Viaggio nell’insostenibile malinconia delle merci [1]: IL PARADISO
di Orsola Puecher
Il negozio si chiama “lI Paradiso de…”. In vetrina spicca insieme ad altri strani gingilli l’abitino Miss Christmas, € 47,50, fra un’intermittenza di lucette, del tipo musicale, a forma di campanelle che baluginano da lontano nella piazza buia e vuota della Cattedrale, diffondendo per l’aere dell’imbrunire l’eco elettronico e swingante di una Jingle Bells triste per troppa pretesa allegria natalizia.
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“Il Paradiso” di qualsiasi cosa è una tipologia di esercizio commerciale, ormai rara, in cui era usuale imbattersi in quei tempi remoti, quando Patty Pravo e Mogol&Battisti ammonivano profeticamente: tu quando non hai vuoi avere di più e dopo che hai ti accorgi che tu fermarti non puoi e vuoi quel che vuoi |
Nella cittadina vicino alla quale ora abitiamo, che lascia il mare oltre il vallo della massicciata del treno, per farsi borgo medievale con le sue strade ordinatamente incrociate a cardo e decumano, il Duomo si affaccia su una piazza piccola, angusta, non da duomo, ed è romanico e austero: non concede, oltre il mattone e qualche inserto di arenaria, che a piccole finestre asimmetriche: di qua dal portale, in alto, 5 pertugi, di là una fughetta di sole quattro bifore, come per un ripensamento architettonico subito abbandonato, o più probabilmente per vicissitudini di incendi e rimaneggiamenti ottocenteschi. Una facciata muta, ammesso e non concesso che le facciate parlino, chiusa in se stessa, e anche la piazza, dove il nostro Paradiso è l’unica nota chiassosa, è sempre silenziosa. All’uscita delle Messe, inospitale, si disimpegna in fretta dai crocchi di fedeli per tornare alla sua metafisica solitudine. Stasera solo un grosso ratto – detto qui pendicana – la attraversa con calma come fosse sua e gli umani ne fossero intrusi: si guarda attorno per nulla spaventata, annusa e girella senza scomporsi, senza fretta, il pelo unto, la lunga coda nuda e rosa ad anelli. I negozi che si affacciano di fronte alla chiesa sembrano sempre deserti, tranne un vecchio forno che non ha ceduto al perlinato di legno finto chalet svizzero e alle applique solari, ma si tiene il desueto bancone di fòrmica con l’alzata di vetro e luci fioche.
Ce n’erano una volta
di questi negozi
Il Paradiso
moltissimi.
eh… una volta… sì… ad un certo punto – più o meno nel mezzo del cammin delle vite – ci si accorge del mesto incipit di certi propri ed altrui discorsi con questa nostalgia di passato – di un tempo migliore e altro dal presente – e via allora all’epopea dei ricordi delle reclame di Carosello – delle figurine Panini – delle canzoni spremi lacrimuccia e di tutto quel ricordario sotto culturale tranquillizzante – e si finisce così per infliggere all’interlocutore una specie di contrappasso per quel che subivamo noi che siamo stati bambini in anni vicini a guerre – che quante volte ci dovevamo sentire un po’ in colpa per quell’intercalare litaniante in temp de guera – in tempo di guerra – una volta – ai miei tempi – dei vecchi di fronte a un avanzo lasciato nel piatto e a una lamentela per la fatica o il freddo – con quel moralista si stava meglio quando si stava peggio – è vero: quando subentra sottile e strisciante questo once-upon-a-time, questo c’era-una-volta da inizio di fiaba – questa speciale malinconia – i casi sono due: o ti vedi davanti con un certo qual terrore la discesa ripida degli anni – oppure non puoi che constatare uno scatto dell’evoluzione darwiniana verso la sopravvivenza di qualcosa di più forte e quasi sicuramente peggiore – già avvenuto senza che se ne avesse chiara la percezione razionale – e la malinconia per il passato è l’etilometro della sensazione di barbarie sociale incipiente – il limbo in cui ragione e sentimento si sfidano ruotandosi intorno senza il coraggio di una presa definitva che rovesci uno dei due spalle a terra senza fiato – la nostalgia è una stracciata piccola fiammiferaia a cui si è spento anche l’ultimo zolfanello – e l’imperfetto – erano era eri ero vamo vate evano – è tempo di tenerezza – è artiglio di presente nel passato – di passato nel presente – non del tutto archiviata consuetudine che è già rimpianto durevole – che suona grato nella vibrazione di fusa di gatto della sua liquida r e nello scivolare nel soffio stretto della fricaitiva – nel fricare “sfregare e strofinare” della labiodentale sonora v – e ci vorrebbe un accento di passato remoto – un Robespierre spietato di dimenticanza – un archivio dove sbattere con suono secco e alzando polvere cartelle in uno scaffale – chiudere cassetti metallici di schedari sui loro binari – ma mentre cerchi di frenare – busto all’indietro – derapando sul ghiaino del futuro – ti vengon in mente anche le casse – le casse dei negozi e che alle bambine si regalavano piccole casse giocattolo – e di quanto giocavi al negozio – a vendere cose – con i soldi del Monopoli e che certe casse erano monumenti di ghirigori ferrosi degni dell’ingegner Eiffel – e che le casse spalancavano a scatto i loro cassetti con un ting mite – un ting come quello che avvertiva la vicinanza del margine destro e della necessità di andare a capo delle macchine da scrivere e allora non ti salvi più e ricordi tuo padre nello studio con la porta chiusa – ticchettio dei tasti – ting – a capo – track – ticchettio – ting – track e scendi di altri metri la china della malinconia – ting – o teng teng teng come quello dello scampanellio stizzito di un tram – o come quel den den den den den den den lungo che ancora per fortuna avverte gentilmente nelle stazioni di provincia dell’arrivo vicino del treno – ah che nostalgia del paese dei campanelli – del carillon dei suoi suoni – e se ci sono troppe ripetizioni e troppi come in questo lungo inciso esse sono intenzionali e colpose insieme – come gl’imperfetti quando sono usati sempre al posto dei remoti: erano avano iva – sono lombardismi – si perdonino – sarebbero spesso remoti – a dir il vero – ma i remoti a volte son tagliole – ghigliottine di definitività impronunciabili dal nordico – che è romantico più di quanto non si sospetti.
Varcare le porte del Paradiso non era questione di aghi&crune&cammelli, con un cling armonioso di quei dispositivi a molla per avvertire l’ingresso del possibile cliente, esse porte si spalancavano senza esigere rendiconto di peccati e virtù. E l’Eden in terra di qualsiasi merce era lì, a portata di mano: piramidi di barattoli, vasi panciuti, scansie di legno e si spaziava seraficamente da Il Paradiso della Calza a Il paradiso dei Bambini, del Pescatore, dell’Artista, della Pantofola, del Bottone, della Brugola, del Fumatore, degli Sconti, della Calzatura. I negozi venivano battezzati con nomi positivi e fiduciosi di progresso e di futuro come All’Onestà, Alla convenienza, La Rinascente.
Dipinte in queste rive
Son dell’umana gente
Le magnifiche sorti e progressive.
Giacomo Leopardi
La ginestra
Le imprese di pulizia, come quella di Gadda dell’Adalgisa, La Confidenza che scaravoltavano i canteranoni di famiglia e snidavano con competenza le ciabatte spaiate da sotto i mobili, potevano chiamarsi La fulgida, La rapida. Nomi che erano tutto un programma. Oggetti che si tramandavano per generazioni diventando monumenti dell’antico possessore:
in un battibaleno avevano bell’e messo a soqquadro tutta la casa: seggiole, cuscini, tavolini, lettini: la chincaglieria del salotto e il bazàr del salone e la pelle d’orso bianco con il muso disteso e gli unghioni rotondi (che solevano gracchiare sul lucido appena pestarli) e i comò e il canapé e il cavallo a dòndolo del Luciano, e il busto in gesso del bisnonno Caveraghi eternamente pericolante sul suo colonnino a torciglione: e bomboniere, Lari, leonesse, orologio a pendolo, vasi di ciliege sotto spirito, orinali pieni di castagne secche, il tombolo di Cantù della nonna Bertagnoni, rotoli di tappeti e batterie di pantofole snidate da sotto i letti, e tutti insomma gli ingredienti e gli aggeggi della prudenza e della demenza domestica.
Carlo Emilio Gadda, L’adalgisa (pag. 15)
Le società sportive, si chiamavano senza vergogna Virtus o Forza e coraggio. Non si era ancora insinuato quel contagioso virus delle insegne con quel post moderno e presti-digitante “non solo qualsiasi cosa” con il quale da un certo punto in poi, circa nel periodo di Tangentopoli, per intendersi, cominciarono a nominarsi gli esercizi commerciali. E si principiò L’Era del Non Solo.
NON SOLO… BLUES
OH YEEEEEEES!
Non Solo Alimentari Non Solo Antico Non Solo Arance Non Solo Argenti Non Solo Attesa Non Solo Auto Non Solo Baby Non Solo Bacco Non Solo Bar Non Solo Bingo Non Solo Borse Non Solo Bottoni Non Solo Brodo Non Solo Bufala Non Solo Calze Non Solo Candele Non Solo Cane Non Solo Cappelli Non Solo Cashmere Non Solo Ceramiche Non Solo cornetti OH YEEEEEEES! Non Solo Cremeria Non Solo Donna Intimo Non Solo Edicola Non Solo Elettrica Non Solo Elettricità Non Solo Elettronica Non Solo Estetica Non Solo Ferro Non Solo Filo Non Solo Firme Non Solo Fotocopie Non Solo Fumo Non Solo Fuoristrada Non solo Garden Non Solo Gelati Non Solo Gomme Non Solo Hi Fi Non Solo Immobiliare Non Solo Lana Non Solo Luce Non Solo Maglie Non Solo Market Non Solo Matite OH YEEEEEEES! Non Solo Mille Casalinghi Non Solo Moto Non Solo Mozzarella Non Solo Nozze Non Solo Occhiali Non Solo Orli Non Solo Pasta Non Solo Pc Non Solo Pentole Non Solo Pesca Non Solo Polli Non Solo Profumi Non Solo Ricami Non Solo Salotti Non Solo Scarpe Non Solo Shampoo Non Solo Style Non Solo Swatch Non Solo Teatro Non Solo Vacanze Non Solo Vanità Non Solo Vela Non Solo Vista Non Solo Web Non solo Oro Nonsolo13
OH YEEEEEEES!
Nonsoloacqua Nonsoloacquario Nonsolobio Nonsolocorallo Nonsolodivani Nonsoloerbe Nonsolofashion Nonsolofumetto Nonsologas Nonsologiochi Nonsologiornali Nonsologomma Nonsololegno Nonsolomeeting Nonsolomoduli Nonsolomoto Nonsolonero Nonsolonumeri Nonsolooro Nonsoloplex Nonsolopolvere Nonsoloporte Nonsoloradio Nonsoloscooter Nonsoloscuola Nonsolosoft Nonsolostampa Nonsolosuper Nonsolosurf Nonsolotennis Nonsoloufficio Nonsolovetro Nonsoloviaggi Nonsolovino Nonsolocopie Nonsolodanza Nonsolofoto Nonsolofiori Nonsolobici Nonsolopelle Nonsolosole Nonsolotende Nonsolovideo
OH YEEEEEEES!
Non Solo Bimbo Non Solo Camicie Non Solo Cani Non Solo Dolce Non Solo Giornali Non Solo Latte Non Solo Libri Non Solo Oro Non Solo Ricci Non Solo Sport Non Solo Tenda Non Solo Tende Non Solo Tim Non Solo Video Non Solo Bagno Non Solo Bianco Non Solo Bimbi OH YEEEEEEES! Non Solo Divani Non Solo Donna Non Solo Grafica Non Solo Musica Non Solo Orologi Non Solo Scuola Non Solo Ufficio Non Solo Sole Non Solo Capelli Non Solo Foto Non Solo Carta Non Solo Frutta Non Solo Moda Non Solo Fiori Non Solo Carni Non Solo Pizza Non Solo Pane
OH YEEEEEEES!
E quel Non solo pane ricorda in modo indisponente citazioni evangeliche e una celebre e assai infelice battuta attribuita alla regina Maria Antonietta:
…je me rappelai le pis-aller d’une grande princesse à qui l’on disait que les paysans n’avaient pas de pain, et qui répondit: Qu’ils mangent de la brioche. J’achetai de la brioche.
Jean-Jacques Rousseau
Les confessions
Livre sixième
(1778)
S’apre così un’era di ambigue commerciali indeterminatezze. La certezza che abbandona il campo lentamente alla supposizione, il dubbio, la speranza e il pensiero negativo che si incuneano in una ricerca di antipatica complicità fra venditore ed acquirente, a lasciar supporre chissà quale mirabolante non-essere. Si ammicca, s’indora ma la sostanza non cambia.
VΙ
E’ necessario dire e pensare che l’essere è: infatti l’essere è
Mentre il nulla non è: queste cose ti esorto a considerare.
VΙ
Χρὴ τὸ λέγειν τε νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι,
μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν· τά σ΄ ἐγὼ φράζεσθαι ἄνωγα.
Dice Parmenide nel Frammento VI del Poema della natura.
Ergo: quel che non c’è non esiste e quel che si suppone non sempre si trova.
Ci vogliono concretezza e sincerità, non si tratta di cose metafisiche, di immortalità dell’anima, di esistenza di Dio, di ombre e di caverne platoniche, bensì di prosciutti, viti e chili di cipolle.
Se il principio di irrealtà si incunea anche fra le rosette, i carciofini sott’olio, le pianelle e il 3×2, il rombo del nulla si fa più vicino e minaccioso.
E poi questo non solo qualcosa, ci si chiede, sarà ristretto ad un ambito di genere o sarà totalmente surreale come il non-compleanno del Cappellaio Matto e della Lepre Marzolina o dadaista ed eclettico come nel famoso fondante e filosofico monologo di Renato Pozzetto?
“Tacchi, dadi e datteri”
Ci si dovrà forse aspettare qualcosa come “Bello è l’incontro fortuito di una macchina da cucire e di un ombrello sul tavolo della dissezione anatomica” dell’allucinato Conte di Lautréamont?
Paradiso invece è voce antica di origine iranica dal leggiadro significato di giardino del signore, pairi-daeza.
Un quadrato perfetto.
Un recinto che ripete in piccolo la perfezione del cosmo, dove c’è tutto quel che serve.
Non altro.
Son i Paradisi allora negozi rassicuranti e specializzati. Nel loro mono tematismo assai partecipi all’ordine razionale del mondo.
Non posso quindi che entrare in questo residuale dei paradisi perduti che sta proprio davanti al Duomo.
La vetrina è piccola e misteriosa, oltre all’abitino natalizio, ci sono vestitini alla marinara, salopette con falpalà di pizzo, un cappottino leopardato e mollettine di legno colorato e di strass. Pacchetti di caramelle alla malva ed all’aloe naturale. Anche curiosi spazzolini da denti ricurvi.
Entro per curiosità, con il pretesto di fare un regalino e lo devo subito precisare al commesso che è uno di quelli solleciti e premurosi che ti tengono il fiato sul collo. Devo ripetutamente rassicurarlo “guardo solo un po’ in giro…” e lui si cheta ma non mi molla un attimo e si acciglia silenzioso e si ritira, piccato di non poter illustrare la sua mercanzia, dietro il bancone.
E io so che lui sa che io non comprerò nulla.
Entra subito, preceduta da ottave di gorgheggi, una signora elegante insieme alla sua piccola Alice.
Come faccio a sapere che si chiama Alice?
Mentre varca la porta del Paradiso, scansandomi con non troppa delicatezza, flauta:
– Ali-do-mi-sol-ce fa pianino, non correre … Aliiiiice ma così fai cadere mammina tua! Sta attenta.
Alice è molto vivace: non sta ferma un attimo.
E Alice qua e Alice su…
Le due si assomigliano molto, occhi tondi, umidi e capelli fermati in un garrulo ciuffetto in cima alla testa.
– Guarda che mammina si arrabbia! Guarda che ti fai la bua… tesoruccio!
Mammina è tozza e bassa ma ricoperta di accessori luccicanti che una gazza glieli beccherebbe via e se li porterebbe nel suo nido e ci si potrebbe accendere un fuoco per rifrazione se naufraghi su di un isola deserta.
Cosa simuli chi indossa questi falsissimi sminuzzati vetri di bottiglia su fermagli, fibbie, bottoni, orecchini girocolli e persino orologi, non si sa bene.
Ostentazione di ricchezza si direbbe, un vorrei ma non posso da Re Mida senza più i poteri, però con una semplicità da buon selvaggio che si contenta e gode dei suoi specchietti per le allodole.
Forse la stessa che animava gli indigeni descritti da Cristoforo Colombo nella sua:
PRIMA RELAZIONE DI CRISTOFORO COLOMBO
SUL VIAGGIO NEL NUOVO MONDO
SCRITTA IL 14 MARZO 1493
GIORNO DEL SUO RIENTRO IN SPAGNA
e GIUNTA AL TESORIERE DEL RE IL 30 APRILE 1493
Anche Alice ha i suoi accessoriucci luminosi addosso, compresa la scritta LOVE sul cappottino di piumino rosa a pois bianchi.
Il commesso fa davvero pelosi complimenti alla piccola peste, mentre mammina da un gruccia di attaccapannucci rosa confettino, verde pisellino e giallo canarino, sceglie i vestitini per tesorino.
Io guardo qui e là, rovescio capi, radiografo scatole e cerco etichette e marchi.
Si spazia da Made in China, Bangla Desh, perfino Pakistan et similia.
Mi attirano le caramelle e i dolcetti, non pensavo si vendessero anche questi.
Hanno prezzi esorbitanti.
Le mollettine sono davvero carucce, i girocolli, seppur falsi come giuda, graziosi.
– Su Alice vieni che mammina ti prova il vestitino di Natale…
La piccola si ribella, sfugge, giustamente, si divincola mentre mammina le infila gli arti a forza nella misura extra small dell’abitino Miss Christmas, di cui sopra.
Il commesso le da un sonaglino a forma di osso per farla star buona, lei lo morde sbavando copiosamente.
E finalmente, squittendo sollucheri, mammina si specchia con Alice vestita e domata in braccio.
– Guarda amore della mamma… guarda come sei bella!
Il commesso sfodera una caramellina da una scatola e Alice la sgranocchia deglutendo rumorosamente e protendendosi per averne un’altra fa cadere tutta la scatola, che si sparge sul pavimento.
Alice bruca come una capra,
– Eh no basta… adesso… stupidina… che ti si cariano i dentini…
La sgrida mammina.
– A proposito, signora, se permette le mostro lo spazzolino da denti ultimo modello… e il dentifricio Shining
Sono sempre più stupita.
– E sono appena arrivate le mutandine Pussy Pussy.
Organza rosa e pizzo nero.
– Ma come sono sexy
Ammicca mammina, con la lubrica complicità del commesso.
– Le prendo… e due pacchi di biscottini e lo spazzolino… sono indecisa per il colore… rosa o verde? Quale ti piace di più Alice?
Quella se ne frega altamente rovistando nel cestino della carta straccia.
– Alice maleducata… non far fare brutta figura a mammina!
– Ma no, lasci, signora, non si preoccupi
– Mi faccia un bel pacchettino regalo eh… che lo mettiamo sotto l’albero.
Il commesso incarta e mette tutto nella graziosa borsina del Paradiso, maculata a macchie bianche e nere tipo pelo di dalmata.
– Sono 95 euro.
Mammina paga senza fare una piega, con la carta di credito.
– Grazie e arrivederla… ciao piccola!
Mammina estrae dalla sua borsa incrostata di strass il guinzaglio di strass modello Principessa Sissi e lo aggancia al collare di strass modello Queen Elizabeth della piccola, viziatissima, irrequieta microscopica Yorkshire. Ed escono da “Il paradiso degli animali” bordeggianodo trionfalmente per il Corso e irradiando dai loro superflui, non eco sostenibili e deliranti oggetti bagliori e barlumi alle prime luci della sera.
Natale canta nell’aria teneri latrati.
Il commesso non mi molla e chiede:
– Ma un regaluccio per un cane o per un gatto?
– Gatto.
Dico, non immaginando la messe di altrettanto assurdi oggetti dedicati al sobrio felino che, invece, refrattario ad ogni accessorio, sa vivere libero e selvaggio, si lava da solo e dorme indifferentemente fra le foglie secche come sui letti appena rifatti.
Mi mostra in rapida successione: il trasportino a forma di castello della Loira, la cuccia di visone e quella a forma di osso. Persino il modello “Barocco” di velluto rosso pompeiano.
Prezzi da incubo.
Materiali sintetici.
Fattura esotica da lavoro nero in sicura schiavitù.
Basta là.
Mi disimpegno con un rapido reciso:
– Grazie, prego, scusi, tornerò.
E guadagno l’uscita,
Per me il Paradiso può attendere.
E’ l’ora della messa vespertina.
Dalla sagoma accovacciata per terra su di un cartone di fianco al portale del Duomo, con un neonato che le dorme infagottato nello straccio a tracolla, si tende una mano.
Davanti al Paradiso degli animali l’Inferno degli umani.
– Da qualcosa. I bambini hanno fame. 5 bambini a casa. Che Dio ti benedica. Grazie.
La malinconia delle merci è davvero insostenibile.
“paghi d’ogni piccola cosa e anche di niente”
letto prima divertendomi, poi con malinconia.
Auguri Orsola
auguri a tutti
certe volte quando leggo Adalgisa e escerti vari e così commisti mi viene in mente che non è vero che del giardino segreto ci sono rimasti solo i mattoni e che non sappiamo che farcene. che il giardino segreto è proprio a portata d’occhi. e soprattutto un regalo per un cane o per un gatto. ehi orsola, buon natale. sì sì. buon natale a tutti.
chi
Questo punta natalizia di cattiveria tornata su leggendo della mammina imbecille torna a conforto. Mi fa affrontare più corazzato l’ultimo e impalpabile lamento degli astici semoventi nel momento di immergerli nelle acque bollenti. Cosa che sto per fare.
Ricchissimo, anche di dolcezza ed amarezza, questo tuo ipertesto, Orsola.
Illuminante il collegamento con Colombo.
Auguri sinceri a tutti gli indiani e i commentatori.
E’ duro intervenire su questa scrittura vulcanica.
Mi limito a una considerazione: che caos di oggetti di pessimo gusto doveva essere la casa di Gadda!
A una domanda: perché quelle terre su cui Colombo era inciampato senza sapere, e che nel suo Diario aveva descritto, ricorrendo ai cliché del suo immaginario cristiano, come un Paradiso, sono diventate nel giro di pochi decenni un Inferno che oggi va sotto il nome di paesi sottosviluppati?
A una immaginazione babbonatalizia: quella di un corpo femminile dotato di gambe chilometriche, calze a rete e giarrettiera rossa che riempie il vestitino di Miss Christmas…
Ciao Orsola,
un post delicato ed elegante come tutti i tuoi,
ma sono qui per augurare a te e tutti i tuoi compagni di viaggio su N.I. un Sereno Natale.
un abbraccio virtuale. natàlia
Orsola, pensavo di svecchiare il nome del blog, che ne dici di “Nazioni & Indiani”?
Se poi ti prende la malinconia, perché qualcuna l’ha scritta grande, proprio il giorno di Natale.
Tu la usi come farina.
Ci aggiungi quattro tuorli di amicizia, un bicchierino di gioia, grattugi un pizzico di pietà, due cucchiai di gratitudine, un assaggio di invidia e di vendetta e, preparato il forno ad alta con.passione, fai cuocere la torta indiana che ti nutrirà per le feste.
Auguri a tutti.
Un vero e proprio trattatello di *economia*, politica e non, e di affetto fluviale, alla Orsola, con un abbraccio, Viola
delizioso post, Orsola, tutto godibile: me la vedo quella mammina che compera l’incredibile miss christmas per la sua piccolina.
Troppo forte!
:-))
[…] di Orsola Puecher Fonte: Nazione Indiana (link all’articolo) […]