Su Jacques Rancière “Politique de la littérature”

di Andrea Inglese


Politique de la littérature
di Jacques Rancière è un libro di teoria e critica letteraria fondamentale. Lo è certo per la ricchezza e la novità dell’articolazione concettuale, ma anche per gli effetti benefici che la sua riflessione potrebbe avere sui nostri studi letterari e il nostro dibattito critico. Come il titolo esplicita, il libro non verte sui rapporti tra letteratura e politica, ma su quelli tra una politica propria ad una certa arte dello scrivere (la “letteratura”) e la politica generalmente intesa, come pratica oratoria volta a ridefinire nell’arena pubblica lo statuto dei soggetti e la natura del loro mondo.

La riflessione di Rancière ha un carattere “telescopico”, ossia pensa la modernità letteraria nell’ottica della lunga durata. Ciò significa relativizzare il paradigma modernista (dal formalismo russo allo strutturalismo francese), per pensare diversamente quella pratica che da circa un paio di secoli definiamo “letteratura”. Quest’ultima indica un nuovo tipo di rapporto tra significati e cose, tra parole e corpi, che si oppone all’ordine classico e al suo edificio tradizionale di generi. Si tratta poi di un tipo di rapporto intimamente legato alle forme di vita del regime democratico, che va affermandosi sulle rovine dell’ancien régime.

Il libro si divide in tre sezioni. La prima contiene due saggi teorici, la seconda mette alla prova le categorie elaborate attraverso cinque itinerari monografici (Flaubert, Tolstoj, Mallarmé, Brecht, Borges), la terza presenta tre saggi tematici (letteratura e psicanalisi, il genere biografico, letteratura e filosofia). Uno degli assunti fondamentali di Rancière è l’abbandono del concetto di “letterarietà”, al quale sostituisce una concezione che s’interessa agli scambi continui tra parola letteraria e parola d’uso comune: “La funzione comunicativa e la funzione poetica del linguaggio non cessano, infatti, d’intrecciarsi l’una all’altra, tanto nella comunicazione ordinaria, che brulica di tropi, quanto nella pratica poetica che sa deviare a proprio vantaggio degli enunciati perfettamente trasparenti”.

A ciò dobbiamo aggiungere un secondo presupposto, che vede nella politica propriamente intesa e nella letteratura due pratiche incentrate sul dissenso, sull’interruzione, sulla riorganizzazione dei rapporti tra visibile e dicibile. Se questo è l’elemento comune (una sorta di dinamica basata sull’instabilità degli statuti sociali e dei significati condivisi), ciò che separa l’universo letterario da quello politico è un problema di scala: “Il dissenso letterario lavora sui mutamenti di scala e di natura delle individualità, sulla decostruzione dei rapporti tra stati di cose e significati. In tal modo si differenzia dal lavoro di soggettivazione politica che configura con delle parole dei collettivi nuovi”. Nulla di imprevisto, quanto a concezione del politico; cruciale è invece la definizione della letteratura. Quest’ultima, infatti, non rinvia ad una sorta di essenza o di procedimento unico, ma dischiude tre orientamenti distinti (tre “politiche” della letteratura). Il primo è basato sulla radicale democraticità (equivalenza) dei soggetti di cui è possibile narrare o poetizzare (Lyrical Ballads, Madame Bovary). Il secondo è volto ad una sorta di “archeologia del mobilio sociale”, ossia alla decifrazione delle segrete fantasmagorie inscritte sulle merci e sui corpi della società (La Comédie humaine). La terza è tesa a individuare “la democrazia molecolare degli stati di cose senza ragione”, ossia insignificanti e privi di senso, che si sottraggono all’ermeneutica della decifrazione dei segni inscritti negli oggetti.

Dei tre grandi orientamenti, è senz’altro quest’ultimo quello ancora meno esplorato e compreso. Ma esso risuona in modo estremamente nitido nella voce di alcuni autori centrali del Novecento, da Beckett a Gombrowicz, da Ponge a Volponi. E i quest’ottica, Rancière ci offre una via ermeneutica importante, seppure ardua: confrontarsi con la politica letteraria del non-senso, ossia con quegli eventi molecolari che precedono ogni figura di soggetto e di mondo.

[Jacques Rancière, Politique de la littérature, Paris, Galilée, 2007]

Questa nota critica è apparsa sul n° 58 di “Allegoria”.

13 COMMENTS

  1. “La funzione comunicativa e la funzione poetica del linguaggio non cessano, infatti, d’intrecciarsi l’una all’altra, tanto nella comunicazione ordinaria, che brulica di tropi, quanto nella pratica poetica che sa deviare a proprio vantaggio degli enunciati perfettamente trasparenti”.

    Questa natura spuria mi interessa assai.

  2. Anch’io ricito: “La funzione comunicativa e la funzione poetica del linguaggio non cessano, infatti, d’intrecciarsi l’una all’altra, tanto nella comunicazione ordinaria, che brulica di tropi, quanto nella pratica poetica che sa deviare a proprio vantaggio degli enunciati perfettamente trasparenti”. Finalmente anche la patria dei Mallarmé e dei Valery l’ha capito, ‘st’intreccio. Ma la questione viene dopo: qual è il percorso di quella “deviazione”? Ossia che cosa fa dell’organizzazione della “comunicazione ordinaria” un testo poetico? Parlare di “pratica poetica”, senza interrogarla, mi pare un escamotage. Ma forse questi interrogativi Rancière nel suo libro li affronta. Che mi vien voglia di leggere. Rancière l’avevo lasciato a quando trafficava con Badiou & C. sul pensiero althusseriano.
    Un’ultima questione: per Rancière la letteratura è, ipso facto, dissidenza e/o dissidente?

  3. a macondo:
    qual è il percorso di “deviazione”? Che cosa fa di una comunicazione ordinaria un testo poetico? Che cosa fa di un urinatoio un’opera d’arte? Almeno, le arti plastiche ci riflettono su da un po’ di tempo… Che cosa fa si che una conversazione sugli hamburger in un film di gangster di Tarantino sia più efficace di tanti dialoghi dove i gangster parlano da gangster durante tutto il film… Insomma, già ponendosi in questo modo la domanda, si orienta anche il lavoro critico nella buona direzione.

    La letteratura è ipso facto dissidente? Dipende che cosa s’intende per dissidente. Se si intende in senso strettamente politico, non lo è sempre. E anzi, conta poco che lo sia. Ma quest’idea della letteratura dissidente in quanto tale è una specie di tranello concettuale: non si sa bene che cosa si sta dicendo con questa formula, ma vi è una sorta di grande godimento nell’usarla. Anche a me capita. Se poi ci penso un po’ su, mi sembra che sia una formula comunque troppo riduttiva e forse anche confusa.

  4. @ Inglese,
    meglio lasciarle formulate, quelle domande, come una sorta di spada di damocle, perché a dirimerle ci si prova già da migliaia di anni la teoria letteraria. Cmq, per non glissare, posso dare qualche mia opinione. Rancière parla di “funzione poetica” distinguendola, pur nell’intreccio o magma comune, dalla “funzione comunicativa”. E la “funzione poetica” funziona (appunto) secondo una pluralità di “procedure”. Da un lato c’è la tradizione (un sonetto, poniamo, è appunto tale perché segue convenzionalmente – ma non pefettamente: allora si parla di “licenza” -una serie di “leggi” poetiche quali la misura endecasillaba o la suddivisione strofica, a prescindere dal contenuto). Dall’altro c’è la sua “modalità” moderna, che, venuta a seguito di una ribellione (avanguardie, sperimentalismo) e di un rifiuto-rimescolamento delle norme, ha avvicinato la “funzione poetica” al parlato, al linguaggio ordinario, puntando di più sulla “funzione comunicativa”. Ma senza appiattirvisi. Sulla base, appunto, di una deviazione, su cui anch’io mi interrogo. E qui, a mio avviso, si inserisce anche il caso di Tarantino (un regista che non mi fa impazzire), il quale fa del meta-cinema, ossia, fingendo di adeguarsi alla “funzione comunicativa” (la conversazione sugli hamburger), in realtà allude, cita, fa il verso ecc. (tutte procedure post-modern), al genere gangsteristico, quindi al canone, quindi alla “funzione poetica”. Quanto al fatto se la letteratura sia di per sé dissidente, amo pensare che la “grande letteratura” lo sia, a prescindere dal tapino (sia Eliot o Céline o Majakowskij) che la scrive, per il fatto che la letteratura, quando è tale, è sempre il prodotto di una coupure, di uno scarto, che ha a che fare con la verità, e la verità è sempre… rivoluzionaria. Non vorrei averla fatta lunga. Si asi es, disculpen

  5. “E in quest’ottica, Rancière ci offre una via ermeneutica importante, seppure ardua: confrontarsi con la politica letteraria del non-senso, ossia con quegli eventi molecolari che precedono ogni figura di soggetto e di mondo.”

    Bello. Mi chiedo quali editori e soprattutto quali scrittori italiani stiano al momento lavorando in tal senso

  6. … forse Rancière arriva in ritardo… forse. E per questo pongo alcune questioni.

    1) Nel 1968 o ’69 Argan inaugurava la rivista “Storia dell’arte” (sulla quale poi ha scritto Calvesi, tanto per fare uno dei nomi più conosciuti), che poneva il problema implicitamente della distinzione dell’oggetto artistico dall’oggetto comune arrivando all’idea che conta l’immagine (e cioè che la storia dell’arte ottocentesca doveva fare i conti con l’iconologia)… fra i vari suggerimenti che sono presenti nel saggio emerge la possibilità di degerarchizzare i generi classici della produzione artistica considerando la centralità comunicativa delle immagini con tutti i problemi che pone (il ruolo della sociologia, della psicanalisi, di qulli che in America chiamano cultural studies…) lungo una tradizione che arriva a Warburg passando per Panofshy.

    Seconda questione: ma non esisteva già la sociologia della comunicazione e della letteratura?

    Terza questione: Ma della centralità della funzione comunicativa del linguaggio non si erano occupati, nel frattempo, in tanti? Non mi sembra che il concetto di letterarietà, tra l’eltro, la negasse.

    @macondo… “uno scarto che ha che fare con la verità”, dici, ma forse anche con la mistificazione, spesso… non lo so: a me sembra un casino questa vicenda!

  7. vito non ho ben capito le tue osservazioni
    “Ma della centralità della funzione comunicativa del linguaggio non si erano occupati, nel frattempo, in tanti? Non mi sembra che il concetto di letterarietà, tra l’eltro, la negasse.”

    La questione che pone Rancière non è quella della funzione comunicativa del linguaggio, che dovrebbe essere più o meno assodato da quando il linguaggio esiste. Semmai riavvicinare due universi separati proprio dal concetto di letterarietà: il discorso comune e quello letterario. In ogni caso, anche se una scheda critica dice poco, Rancière ha davvero da dire e cose nuove.
    A meno di pensare che in Italia la produzione filosofica e critica sia talmente splendida da non meritare che ci si interessi di quanto si fa altrove….

  8. @andrea
    Quando dicevo “… non si erano occupati in tanti? …” pensavo a Luperini, ad esempio…
    La tua scheda critica non dice poco, anzi… mi sembra che sottolinei un aspetto assolutamente interessante del testo, e apprezzo molto la possibilità di avere notizia del dibattito internazionale (quando in Italia alcuni testi arrivano se sono già dei classici riconosciuti in mezzo mondo)…
    Non avevo intenzione di sminuire l’interesse della questione che pone Rancière … e forse “arriva in ritardo” è troppo. Me lo rimangio volentieri.

  9. @andrea:
    ribadisco che mi sembra davvero un testo molto interessante. rileggendo la scheda però mi vien da chiedere un chiarimento.

    Cito: “l’abbandono del concetto di “letterarietà”, al quale sostituisce una concezione che s’interessa agli scambi continui tra parola letteraria e parola d’uso comune”. L’abbandono del concetto di letterarietà è uno dei motivi per cui il libro mi attira ma mi chiedo su che base, se non quel concetto, viene intesa la “parola letteraria”, distinta da quella di “uso comune”.

  10. Molto interessante, assieme a questo vorrei segnalare il caotico ma “necessario” “Le Démon de la théorie” di Antoine Compagnon, tradotto in Italia e a mio avviso ignorato da molta critica. Ciao Andrè!

  11. Ranciere non è paragonabile a Compagnon. Quest’ultimo realizza poco più che un manuale. Il primo, invece, è un notevole e stimolante filosofo. Speriamo venga tradotto presto in italiano. è tra i riferimenti fondamentali delle mie più recenti ricerche sulla nudità e sull’esposizione

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.