A gamba tesa: Sergio Bologna
Sergio mi ha appena mandato questo suo testo. Lo giro a voi sicuri di fare cosa grata. Effeffe
ps
Ne approfitto per ringraziare quanti su segnalazione o spontaneamente hanno linkato, copiaincollato, fotocopiato il testo di Sergio Bologna. Grazie a loro si sono sviluppati commenti, discussioni altrettanto interessanti quanto quelle che si sono lette e viste qui. Tanto per cominciare,
Centro Studi Franco Fortini ovvero l’Ospite Ingrato
a seguire:
Georgiamada
In sonno e in veglia
Scriptavolant
Il primo amore
Bellaciao
Come Don Chisciotte
Annarita Briganti
Tabard
GMANE
Scritti inediti
Roma Indymedia
Caparossa
Senza soste
Bianca Madeccia
Melpunk
…e tanti altri che invito a segnalarsi nei commenti. Grazie a tutti.
Toxic asset – toxic learning
di
Sergio Bologna
Nello spirito del ’68 – senza nostalgie nè tormentoni
(dopo un incontro all’Università di Siena, organizzato dal Centro ‘Franco Fortini’ nella Facoltà di Lettere occupata, il 6 novembre 2008)
State vivendo un’esperienza eccezionale, l’esperienza di una crisi economica che nemmeno i vostri genitori e forse nemmeno i vostri nonni hanno mai conosciuto. Un’esperienza dura, drammatica, dovete cercare di approfittarne, di cavarne insegnamenti che vi consentano di non restarvi schiacciati, travolti. Non avete chi ve ne può parlare con cognizione diretta, i vostri docenti stessi la crisi precedente, quella del 1929, l’hanno studiata sui libri, come si studia la storia della Rivoluzione Francese o della Prima Guerra Mondiale.
Ho letto che l’Ufficio di statistica del lavoro degli Stati Uniti prevede che nel 2009 un quarto dei lavoratori americani perderà il posto.
Qui da noi tira ancora un’aria da “tutto va ben, madama la marchesa”, si parla di recessione, sì, ma con un orizzonte temporale limitato, nel 2010 dovrebbe già andar meglio e la ripresa del prossimo ciclo iniziare. Spero che sia così, ma mi fido poco delle loro prognosi.
Torno da un congresso che si è svolto a Berlino dove c’erano i manager di punta di alcune delle maggior imprese multinazionali, con sedi in tutto il pianeta, gente che vive dentro la globalizzazione, che dovrebbe avere il polso dei mercati, gente che tratta con le grandi banche d’affari e con i governi. Mi aspettavo un po’ di chiarezza, qualche prognosi meditata. Balbettii, reticenze, sforzi per minimizzare, qualcuno che fa saltare la conferenza all’ultimo minuto perché richiamato d’urgenza. Pochissimi quelli che hanno parlato chiaro dicendo che la cosa è molto seria, che nessuno sa come andrà a finire e che le conseguenze potrebbero essere catastrofiche.
Ma voi vi occupate – giustamente – dei tagli alla spesa universitaria e tutti vi applaudono, docenti in testa e politici d’opposizione e magari anche qualcuno della maggioranza, siete scesi in piazza autonomamente e tutto sommato tira un’aria di consenso attorno a voi. Non era così nel ’68, forse perché allora un po’ di violenza c’era, in parte provocata dal comportamento dello stato o delle forze dell’ordine. Ma quel che di buono c’era allora, di eccezionale, era la grande voglia di capire il mondo che avevano gli studenti. In Francia erano partiti dalle tasse universitarie, dal discorso della riforma degli studi ma tutto sommato quel che volevano era molto di più, volevano darsi gli strumenti per cambiare le cose, volevano capire cosa succedeva nei paesi comunisti, o nell’America Latina dove sei mesi prima Che Guevara ci aveva lasciato la pelle, volevano capire a cosa portava la politica di Piano del governo gollista, che cos’era un sindacato operaio, volevano vedere come funzionava una fabbrica e come parlavano gli operai dentro, come funzionava un ospedale e come venivano trattati i malati. E’ questa grande voglia di sapere, questa sconfinata ambizione di sapere, questa utopica sfida alle capacità della propria conoscenza, che io non vedo tra di voi. O, meglio, che all’esterno non si vede, non si percepisce.
Volete salvare l’Università, così com’è? Spero di no. Com’è oggi non vale una messa, come si dice. Oggi si taglia malamente, d’accordo, ma ieri si è speso peggio e tutti i governi ci hanno messo del suo. L’Università si è allargata come un virus, qualunque cittadina con un sindaco un po’ dinamico riusciva ad avere il suo pezzetto d’Università. L’Università come retail. Alla qualità della spesa nessuno ha pensato e ben presto è nato il sospetto che questo meccanismo dilatatorio non fosse – come ci raccontavano – animato dalla nobile intenzione di fare della conoscenza una merce a portata di mano ma dal meschino proposito di creare cattedre con il loro corollario di posti precari e malpagati. Se non temessi d’essere frainteso vi direi: “La difendano loro questa Università, i professori”. Voi che c’entrate? Avete mai avuto modo di partecipare sia pure alla lontana alle decisioni che sono state alla base della configurazione dell’Università com’è oggi? Finora, con le vostre tasse avete pagato un servizio sulla cui qualità ed efficienza non esistono parametri di valutazione di cui possiate disporre per chiederne il miglioramento. “Mangia questa minestra o salta da quella finestra”. E quasi uno studente su due salta, il tasso di abbandono nell’Università italiana – leggo sul sito www.lavoce.info – è vicino al 50%. E chi inizia gli studi e li abbandona sapete bene che è un soggetto ad alto rischio di disadattamento. Una volta, quando la lingua italiana aveva ancora un tono popolare, si diceva “E’ uno spostato”.
“Gli studenti italiani potrebbero fare causa a metà degli atenei italiani per i servizi che offrono”, scrive Roberto Perotti, nel libro L’Università truccata (Einaudi, Torino 2008) – un libro che spero tutti voi abbiate almeno scorso. A leggerne le prime 90 pagine vien da pensare che qualche abbandono può essere stato provocato dallo schifo di fronte a certe situazioni di nepotismo e di corruzione. Un libro che sfata alcuni miti, che combatte alcuni luoghi comuni, come quello delle scarse risorse dedicate in Italia all’Università. Sono scarse se si calcola l’ammontare della spèsa diviso per il numero di studenti iscritti ma se invece si assume come parametro non il numero degli iscritti ma di quelli che frequentano veramente a tempo pieno, l’Italia sarebbe ai primi posti nel mondo.
Ma molti di voi potrebbero dirmi che la lotta contro i tagli al budget universitario è solo un veicolo per esprimere a livello di massa e con facile consenso opposizione al governo Berlusconi. Dunque non di bassa cucina si tratterebbe, non di volgari valori economici, ma di alta politica. E come nel ’68 gli studenti francesi avevano lottato in definitiva contro il Generale De Gaulle, così quarant’anni dopo gli studenti italiani lotterebbero contro il Cavaliere Berlusconi. (Per inciso debbo dire che mai due si sono assomigliati di meno, il Cavaliere anche coi tacchi rinforzati non sarebbe arrivato alla cintola del Generale, l’uno alto alto, rigido e solenne come una statua di cera, l’altro piuttosto basso e tarchiato, gesticolante a dentiera scoperta). Ma se questa è l’alta politica che vi spinge all’azione mi sentirei in tutta franchezza di dirvi “scegliete un percorso diverso” perché altrimenti rischiate di farvi usare come carne da macello da coloro che condividono con la Destra il pensiero strategico sottostante alle scelte economiche della Seconda Repubblica e dunque sono sostanzialmente corresponsabili della crisi attuale e delle sue conseguenze future. Ciò che minaccia il vostro futuro non è soltanto il governo della signora Gelmini ma un pensiero economico bipartisan che non ha mai saputo né voluto mettere vincoli o imporre regole a una gestione del sistema finanziario dove nulla ormai assomiglia a un mercato ma tutto assomiglia a un gioco d’azzardo con i soldi dei lavoratori e della middle class che vive del proprio lavoro. Un sistema che è stato capace di creare ricchezza fittizia e di distruggere ricchezza reale in misura mai vista nella storia recente. Un sistema la cui follìa era già evidente a tutti almeno dallo scoppio della bolla del 2001, un sistema che premiava i manager che gestivano le imprese non per farle crescere ma per farle dimagrire, aumentandone il valore di borsa a furia di licenziamenti del personale, per rivenderle e intascare fior di premi e plusvalenze. Un sistema che in nome dell’efficienza e della competitività distruggeva soprattutto le competenze, il capitale umano (quando si licenzia per diminuire l’incidenza dei salari si comincia dalle posizioni meglio retribuite, cioè dagli impiegati e tecnici più anziani e con maggiore esperienza). Un sistema che ha riprodotto nella società le abissali differenze di reddito esistenti nelle grandi aziende (manifatturiere o di servizi che siano) e che quindi ha ridotto l’Italia in un paese con i maggiori squilibri tra la parte più ricca e quella meno ricca della popolazione, come ben testimonia l’indagine Bankitalia sulle famiglie italiane. Un sistema che ha consentito
“a chi lavorava nella finanza di guadagnare già nel 2000 il 60 per cento in più rispetto agli altri settori” – scrive Esther Duflo, che insegna al MIT di Boston – e aggiunge:
“Il problema delle remunerazioni è stato ovviamente affrontato negli Stati Uniti quando si è discusso il piano Paulson, che autorizza il governo americano a spendere 700 miliardi di dollari per acquistare i toxic asset rifiutati dai mercati. Sembra ingiusto far pagare ai contribuenti il disastro creato da coloro che in un’ora guadagnavano 17mila dollari”,
e conclude il suo intervento con queste parole:
“Osservando gli avvenimenti di questi giorni vien voglia di mandare a casa certi nostri amministratori delegati del settore finanziario. Speriamo almeno che la fine dei guadagni esorbitanti incoraggi i giovani a dedicarsi ad altri settori dove i loro talenti potrebbero essere più utili alla società. La crisi finanziaria potrebbe farci cadere in una recessione grave e prolungata. L’unico vantaggio potrebbe appunto essere quello di un migliore impiego dei nostri giovani più dotati”.
Le elezioni americane, portando alla presidenza Barack Obama, sono state una bella reazione a questa insopportabile situazione e fareste bene a riflettere in seminari di autoformazione su quel che è accaduto negli Stati Uniti. Tutta la stampa e l’opinione corrente è unanime nel dire: “E’ accaduto un fatto nuovo perché è stato eletto un nero, un afroamericano”. Soliti giudizi superficiali, da semianalfabeti della politica. Queste elezioni sono state importanti perché dopo circa 30 anni – dai tempi di Reagan – la tematica di classe è stata al centro del dibattito. Non del proletariato, ma della middle class (di cui fanno parte anche strati operai di grande fabbrica), cioè di quel ceto medio che per più di un secolo ha fatto da collante alla credibilità dell’american dream e che da alcuni anni – proprio in conseguenza dei processi scatenati da una forma di capitalismo senza regole e senza etica, un capitalismo di avventurieri e di giocatori d’azzardo – ha subìto un processo d’impoverimento che non trova paragoni se non nella grande crisi del 1929. Contro questa tendenza alla disgregazione sociale e all’impoverimento della middle class hanno cominciato a battersi da alcuni anni molte iniziative civiche (tra le tante quella messa in piedi dalla nota giornalista e scrittrice Barbara Ehrenreich con il sito www.unitedprofessionals.org). Barack Obama ha colto questo disagio, questo malessere, e ne ha fatto il suo tema dominante. Non ha parlato, come ormai ci hanno abituato questi bolsi, stucchevoli, “politicamente corretti” leader della cosiddetta Sinistra, di “quote rosa”, di gay, non ha parlato di bianchi e di neri, di aiuole pulite e di biciclette, è andato al sodo, ha puntato il dito sui disastri del neoliberalismo selvaggio, ha fatto per la prima volta dopo 30 anni un discorso di classe. E ha vinto riuscendo a portare alle urne anche i giovani, che al 70% hanno votato per lui. Ha colto la grande tendenza dell’epoca, quella che da tempo cerco di chiarire a me stesso ed agli altri nei miei scritti sul lavoro (l’ultimo mio libro si intitolava “Ceti medi senza futuro?” e non se l’è filato nessuno).
Sono convinto che la lotta che state conducendo potrebbe essere utile a voi stessi e agli altri se ne approfittaste per crearvi un vostro sistema di pensiero, per procurarvi strumenti critici in grado di capire com’è accaduto quel che è accaduto e quali sono stati i perversi meccanismi che in questi ultimi vent’anni hanno dominato l’economia, senza che venissero contestati né da Destra né da Sinistra – a parte qualche voce isolata di studioso. “Un sistema che si autoregola, per questo esistono le Authorities” – recitava la litania liberista in questi anni. Balle! Basterà dire che lo scandalo Enron, che spesso viene portato ad esempio della severità con cui il sistema USA punisce le aziende dal comportamento irregolare, non sarebbe mai scoppiato se una donna che era membro del Consiglio di Amministrazione non avesse deciso di “cantare”, di svelare gli imbrogli. Una “gola profonda” è stata all’origine di tutto, non certo l’FBI! Negli anni della forsennata privatizzazione (1992/93) con cui l’Italia ha messo nelle mani di nuovi raider della finanza immensi patrimoni pubblici (leggetevi a questo proposito il libro di Giorgio Ragazzi I signori delle autostrade, Il Mulino, Bologna 2008 – ma lo stesso se non peggio potrebbe dirsi di Telecom), suggellando il suo “golpe bianco” con l’accordo sindacale del luglio 1993 grazie al quale oggi abbiamo i salari d’ingresso più bassi d’Europa, non erano certo personaggi della nuova Destra a menare la danza ma uomini come Romano Prodi ed altri ex manager pubblici. A beneficiarne sono stati i Tronchetti Provera, i Benetton, i Colaninno, i Gavio – li ritroviamo tutti guarda caso oggi nella vicenda Alitalia. L’Università di Siena ha la reputazione di essere un centro di eccellenza nelle discipline economiche e bancarie. Vi hanno mai parlato di queste storie e come ve ne hanno parlato? E della crisi odierna che vi dicono? Che è una solita crisi ciclica, forse un po’ più acuta ma in sostanza è tutto normale, razionale, un po’ di eccessi magari ci sono stati ma il sistema è saldo, è sano. Questo vi dicono? Non vi dicono che questo sistema, questi meccanismi, creano, stabilizzano, consolidano le disuguaglianze sociali, le ingiustizie sociali? Non vi dicono che questo sistema umilia, calpesta le competenze, il capitale umano? Che è l’esatto contrario della knowledge economy di cui si riempiono la bocca, l’esatto contrario di un sistema meritocratico? E se non ve le dicono queste cose, se continuano a raccontarvi le solite favole di Cappuccetto Rosso, se continuano a farvi flebo d’ideologia liberista – allora mandateli loro a protestare nelle piazze per i tagli all’Università.
Questa vostra lotta ha un senso se è un passo in avanti, se diventa atto costitutivo di un processo di autoformazione.
Quel che è avvenuto in questi mesi non è mai accaduto nell’ultimo secolo e cioè che istituzioni e persone le quali hanno prodotto danni incalcolabili (pensate soltanto ai fondi pensione che si sono volatilizzati con questa crisi!) invece di essere punite ed i loro beni sequestrati, sono state salvate senza che lo stato, che ha fornito i mezzi per salvarle, assumesse il controllo di queste istituzioni. Un regalo di enormi proporzioni agli avventurieri, ai ladri, una terribile lezione morale per le nuove generazioni. (Non che la gestione pubblica sarebbe stata migliore, in Germania le peggiori nefandezze le hanno commesse alcune banche pubbliche come la Landesbank della Baviera).
C’è stato qualcuno che vi ha chiamato in piazza per opporvi a questa vergogna?
Ma ha ragione in un certo senso anche chi dice: “che cosa si poteva fare d’altro?” Nessuno infatti ha saputo o voluto in questi anni immaginare una società diversa che non fosse un’utopia. Alternative globali nessuna, solo strategie di sopravvivenza. Ed è sostanzialmente questo che vi propongo anch’io: costruendo percorsi comuni di autoformazione costruite anche delle reti, vi liberate pian piano dalla costrizione all’isolamento, dall’individualismo e soprattutto dall’illusione che “una buona preparazione universitaria”, corredata magari da qualche corso o master post laurea, possa mettervi al riparo dalla crisi, dalla sottoccupazione o dall’umiliazione di vedervi trattati dal datore di lavoro come un puro costo.
In un paese dove i salari d’ingresso, quelli dei primi assunti, sono i più bassi d’Europa, la preparazione conta assai poco. I precari, i lavoratori a tempo determinato, hanno delle remunerazione parametrate su quelle dei primi assunti. Dunque anche loro sono pagati peggio che altrove. E le vostre generazioni rischiano di andare avanti con lavoretti precari fino ai 40 anni. Pertanto è pura demagogia quella di coloro che parlano di democratizzazione degli accessi, che difendono di questa università il fatto che possono iscriversi anche i figli di famiglie povere. Il problema non è la massificazione della popolazione studentesca ma il fatto che il capitale umano di un laureato non vale una cicca sul mercato del lavoro! O i giovani riacquistano un minimo di forza contrattuale sul mercato del lavoro oppure l’università sarà solo un frigorifero di disoccupati, un osceno apparato di puro controllo sociale. Pesanti le responsabilità sindacali per questa situazione. Miope e meschina la strategia del padronato italiano da vent’anni a questa parte. Squallido il mondo dell’informazione che su questa realtà tace o si sofferma di sfuggita. Quarant’anni fa gli studenti sono andati nelle fabbriche, negli uffici, nei laboratori di ricerca, negli ospedali, nelle aule dei tribunali, nelle redazioni dei giornali a vedere come funziona il mondo reale, non si sono accontentati di lasciarselo raccontare, non hanno fatto visite guidate. Ficcatevi nei processi reali ovunque se ne presenti l’occasione! Usate la grande risorsa del web per procurarvi le notizie alla fonte, per attingere a visioni critiche del mondo, anche se questo esercizio talvolta vi costringe a rovistare nella spazzatura di Internet. Gli Stati occidentali che hanno smantellato i sistemi di welfare si sono ridotti a ingoiare toxic asset, voi cercate di non inghiottire toxic learning! Avrete già fatto un passo in avanti per vivere meglio.
Organizzate incontri con quelli che hanno alcuni anni più di voi, fatevi raccontare come vengono accolti dal mondo del lavoro, quando escono dall’Università. Frequentate i blog dove la gente racconta le proprie esperienze di lavoro, chiedetevi seriamente se val la pena di studiare in un’Università com’è fatta oggi oppure se non sia meglio costruire processi di autoformazione e di controinformazione. Scatenate la fantasia nel creare un’estetica della protesta, efficace, aggressiva, non ripetitiva, le forme della comunicazione sono state uno degli strumenti vincenti delle lotte del proletariato nel Novecento, ripercorrete le spettacolari performances degli occasionali dello spettacolo francesi che hanno tenuto duro per un paio d’anni, buttate nella spazzatura vecchi slogan, scanditi stancamente, parole d’ordine che sono ormai diventate banalità che fanno venire il latte alle ginocchia. Ai vostri colleghi che affollano le facoltà di comunicazione non viene nulla in testa?
Ho insegnato all’Università per quasi vent’anni, quando mi hanno cacciato non ho fatto nulla per restare, per difendere la mia cattedra, gli ultimi due anni d’insegnamento li ho passati all’Università di Brema, ormai un quarto di secolo fa. Ci sono tornato in questi giorni perché un mio collega di allora prendeva congedo definitivo dall’insegnamento e andava in pensione un anno prima del termine previsto dalla legge in Germania. Aveva rinunciato, com’è d’uso, alla lectio magistralis. E nelle poche parole di congedo davanti a un centinaio di amici e colleghi ha voluto dire perché se ne andava in anticipo. “ho fatto il Preside di Facoltà in questi ultimi cinque anni, mi ci sono dedicato completamente, pensando di fare il mio dovere, non ho avuto tempo né di studiare né di tenermi aggiornato, non me la sento di tornare a insegnare per dire le stesse cose di cinque anni fa, non me la sento per onestà verso gli studenti”. Quanti docenti italiani farebbero lo stesso? Questi fanno i Ministri e poi tornano tranquillamente a insegnare, specialmente se vengono da governi di centro-sinistra. Malgrado l’Università italiana sia un luogo da cui sono contento di essermene andato, sia un luogo che umilia le intelligenze invece di stimolarle, credo che siano ancora tanti i docenti e molti i ricercatori con i quali voi potete stabilire un patto di formazione negoziata. Le dinamiche di coalizione che si creano durante un processo rivendicativo, durante una protesta che chiede la restituzione di qualcosa – come la maggior parte delle proteste che nascono da situazioni difensive e non da un’iniziativa preventiva – sono molto fragili e rischiano d’impoverirsi e irrigidirsi, troppo focalizzate sull’obbiettivo. Pertanto occorre pensare ad attivare processi di continuità, svincolati dall’obbiettivo. Francamente, se la 133 viene ritirata la vostra condizione di fondo non cambia. E’ questa condizione che dovete cambiare.
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CAZZO! GRAZIE SERGIO BOLOGNA, GRAZIE FF!
“Pertanto è pura demagogia quella di coloro che parlano di democratizzazione degli accessi, che difendono di questa università il fatto che possono iscriversi anche i figli di famiglie povere. Il problema non è la massificazione della popolazione studentesca ma il fatto che il capitale umano di un laureato non vale una cicca sul mercato del lavoro!”
Questo articolo ha il merito di dire a chiare lettere quello che ancora non avevo sentito dire da nessuno in questa fase della protesta studentesca. E com’è possibile che nessuno abbia avuto il coraggio di dirlo? I primi che dovrebbero essere presi a calci in culo dai bravi precari in lotta, dai bravi studenti in lotta sono i professori. E tra questi gli ordinari. E tra gli ordinari quelli che determinano chi diventerà ricercatore o meno, chi avrà un contratto o meno. Perché loro sono i primi responsabili di un sistema feudale anti-meritocratico. Ma non basta, sono i reponsabili non solo di gestione mafiosa della cosa pubblica, ma sono responsabili anche di agitare il vessillo del sapere e della democrazia, quando qualcuno osa mettere mano al loro feudo.
Ora rispetto ai baroni, quale tipo di trattamento ci vorrebbe? Io riesco a immaginarne uno solo. E lo dico in tutta serietà. Ciò che si faceva all’epoca della rivoluzione culturale cinese. Prendere questi signori che hanno dai cinquanta ai settant’anni e più, fargli indossare cartelli con scritte chiare “Io sono stato barone”, e farli passare tra ali di precari, dottorandi e studenti che possano debitamente “definirli”, e poi possibilmente mandarli a lavorare in un call center, o all’esselunga, banco affettati.
Il problema è che l’università italiana è una palestra di subordinazione sociale straordinaria, oltre che di politica all’italiana: impari a strisciare davanti al grande e ad accoltellare il piccolo, anche se non servirà quasi a nulla. Impari l’arte del lamento. Impari ad accettare cose inaccettabili in qualsiasi altro contesto sociale.
Il discorso di Bologna è poi più generale, e va al nocciolo della crisi attuale. Ma si tratta di dire fino in fondo cos’è oggi l’università, e non solo in Italia.
In tutta Europa, il funzionamento dell’università mostra una cosa. Che è stato TRADITO un patto sociale fondamentale, ossia quel patto che vede una corrispondenza tra formazione e professione. L’istituzione universitaria, sotto l’insegna del sapere democratico, forma per anni delle persone, nella piena consapevolezza che queste persone non avranno posto in società, che le loro specifiche competenze non valgono nulla, non saranno spendibili sul mercato del lavoro, e neppure su quello ristretto dell’istituzione a cui hanno pagato tasse per anni – ossia non avranno futuro neppure rimanendo all’interno dell’istituzione che li forma. Questo è quanto dice Bologna. Questo è quanto non è stato ancora detto a chiare lettere da nessun movimento studentesco o di precari universitari.
Naturalemente, nell’università conosco anche persone moralmente degne. Che non hanno per forza strisciato per ottenere ciò che hanno avuto o non hanno fatto strisciare per ricordare agli altri il proprio ruolo. Ma queste persone sono una minoranza che non ha alcun potere di “modificare la condizione di fondo” dell’università. Da soli non potranno mai che far lampeggiare zone di meritocrazia e di decenza, in mezzo a una gran palude feudale.
Senza nostalgie, né tormentoni – e senza Toni –
Sergio Bologna mi ha provocato
uno scompenso psichico temporale.
Con la stessa chiarezza e con la stessa forza con cui quarant’anni fa cercava di mettere ordine nelle nostre menti confuse,
che nulla potevano sapere di quelle biblioteche del sapere
da cui provenivano le sue frasi semplici e comprensibili,
oggi tenta di fare la stessa cosa
con quelli che potrebbero essere i nostri figli.
Quanto la cosa sia cambiata
si vede dal fatto che allora si parlava
di operaio.massa oggi di classe.media.
Quello che purtroppo non è ancora avvenuto
– e non certo per colpa di Sergio,
che invece lo segnala nel suo intervento –
è la saldatura tra l’impegno militante dei nostri figli
e l’esperienza che noi rappresentiamo,
che può rendere più facile l’identificazione
di quelli che sono i nostri e i loro obiettivi.
Perché noi e loro, oggi, siamo la classe.media.
E non dobbiamo combattere per “gli altri”, ma
per i nostri interessi, che sono quelli di tutti.
Grazie Sergio. Ti saluto
Giovanni Cossu.
è un testo importante. Possiamo copiarlo postarlo uguale anche su ibridamenti.com?
Credo debba essere un testo che deve girare il più possibile in rete.
Che ne dite?
(Maddalena Mapelli)
se ogni giorno si potesse aprir cosi la mente
se questo è un uomo che la nostra università lascia in disparte
costruiamo noi qualcosa al di fuori dei circoli riconosciuti
cominciamo cosi ma sopratutto non rinunciamo mai ai nostri sogni e alle nostre ragioni
a cominciare da questo splendido post
grazie
c.
Grazie a Sergio Bologna. E’ l’intervento più lucido che abbia letto sul tema. E grazie a Francesco
assolutamente sì, magda, fate girare, soprattutto nelle università. A ca’ Foscari per esempio
effeffe
Da brividi! Grazie Fra. La lucidità fa più male della spada
Si va fatto circolare
ciao stef
Il patto sociale di cui parla andrea inglese è stato tradito da molti e molti anni e tuttavia gli studenti continuano a iscriversi a lettere, filosofia archeologia, scienze politiche, antropologia, storia, etc. Perchè?
la mia sensazione è che, scandaloso quanto si vuole, questo patto non esiste più. Lo studente, magari agli ultimi anni, sa che le conoscenze che ha acquisito non gli serviranno minimamente sul mercato del lavoro. Sa però anche che mettere sul cv una laurea in …archeologia conta tuttora. Significa essere stati in grado di raggiungere un obiettivo prefissato, di rispettare consegne, di svegliari presto etc. Che l’università sia “certificatore” di docilità e malleabilità è un segreto di pulcinella.
Come tutto ciò possa essere giornalemente accettabile lo ignoro.
GRAZIE E ANCORA GRAZIE SERGIO BOLOGNA
e riesco a leggere anche quello che non è scritto.
Il senso del vivere.
CHE RABBIA, un’intera generazione addestrata a far soldi, a fabbricare soldi, o a migrare.
“homo homini lupus” per decreto legge.
matteo
sergio bologna dice:
“ma tutto assomiglia a un gioco d’azzardo con i soldi dei lavoratori e della middle class che vive del proprio lavoro. Un sistema che è stato capace di creare ricchezza fittizia e di distruggere ricchezza reale in misura mai vista nella storia recente”
usa la parola “sistema”.
roberto saviano spiega che gli esponenti della camorra si definiscono “sistema”.
i camorristi sono imprenditori migliori e più acuti di quelli che agiscono nella legalità, usano la violenza fisica al posto di quella legale, ma il loro obiettivo non è diverso da quello dei vari tronchetti provera, colanino e l’draulico che spara una cifra enorme per riparare il rubinetto ad una pensionata.
è il SISTEMA, la scuola è parte ed è nel sistema.
questo sistema è “sistema di vita”, lo ritroviamo anche nella nostra vita, nelle nostre case, nel nostro agire, nel nostro pensiero, nel nostro dentifricio.
per questo è difficile da smontare.
e una o più generazioni sono state addestrate a questo “sistema” di vita.
Sono commosso per la lucidità politica di analisi, la semplicità incisiva della prosa. Anch’io mi unisco agli altri: GRAZIE, SERGIO, Ci VOLEVA QUESTO REGALO
è vero. copio-incollo direttamente.
Mer, 29 Ottobre 2008 19:25
perché nessuno parla della meritocrazia inesistente? il problema è che la gelmini è la goccia che ha fatto traboccare il vaso, o meglio è il capro espiatorio. soltanto ora gli stundeti possono ‘parlare’ ma solo perché conviene ai vari rettori e docenti. sono molto pessimista. e credo che il processo di privatizzazione che trova nella riforma gelmini una sorta di capolinea, poggia su un’inadeguatezza di fondo dell’università italiana, indipendentemente, ripeto, dalla riforma gelmini.
October 29th, 2008 at 16:29 pm
il problema delle università italiane è la mancanza di meritocrazia. l’italia non è meritocratica. quando si dice: il tale è più bravo di quell’altro perché lo dico io. non ci sono criteri oggettivi di valutazione. non solo nelle università. il sistema italiano del merito funziona per amicizie e parentati. il fatto che le università siano sottopagate mi fa riflettere, considerando questo maledetto ottopermille alla chiesa di cui nessuno mai parla. questa è un’altra cosa che non capisco: perché mai nessuno cita l’ostacolo della chiesa alla ricerca? improvvisamente molti italiani sono uniti contro il governo. metà lo ha votato, però. eppur vero l’opportunismo degli italiani. mi spiego: l’atteggiamento della gelmini è molto poco liberale come quello della sua collega carfagna. che questo governo fosse poco aperto al dialogo si era visto anche con il mancato appoggio al gaypride, cui sono seguite le varie omofobie squadriste: nessuno si è preoccupato più di tanto. in un paese civile e onesto, sottolineo onesto, il dialogo basta e avanza, ma nel reame ipocrita e benpensante e rassicurante nel quale viviamo nemmeno uccidere berlusconi cambierebbe le cose. è la mentalità che andrebbe estirpata anche a costo di morire.
Lo status quo delle nostre università è abbominèvole. Gli umanisti italiani poi non producono niente. Nessuna ricerca internazionale. Di valore. Che faccia testo. Solo opuscoli. Meschini. Pubblicati coi finanziamenti. Tagliati e cuciti non si sa come e da chi. Spesso senza riferimenti.
Matteo poi è semplicemente delirante. E il suo Saviano, figlio del nostro sistema culturale, non ha nessuna presa, fuori dall’Italia, sulla realtà.
Incollo qui il commento lasciato sul sito di georgia:
Eccellente l’analisi sulle differenze tra la lotta studentesca del ’68 e quella odierna, fatta a servizio degli interessi dei baroni dell’istruzione.
Altrettanto eccellente la puntualizzazione su Prodi, malamente scelto dalla sinistra per vari anni (spero oggi non più) a rappresentarla.
Grazie Sergio per la lucidità dell’analisi, unica sorgente di speranza.
Bisognerebbe stamparlo su un A4 fronte e retro, fotocopiarne qualche migliaio e distribuirlo ai dimostranti.
@morgillo
Matteo poi è semplicemente delirante. E il suo Saviano, figlio del nostro sistema culturale, non ha nessuna presa, fuori dall’Italia, sulla realtà.
sarò anche delirante, e non mi importa se il “mio” saviano abbia presa fuori dall’italia, mi interessa che le cose da lui dette abbiano o meno dei riscontri.
ciò che intendo dire è che la scuola non può essere considerata un caso a se fuori dal contesto in cui è inserita, risente in tutto e per tutto i mutamenti della società e dello scenario politico.
riguardo la tanta sbandierata meritocrazia, c’è da chiedersi chi e come stabilisce il merito. Il merito, che può essere tradotto con premio, viene concesso da chi in quel momento ritiene che quella determinata capacità possa servire al suo progetto politico, o comunque sia in linea con le sue idee, se no non si spiegano galilei e giordano bruno.
in un recente ed interessante articolo apparso su questo stesso sito, si cita il caso della germania che, sotto la pressione dell’OCSE, si appresta ad abolire il voto, e nello stesso articolo l’autore motiva questa decisione come progetto per screditare la scuola pubblica a vantaggio di quella privata che più facilmente e docilmente è disposta a perseguire un tipo di formazione voluto dal “sistema”.
questo non riguarda solo l’italia che, a mio avviso, è solo la punta dell’iceberg, e in cui negli ultimi decenni si è persa ogni capacità di analisi e critica(lo so è ingiusto generalizzare).
detto questo, la domanda da farsi è : a quale modello di società aspiriamo, l’addestramento scolastico viene di conseguenza.
è un problema politico, nel senso più sano del termine, non tecnico.
mi scuso per l’ulteriore delirio.
matteo
Adesso capisco, perchè le proteste negli atenei mi avevano lascita perplessa: perchè difenderla questa università?
Già avete detto molto, e soprattutto dice molto bene l’articolo stesso, finalmente niente autocommiserazioni lamentose e giustificanti passività. I veri bravi lo spazio in qualche modo lo trovano per essere comunque bravi anche se non riconosciuti. La domanda la pongo ai non eccellenti: volete la meritocrazia e cioè vedere uno più bravo di voi passarvi sempre avanti perché più bravo? Siete capaci di sentire che è orrido che voi possiate superare uno più bravo e che sopratttutto in realtà toglie futuro anche a voi? Avete voglia di lottare per difendere i diritti soprattutto non vostri (o non direttamente vostri) ?
Domanda a Francesco Forlani : posso copiarlo e diffonderlo ? Grazie
assolutamente sì
come ho già detto fate girare senza nemmeno obbligo di citare le fonti. certe cose appartengono a tutti come un dono
effeffe
[…] a proposito di università ma non solo, leggetevi questa lucidissima analisi di Sergio Bologna perché ne vale la […]
Articolo che tovo lucido sulla situazione in crisi. Sono sempre le stesse personne che subiscono la follia del denaro, la corsa al profitto.
Il pensiero dell’ingistizia mi viene soprattutto nel confronto della realtà: quando faccio le spese al supermarket, penso alla fatica delle cassiere; quando vado alla scuola con la macchina, incrociando i camionisti, penso alla fatica dei camionisti.
Penso che sono una privilegiata.
Ma che posso fare? niente!
In questo momento sono stanca di ascoltare riflessione giuste sulla crisi, Niente è fatto, o allora poco…
La crisi tocca la gente precaria primo.
@ Matteo
Saviano ha presa anche fuori dall’Italia, almeno per quanto riguarda i nostri cugini francesi. Il fatto è che lo prendono come un referto del nostro “belpaese”, e si perdono l’occasione di partire da Saviano per sfrugugliare nei loro recessi politico-economici, perché la mafia (nella fattispecie “camora”) non ha solo cognomi italiani
guarda un po’, proprio oggi ho sentito un’intervista a Saviano durante il notiziario di BBC Worldservice.
Ho vissuto come studente e adesso come aspirante ricercatore (al momento all’estero) l’universita’ italiana per 12 anni. Ho una sorella, brillante ricercatrice precaria. Ho un fratello che si e’ appena iscritto all’universita’ e che adesso cerca di capire cosa succede. La sensazione e’ che lui e molti altri che manifstano, stiano cercando anche un modo di capire, non solo cosa capire. In questo, il pezzo di Bologna, aiuta a dare un senso a questo cercare. Allo stesso tempo, pero’, non condivido l’istigazione a lasciare la difesa dell’universita’ ai professori. Io credo che non ci sia niente di sbaglaito nel cercare di salvare l’istituzione universita’. L’istituzione appartiene a tutti e, volente o nolente, e’ e deve essere la culla, la banca e la cucina del sapere. E, nonostante tutto, l’universita’ italiana e’ ancora tutto questo (e non si puo’ dire altrettanto di certa controcultura e certa controinformazione). Certo, il baronato, la mediocrita’, il servilismo esistono, ma esiste anche, ben nascosta, l’eccellenza. Questo governo sta affondando l’istituzione universitaria in quanto tale, senza distinzione tra eccellenti e mediocri, e non ne sta proponendo una nuova. L’obietivo indiretto mi sembra, pero’, piu’ ambizioso del semplice sfascio dell’istituzione: mi sembra l’ultimo stadio di quell’operazione sistematica di incretinimento e di impoverimento delle menti in atto, con grande successo, da vent’anni a questa parte (il golpe e’ una scienza esatta, diceva NI qualche giorno fa). Se muore l’universita’ saremo un paese piu’ povero e saremo tutti esposti, gioco forza, ad una nuova ignoranza. E non ci sara’ blog che potra’ colmarla. Questo, nessun paese se lo puo’ permettere.
L
L’articolo è molto chiaro nell’analisi dei mali dell’università. Il valore del titolo di studio, fin dall’epoca della mia laurea, ormai remota, è stato per noi semplicemente la chiave da inserire nella porta dei concorsi, dove però ognuno faceva poi valere ciò che aveva davvero in tasca (preparazione, titoli, raccomandazione…). Sapevamo ciò che ci aspettava, vedevamo molti colleghi perdersi per strada, nelle università selettive, si diceva, perchè “non ce la facevano”, nelle altre perchè “scoraggiati” da nepotismo e quant’altro.
Da ciò che leggo mi pare però che oggi le cose siano peggiorate. L’unico motivo che porta molti di noi a difendere l’università pubblica a vantaggio del sistema delle fondazioni è la sensazione che nel nostro Paese, così profondamente permeato di corruzione e nelle mani di un sistema economico tutt’altro che trasparente e “pulito” sembra meglio lasciare ai giovani almeno la possibiltà di entrare in contatto con la cultura di livello superiore senza troppi ostacoli economici e senza troppi filtri ideologici.
Speriamo sempre che esistano ancora giovani che sappiano studiare e capire la realtà, anche in un contesto tutto da perfezionare. Non crediamo sarà possibile tra qualche tempo, soprattutto se passerà la proposta globale del nostro governo su tutto il sistema istruzione.
Una nota. Lo sapevate che in un’università PRIVATA a Roma, è stato possibile assegnare un dottorato di ricerca in medicina legale ad una laureata in lettere? Naturalmente figlia del presidente della fondazione. La notizia è presa da Annozero.
Questo è un articolo di Sergio Bologna, che dobbiamo ringraziare. Sergio Bologna ha studiato i movimenti operai degli anni Sessanta, ha partecipato e studiato il ’68, l’occupazione delle fabbriche, ha studiato i movimenti europei, soprattutto quello di Francoforte; ha fatto parte di “Classe Operaia”, dei “Quaderni Piacentini”, è passato attraverso l’operaismo. Sa quello che scrive, e gli va offerto – come io gli offro – il massimo rispetto e tutto l’onore che merita.
Tuttavia io ho qualche riserva su questo articolo, e in alcuni punto ho provato un sentimento di aperta ribellione. Provo a spiegare perché.
Si compone soprattutto di due parti. La prima è una critica spietata, quasi crudele, di tutti i guasti, i disastri che hanno rovinato il nostro tessuto sociale, la distruzione di tante conquiste ottenute con le lotte, e a questa opera di devastazione ha partecipato sia la destra sia il centro sinistra. E’ una parte molto amara, che lascia un senso di cupa tristezza e di indignazione.
Ma poiché Sergio Bologna sa come si scrive un documento, conosce a fondo i meccanismi dell’analisi politica, sa che non può limitarsi a una enunciazione dei crimini sociali e politici che da trenta o quarant’anni il braccio armato del capitalismo compie spudoratamente. Perché sarebbe nichilismo. Così segue una parte positiva, o propositiva, e l’interlocutore è il movimento degli studenti.
E qui io ho avvertito il disagio. Sulle spalle di questo movimento, giovane e trasversale, forse con caratteri di spontaneismo, e con probabili carenze di analisi, viene scaricata una responsabilità enorme. Che cosa chiede Sergio Bologna al movimento degli studenti, oltre a dispensare alcuni consigli di cui dovrebbe fare tesoro, tanto che questo articolo, in forma forse leggermente ridotta, potrebbe, dovrebbe essere letto in apertura di qualche assemblea? Gli chiede di farsi carico di un sistema segnato da tutti i disastri recati al mercato e ai diritti del lavoro, da decenni di deregulation, di introduzione di precariato più o meno selvaggio; disastri prodotti dai loro padri e persino dai loro nonni e ai quali nessuno ha saputo o potuto davvero opporsi. Chiede di “crearvi un vostro sistema di pensiero, per procurarvi strumenti critici in grado di capire com’è accaduto quel che è accaduto e quali sono stati i perversi meccanismi che in questi ultimi vent’anni hanno dominato l’economia, senza che venissero contestati né da Destra né da Sinistra”. Chiede di andare oltre, e di risolvere, tutte le incertezze, le mancate analisi, le mancate azioni, le mancate lotte di almeno due generazioni precedenti. Chiede al movimento degli studenti di riscattare i mancati obiettivi di quarant’anni di lotte della nuova sinistra, che hanno avuto come risultato – se vogliamo essere davvero spietati – la scomparsa della nuova sinistra dalla scena politica italiana: “Nessuno infatti ha saputo o voluto in questi anni immaginare una società diversa che non fosse un’utopia. Alternative globali nessuna, solo strategie di sopravvivenza. Ed è sostanzialmente questo che vi propongo anch’io: costruendo percorsi comuni di autoformazione costruite anche delle reti, vi liberate pian piano dalla costrizione all’isolamento, dall’individualismo”. Chiede al movimento degli studenti di portare avanti l’azione del movimento del ’68, ma non solo, di superarlo, di migliorarlo, di autogestire l’insegnamento e la formazione, superando addirittura, portando a compimento l’occupazione e l’autogestione delle fabbriche del ’69.
Questo movimento nasce in tempi durissimi, in tempi mortiferi di isolamento, di qualunquismo, di mancanza di prospettive. Ragazzini di prima superiore insieme a ragazzi di quinta e dell’università si ritrovano in assemblea, in corteo, discutono, si incontrano, si conoscono. Escono dalla solitudine pubblica. Non possiamo, ancora una volta, rimproverargli lo spontaneismo, la mancanza di una piattaforma unitaria, di un’analisi e una progettualità compiuta e risolutiva. Già lo hanno fatto nel ’68. Questo movimento è importante dal punto di vista umanistico, è un ottimo capitolo di resistenza. Perché siamo in una fase di resistenza, oggi. Perché c’è un regime, comunque lo si voglia chiamare, “soft”, ecc.
Per questo io ho letto in questo articolo – accanto alle proposte, e agli insegnamenti di un grande intellettuale – una carica negativa che mi ha turbato. Perché dopo l’analisi senza pietà non nascerà una nuova scuola, autogestita, ma ci sarà il deserto, e tutto sarà di proprietà della destra, e della “cricca di ricchi affaristi senza scrupoli” che ha preso il potere, come ha detto Gore Vidal sulla cricca di Bush.
Io voglio citare a Sergio Bologna un passo molto bello, in cui mi riconosco, e che vale, secondo me, più di qualsiasi analisi teoretica e critica; l’ha scritto Sergio Bologna nel 1978 (riferito al ’68), ed è contenuto ne “La tribù delle talpe”, Feltrinelli: “Lasciamo che gli studenti vadano per la loro strada. Se debbono uccidere i padri che li uccidano. Se vogliono rapportarsi con la classe operaia che lo facciano, se non vogliono fa lo stesso. In ogni caso hanno fatto tanto, anche troppo.”
Mi sono laureato in lettere moderne (110/110) ad Urbino, più di venti anni fa. Pochi anni dopo ho superato un concorso per l’insegnamento di materie letterarie nelle scuole “superiori”, classificandomi tra i primi, un concorso del quale ricordo in particolare che l’esaminatore di storia era stato da molti definito uno “stronzo nozionistico”, visto che all’orale chiedeva “le date” (aveva chiesto di parlare dell’8 settembre del ’43). Negli anni successivi ho conseguito altre abilitazioni all’insegnamento, in un caso senza essermi potuto minimamente preparare (cosa che mi è costata semplicemente una votazione bassa). Oggi faccio ancora l’insegnante e sono piuttosto stimato; spesso ho ricoperto nella scuola incarichi di responsabilità; a tempo perso ho fatto anche ricerca, ho pubblicato varie cosette, ho tenuto corsi “di livello” eccetera.
Durante gli anni universitari, senza andare fuori corso, ho frequentato solo un paio di lezioni (così, per curiosità), ho spesso lavorato (sia pure quasi mai a tempo pieno) e ho fatto il servizio civile.
Non sono uno stupido, ma nemmeno un genio. Non nego di essermi impegnato a fondo nello studio individuale in vista degli esami, ma resto, è innegabile, praticamente un autodidatta.
Non voglio, generalizzando, chiedermi a cosa (o a chi) serve, anzi serviva (non sono in grado di esprimermi con sicurezza in relazione al presente) un’università che permette(va) a chi NON la frequenta(va) di ottenere comunque buoni risultati nel settore di riferimento, quindi resto nel mio: a cosa MI è servita l’università? Tolti gli spesso interessantissimi stimoli offerti dai programmi dei corsi monografici (che ovviamente autonomamente non sarei stato in grado di “concepire”), solo a darmi un pezzo di carta con valore legale.
Bellissimo schietto lucido e veritiero articolo.
Complimenti e mille grazie
Ho letto i commenti durante la pausa di mezzogiorno e tutto la sera scrivo, perché qualcosa non è passato. Mi spiego: quando si parla di scuola , sento tutta la mia anima che vibra: ho il sentimento di far parte di una comunità di persone oneste che lavorano ogni giorno per aiutare, fare crescere, dare il gusto della bellezza, della bontà, creare uno spazio di libertà in una società che diventa stretta, dura, e povera di creazione e di riflessione.
All’università non mai visto “barone”; ero in lettres Modernes. Mi ricordo anche un professore con uno sguardo benevolo e una cultura meravigliosa. Ho sempre fatto cio che volevo senza fare corte ai barone.
Ma è vero sono rimasta tre anni, dopo il concorso, perché sono di una famiglia numerosa. Poi, lavorando, non avevo il tempo di ritornare all’università.
Non penso che l’università deve adattarsi al mondo del mercato: sono CONTRO!
Uno studente in lettere sa benissimo che lo sbocco professionale è ridotto.
Penso che c’è un problema di indirizzo professionale.
Invece so benissimo che la scuola non ripara l’ingiustizia sociale.
E’ qualcosa che mi ha sempre fatto dubitare della mia “utilità”.
Ultima questione: L’università deve cambiare o la società?
Sono le aziende che non assumono la giovinezza?
Stasera sono un po’ in rabbia
Ho fatto molte errori: non ho mai visto/ dopo, il concorso
Sono le aziende che non assumano la giovinezza: non è una questione; è la realtà!
Trovo che la societa accusa l’università del suo propio male. Sempre la scuola da essere accusata.
Spero non essere troppo sgradevole, perché rispetto i scrittori, i commentatori. Solo non condivido la parte che riguarda l’università.
Sono insegnante e la parola “raccomandazione”, non la capisco.
Una voce per difendere l’università?
cara véronique, noi italiani siamo un po’ così: facciamo sempre scarica barile. giorno per giorno, io vedo affievolirsi la mia voglia di vivere come la fiammella di una candela che sta per finire. comincio a fregarmene. lavoro giusto per pagare l’affitto e per scrivere. è tutto nero.
lavoro giusto per pagare l’affitto e scrivere
Scrivere: è un barlume.
Il lavora divora, lo so. Ho momenti anch’io di dubbio, di scoraggiamento.
Ma ci credo ancora, spero essere utile. Ho ancora una grande fiamma nel mio cuore.
E credo, caro GG, che la tua fiamma vive ancora, ma il vento la fa vacillare. E’ fragile una fiamma pronta a grandire e a scomparire.
Certo che c’è da fare, anche se sembra inutile al momento, mentre non è mai inutile. Baldrus scrive delle cose anche molto giuste e vere, ma la richiesta dell’articolo è forse di non appiattirsi solo sulla 133, di pensare anche senza bisogno di una riforma punitiva ad un’università e un mondo diverso. Io lo vedo da fuori e un po’ da dentro avendo degli allievi di varie età che ne fanno parte e mi sembra molto bello e pulito e anche meno ingenuo riguardo certi meccanismi e ricatti, ma anche io rimanevo stupita che non fosse nato solo perché non è possibile un sistema come quello che abbiamo. Forse è un modo per spronarvi a rimanere altrettanto belli e trasversali e spontanei ma più uniti per non ricominciare come prima a sapere che i proprio bravi dovranno andare via oppure vivere quasi in incognito e sempre ricattati e agli altri a non avere prospettive in una società molto passiva.
Però… la grossa differenza tra il movimento del ’68 e questo, un po’ in sedicesoimo rispetto a quello, è di classe o ceto sociale, sociologica se vogliamo. La generazione del ’68 era, per la maggiror parte, figlia (oltre che di un contesto storico diverso: il comunismo ancora all’ordine del giorno, la critica del “socialismo reale” – il muro di Berlino si era già visto marcio allora -, gli intellettuali e gli scrittori militanti, ecc., ma questo lo direbbe anche La Palisse), figlia di un ceto sociale senza titoli di studio medio-alti, uscito dalla miseria della guerra, che con questo retaggio (conti in sospeso?) si affacciava sulla scena dell’istruzione superiore e universitaria con tutta la sua voglia di esserci, di conoscere e criticare il mondo. Oggi questo movimento è figlio di un certo benessere diffuso, di padri che hanno vissuto la fase craxiana dell'”arricchitevi”, che hanno usufruito dei piccoli privilegi a pioggia dati dal regime democristiano, che hanno vissuto la società dello spettacolo nel suo apogeo. Insomma, la generazione di allora usciva dalla povertà per entrare in una società del benessere diffuso, oggi questa generazione sta uscendo dal benessere diffuso per entrare nella nuova povertà del ceto medio che si prospetta in fondo al tunnel della crisi sistemica o epocale.
Per promuoverlo o confutarlo, dopo l’ultimo intervento di macondo, se adesso qualcuno mi cita Il PC ai giovani!! di Pasolini, soffoco. Nel sistema culturale italiano non circolano idee da decenni. Si rischia l’asfissia. Aria putrida.
Caro Effeffe, questo testo è veramente un gran regalo (come tutti quelli di Sergio Bologna che ho letto qui e altrove). Diffondere, assolutamente.
Tutti, compresi gli studenti, dovrebbero capire che più che un pezzo di carta, serve una forma di cultura. Iniziare la lotta allenati. Preparati.
Altro non dico se non che è un piacere leggervi, e che concordo con coloro che reputano il testo di Bologna prodotto da una gran testa. Una cazzuta e coraggiosa riflessione sul mondo universitario e studentesco.
sì morgillo, puzza di chiuso. non so te, ma quelli come me possono anche soffocare, tanto nessuno se ne accorgerebbe, nemmeno io. sono avvezzo ormai ad attendere alcuni decenni prima che qualcuno, più conosciuto di me, esprima i miei stessi concetti, ed io possa dire: visto? lo dicevo che era così.
Caro Sergio,
dici molte cose importanti e proprio per questo mi dispiace non essere d’accordo su alcuni punti centrali.
Mi limito a due esempi. Tu dici: “Se non temessi d’essere frainteso vi direi: ‘La difendano loro questa Università, i professori’. Voi che c’entrate?”. C’entrano per questa ragione. I professori, che un lavoro all’università ce l’hanno, sono meno colpiti da questi tagli dei precari (dottorandi e assegnisti) che, se i tagli vengono mantenuti, all’università non entreranno mai. Certo, tra i precari ci sono dei portaborse, ma ci sono anche quelli che fanno un onesto lavoro di ricerca. E i tagli non fanno distinzione tra gli uni e gli altri.
Quanto al libro di Perotti (L’università truccata), di cui tu consigli la lettura, contiene molte informazioni interessanti. Ma la tesi di fondo è espressa così a p. 15: “Anziché occuparci di problemi irrisolvibili dato lo stato attuale dell’università, occupiamoci degli unici problemi che possiamo risolvere: introduciamo più concorrenza e gli incentivi corretti, e gli altri problemi si risolveranno in gran parte da soli.” Questa mi pare un’applicazione all’università della tesi: lasciamo fare al mercato e i problemi si risolveranno da soli. Applicata all’economia non ha funzionato, resta da vedere se funzionerebbe per l’università. Se ne può discutere, è una tesi che va accettata o respinta proponendo degli argomenti. Però è importante capire che il modello proposto è quello.
Ciao,
sandro
Ciao, stò facendo girare in rete tra i vari blog, che in Parlamento hanno nuovamente riproposto la legge blocca-blog, quella che, se ho ben capito, potrebbe farci chiudere a tutti. Ci sono delle petizioni firmabili on-line in riguardo. Ciao e buon fine settimana. Maria
e il 17 novembre, sempre per derive approdi (mica vero che nn se l’è filato nessuno, ceti medi:) è la volta dell’internazionale surfista
La marea sale. L’onda cresce. Imbracciamo le tavole. Siamo l’esercito del surf.
Siamo quelli che credevate assopiti. Quelli disposti a tutto per un posto nel mondo.
Che credevate timorosi, impauriti, docili a ogni riforma. Bamboccioni, fuori corso, perditempo, inetti. E invece eccoci qui, a fare surf nelle piazze, nelle scuole, nelle stazioni, nelle università. A fare surf sulle riforme, sul ministro, sulla crisi, sui ricatti, sul nostro presente e il vostro futuro.
Facciamo surf sull’anti-politica, perché l’unica politica possibile è il nostro surf.
Facciamo surf sui percorsi formativi, sugli avviamenti professionali, sui muretti delle discipline, sugli steccati delle conoscenze. Sulla miseria di oggi, sulla precarietà di domani.
Abbiamo imbracciato le tavole e abitiamo le pieghe dell’onda.
Internazionale surfista
L’Internazionale surfista vive e lavora tra le pieghe dell’onda.
un assaggio…
Antefatto
Compassione, odio e amore: l’età sociale dell’esercito del surf
Lo studente è oggi in Italia, dopo rom e rumeni, la categoria sociale più generalmente disprezzata. Sia che faccia quello che dovrebbe fare, andare a scuola o all’università, sia che faccia altro, lavorare o andare a divertirsi, la categoria sociale dello studente (meglio conosciuta come «i giovani») è da alcuni semplicemente compatita e dai più apertamente temuta.
Quelli che compatiscono lo studente sono in genere coloro che li frequentano. Che ne hanno una qualche vicinanza o che, per un verso o per l’altro, ci hanno a che fare. Genitori e fratelli, qualche nonno e famigliari in genere. I genitori nutrono per lo studente, sia esso liceale o universitario, una vera e propria compassione, per le più svariate ragioni. Lo compatiscono innanzitutto perché, avendocelo in casa ed essendo spesso frutto del loro sangue, non possono permettersi di odiarlo. Nel tentativo di contenere un sentimento che così tanto contrasta con la naturalità dell’amore genitoriale, gli tocca ripiegare sul compatimento. Del resto solo così si spiega perché non dilaghi un’epidemia di omicidi di figli in età scolare. Allora lo studente, anziché essere odiato dai genitori come una condanna all’ergastolo, viene compatito e biasimato per la condizione che gli tocca di vivere e che di rimando fa vivere a madri e padri. La cosa peggiora con l’avvicinarsi del periodo universitario.
Lo studente viene qui compatito per come si deve districare tra moduli e crediti, tesine lunghe e brevi, stage obbligatori e stage volontari, tra le scelte formative più estreme, gli esami di ammissione più deliranti. In questa fase ognuna delle sue scelte è come una giocata al lotto, può determinare per sempre il suo futuro. Il mancato accesso a una facoltà a numero chiuso trasformerà un potenziale ottimo medico in un pessimo avvocato. Lo stage presso una casa editrice sull’orlo del fallimento lo costringerà a ripensare alle migliaia di ore trascorse sulla storia della letteratura italiana. Un aspirante ricercatore che s’immaginava una carriera brillante inizierà a intravedere la sua condizione di precario sfigato. Un concorso di dottorato gli farà rimpiangere per sempre di aver scelto un esame «perché gli piaceva» e non «perché il prof conta qualcosa». La vita, soprattutto universitaria, dello studente è una strada lastricata di buone intenzioni che conducono allo stesso inferno: il rammarico di aver sbagliato tutto. Ma il senso di colpa può risalire anche fino alla scuola superiore e persino alle medie. In questa fase può accadere che lo studente decida di entrare in analisi. Mano mano che nello studente si fa largo la coscienza dell’inutilità del proprio curriculum formativo – ai fini di avere una vita piena, indipendente e felice –, la compassione di cui è oggetto da parte del contesto famigliare si accresce. Così non è raro vedere dei padri fare appello a ogni rapporto di amicizia nel tentativo di procurargli l’ennesimo stage. O madri dilapidare gli alimenti per pagare master in varie specializzazioni. O nonni rimpiangere il Fascio perché lì era tutto più chiaro. Se, disgraziatamente, la famiglia dello studente eccede la media di prolificazione nazionale, allora lo studente potrebbe trovarsi nella condizione di dover perpetuare il circolo della compassione e doverla applicare al fratello o alla sorella minore. Compassione che in questo caso sarà basata sull’esperienza, avendo lo studente ultimato il suo ciclo di studi che lo ha portato dall’immaginarsi un futuro alla condizione di non averne alcuno. Ovviamente la compassione dello studente per lo studente minore sarà tale solo se quest’ultimo si dimostrerà almeno altrettanto tonto quanto sé medesimo. Si sa che chi riesce a sbancare il lotto è unicamente oggetto di odio e invidia…
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* Bolzaneto (Massimo Calandri)
* Gli autonomi – volume III (a cura di Sergio Bianchi e Lanfranco Caminiti)
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L’accalappiacani #2
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Vesti la giubba di battaglia
Vesti la giubba di battaglia La Resistenza e i suoi simboli
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* [pisa] +++ 15/11/2008
(circolo Agorà – via Bovio 48/50) Presentazione del libro di Vladimiro Giacché «La fabbrica del falso»…
* [Trento] +++ 19/11/2008
(libreria EINAUDI – piazza della Mostra 8) Presentazione del progetto editoriale GLI AUTONOMI…
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> “Il PC ai giovani”
Per fortuna oggi per pc si intende tutt’altro, ma questo ancora non emerge a sufficienza.
Il discorso di Bologna, come quello di molti commentatori mediatici, e’ quello di un adulto della generazione precedente se non due, che coglie nel segno perche’ tranquillizza lo spaurito giovane e indica capri espiatori in altri adulti (o quasi anziani) come lui, o in entita’ fumosamente incombenti su tutti noi (il mercato, la concorrenza globale, la non-etica). “L’e’ tutto da rifare” lo diceva anche il Bartali, da vecchio, ma finche’ stava dentro il suo mondo, brontolava e basta.
Non e’ chiara una cosa e questo testimonia piu’ di tutto l’arretratezza dell’universita’ italiana e di tutti i suoi attori, studenti compresi. Non e’ chiaro che davvero oggi basta un pc con una buona connessione internet per accedere a tutto cio’ che serve a fare ricerca a livello mondiale in tutti i settori nei quali non e’ necessaria la prova di laboratorio, ramo umanistico incluso; ma anche lo scientifico e il tecnico, liddove si faccia modellazione, che altri -con le risorse e le strutture- verificheranno in laboratorio. E non si tratta di wikipedia o delle altre scematine orizzontali, le quali hanno piu’ valenza sociale che metodologica; si tratta invece di interi archivi di software a libera distribuzione (ormai al livello di quello che costa decine di migliaia di euro, dunque fuori portata) e di interi archivi di paper pubblicati sui giornali specialistici, i giornali delle cosi’ vantate “pubblicazioni” che fanno punteggio e posti in accademie serie. Ma anche a proposito di queste ci sarebbe da dire: ad esempio, che il 90% dei paper accademici sono puro jargon settoriale (riscrittura in linguaggio iperspecialistico di concetti gia’ acquisiti) e che quindi non sono ricerca, ma truismi del sapere.
Allora vorrei capire e far capire cosa manca davvero, cosa devono i giovani chiedere all’universita’, che deve essere questo: il training necessario per imparare a leggere la letteratura scientifica e poi arrivare al livello di poterla reinterpretare criticamente; o superare con nuove ricerche originali. In questo sono d’accordo con Bologna.
Non sono d’accordo con Bologna quando butta a mare tutto, la tanta acqua sporca e il bel bambino che spesso fa notizia di risultati eccezionali nei piu’ svariati campi e che tuttoggi ancora piazza i suoi migliori elementi nelle universita’ di tutto il mondo. Non sono nemmeno d’accordo con la giaculatoria del “tutti corrotti”… non ci riguarda piu’, non ce n’e’ piu’ bisogno. Chi e’ davvero bravo, oggi non ha piu’ bisogno dell’universita’, sia questa italiana o di altre nazioni prese a modello. E se il modello sociale dominante in Italia ancora conferisce prestigio all’universita’, e’ sia per la rozza patriarcalita’ sulla quale ancora si basa, sia per la presenza dei tanti prof. Bologna che alzavano il livello medio dell’istituzione.
A chi dice che non sono i blog come Nazione Indiana a poter sostituire l’universita’: be’, senza dubbio, ci sono posti migliori in internet e di livello piu’ vicino alla ricerca accademica; ma forse in Nazione Indiana -come in tanti altri luoghi assimilabili- si troveranno molti piu’ stimoli (quelli a la Bologna, quelli alla base della ricerca vera, non solo scientifica o di jargon) che in anni di universita’. Dopo di che il singolo, portato dall’universita’ al livello di saper leggere e ricostruire criticamente le idee, fara’ la sua strada e proporra’ la sua ricerca.
Allora, e qui chiudo, il senso del commento e’: i giovani intenzionati a fare ricerca hanno diritto SOLO al miglior training possibile, che in genere dura anni prima di consentire frutti maturi (ed e’ quindi grave perderne il diritto). Se si trovano luoghi di training alternativo all’universita’ canonica, tanto di guadagnato; e questi luoghi ci sono gia’ in rete e maturi da almeno dieci anni: comunita’ di specialisti raccolte intorno alle pubblicazioni di spessore, comunita’ critico/divulgative (come Nazione Indiana in campi letterari e loro presa sociale), comunita’ di produzione di software specialistico dove necessario. Tutto il resto e’ contorno, freno, arretratezza.
Emozionante. L’ho letto in classe, una quinta, futuri universitari, futuri precari, futuro niente, stamattina. Ne ho dato una copia. Importante che leggano queste cose.
scuola e rancore: maieutica della schiavitù ?
In una casa-fortezza cova il Rancore di un tardo discepolo.
Già la vita finisce ed ancora non impari?
Ancora non impari e già insegni?
Ma insegni a chi?
Ma insegni perchè?
Ma cosa insegni?
Insegni denaro ? Insegni potere?
Insegni davvero la scienza?
Oppure forse insegni la Storia…
Insegni allo schiavo di essere sottomesso?
E gli insegni o no di essere figlio di 8000 anni d’impero?
Di nascere suddito anche per i suoi eredi?
Scuola di denaro ? Denaro perchè? Scuola perchè?Denaro per chi?
Già finisce la vita ed ancora non imparo.
A chi insegnerò la mia Protesta di uomo?
E chi sarà stato il mio Socrate?
A quale Socrate insano lascerete voi sottomessi i vostri figli ?
In qualche piccola casa-fortezza si riuniscono i presunti carbonari:
una casa per spezzare pane e polenta,
una fortezza per nascondere i tesori dell’amicizia.
Loro preparano brandelli d’utopia e si chiedono come scaraventarli nel vento,
con molta forza, perchè l’aria li porti dovunque come polline della rinascita.
Ma tu scuola che insegni?L’eversione del gene? l’eversione del nucleo?
Il nucleo e il gene della follia?l’identità del denaro? denaro per chi?
Qualcuno di loro mente, anche a se stesso.
Ma altri, molti, forse sono sinceri.
C’è un padre che a piedi nudi ha attraversato le sofferenze del Mondo Escluso,
e che tuttavia non ha perso la cocciuta speranza, di cantare ai figli il suo immaginario.
Soffoca ancora un grido. Del dolore senza risposte. E non può rinunciare.
Noi lo circondiamo, insieme proteggiamo i nostri futuri sconosciuti,
i lontani da noi, vicini agli assenti, i miti di vite vissute.
Ma tu scuola, insegni l’arte maieutica di estrarre da dentro ?
partorire ogni piccolo nostro coraggio e il più grande desiderio di essere?
Cerchiamo dov’è il nostro Socrate ,
il taumaturgo Esperto, che ancora sarà condannato,
docente libero di quotidiano, dovrà morire ogni giorno,
sparso e cosparso per strade di scuole e di case.
Umanità nuova, per elaborare, rielaborare e non tradire: un manifesto di nuova cultura
cultura del coraggio, del significato, della ribellione, della bellezza, della resistenza.
Siamo noi i nuovi docenti? Noi cospiratori, carbonari, specialisti di miti e utopie
Nella notte di Festa delle Streghe regaliamo caramelle ai bambini del mondo
che hanno fame di essere, che hanno fame di vivere in pace,
che hanno fame di bruciare i denari della bugia e dell’impero di guerra.
E tu scuola , scuola di denaro, che cosa gli insegnerai?
(rino sanna)
Sapevo di un sindaco di Sassari Sanna, ma Anna,
che contendeva il primato al palindromo montaliano.
Ma forse contendere a Bologna
il primato della chiarezza,
non è contendere.
E’ un voler accompagnare voce con voce
da parte di un Sanna
– a me sino ad ora sconosciuto-,
che, ne sono certo,
non è la prima volta
che si sente chiamato:
O sanna!
sì morgillo, puzza di chiuso. non so te, ma quelli come me possono anche soffocare, tanto nessuno se ne accorgerebbe, nemmeno io. sono avvezzo ormai ad attendere alcuni decenni prima che qualcuno, più conosciuto di me, esprima i miei stessi concetti, ed io possa dire: visto? lo dicevo che era così.
Guarda, Leo, io dico che fra qualche decennio ‘sta ggènte a noi avversa sarà tutta definitivamente vinta dai fatti. E ti invito a resistere. Buona domenica. Oggi non lavoro, così me ne vado al mare. A Brighton.
un po’ confuso il ragazzo.
“state”? voi chi? cosa fa il prete di mestiere?
con la citazione del libro di Perotti abbiamo toccato il Luogo comune principe molto utile alla destra(libertaria?)- sì, fanno bene ed è giusto che protestino ma l’università proprio non va quindi avanti con la riforma -.
mi sembra un discorso o di un prete o di un vecchio che si guarda indietro e crede che il tempo che ha vissuto lui fosse migliore.
davvero nel ’68 era così diffusa questa coscienza/conoscenza? o non era allora come oggi una superficiale messa in scena borghese che poi ha fatto vittime solo in basso?
perchè nessuno dice con un po’ di coraggio che questa università è figlia di quei ragazzi del’68 anzi è piena di quelli che il ’68….ovviamente in cattedra.
perchè nessuno dice che questa università con la massificazione dei suoi corsi non ha retto, non può reggere. primo perchè non c’è fisicamente spazio per tutti, secondo perchè la democratizzazione dello studio – il diritto allo studio – ha portato ad un gravissimo fraintendimento: non è vero che tutti debbano studiare, chi vuole, chi sa – non chi può -, ha il diritto di avere corsi di alto studio – inteso sia come fatica che come profondità degli argomenti – non quelle pappette che per alcuni sono un passo indietro rispetto allo stesso liceo. deve esserci una selezione e questa selezione non si fa necessariamente con il numero chiuso ma con la difficoltà degli esami dei corsi. lì si fa selezione, non con il 3+2.
auguri, ma la messa è finita da tempo.
La mia scuola,
La mia scuola è piccola, in pianura triste, tra case con mattoni rosse.
La mia scuola apre per accogliere i bambini venuti dalla campagna, scintilla da 8 ore come un nave che aspetta la giovinezza.
La mia scuola ha una pancia di madre.
Amo arrivare in anticipo, preparare la classe; c’è un silenzio che finirà presto. Le voci della giovinezza come un canto dolce, un canto di vita sono qui.
La mia scuola non impara la schiavitù, neanche la rivoltà, ma impara il rispetto, il desiderio di leggere, di creare, di parlare: un mondo ancora protetto, caldo come una pancia di madre.
La mia scuola non è ricca, ma ciascuno puo fare un progetto, sognare un po’, ridere, litigare, riconciliare.
Non conosco l’università, ma penso che ci sono professori che sono attenti al successo della giovinezza. Non puo credere che qualcuno entra nel mestiere di insegnante senza rispetto e generosità. Non è possibile insegnare senza passione.
Invece credo che c’è una mancazza di orientamento “orientation”, e di sostegno economico per gli studenti. Molti lavorano per pagare l’affitto, hanno preoccupazioni, hanno una vita dura.
Ma invece di seminare la disperazione, perché non gridare la speranza, richiedere con alta voce un futuro?
Per esempio, penso a un caso concretto: in lettere, perché non creare “options”? scelte: come mestiere dei libri, giornalismo, edizione…
Le scuole private sono care, perché non supprimare la zone delle scuole private? è la vera ingiustizia!
Per finire, penso che l’università soffre di una mancanza di riconoscimento, perché il gusto della cultura non va con il profitto.
Questo post mi ha molto sconvolta, perché non riconosco niente della scuola dove vivo.
Ma come sono in voce minore, non dico più niente.
Forse non vedo i problemi, sono cieca.
a proposito di meritocrazia:
“Non è questo il luogo di mostrare come era diffusa l’istruzione nella Cina antica, e come erano istituite e ripartite le scuole; ma importa al nostro soggetto notare come la scuola fosse aperta ad ogni classe di cittadini.
I figliuoli dei re e dei principi dei vari Stati feudali, che componevano l’antica Cina, e in pari tempo i fanciulli appartenenti ad ogni ordine di cittadini, agricoltori, artigiani e mercanti, ricevevano la loro prima educazione in comune nelle scuole Siao-hio, o “Scuole elementari”; dove, oltre alle prime cognizioni necessarie, s’insegnava il governo della famiglia e i doveri degli uomini.
Quando i giovanetti, trattati fino allora alla medesima guisa, erano arrivati a quell’età, in cui il carattere è formato e s’è resa manifesta la diversità degli ingegni e delle capacità individuali, non si procedeva più con tutti ugualmente, ma conforme la condizione, le attitudini e l’ingegno degli alunni, e del frutto da loro tratto da’ primi studi. Perciò entravano nella “Scuola superiore”, Ta-hio, insieme co’ figlioli dei principi, dei ministri e dei grandi, tutti i figliuoli del popolo, che avessero dato prove di singolare capacità: in questa scuola insegnavasi l’arte di governare lo Stato, e da essa uscivano gli uomini eletti al maneggio delle cose pubbliche. Si saliva a’ pubblici uffici pei gradini della scuola, le cui porte erano aperte a tutti.
Questo modo d’uguaglianza politica rende necessaria una certa uguaglianza civile; etc…etc…etc…”
tratto da “l’antica cina” di carlo puini – http://www.liberliber.it
La mia scuola è piccola, in pianura triste, tra case con mattoni rosse.
Mi piace il tuo pezzo!!
Anche la mia è piccola e presto ci sarà la neve!
“Qualcuno di loro mente,
forse anche a se stesso”.
Questa è una frase di Rino Sanna, qui sopra.
E vuole essere spunto per una risposta a @ in pillole
che guarda ai “ragazzi dl ’68’ in modo diffidente,
quasi invitando a non tener conto dell’offerta
che da parte di alcuni di essi viene fatta
di mettere la loro esperienza a disposizione
dei ragazzi che lottano oggi.
Fare di ogni erba un fascio, é farne fascio,
e, secondo me, contribuire allo sfascio.
Non tutti i ragazzi del ’68 “sono in cattedra”,
Sergio Bologna non lo è e non è il solo.
Avevo scritto questa cosa in privato
e spedita ad alcuni amici, ora la metto qui:
In occasione dell’articolo
di Sergio Bologna
su Nazione Indiana
CACCIARA
Una volta ci si conosceva tutti
E ci davamo del tu, naturalmente
Invece, poi, dovetti darLe del Lei
Professore, quando venne in libreria
Dove io facevo le mie otto ore.
(Se Le sembran poche)
E non è che, Lei, disse: no
Continuiamo col tu com’è normale
Diventato Sindaco, a quel punto
Ancora meno del Tu Le potevo dare
(Chissà cosa ne pensa della cacciara in atto)
Alla fine glielo dissi, nella mia ignoranza a fette
A una cena di lavoro con i colleghi della libreria
A cui Lui era stato invitato come ospite d’onore
dal mio Padrone che voleva esibirlo come Salvatore
“La deve smettere caro Professore
Con questa politica del cazzo
Che fa Lei
Ho letto i suoi libri, dall’Inizio alla Fine
(E non ci ho capito niente, Lei dirà.)
Sarà così. Ma una cosa mi par certa
Quello che Lei fa politicamente
Somiglia in modo impressionante
A quello che c’è scritto nei Suoi libri
Come un pesce puzzolente
Assomiglia a uno fresco
Infarinato e nell’Olio
Dell’Unzione
Ariosamente fritto”.
Soldato blu.
Firenze 14.11.2008
Buongiorno a Gena, dalla mia piccola scuola alla tua, come un saluto sospeso nella mattina.
Da qualche giorno leggo con attenzione gli articoli sull’università sulla Repubblica . E ora ho capito meglio la portata del testo di Sergio Bologna. Ho letto che le ragazze studentesse sono molto impegnate nel movimento. Mi piacerebbe leggere qualcosa sul movimento femminile o sulla situazione delle donne in università.
Ho linkato anch’io dal mio blog all’interessante articolo di Sergio Bologna. (http://dispersioni.splinder.com)
gina :) sei un pensiero felice!!
bacio
la fu