Triptyque delle tre P – Piemontese (Felice), Petrova (Alexandra), Pasquale (Vitagliano)
“dico, basta pensare di essere immortali,
diceva, anche se sappiamo benissimo che non è”
Felice Piemontese
“Ti hanno licenziato e allora? La libertà non è un cappotto, non si consuma,
à propos, hai visto il mio? Ecco – vedi – non piango!”
Alexandra Petrova
“Vincenzo Cuoco
Non gli impedì
Di finire impiccato
Al suo albero
Di sughero.
Materiale
Per dipartimenti”
Pasquale Vitagliano
Osterie
di
Felice Piemontese
seduti nel solito bistrot di place
de la Contrescarpe, bevendo parecchi
bicchieri di brouilly, fresco come usano
in Francia, finiamo a parlare degli amici
scomparsi, proprio come fanno
i vecchi. L. aveva ancora tanti progetti,
dico, basta pensare di essere immortali,
diceva, anche se sappiamo benissimo che non è
vero (e lui lo sapeva più di tutti). Ci ricordiamo
– grazie a un altro quartino di rosso – di quando
scrivemmo, insieme, un testo intitolato “L’eternità
commestibile”, e il titolo ci piaceva moltissimo,
e lo mandammo in giro per il mondo (avevamo
amici dappertutto, ci scambiavamo versi e opinioni,
eravamo tutti convinti che fosse il momento
di cambiare la vita). Un ultimo bicchiere
di vino servirà forse a tenere lontane
le angosce di morte, ma so già che sarà lunga
la notte
Alberi
di
Alexandra Petrova
Hai mangiato capperi e datteri, carne argentina, aragoste e pasticci di alici,
be’, Claudio, non puoi mica considerarti infelice.
Ricordi come ti scatenavi con l’ hip-hop a Testaccio ?
Ti hanno licenziato e allora? La libertà non è un cappotto, non si consuma,
à propos, hai visto il mio? Ecco – vedi – non piango!
E poi mi hanno detto che Claudio non è più abituato a volare.
È triste, ragazzo, ma non è questo il punto.
Dunque, essendo più grande ed anche economo
propongo:
si può, abbracciandoci stretti, correre gratis a letto,
o andare, come faceva Flavio, sempre a piedi.
Anche se poi i dritti li beccano solo sul 64.
Sai? Lì rubano pure.
Ma che se ne fanno di noi?
Per fino Nello* l’orfanello nasconde in petto un coltello,
mentre noi siamo nudi come l’acqua.
Sì, la pioggia, dici, la pioggia…
Ma è meglio così, Claudio, sai che non ce la faccio più a scendere alla fontana,
a meno che dalla cannella non sgorghi il vino della nostra vicina Frascati.
* Nell’originale il nome è Fedotka, in riferimento al finto orfanello (“sirotka”) di una poesia per bambini di Kornej Čukovskij: “Povero Fedotka-orfanello, … non ha nessuno, solamente papà, mammà e nonnina”.
Heimat
di
Pasquale Vitagliano
La Ginestra
Il cognome
Dimenticò
Il fiore.
VOTATE LIOY
Passato
Indelebile
Sulla colonna
Di un nobile
Palazzo borbonico.
Vincenzo Cuoco
Non gli impedì
Di finire impiccato
Al suo albero
Di sughero.
Materiale
Per dipartimenti
Di quisquiglie
E per conferenze
Curiali
fra discendenti
Di Ruffo
O per enciclopediche
Monografie
Da dopo-lavoro.
VOTATE LIOY
Incancellato
Graffito partenopeo,
Come gli oggetti
Di casa ereditati
Da una storia
Senza eredità:
Il monocolo,
Le cartoline da Napoli,
Il soprabito-da-teatro,
Un pennino
E una medaglietta.
De Napoli
Fuggì dalla capitale
Per il terrore
Dei giacobini.
E tornò in provincia,
In questa terra senza luogo
Fra Napoli e Palermo.
VOTATE DE NAPOLI
Starebbe bene
Scritto
Sulle colonne corinzie
Del grande tempio
Per vecchiette
Che scavò la fossa
Alla Domusecclesia
Della nostra memoria.
Neppure reliquie,
Ma trofei,
Prede
O pezzi di capro,
Il magico bestiario
Ad abbellire
Come tristi bomboniere
Di porcellana
I balconi crispini.
Il palazzo
De Gemmis
Ignorò
La cospirazione
Del suo padrone,
Quando
I fregi di alloro
Stancamente,
Immobili
Come sempre,
Adornarono
Il podestà.
Nessuno
Ricorda
Il suo nome,
Oppure questo
Si confuse
Sui palchi elettorali
Della democrazia
Infantile
Tra i nomi
Dei nuovi cospiratori,
Garriti
Dalle coppole
Dei contadini;
Le stesse
Dei vescovi
E dei viceré.
Le porte
Lasciate-sempre-aperte
Furono
L’unico lascito
Della memoria.
Quel nome
Neppure mio nonno
Lo ricordava.
Le unghie di mio nonno
Erano sporche di terra.
Mio nonno
Che non fece le guerre,
Che servì il padrone
E non gliene venne nulla;
Che fece lavorare
Due prigionieri tedeschi
E per questo
Non divenne antifascista.
Mio nonno
Era alto
E pareva muto.
La città di mia nonna
Fu la pietra bianca di Trani.
Mia nonna
Che non conobbe città;
Che sconosciuto
Conobbe solo il rosario
E nenie campane.
Mia nonna,
Che si credeva una signora
Perché suo padre era beccaio;
Che fu sepolta
Col suo abito da signorina,
In eterno ritoccato.
In quale paese vissero
Non lo so dire:
Stampe da calendario
Rimangono,
Senza alcun ricordo.
Recupero pubblicitario
Di radici fragili e fredde,
Come di vetro.
Il mondo antico
Masticato
A fatica
Si ingolfò
Nell’occhio
Potente e misericordioso
Di un bracere acceso.
Così sgorgò via
E la faccia
Dura ed evangelica
Di mio padre
Si bruciò.
In cambio
Gli dettero
Una ceroplastica.
La periferia romana
Perse così
Un attore non-protagonista;
E un altro posto
Fu occupato
Al museo interattivo
Del 3 x 2.
La faccia contadina
Fu sfigurata,
Mentre noi
Inizializzati
Per rinnovate figure
Di vecchie forme di vita.
Non c’è
HEIMAT
Perché
Non c’è mai stata
Una terra.
Invano
Invocata
Da una
Poesia civile
Inascoltata
Perché estranea,
Isolata
Perché solitaria,
Irreale
Perché non si incarnò
In un bisogno
Barbarico
Di terra
Ma finì
Anch’essa
Per volteggiare
Nell’aria
Di un luogo
Che fu
E non è più,
Di un ninnolo
Che si ereditò
Da un tempo
Che fu di altri
Sulla stessa terra
Di oggi.
Non i campanili,
Non le Sezioni,
Non gli ipermercati
Ci appartennero,
Come ci appartiene
Il nostro luogo geografico:
Scenario.
Principi,
Papi,
Vati,
Cospiratori e balordi,
Da seppellire tutti
In terra sconsacrata.
Appartenemmo
Tutti a noi stessi
E perciò
Tutti a nessuno
O al proprio impresario.
Eppure
Una terra
Deve esserci
Se esistono
Paesi
A cui qualcuno
Dette un nome
Così sacro:
DELLA DELIZIA
Dove
Sempre plumbea
Una pietra
Riaccolse
Madre e figlio
Che a quella terra
Appartennero.
Ma il figlio
Non morì lì,
Alla ricerca
Di un luogo
Che non c’era più,
Se c’era mai stato.
Così lo ricorda
Un posto d’altri :
Squallido,
Ostile,
Alieno e triste
Come
Una sala d’attesa,
Un parlatorio,
Una sagrestia,
Un viale di periferia,
Una stanza umida
O una reggia blindata,
Dove
Andarono a morire
Orfani o prodighi
I figli
Di questo Paese
Senza terra,
Neppure
Per i nuovi
Unicamente
Orfani
che ne vanno cercando una.
Bellissime poesie in un tryptique di canti orfani.
La prima parla della “festa” tra amichi, del vino per dimenticare la nostra parte mortale. Celebrazione dell’amizia nell’arte del bicchiere condiviso.
“L’eternità commestibile”, meravigliosa parola che dà un corpo all’invisibile.
La seconda mi evoca precarietà, il sentimento di povertà. Si puo gustare il mondo senza pagare? Si puo gustare l’assenza? La nudita?
La terza mi mostra una terra che ha perso i figli orfani. Una terra nuda.
Mi tocca.
– Piemontese , Petrova , Pasquale tre voci cosi’ diverse per timbro e registro, eppure così particolari!
Ciao Véronique
Gena
“In quale paese vissero
Non lo so dire:
Stampe da calendario
Rimangono,
Senza alcun ricordo.
Recupero pubblicitario
Di radici fragili e fredde,
Come di vetro.
Il mondo antico
Masticato
A fatica
Si ingolfò”
Nell’occhio
Potente e misericordioso
Di un bracere acceso.”
sequenze di un’epopea che si direbbe familiare non meno che collettiva ed epocale, in una tensione contenuta ma incalzante.
Grazie a Forlani per il bel colpo delle Tre P. Ed anche per i giudizi appassionati.
Penso che la questione centrale oggi sia questa: siamo tutti orfani perché non abbiamo una Terra d’Origine, fosse solo della memoria, una Heimat insomma. E non è un dramma di oggi. Pasolini – PPP appunto – questa ferita l’ha portata sulla propria carne e l’ha espressa nella sua profezia anti-moderna.
Vi invito a visitare la sua tomba, affiancata da quella della madre, in Friuli a Casarsa della Delizia. Lì si prova un inaudito e indicbile senso di appartenenza. La spiaggia di Ostia invece è il luogo dello smarrimento, della perdita, dell’estraneità. E’ il Golgota. Un luogo anonimo eppure profetico proprio nel nome, Ostia è la trasfigurazione dell’osceno nel più sacra degli eventi.
Grazie a tutti.
PVIT
grazie a te Pasquale
e grazie a felice e ad alexandra
effeffe
ps
sulla perdita della casa dell’origine sono d’accordo con te. La lingua patria (la parlata delle borgate romane) in Pasolini ( la lingua patria è la lingua del luogo in cui si è e a cui non si appartiene) porta in sé tutta la violenza dello strappo, dell’abbandono come il friulano (sua lingua madre) la dolcezza dell’originaria appartenenza
Trovo bello la sfumatura tra lingua patria e lingua materna.
La lingua materna è la lingua del mondo nascita, l’alba del mondo.
Non è più una lingua, ma fa parte della voce interiore, del corpo, tiene dentro forte.
Quando si parla la lingua materna, tutta la storia familiare ti porta.
Italiano, lingua madre che ho scelta, come la spearnza di vedere un’ altra alba.
Ho un sentimento particolare per il napoletano, perché sento la storia di una terra, il profumo dei radici, la nostalgia di uno splendore passato.
Il napoletano viaggia.
Bella, profonda la poesia di Piemontese (che non leggevo più da tempo: mia distrazione o suo silenzio?), ma brutti comunque e costosissimi i bistrot de la Contrescarpe. Indubbiamente, per dire à la La Palisse, Parigi non è più quella d’una volta, e anche il sottostante bistrot del Vieux Chene, storico luogo di ritrovo della “canaille”, oggi è solo un pub rumoroso della (à la Sarko) racaille.
Bibliografia essenziale: Jacques Yonnet, Le vie incantate di Parigi (tr. it. 2005)
Macondo
in zona il migliore resta le verre à pieds!
nella oltraggiata rue Mouffetard
les vers à pieds
i versi che si incamminano…
grazie
effeffe