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“L’iddio ridente” di Luigi Di Ruscio

[Francesco Marotta ha già pubblicato qui  alcune poesie del nuovo libro di Luigi Di Ruscio, L’iddio ridente. Di seguito, la prefazione al libro.]

di Stefano Verdino

Non è la prima volta che Di Ruscio si confronta con una misura breve, epigrafica o epigrammatica, del verso, ma il precedente Epigramma (Valore d’uso edizioni, Roma 1982) indicava più un atteggiamento che una precisa stilistica: i testi avevano misura assai variabile, alcuni anche lunghi e a tratto discorsivo. Quando la misura era propriamente epigrafica inoltre, poteva anche capitare di contraddirla felicemente con una tonalità diversa, magari micronarrativa:

prendevo le vespe delicatamente per le ali
le mettevo educatamente dentro una scatola di fiammiferi svedesi

sarete tutte liberate da una bella che mi chiederà un fiammifero

 

aspettavo con calma la liberazione delle vespe

 

 

In altri casi invece l’epigramma scatta nelle sue precise dimensioni e nella sua connaturata violenza espressiva

ammiriamo l’infinita sapienza divina
che ha capito subito che senza infiniti piaceri sessuali

questa luridissima specie umana non si sarebbe mai tramandata

 

 

 

È a tale tonalità che questo nuovo Di Ruscio fa riferimento: il controverso rapporto con il divino, l’esibizione erotica, il duro giudizio sull’umanità, la rabbia e la provocazione, sono tutti elementi che a piene mani possiamo raccogliere in L’Iddio ridente, ma ventisei anni non sono passati invano e le cose si sono in certo modo più sciolte: intendo dire che il grumo convulso del Di Ruscio di allora, tendente a una spasimante condensazione, ha lasciato spazio ad una elaborazione espressiva più in chiaro ed in nitido. Intanto la scelta formale: la misura testuale è ora volutamente continua e conforme, elaborando una lunga scansione sequenziale, con poesie più o meno formalmente uniformi. La scelta di questa sorta di basso continuo si inquadra in una precisa strategia: al Di Ruscio odierno interessa presentare al lettore come un corale (in cui l’io sottoscritto è semmai voce dentro il coro del noi) che si snoda in vari contrappunti, quali sono appunto le singole “iscrizioni” – Iscrizioni era per l’appunto il titolo iniziale di questa raccolta – che in affine misura si aprono singolarmente a diverse ed anche contrastanti segmentazioni del discorso.

E possiamo, sommariamente, rubricare queste principali segmentazioni, magari partendo dai segni di continuità e sviluppo dal precedente Epigramma. Torniamo all’ultima poesia citata; ora il suo intreccio di Dio-sesso-condanna umana viene disteso per lo più diversamente nei segmenti del discorso de L’Iddio ridente. Tutto si gioca con più chiarezza a partire dalla propria inimicizia con Dio:

89.
Cristo ha detto di amare i propri nemici

infatti essendo un nemico d’Iddio

io da Dio sono molto amato

 

 

 

Il nome di Dio viene più volte iscritto a partire da un profetico riassorbimento che subito ci mette a fronte con la geniale violenza espressiva del nostro poeta: “alla fine dei tempi tutto ritornerà nel ventre d’Iddio”. Nel corso de L’Iddio ridente troveremo poi il Dio “annegato”, “sparito dietro la curva”, “periodico”, inesistente, una serie di continui confronti e adombramenti, che ci danno lo spicco della grandezza del problema e della sua mobilità. Al riguardo in due “iscrizioni” abbastanza contigue e tra loro replicanti si gradua l’affermazione di inesistenza, da “non esiste” a “non esiste più”:

175.
iddio non esiste siamo soli e matti

e tra marte e giove è concentrato

uno zoo che contiene corpi di tutte dimensioni

un eros esagerato lungo 36 chilometri

che cerca disperatamente la vagina adatta

tutto sopra di noi in equilibrio instabile

come se la terra

fosse diventata la vagina preferita

180.

iddio non esiste

siamo soli e matti

in un nubifragio di carte disperse

i segni delle rinunce e dell’irrinunciabile

resta solo quello che avevo spellato

e mai mi sono sentito

così intensamente vivo

come quando ero così vicino alla morte

 

 

 

Sono davvero due poesie – o meglio due segmenti connessi – molto rilevanti, che non solo confermano e ricreano la sigla del miglior Di Ruscio, smisurato, oltranzista, insieme irridente e sacro, in un impasto che è sempre merce rara e, nei nostri tempi, addirittura irreperibile.

Anche la deviazione lessicale su un’andatura da paradosso “Resta solo quello che avevo spellato” (al posto di un più prevedibile, ma paradossale “sperato”) rinforza con grande originalità in continuo corpo a corpo, fino allo stremo, alla scorticazione, di Di Ruscio con i suoi temi e i suoi modi. E a riprova cito una delle più singolari epifanie antifrastiche di questo Dio, così imprescindibilmente connesso con la propria scrittura:

e si era introfulato perfino
nel cassetto dove tengo le carte

sconvolge i legni

ritorna nell’ignoto più sacro

 

 

 

Il sacro è un’istanza ricorrente, che spesso si cattura nella quotidiana meraviglia della natura, nella sua ostinata e caparbia capacità di vita e molto spesso divaricata o lontana dall’assedio della morte che riguarda l’uomo. Proprio la sfasatura tra l’orditura umana verso la “sporca morte” e dall’altra parte “l’aria piena di semi volanti” costituisce un nucleo profondo di questo libro, evidente fin dal primo testo, con quell’adombramento di suicidio che si trasforma in catabasi nella natura e nella sua stupefacente fioritura “improvvisamente senza un segnale”:

1.
vengono alla superficie pensieri neri tenebrosi

volare dalla finestra

inabissarmi in quell’albero di ciliege

che nasce sotto casa

splendente

luminoso nelle primavere

improvvisamente senza un segnale fiorisce

grappoli di vita felice

inizia così la stagione

dove nessuno immagina di dover morire

 

 

 

Da un lato quindi il grande codice, la sua fragranza di un sacro, dall’altro un’umanità alle prese con la controversia del suo discorso. Le “iscrizioni” volutamente non vogliono offrirsi come un discorso logico e conseguente, ma come improvvisi e quindi sono aperte ad esiti diversi, addirittura tra loro opposti, se in modo confortante si può leggere in 2: “è perfino possibile/ che sia l’umanità ad essere Iddio/ ed ognuno di noi sia santo e sacro”. Ma questa valenza positiva è più spesso contraddetta dal suo opposto, dalla consacrazione umana alla morte, al fetore, alla putrescenza. Al riguardo non poche “iscrizioni” paiono scritture oniriche, di incubi, più che sogni, di configurazione ossessiva e persecutoria, con un che di kafkiano e sofferente, in cui risaltano la ferocia e l’esibizione sessuale, insomma un coacervo di immagini infrante certo assai diverse da quel codice naturale, che si avverte di altra, imprendibile, pasta.

Motivo ricorrente non a caso è quello della caduta, con una varia gamma, dal volo suicida, che abbiamo visto nella poesia citata, a vari processi degradativi, fino alla “spappo finale”; è anche possibile una caduta gioiosa, ma questa riguarda non l’uomo, quanto le lettere, la cui precipitazione viene animata dall’istanza di ricerca emblematica (“tutti quei pomeriggi sulle lettere/ che precipitavano in ingorghi gioiosi/ alla ricerca dell’emblema dello spirito nostro”). Per l’uomo la caduta, holderlianamente, è il segno di una distanza inesorabile con quel sacro pure così tanto avvertito: “la nostra identità degradata/ facilita la caduta di tutto”.

Quest’ultima citazione tocca un altro punto essenziale, quello dell’identità umana, che viene intesa come una sorta di rigida prigione che aggrava il destino di separazione da quel ciclo del vivente così mobile. Su tale tema Di Ruscio lavora soprattutto sulla propria pelle, almeno a tre livelli: il primo lo possiamo definire come autoritratto, impietoso naturalmente: è il Di Ruscio sdentato, che trapela da più testi e si configura come una certificazione del proprio attuale tragitto, in cui la dentatura è avviso di vecchiaia anagrafica, ma non di spirito, giacché gioca una partita, in chiaroscuro con “una feroce volontà del continuare ad esistere/ nonostante la bocca completamente sdentata”. Altro livello della questione d’identità è quella del poeta, il circuito del sottoscritto, che lega l’identità con la scrittura, ed è affermazione di piena proprietà di quanto si dice. E poi, in contrappunto a queste puntuali e forti condensazioni, l’intermittente rovello di tali configurazioni: “non riesco più a stare dentro un sottoscritto”, “non riuscivo a capire dove si fosse cacciata/ l’identità sottoscritta”; “non riuscivo a ritrovarmi”, “il sottoscritto stava a precipitare in un estraneo”.

Tanto sommovimento si rileva anche nella lingua poetica, che si snoda in un continuum dove risaltano gli annodi più distanti, in particolare tra l’astratto teorico e il concretissimo imprecatorio: così abbiamo vari cortocircuiti tra “intelletto” e “cioccolato” (6), “destino” e “merda” (8), “monoteistico” e “cazzo” (13), “puzza” ed “eucaristia” (63), per non dire di alcuni giochi (“sposati-spossatezza, 31; suolesuore,

73) e della forza neologetica di varie espressioni: “netturbare”, “spetizioni”, “jene scatastaballate”, che arrivano al nostrano presidente del Consiglio (“perculoni”).

L’effetto che si ricava da L’Iddio ridente è quello di un contatto con una materia verbale incandescente, che come la si maneggia, appare in inusuali concrezioni, per le quali in breve spazio (la misura coatta dei testi) si stipano emozioni, riflessioni, incubi, di ampia portata; in tutto questo ci si ritrova, schiera di viventi, che avvertono sempre più il divario tra storia umana e natura, pronti a sottoscrivere la bellissima prosa sulla visibilità del firmamento:

62.

…non riesco più a vedere il firmamento come quando ero ragazzo,
durante la guerra c’era l’oscuramento, il cielo notturno,

il firmamento era vibrante, sembrava che palpitasse, era come

se tutto fosse stato creato per sbalordirmi, con la fine della guerra

finì anche l’oscuramento e un cielo come quello non sono

riuscito più a vederlo e i miei occhi per certi splendori è come

fossero accecati per sempre

 

 

 

Si esce da questa accanita lettura con un sentimento di orfanità e di dolore, ma non di lutto o malinconia, e soprattutto con la gioia di aver percorso una poesia non minimalista, come di solito l’odierno menù letterario ammanisce, ma tesa nella sua volontà di dire e di spasimare tra istanze diverse e soprattutto su uno scenario vasto e di fondamento, in cui la parola poetica appare pienamente viva e giustificata.

Al riguardo e a congedo, possiamo citare l’iscrizione 21, perfetta nel suo annodo di generosa esposizione (della speranza) e di brutale chiusura funeraria, fulgido esempio dell’antifrastico mondo del grande poeta italiano in Norvegia:

21.
la speranza andava mostrata subito

inutile tenerla nascosta per paura che venisse derubata

sostenerla con versi blasfemi o sferici

e alla fine delle composizioni

come sbattendo il coperchio

di una cassa da morto

per chiudere tutto

 
 

 

 

[Prefazione di Stefano Verdino a L’iddio ridente di Luigi Di Ruscio – ZONA 2008 – pp. 128 – euro 14]

4 COMMENTS

  1. Ho apprezzato (moooolto)
    PS.1: Del resto, Verdino è uno dei nostri migliori italianisti, che può raccogliere il testimonio di Mengaldo e Beccaria.
    PS.2: Del resto, Di Ruscio è uno dei nostri migliori poeti “esiliati”.
    PS.3: E’ ormai tempo di produrre, anche a livello tecnico, una lettura metrica del verso italiano tra ‘900 e 2000. Non è che il verso contemporaneo, dato che non ha misura metrica tradizionale, si può ritenere anarchico (malgrado qui forse qualcuno la pensi al contrario). Le strutture (ritmiche) vi sono.

  2. C’è una frontiera sottile tra poesia e prosa in Luigi Di Ruscio, un’irregolarità geniale ma mai priva di regola. Lavorando sulla sua grandiosa autobiografia che vedrà la luce la prossima primavera e leggendo in parallelo queste poesie rimango veramente sconcertata e stupefatta non tanto dall’omologia di temi, di motivi (e già questi basterebbero a farne un grande) ma proprio dalla continuità stilistica tra poesia e prosa che ne fa un geniale autoriscrittore.

  3. Una volta gli autori come Di Ruscio li chiamavano “irregolari”, per fortuna lui è regolarissimo nell’essere “poeta”, con questa voce concreta, ironica e laicamente mistica, narrando l’ironia irregolare della vita, Viola

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.