salita al monte tauro
di Massimo Bonifazio
quanta strada, si dice, e per ritrovare qui quanta lordura:
lattine dentro ai vicoli, cartacce, pozze di benzina,
i rivoli di sangue delle offerte che arrossano i solchi dei canali
scavati nel nero della pietra; li leccano i cani,
presi a calci dall’uomo che avanza con la palma
salmodiando un inno marinaro; all’altezza dell’arco
lo sorpassa, lo sfiora con l’orlo della veste,
intrisa di un presagio di riarso: residuo della festa, odore
dei cadaveri smembrati, gettati sul fuoco delle grate:
che i vivi presto mangeranno, all’ombra delle tende.
è l’alto di un golgota sbreccato il punto fermo del sentiero
in salita nella luce; lo imbocca l’uomo di passaggio
incalzato dal fluttuare umido del sangue,
dalle dita intrecciate nella danza: a mo’ di crochi, tulipani,
protese ad indicare l’alto, la pienezza,
canne lungo il fiume: ad indicare il basso, il centro,
vuoto e vulnerabile, e la sua idea di sangue:
dita di kore abbandonata al serrarsi serpentino
di flauti e tarabucca: e la piazza si riempie del tumulto,
rimanda fumi e voci nel mezzogiorno immenso.
sale, e il sentiero si disfa nei mattoni, nelle pietre
accostate l’una all’altra con squarci millimetrici,
lastra sulla lastra, fino al brusco limite roccioso:
è uno spezzarsi di crete, una scissura orizzontale
tesa verso il mare; ma non scalfisce il torbido del bronzo,
la magra sofferenza delle statue, replicata ad ogni ansa,
sette volte, e sette: ad crucem condemnatur, sta scritto
sulle lapidi. dissennato appare allora il gesto dei tondini,
rivolti verso il resto alla parete, lividi di ruggine,
dove oscilla il canto fuori tempo degli ireos variegati.
sotto si dirama la vertigine del mare,
la movenza precipite del volo dei falchetti, lesti
a ritornare in quota con un colpo secco d’ali.
sulla china si propaga la stasi del finocchio
che cede poi il passo al ficodindia;
e il grigio dell’assenzio si fa spazio,
regala un’altra stilla di frescura
alla terra che riposa sulla polvere.
basta un gesto a dissipare la frotta dei felini
che si eclissano nel folto della macchia.
il tergere del volto: vita radunata nel gesto di una donna,
si dice, fascia sudario fazzoletto, che una stessa mano
intesse di fili fatti d’agave, di mirra? (che sia questo
il controsenso caparbio della fuga, la felice
direzione opposta?) ci pensa perplesso davanti alle rovine,
alle travi che indovina sotto il tetto fracassato del sinedrio:
il cappero vi ha messo le radici, sulla malta imbevuta
dell’acqua della fonte, filtrata sulle mura, dimora del muschio
e delle alghe. vita che si abbarbica, vita che rimane
abbracciata al propagarsi della vita.
alla fine del sentiero: e prima del cancello: parata dei motori,
quiete degli amanti di fronte al santuario scavato nella roccia.
l’asfalto iridescente che rimanda la lieta parola forestiera:
johannisbrot. inatteso da quassù si mostra lo spaccato
della conca artificiale dell’arena, il gioco dei suoi archi
attraversato dalla calca delle immagini: le madri, le croci,
la cadute. si volge un’altra volta alla montagna, alla sua vetta:
ma sbarrano la via del sepolcro i cespi d’erba che disfano il cemento.
si siede a bordo strada, l’uomo con la palma lo raggiunge,
gli offre pane e fiasca: magdala? gli dice; io vengo da cirene.
per la kore Giovanna L.
La “tarabucca”, dall’arabo “darbuka”, è un tamburo. “Johannisbrot”, “pane di Giovanni”, è la parola tedesca per “carruba”. Nelle intenzioni di chi parla, “kore” è solo sinonimo di “ragazza”, non ha nulla a che fare con Proserpina. Il Monte Tauro sovrasta Taormina.
Giugno 2006
c’è un paesaggio che si fa più ricco ad ogni nuova immersione.
Versi sapienti, novecenteschi, ritmo che si inceppa negli ultimi 20 versi, dove si affastellano troppe scosse. Un poemetto potente nel denso mare della letterarietà lirica. Una preghiera composta, disillusa.
Bonifazio mi sembra un facitore di poesie più che un poeta.
SOCRATE: Ahimè, lo vedi bene anche tu, che non sei niente un intervistatore. Ma vediamo un po’ insieme, noi due, se noi possiamo metterla in un altro modo, la cosa. Abbiamo detto, io credo, che sono i vasai, quelli che fanno i vasi. E che quelli che fanno gli indovini, quelli indovinano. È così, o hai già mutato opinione?
SANGUINETI: È così assolutamente, o Socrate.
SOCRATE: Or dunque che diremo noi, ancora? Diremo che il vasaio fa i vasi in quanto è vasaio, o che è vasaio in quanto fa i vasi?
:-)
Forse Tauro voleva intendere un’altra cosa.
Avendo letto questo:
Socrate: “[…] Ma chi giunga alle soglie della poesia senza il delirio delle Muse, convinto che la sola abilità lo renda poeta, sarà un poeta incompiuto e la poesia del savio sarà offuscata da quella di poeti in delirio.”
Tauro può aver pensato che la poesia dei poeti [in delirio] debba essere “delirante”.
Ma non trovando segno di delirio nel bel poema di Massimo Bonifazio, gli è sembrato giusto degradarlo a savio, facitore di poesia.
Posso, da parte mia, aggiungere, per Bonifazio, la categoria “savio in delirio”?