiti al loro destino e torno a bomba anch’io.
(Sono un po’ secca solo per contenere la lunghezza del commento)
Alcuni critici dello Specchio sostengono che il crollo delle Twin Towers non può darsi come evento simbolico per noi, essendo stato vissuto in Italia come evento inevitabilmente mediatico.
Ebbene, hanno ragione.
Se gli aerei si fossero conficcati – invece che nelle torri – nella cupola di San Pietro, anche se mi fossi trovata in quel momento a New York e lo avessi visto solo alla televisione, non lo avrei vissuto come evento mediatico.
Mentre Vermicino, che ricordo bene, è stato un evento mediatico.
La cupola di San Pietro si è sedimentata come immagine identitaria nella memoria del paese. Vermicino era un “caso” – per quanto drammatico e doloroso – non un evento in cui potesse ritrovarsi, rispecchiandosi, la nostra identità.
Un evento è tanto meno mediatico quanto più si radica nel corpo, nel tempo, nell’identità e nella storia di un paese tutto e di uno scrittore. E dura nel tempo.
Ed è per questo che il conflitto israelo-palestinese in tutte le sue conseguenze e declinazioni diventa romanzo negli scrittori israeliani citati, come la storia del Sud Africa lo diventa – in tutte anche le più mediate declinazioni – in Coetzee.
Nel conflitto, identità israeliana e palestinese, bianca e nera, hanno prodotto narrazione.
(Lo dico, ma non so se è del tutto vero, bisognerebbe conoscere di più quelle letterature, e non solo le opere che vengono accolte e tradotte dalla macchina editoriale. Pahmuk, per esempio, lo definireste romanziere “realista”? O non essendo occidentale resta fuori dal discorso?). Però, se penso alla Germania, il romanzo “realista” manca in fondo anche lì. In compenso c’è Sebald. E di cosa parla Sebald? Certamente non dell’oggi. E certamente non attraverso una forma romanzesca classica.
Ma lo fa “dall’oggi” E mette il dito su una parte della piaga.
Se, e dico SE, perché tradizione romanzesca noi non l’abbiamo se non sbilenca, c’è davvero l’esigenza di un Grande Romanzo Italiano, l’identità italiana, la malattia italiana, la sua piaga, dovremmo anche saperla indicare.
E mi pare che tu e Donnarumma, ma soprattutto Donnarumma, non lo abbiate fatto, se questa malattia italiana è il precariato. Che è solo una delle ricadute di un paese allo sfascio economico e sociale, ma non chiude in sé la sua complessità.
Perché i nostri problemi sociali e politici di oggi non sono percepiti evidentemente come cruciali e identitari, ma come contingenti, benché gravi. E possono trovare evidenza più efficacemtente nel giornalismo.
Neppure Siti, che è l’unico, a mio avviso, ad aver scritto uno spicchio di questo ipotetico Grande Romanzo Italiano, che è una fiaba, un mito, un fantasma, neppure lui ha scritto il GRI. Perciò io non andrei volontaristicamente alla ricerca dell’elefante bianco. Ma di ogni scrittura che nel suo modo anche non romanzesco mostrasse di avere valore di verità. E passo ai nomi.
Il nome è una cifra forte dello stile, a mio avviso.
Se Bortolotti (cito lui perché è intervenuto qui) che stimo molto e fa un lavoro minuzioso di ricerca dei fondamentalia, crea Bgmole e non paolo Rossi, ci sarà pure una ragione.
Quanto all’immagine memorabile, io non ci credo tanto.
L’immagine memorabile a volte è memorabile per qualche anno, e poi si spegne. Cosa resta poi, di questa memorabilità isolata, episodica, se non ha intorno una struttura conoscitiva e testuale che regga al tempo?
Se la ricerca conoscitiva dello stile fa il suo lavoro, lo farà nella complessità, non nell’emergenza. E l’immagine memorabile sarà inutilmente memorabile, fragilmente memorabile, se resterà isolata, come una specie di cammeo.
Ma mi rendo conto che potrei, dicendo questo, ammettere contro me stessa che – come mi ha detto Inglese – questi non sono i miei tempi. E’ possibile che io non sia più in sintonia con la sensibilità delle generazioni più giovani. Che sono ancora legata alla complessità, e alla durata che presuppone per arrivare al bersaglio. E se è così, vuol dire però anche che non c’è identità comune, ma parcellizzazione estrema, generazionale, geografica, di genere. E allora però non c’è realismo che tenga.
E questo commento mostra tutti i limiti della forma commento, anche chilometrico, che apre delle pratiche e non ne chiude nessuna.
@valter
grazie per la stima.
ma in argomento non ho un pensiero mio.
difficile trovarne anche su altri argomenti.
per questo chiedevo.
capisci?
Non ho capito molto bene quello che Gilda ha voluto dire nella risposta al mio invito.
Contesto anche che dopo “I promessi sposi” non ci sia stato il grande romanzo italiano. Io penso che ci sia stato e che sia il “Pasticciaccio” di Gadda.
Spero di riuscire a far capire il perché.
Non è assolutamente vero, per me, che il romanzo debba
illustrare una qualche “situazione” situazione, storica, sociale o…
Il romanzo riguarda qualcosa ben al di là di ambiti nazionali o cronache di eventi o conseguenze di eventi anche epocali.
Raccolgliendo un’espressione di Andrea Inglese dal suo post: il romanzo se vuole essere Grande Romanzo deve interessare, interessarsi del “destino della conoscenza”.
Può raccogliere ovunque i suoi materiali, ma deve manipolarli e offrirsi impregnato della conoscenza – tutta, ma in particolare scientifica – più avanzata del suo tempo.
Altrimenti è narrativa. Tra questa e quello tutto l’altro.
[Questo non è un saggio, quindi non posso esporre in modo esteso ciò che penso, ma posso dire che la mia affermazione sul “Pasticciaccio”,
si basa proprio su questi critieri. ]
*
[…] dico che né li poete parlavano così sanza ragione, né quelli che rimano deono parlare così non avendo alcuno ragionamento in loro di quello che dicono; però che grande vergogna sarebbe a colui che rimasse cose sotto veste di figura o di colore rettorico, e poscia, domandato, non sapesse denudare le sue parole da cotale vesta, in guisa che avessero verace intendimento.
DANTE, Vita nuova, XXV.
*
Io Dante lo prendo sul serio.
Ma sono totalmente incapace di interpretare quello che Gilda dice sul racconto che ha letto.
Nè capisco come può affermare questo:
“lo “specifico letterario” o, detto altrimenti, la chiave di resistenza e di permanenza della letteratura, non credo offenda nessuno volerla ancora cercare in un libro (e nel racconto che Soldato Blu mi invitava a leggere, non la trovavo, invece, malgrado la presenza dei “sensi”, e del “corpo vivo” o della “Fede”, addirittura)”
Perchè questa affermazione mette Gigliola allo stesso livello del commentatore che dice essere Sanguinati poeta solo nel naso.
Certo non è uno scrittore che deve dire a un critico quello che c’è nel suo scritto. Ma in questo modo si costringe lo scrittore a usare al rovescio il “principio di carità” e quindi amareggiarsi del fatto che il critico non ha capito niente di ciò che gli è stato offerto.
Anche se può essere stato offerto nella forma sbagliata.
Ma i romanzi targati “ecomafia” editi da Legambiente (con illustri autori prestati dalla scuderia Einaudi), sono un passo avanti verso il romanzo realista e d’impegno o una forma di prostituzione della narrativa alla propaganda (pur se per nobile causa) e al politicamente corretto?
Dai, critici, disbozzolatevi dai categoremi e date una risposta al quesito sollevato dal lettore bifolco.
Prolissa. Autoreferenziale. Ampollosa. Anoressicamente muscolare.
Questa critica letteraria. Eppure siamo tutti molto intelligenti qui.
Una sfilata autunno/inverno di manutenzione dei cervelli.
Cheppalle. Veramente: meno male che c’è ancora letteratura da leggere.
(Maliziosamente direi che alcuni/e non aspirano che a mettersi in vetrina
per il prossimo assegno di ricerca o una recensione strimizita-e-non pagata: almeno, conquistatevi la pagnotta! Spero nessuno vi paghi per quello che scrivete)
Meno male, in effetti, che è arrivato Gino.
Gino mancava proprio, in questa discussione.
Ma l’epoca dei dottorati, caro Gino, per noi tutti è finita da un pezzo. E quanto alla vetrina per arrivare a scrivere sui giornali, se lei ne leggesse, tanto più che i nostri nomi qui sono tutti manifesti, saprebbe che vi collaboriamo già tutti.
Chissà se questo governo chiuderà anche i blog letterari, con un bel decreto legge. Ma no, ne dubito fortemente, visto che (non sempre ma spesso) vi trionfano l’approssimazione, l’insufficienza intellettuale e l’intimidazione, praticate con tanto mestiere e costanza da chi ci governa (e del resto qualcuno deve averli pur votati). Uno nella sua giornata avrebbe anche, com’è ovvio, qualcos’altro da fare, eppure vuol misurarsi con questo mezzo e questa modalità, argomenta, si confronta, ribatte, perché crede seriamente nella possibilità di un dialogo “plurale”, di un confronto non solo tra simili, appartenenti a un ambiente comune, omogeneo, e alla fine piatto e talvolta soporifero. E però quello che ne ricava è la ripetizione seriale del gioco, ancora una volta, del nostro capo del governo: dico “senso”, ma non intendevo mica dire “senso”, e comunque non nella maniera in cui lo intendi tu (e ti pareva). E quando ho detto leggi il mio racconto, volevo dire mica leggilo ed esprimine liberamente un giudizio critico, no!, ma, piuttosto, “ammiralo, stupiscine”. E se per le restrizioni del mezzo, ci si limita invece a commentare brevemente, sebbene per nulla ammirati, stupefatti, stupiti, nella migliore delle ipotesi ci si vede recapitare un florilegio di insulti o comunque di parole in libertà. E non lo dico come molti miei colleghi che si sono volontariamente astenuti da questo contesto per partito preso o diffidenza preventiva: dopo un po’ che transito per questo spazio, mi pare di poterlo inferire con una qualche cognizione.
Se questo è un gioco, le sue regole sono troppo variabili e la scorrettezza è patente e ininterrotta, come le testate o gli sputi dei calciatori che rendono inguardabili le partite di oggi.
Caro Soldato Blu, cara Alcor, interlocutori comunque più fedeli e stimolanti di questa conversazione, credo che per quello che mi riguarda la misura sia colma, e, come nella similitudine delle cariatidi in Dante, visto che a Soldato Blu piace tanto citarlo, “più non posso”. Oppure, citando Ottonieri, che piace tanto a me, ma siamo ancora qui?
Sì, sono d’accordo con Gilda e Ottieri: è ora di farla finita con questo post.
Ma prima di chiudere, voglio fare una precisazione.
Se uno accetta un confronto con altri sul loro terreno, il linguaggio con cui ci si confronta deve essere il suo o quello degli altri?
Perchè io posso ammettere di non avere capito quello che l’altro ha detto, mentre se dico che è l’altro a non avere capito, allora è un’offesa?
Questo che dice Gigliola è pienamente vero:
“E quando ho detto leggi il mio racconto, volevo dire mica leggilo ed esprimine liberamente un giudizio critico, no!, ma, piuttosto, “ammiralo, stupiscine”. E se per le restrizioni del mezzo, ci si limita invece a commentare brevemente, sebbene per nulla ammirati, stupefatti, stupiti, nella migliore delle ipotesi ci si vede recapitare un florilegio di insulti o comunque di parole in libertà. ”
Ma, allora di berlusconismo [e quindi di essere una potenziale elettrice di quello] può essere accusata lei.
Perchè l’invito era a fare il proprio mestiere.
*
Infine (usando ancora una espressione gadameriana), dimenticano il cosiddetto «presupposto della perfezione», il quale dice che quando si esamina criticamente una teoria occorre sempre dare per scontato che l’autore sappia ciò di cui sta parlando, per lo meno quanto lo sappiamo noi (simile ma più antipatico in quanto leggermente paternalistico è il «principio di carità» di Davidson), per cui leggere un testo presupponendo che l’autore sia poco «autorevole» significa condannarsi a non capire nulla del testo stesso.
FRANCA D’AGOSTINI, Anche la filosofia soffre di cattive maniere.
*
Non è la restrizione del mezzo, ma, a parer mio, la limitazione dello sguardo.
Ma cara signora Policastro, con la domanda che ho formulato sopra io esprimo il più grande rispetto per la funzione del critico: orientare criticamente il lettore comune, di fronte ad operazioni editoriali di discreta rilevanza. A meno che la critica non si riduca ad esibizione di competenze e cultura senza scendere dall’iperuranio dell’accademia, ed eviti il giudizio sui fatti della letteratuira quando coinvolga “poteri forti”. Nel qual caso, dimostrerebbe la propria inutilità pratica.
@Soldato Blu
secondo me lei intendeva dire “limitatezza” (da intendersi come mia carenza) e non “limitazione” (come imposizione: e da parte di chi?). ma anche la lingua del padre Dante qui dentro è un optional, come tutto il resto. mi stia bene, caro Soldato, e dedichi tutto questo accanimento a migliori cause. io, per me, con Sanguineti, ancora e ancora, credo che il miglior modo per ogni critico di svolgere il proprio mestiere o incarnare la propria missione (per ogni critico e anche per ogni scrittore, che le due cose, per il Nostro, fatalmente coincidono) sia la “dimissione”.
infine, quello di storpiare i nomi dell’antagonista, o di colui che viene percepito come tale, mi consenta, è il giochino scemo che piace tanto a Emilio Fede. veda un po’ lei.
La mia inesausta passione pedagogica, intrecciata a quella ermeneutica, mi terrebbe qui senza problemi, ma è vero, è tempo di migrare.
Sono veramente dispiaciuto. E mi scuso.
Quando Gilda Policastro, qui sopra, mi accusa di storpiare i nomi di quelli che io considero avversari ha pienamente ragione.
In quest’ultimo caso, però, io ho pensato che si volesse riferire a miei interventi precedenti, in cui era capitato senza che ne avessi coscienza. Tanto da farmi notare che più che refusi parevano lapsus.
Essendo la psicoanalisi scienza, se lo è, senza possibilità di verifica sperimentale, pur non essendo d’accordo, non potevo smentire se non appellandomi alla mia buona fede.
Ma qualcuno mi ha avvisato – non me ne ero accorto – che è capitato anche nell’ultimo intervento.
Perseverare è diabolico.
Ed esssendo la psiconalasi la scienza, se è scienza, più vicina al perseverare e al diabolico umano, sono del tutto pronto ad accettare che venga detto che io soffro di qualcosa che rende debole la mia memoria e il controllo che ho di me stesso, quando scrivo il nome di quelli che in qualche modo considero avversari.
Con la stessa decisione, però, nego di aver storpiato *volontariamente* un qualche nome in questo thread.
A pensarla diversamente, l’affermazione diverrebbe infatti contradditoria. Perché, se anche posso ammettere di aver avuto come avversaria Gilda Policastro, non ho visto mai nelle affermazioni – per niente leggere – di Ottonieri, un motivo per considerarlo un avversario.
E poi di quale battaglia combattuta?
La Policastro a me sistematicamente non risponde.
Sono un nulla?
Faccio domande impertinenti?
La Policastro decide da sè quale registro, quale batteria concettuale, quali domande meritano considerazione in un thread?
La Policastro è il nuovo avatar di Visnù?
In realtà Unità NEXUS6 Roy Batty dice:
« Ho viste cose che voi umani non potreste immaginare. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire. »
Ma mi sembrava esagerato e istintivamente ho ripiegato su D’Annunzio.
Ho provato a chiedere quali fossero le premesse estetiche (concezione di oggetto d’arte e oggetto reale) a chi parla di realismo in letteratura. Non ottenendo risposta, ho provato a chiedere come venga giudicata, in termini di realismo e impegno letterario, una certa iniziativa editoriale. Niente.
Una conclusione (l’unica che riesco a trarre).
La Critica è un apostrofo rosa tra due parole: t’acquisto.
Vero è che Binaghi chiede, educatamente, e nessuno gli risponde. Eppure, che vi piaccia o no, Binaghi è uno che i libri li scrive e li pubblica. Non si chiedeva a viva voce l’opinione degli scrittori in questa discussione?
Il nostro mondo letterario non ha il dovere di leggerli i suoi libri, o di farseli piacere, ma, quanto meno, avere la buona educazione di dargli una risposta. (che poi mi diventa cattivo!)
Giusto pochi secondi fa ho mandato un commento scorato al post di Andrea Inglese, dopo aver letto di Donnarumma che si lamentava del silenzio dei commenti.
Questi miei commenti essendo d’impulso, sono spesso “brutti, sporchi e cattivi”, ma m’è venuta voglia di replicarlo talequale anche qui.
Ve lo rifilo:
Dillo a me, Donnarumma.
Pubblico un dialogo con uno dei migliori scrittori viventi al mondo, che parla del suo laboratorio di scrittura – dato che è stato chiesto da alcuni critici in questa discussione la voce degli autori – e nessuno di “voi” critici fa un commento. Forse perché Banville non è stato letto, non si sa neppure chi è? Forse perché (questa è una cattiveria) gli autori che citate, pro o contro, sono sempre quei 4, intercambiabili? Erano i loro commenti che volevate? Volevate la loro conferma/benedizione? O (che è la stessa cosa) opposizione?
Spesso mi chiedo: ma fuori dei soliti noti, americani (qualche sparuto francese che fa vecchiaeuropa) e italiani, che cosa leggono i nostri cervelli critici?
(e al primo che snobbisticamente guarda blog come NI con la puzzetta sotto il naso, faccio notare che in Italia solo qui autori come, ad es., Danilo Kis vengono citati da anni).
A uno di questi critici che è intervenuto abbondantemente nella discussione misi in mano meno di un mese fa (non vi dico chi per pudore) un libro straordinario: Herta Müller, “Il paese delle prugne verdi”.
Un capolavoro.
Pubblicato, tra l’altro, da una piccolissima casa editrice, quindi neppure la questione (insulsa e demenzialissima) dell’odio nei confronti della macchina editoriale avrebbe avuto senso.
In questo libro tutta la discussione “realismo vs. postmodernismo” o “formalismo vs. contenutismo” andrebbe in vacca.
Solo che lei è autrice rumena di lingua tedesca.
Il suddetto critico (che io ammiro, ben inteso) me l’ha restituito dicendomi, ironico: “non ho tempo per leggere tutto”.
Avevo voglia di dirgli: “non hai tempo di leggere nulla che non stia dentro il recinto che ti sei costruito”.
C’è un doppio binario di provincialismo: o l’americanismo cieco o l’italianismo ad oltranza. Il resto del mondo non esiste. In più: agli americani si permette pure il successo popolare, ai nostri “soliti noti” si esige che siano “autoriali” da subito, non invischiati con scritture pop, di genere o di successo.
Non ostante la profusione di intelligenze e di intuizioni spesso illuminanti, tutta la discussione appare, perciò, viziata all’origine, secondo il mio modesto avviso.
@ soldato blu
Bah. Non mi riferivo a Lei. In nessun modo. Da quest’ultimo intervento, però, vedo che Lei voleva fortemente che fosse così. Mi fa piacere che abbia lavorato su Gadda, e spero che il Suo lavoro riceva finalmente l’attenzione che merita. Quanto invece alla valutazione circa i saggi altrui… sono parole che si commentano da sé, e che denotano, se mi permette, una certo infantilismo, che non ci si attenderebbe certo dal Suo nick. E credo “irricevibili” (appunto) impubblicabili parole, in qualunque sede degna di rispetto. Come questo blog, partito benissimo, e che sta diventando un dispettoso kindergarden dove arrivano insulti palle di neve aeroplanini freccette avvelenate per il puro gusto del partito preso, senza alcuna attinenza col lavoro (letterario) reale. Applicato oppure meno (e senza dover risalire a Croce attraverso Loos).
Ragion per cui, autorizzo e incoraggio Domenico Pinto a cancellare tutti i post riferiti a questa infantilissima bega; compresi i miei naturalmente. Non credevo di essermi reso così odioso; semplicemente, avevo il dovere di difendermi dai soliti agguati tesi da chi disprezza il mio lavoro perché odia quelli che gli hanno detto essere i miei padri (ma lo sapevamo: sono trent’anni o quasi che conosco bene il caso); avevo persino fornito una mail per ricevere privatamente, e più civilmente anche nell’inciviltà, apprezzamenti o insulti personali, come quelli che hanno continuato ad avanzati da alcuni; e anche materiali, critici creativi ricreativi, se la cosa interessa.
Puoi, caro Pinto: anzi, ti invito a farlo! A partire da domani. Lascia il tempo ai cecchini sempre in agguato, di leggere questo mio invito. Potranno continuare i loro insulti sui propri blog, o incollarli lì se proprio ci tengono; o semmai di esercitarsi in una retorica un po’ più indiretta, un po’ più di fioretto, un po’ più, accidenti, “letteraria” (“linguaggio da signorini”… lo si vada a dire anche al Gaddus, magari), un po’ meno meschinamente attaccata all’aggressione personale; senza inquinare questa sede, che merita ben altro. Grazie.
p.s. vista la degenerazione progressiva di questo blog, invito tutti a spostarsi sul bell’intervento di Guido Milani, “Quale realtà”. Liberando, a parte me, anche la ormai estenuata Policastro.