Dalle terre di mezzo della prosa

di Andrea Inglese

[Presento qui parte di un intervento pubblicato nel n°69 di “Nuova Prosa”. Queste considerazioni generali su prosa & dintorni sono seguite da brevi paragrafi che introducono dei testi inediti di Alessandro Broggi, Fiammetta Cirilli, Manuel Micaletto e un’intervista realizzata con Giuseppe Montesano. Per questi materiali e gli altri raccolti dal Cartello (Forlani, Sartori, Schillaci e il sottoscritto) si rimanda alla rivista.]

Vivere è incoerente. È frammentario. Ma è lecito che sia tale. Fa parte del disordine naturale dei giorni e degli anni; e vorrei che mi fosse concesso, innaturalmente, di godere di questa delizia: divagare.

Giorgio Manganelli

 

Nel regno delle ombre

Magari non se ne è accorto nessuno, e parlo per gli specialisti della narrativa, e di quella nostrana ovviamente, ma sono successe cose strane e pertinenti nel mondo della prosa, almeno nel corso degli ultimi dieci, quindici anni. Ora non dico che gli specialisti della narrazione debbano per forza occuparsi di quella cosa anomala che è la prosa, dal momento che quest’ultima non è un genere, e soprattutto non è il romanzo. Perché sul romanzo (italiano) si può essere critici, anzi perfidi, disperati, sarcastici, ma gli si dedica tutta l’attenzione che esso editorialmente merita. Si piange spesso per la povertà del romanzo, tra gli specialisti di narrativa, ma non gli si tolgono mai gli occhi di dosso. Anche perché se ne sfornano quelle due o tre tonnellate, che rendono così festosi e labirintici i saloni del libro. Ma non si capisce poi perché io tiri in ballo gli specialisti di narrativa, volendo gravare di colpe ulteriori la famiglia dei critici letterari, che già scontano diverse nefandezze. Nella gara a chi è morto prima, non si sa mai se è schiattata la critica o il romanzo. La poesia diamola per morta, senza temere contraddittorio. La saggistica, mi diceva un amico filosofo, ha ridotto le vendite del 40% dopo la crisi del 2008. Quanto al racconto, esso non è semplicemente un genere vuoto come la poesia, un carapace senza polpa, ma è proprio un genere commercialmente vietato, e nel caso represso editorialmente. Sto divagando. Ma ho messo piede nel mondo della letteratura, ossia delle ombre. Chi conosce le autentiche, precise, inconfutabili cifre delle vendite? Sono documenti non ancora declassificati. Gli unici che a quanto pare tengono in attivo l’azienda, ossia quelli dei romanzi polizieschi, si lamentano però di essere maltrattati dalla critica. Manca ancora una coordinazione più affiatata nell’industria light editoriale. Infine vi è il lettore che, per vocazione, non vuole leggere. Soprattutto in Italia, è proprio recalcitrante a comprare libri, in quanto teme lo sforzo psichico, aborre le pretese stilistiche ed esige un chiaro succo, un utile semantico senza eccessivi tentennamenti. Così in ogni caso se lo immagina per lo più l’editoria.

 

Anomalie in prosa

In questo viaggio tra le ombre, però, ero partito dal più oscuro degli oggetti letterari, ossia la prosa, che vorrei considerare disinvoltamente come la terra di mezzo tra poesia e narrazione. Non azzardo qui definizioni, ma parto da questa constatazione: ad un certo punto alcuni poeti nel corso del primo decennio del secolo hanno cominciato a frequentare in modo anomalo la prosa. Dico in modo anomalo, perché vi è una nutrita tradizione moderna di poeti che scrivono in prosa, dal Baudelaire del poème en prose al filone più italiano, vivo soprattutto nel primo Novecento, della prosa lirica. Temi questi di predilezione accademica e su cui molto si è scritto. E si è anche lavorato abbastanza su quei poeti che, nel secondo Novecento, fino ad anni più recenti, hanno frequentato anche la prosa, da Gabriele Frasca a Valerio Magrelli, da Antonella Anedda a Eugenio De Signoribus, oltre al caso particolare di Giampiero Neri, poeta riconosciuto e prosatore esclusivo. Anche per questi autori la pratica della scrittura in prosa non sembra aver messo in crisi o ridefinito il loro statuto di poeti. Ognuno di loro percepirà diversamente la distanza che separa un testo in versi da uno in prosa, ma ciò avverrà nella forma della continuità (la prosa come poesia con altri mezzi) o nella forma dell’alternanza (o poesia o prosa). Bisogna però attendere il volume collettivo Prosa in prosa, pubblicato nel 2009, per vedere riuniti sei “poeti” che non solo raccolgono esclusivamente dei testi in prosa, ma anche assegnano a questa operazione una portata teorica, facendosi scortare da due critici come Paolo Giovannetti e Antonio Loreto. I sei autori sono Gherardo Bortolotti (scrive esclusivamente in prosa), Alessandro Broggi (scrive in versi e in prosa), Marco Giovenale (tende a scrivere libri solo in versi e libri solo in prosa, ma non sempre) Andrea Raos (scrive in versi e in prosa), Michele Zaffarano (solo in versi o solo in prosa ma non sempre) e il sottoscritto (idem). Questo libro, Prosa in prosa, quale che sia il suo effettivo valore letterario, per le scritture in esso raccolto, per gli intenti che si dava e per le prospettive che ha aperto nel mondo spettrale della poesia, ha segnato una discontinuità nei confronti di un più assodato rapporto tra il poeta e la scrittura in prosa. (Ne prende atto anche molto recentemente Gianluigi Simonetti, nella sua nitida cartografia La letteratura circostante. Narrativa e poesia nell’Italia contemporanea, il Mulino, 2018. Si veda specialmente il paragrafo Esperimenti con la prosa, pp. 213-219.) La “prosa in prosa” ha avuto la pretesa non solo di estendere e articolare la scrittura poetica, ma di mettere simultaneamente in crisi lo statuto della poesia, da un lato, e lo statuto della narrativa, dall’altro. La formula stessa, per la sua opacità, si è prestata a questa operazione, ma non dice granché di positivo. È stata presa in prestito dal critico e scrittore francese Jean-Marie Gleize, e in essa si ripercuotono anche suggestioni che vengono dal language poetry statunitense. In termini negativi, invece, funziona bene: né prosa lirica, né prosa saggistica, né prosa narrativa. Non si tratta, quindi, di propagandare una specifica poetica e neppure – dal mio punto di vista – di privilegiare certi procedimenti di scrittura rispetto ad altri. Si tratta di associare all’atto stesso dello scrivere un esercizio critico che riguarda ogni forma di codificazione letteraria, ma questo esercizio non si limita soltanto all’uso parodico dei generi, che le letture del post-moderno letterario ben conoscono, né alla semplice e neoavanguardistica produzione dell’anti-genere (anti-romanzo, anti-poesia, ecc.).

Tutto ciò, insomma, avrebbe dovuto interessare se non il neghittoso lettore italiano, almeno l’insoddisfatto critico letterario di narrativa, sempre alla prese con la monotona sovrapproduzione romanzesca. Egli avrebbe magari potuto individuare, se italianista, ipotetiche parentele tra anomalie narrative italiane ormai assodate (Arbasino, Agnetti, Bene, Manganelli) e queste più recenti provenienti dal mondo della poesia. Nel caso, poi, di un comparatista, altre sarebbero state le parentele riscontrabili nelle italiane prose in prose, come quelle con i romanzieri pochissimo conformi Robert Pinget, Maurice Roche, Hélène Bessette, tutti francesi, o i tedeschi Peter Handke e Botho Strauss (i primi libri), o l’irlandese e francofono Samuel Beckett, o ancora gli statunitensi Robert Coover e Ishmael Reed, tanto per cominciare. Con questo intendo dire che nelle periferie romanzesche come in quelle poetiche vi è una comune, feconda, difficilmente classificabile, terra di mezzo della prosa, che è stata variamente attraversata in una direzione e nell’altra, già nel corso del Novecento, e che continua ad essere aperta a ulteriori attraversamenti oggi.

In realtà, di questa eretica circolazione ne hanno cominciato a parlare in modo tempestivo e pertinente almeno due critici, Andrea Cortellessa e lo stesso Paolo Giovannetti. (Il secondo, dal versante della poesia verso la prosa; il primo, includendo – secondo me a ragion veduta – Bortolotti nell’antologia da lui curata Narratori degli anni Zero.) Non è un caso che entrambi continuino a esplorare entrambe le produzioni, quella narrativa e quella poetica, nonostante l’irrimediabile impopolarità di quest’ultima. Non solo, ma questa strabica curiosità fornisce loro anche strumenti di rivelazione più fini per leggere la narrativa e i suoi dintorni, rispetto a quelli impiegati dai loro colleghi dalla vocazione monistica. In ogni caso, questo collegamento tra esplorazione della narrativa attuale e anomalie in prosa è un discorso eretico in primo luogo per alcuni miei compagni di strada della “prosa in prosa” che, a seconda di come la si voglia vedere, o rimangono molto poeti-poeti o si proiettano – utilizzando ancora il Gleize teorico – in una post-poesia. E hanno buoni motivi per farlo, dovendo però liquidare il romanzo e i suoi dintorni, ossia il genere che, assieme alla poesia, ha conosciuto nel Novecento le sperimentazioni più radicali. La mia proposta è su questo punto diversa. M’interessa tracciare itinerari di lettura che: 1) vadano e vengano tra Novecento e nuovo secolo ogni volta che ciò è proficuo, e lo è molto spesso (“novecentesco” non è sempre sinonimo di “polveroso e stantio”); 2) esplorino le anomalie romanzesche e narrative novecentesche e non, per coglierne parentele con anomalie poetiche novecentesche e non, in prosa e non; 3) valutino le necessità conoscitive, concettuali e anche espressive degli usi di certe forme linguistiche (letterarie o meno), dentro contesti di comunicazione letteraria – perché in un certo libro, in una certa performance, in un intervento multimediale, un autore utilizza un tipo di prosa piuttosto che un altro, attraversando un genere piuttosto che un altro? Questo atteggiamento non è semplicemente critico-teorico ma è conseguenza di un moto della prosa che, a seconda dei suoi oggetti o procedimenti fondamentali, si muove traversando frontiere di genere diverse e in direzioni diverse. Non per forza nella direzione di una terra promessa extraletteraria, dove tutti i rischi connessi con la pratica letteraria moderna, tardo-moderna o oltre-moderna sarebbero elusi.

*

[Foto dell’autore, 2016]

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.