Nella stanza separata

di Emanuele Trevi

garboli

«Quello che eterneggia mi è poco congeniale. Più volentieri entro nell’ordine di idee che niente è più sacro di ciò che non è stato ancora redento dallo stile, non ancora raggiunto dall’intelligenza». Con questa bellissima dichiarazione d’intenti, tutta imperniata sull’ambiguità di quel «sacro» che non basterà una vita intera a sciogliere, Cesare Garboli chiudeva l’Avvertenza premessa alla sua prima raccolta di saggi, La stanza separata, uscita per Mondadori nel 1969. Questo libro introvabile, il cui ricordo visibilmente infastidiva l’autore, viene finalmente ristampato con una lunga e illuminante introduzione di Giuseppe Leonelli, a quasi quattro anni dalla morte di Garboli (Libri Scheiwiller, pp.365, euro 18,00).

Di una persona che ti è stata a lungo amica, ed eventualmente della sua opera, credi di sapere se non tutto, almeno quanto basta. E invece, leggendo il saggio di Leonelli, ho trovato fra l’altro la spiegazione del titolo -così bello- scelto per il suo libro d’esordio – spiegazione che più garboliana non si potrebbe. Avevo sempre pensato che la stanza separata fosse una riproposta, e insieme un ironico rovesciamento, della celebre torre d’avorio, più che mai prossima al crollo, nel fatidico Sessantanove. E invece, si trattava di un lontano ricordo, tra infanzia e adolescenza, riferibile agli anni in cui Garboli, ultimo di sei figli ed unico maschio, viveva ancora nella casa paterna di Viareggio. La stanza separata era quella in cui viveva la sorella che il futuro scrittore sente, tra tutte, più affine a lui, per una sorta di ipertrofia della vita interiore, di forza centripeta facile a sconfinare nella nevrosi e nella rinuncia. E’ una stanza umile, vicina alla cucina – eppure, tra tutti gli ambienti della grande casa, è quello che ospita il pianoforte. Certi ricordi esigono da chi se li porta appresso tributi tanto più intensi quanto più tardivi. Perché La stanza separata, è bene ricordarlo, è sì un libro d’esordio, ma non un libro giovanile. Quando si decise a pubblicarlo, Garboli, nato nel 1928, aveva già passato la soglia dei quarant’anni. E a parte i Penna papers del 1984, opera monografica come il più tardo Gioco segreto dedicato ad Elsa Morante, dopo la Stanza bisognerà aspettare altri vent’anni perché Garboli si decida a pubblicare altri due libri fatti di saggi e articoli di vario argomento, apparsi come introduzioni a libri altrui o interventi su giornali, riviste, atti di convegni. Girata un’altra boa importante, quella dei sessanta, Garboli dà alle stampe nel 1989 gli Scritti servili, e l’anno dopo Falbalas, la stupenda raccolta di Immagini del Novecento che non solo lo consacra come uno fra i grandi (e a ragionato parere di molti tout court il più grande) saggisti del suo tempo, ma lo rivela anche a un’intera generazione di lettori più giovani, del tutto ignari, per ragioni anagrafiche, della Stanza separata. Complice l’autore che, come accennavo, non voleva nemmeno sentir parlare di una ristampa di quel libro ormai lontano. Una volta che glielo chiesi in prestito, o in regalo, occhieggiandone una copia in una specie di armadio a muro della casa di Vado di Camaiore, dove conservava i suoi scritti, mi rispose seccamente, con quella posa di pedagogo puntiglioso che a volte amava assumere, che se qualcuno è proprio interessato a conoscere un libro, esistevano pure le biblioteche. E come spesso gli accadeva, quando si accorgeva di essersi fatto trascinare da un’irritazione esagerata, fece subito seguire una gentilezza altrettanto spontanea, pescando dal fondo di una scansia, per regalarmela, una copia della sua traduzione delle False confidenze di Marivaux. Devo in qualche modo tirare le fila del mio ragionamento. Non c’è dubbio che La stanza separata sia un eccellente libro di critica, con vette memorabili come il saggio sul Dottor Zivago o quello su Blow-up di Antonioni. Questo tipo di libri che nascono per raccolta ed aggregazione di testi sparsi appartengono a un genere difficilissimo, che raramente dà luogo ad esiti eccelsi. Non c’è letterato che non ci provi, prima o poi, perché è bello pensare a ciò che si fa giorno per giorno come all’indice di un libro a venire, ma il tasso di inutilità, o di fallimento vero e proprio, è il più alto che esista. Guardando agli anni sessanta in Italia, che pure sono stati un decennio ricchissimo per la prosa, mi vengono in mente ben pochi libri di saggi capaci di reggere al tempo come fa La stanza separata – forse solo Letteratura come menzogna di Manganelli. Ammesso tutto questo, bisogna anche dire che Garboli pensò di riuscire a far meglio, e aveva ragione. Come l’amato Sandro Penna, era destinato a una scrittura sempre più limpida e persuasiva col passare degli anni. E così come gli era piaciuto esordire a quarant’anni, ancora di più amò il lusso di una specie di secondo inizio a sessanta. Per questo motivo, una seconda edizione della Stanza separata non poteva che arrivare postuma. Un fatto mi sembra incontestabile: che l’autore amasse o meno il ricordo di questo libro, tutti i dati della sua straordinaria antropologia, costruita di saggio in saggio, sono già lì. A partire da quell’interrogazione sul ruolo del fascismo nella definizione di un moderno carattere italiano che per ora indugia sugli esempi canonici di d’Annunzio e Pirandello, ma diventerà, con un colpo di genio sorprendente, la chiave di volta del racconto della vita di Pascoli. Ma non ci sono solo i temi, perché nella Stanza separata vengono fuori anche i tratti del carattere, le idiosincrasie, diciamo anche le pose che renderanno il loro autore uno scrittore (oltre che un uomo) letteralmente inimitabile. La cattiveria, per fare un esempio. Garboli era un carattere generoso, capace di una straordinaria attenzione all’altro, affabile e leale, ma certo non era buono. Poteva pentirsene, ma amava infilzare la vittima prescelta con lo spiedo della sua feroce ritrattistica, sia nella conversazione privata che nello spazio pubblico della recensione. Come accade nell’amato Saint-Simon, un certo grado di inermità della vittima, lungi dall’inibirlo, lo esalta. A differenza di tanti critici d’oggi ispirati dalla controversia, Garboli non amava affatto la stroncatura intesa come genere a sé stante. La considerava un cascame solo raramente necessario, il frutto di un costume letterario molto anni trenta, vizzo e borioso, tipica di un ceto in cui l’inclinazione alla rissa convive benissimo con un sostanziale asservimento. Lui preferiva l’arte di nascondere gli spini più velenosi nelle pieghe degli elogi. A volte, la perfidia è tale che, a mezzo secolo di distanza, ancora si resta di stucco. Come quando parla della prosa di Enzo Siciliano, «tutt’altro che vigorosa, piena di vezzi e ricca di isterie», che «ora frascheggia con gli aggettivi, ora civetta coi verbi, e sempre divaga, querula e rumorosa». Una prosa, insomma, «che recita costantemente la parte della femmina». Tra le tante cose inesatte che si pensano quando si è giovani, è che si ha un’intera vita davanti per fare pace. E comunque, Garboli avrebbe potuto opporre ad ogni risentimento il suo assioma preferito: nel difetto c’è sempre più sostanza che nel risultato conseguito, nell’esecuzione a regola d’arte. A questo aveva creduto davvero, dall’inizio alla fine: ciò che è «sacro» non è mai fino in fondo redento da una qualche forma di perfezione. Ciò significa (cito ancora dall’Avvertenza iniziale) che in ogni artista c’è una persona, e in ogni persona c’è «un mistero», che si può definire come «il rapporto tra l’essere e il fare». O anche, ovviamente, «tra il non-essere e il fare». E’ di questo rapporto che la commedia umana di Garboli non ha mai smesso di raccontarci le infinite possibilità, gli infiniti fallimenti.

(pubblicato su Alias-La Talpalibri. Il ritratto di Garboli è di Giosetta Fioroni)

515 COMMENTS

  1. Emanuele Trevi è un grande, questo è un bellissimo pezzo. Fra l’altro oggi sempre su Alias stronca il NIE di Wu Ming1, e che stronchi lui, che non parla mai male di nessuno, è proprio significativo. ciao piero!

  2. messaggio promozionale
    cesare garboli firmò anche l’introduzione del bellissimo romanzo di salvatore bruno, l’allenatore (vallecchi 1963), che pochi, pochissimi conoscono… così come non sanno nulla di questo “misterioso” autore

  3. @ no-made. E’ il problema di vedere i WM dappertutto, neanche fossero un potere forte. Oggi su La Stampa c’è un attacco “rivoluzionario” del rivoluzionario Rondolino contro la dittatura dei wuminghia, che notoriamente hanno in mano l’editoria italiana (quella cotnro cui lotta all’ultimo sangue Rondolino, viene da pensare). Leggermente sospetto quest’accanirsi dei giornali tutti in coro ma dicendosi fuori dal coro, l’unanimismo deve sempre far pensare… La NIE sarà probabilmente una cazzata, ma le code di paglia che bruciano non sono un bello spettacolo.

  4. Rondolino che fa il pasdaran dell’adornismo duro e puro contro l’industria culturale e la letteratura-spazzatura?
    Ma scusate, Rondolino è stato il responsabile della comunicazione per “Il Grande Fratello”…

  5. “Con Emilio Fede una splendida amicizia. Una frequentazione che dura tuttora. Organizzai io l’intervista di Fede a D’Alema. D’Alema non voleva assolutamente farla. Gli dissi: quel milione e mezzo che vede il Tg4 di Fede non fa niente altro, non vede altri Tg, non compra mai un libro, non legge mai un giornale. O tu vai lì, oppure quelli non sapranno mai che tu esisti. Fede è straordinario, ha questa capacità di reinventarsi, di stare sui media, questo gusto per la bella vita. E’ veramente un bel personaggio. Poi è uno spudorato. Ha fatto del suo amore per Berlusconi un cavallo di battaglia.”

    Fabrizio Rondolino intervistato da Sabelli Fioretti
    http://www.melba.it/csf/articolo.asp?articolo=277

  6. E c’hai raggione pure te… Che all’inizio avevo scritto pure io per stigmatizzare il fori tema poi mi sono lasciato prende…

  7. ritiro la domanda, ho visitato il link, bah.
    Siamo caduti tutti in una coazione a ripetere, io per primo. Ha ragione Biondillo, è tutto fuori temae si stava parlando d’altro.

  8. Sì, Lucio Angelini ha deviato e monopolizzato questa discussione, rendendo un pessimo servizio a Trevi, a Garboli, a Sorrentino e a Nazione Indiana.

  9. L’omaggio – lodevolissimo – a Garboli non è in discussione. La sua finezza critica e il suo senso dell’umorismo gli avrebbero sicuramente impedito di abboccare alla bufala del NIE.

  10. qui c’è una sola persona che ha abboccato: tu, che stai in fissa per il NIE. Che bisogno c’era di tirarlo in ballo qui? Nessuno.

  11. Te spiego anch’io: il nesso è Trevi, autore sia dell’omaggio a Garboli sia della stroncatura del NIE, come segnalato da Garufi da cui ho preso la palla. Chiudiamola qua.

  12. è un “nesso” che ha pregiudicato ogni possibilità di commentare l’omaggio a Garboli, proprio un bel risultato.

  13. Pregiudicato un bel niente. Chi voleva commentare ha continuato a poterlo fare in tutta tranquillità. Se non l’ha fatto, forse è perché gli omaggi, in genere, si commentano da sé. Te l’immagini una serie di contributi del tipo “Oh, come è vero!”, “Oh, come hai ragione!”, “Oh, che grande sensibilità hai dimostrato!”, “Ce ne fossero come Garboli!” e via discorrendo. Spiegaci piuttosto chi sei…

  14. Magari di cose da dire ce ne sarebbero state, ma è passata la voglia di dirle in mezzo a questa ridda di fuori-tema…

  15. Indiani, l’avete voluto come collaboratore, costui. Adesso son tutti cazzi vostri :-)

    Per chi fosse interessato, la mia analisi comparata / decostruzione retorica / proposta di lettura morfologica delle prime, frettolose reazioni al libro NIE (di Trevi, Rondolino e altri) uscirà nei prossimi giorni su Carmilla e su Giap.
    Penso che sia interessante studiare questo tipo di documenti e gli stratagemmi utilizzati dai loro artefici: ricorso all’assiomatica, sofismi, paralogismi, tecnica dei morceaux choisis per comporre tesi caricaturali da attribuire all’avversario.

    Ad ogni modo, come già rilevato dalla redazione di Carmilla (e anche qui da qualche commentatore), finora Luca Mastrantonio è il solo ad aver affrontato il testo nel merito delle questioni che solleva, ossia l’esistenza o meno di un corpus di testi e di una sensibilità comune. Mastrantonio ha guardato la luna anziché cercare lo sporco sotto l’unghia che la indica. Al contrario di chi spreca il tempo e lo spazio a disposizione per dimostrare che non è un saggio scientifico e sistematico (e quindi ofelè fa el to mestè), quando è dichiaratamente un insieme di note e suggestioni, un… memorandum appunto.

    Almeno Serino dice che è sbagliato il mio approccio ma qualcosa effettivamente si muove (lui propone di chiamarlo “neon realismo”). Meglio questo del “niente di significativo sotto il sole”.

    Nelle pagine culturali della stampa vedo amplificata una caratteristica già vista in rete. Si conferma quanto scriveva Francesco Forlani proprio su NI, mesi fa:

    “Un esempio che mi viene in mente riguarda il tentativo compiuto da Roberto Bui di fondare una corrente di pensiero narrativo, noto ai più come New Italian Epic. Ebbene al di là della ‘fondatezza’ di certe riflessioni condivisibili o meno (io ad esempio non ne condivido l’impostazione, la meccanica, ma su questo ci ritornerò) non c’è stato un vero dibattito sulla cosa, in rete, corrispondente in energia al numero di frecciate, cannonate, insulti più o meno benevoli e spallucce nel migliore dei casi da parte di chi al solo sentire Wu esplode in stizza e in rabbia come un leghista alla parola N A P O L I.”

    Resta la domanda che è già stata posta varie volte:
    perché mai un invito alla lettura comparata di alcune opere, all’individuazione a posteriori di un corpus di testi, è suonato e tuttora suona tanto minaccioso a certi “addetti ai valori”?

    Altra questione interessante:
    l’oggetto-libro, nonostante la sua diffusione sia destinata a rimanere poca cosa rispetto ai download del memorandum digitale, è vissuto come ancora più minaccioso. La pubblicazione su carta conferisce (o si tema possa conferire)… status al discorso.

    P.S.
    Mi spiace vedere Garboli “buttato fuori carreggiata” in questo modo. Se non rammento male, allo Strega del ’99 Q arrivò in cinquina anche grazie al suo voto.
    [Peccato solo che lo Strega sia una baracconata. Noi, mesi prima, avevamo dichiarato al Corsera: “Consigliamo all’Einaudi di comprare il quarto posto”. E quarti in effetti giungemmo :-/ ]

  16. Indiani, l’avete voluto come collaboratore, costui. Adesso son tutti cazzi vostri :-)

    Per chi fosse interessato, la mia analisi comparata / decostruzione retorica / proposta di lettura morfologica delle prime, frettolose reazioni al libro NIE (di Trevi, Rondolino e altri) uscirà nei prossimi giorni su Carmilla e su Giap.
    Penso che sia interessante studiare questo tipo di documenti e gli stratagemmi utilizzati dai loro artefici: ricorso all’assiomatica, sofismi, paralogismi, tecnica dei morceaux choisis per comporre tesi caricaturali da attribuire all’avversario.

    Ad ogni modo, come già rilevato dalla redazione di Carmilla (e anche qui da qualche commentatore), finora Luca Mastrantonio è il solo ad aver affrontato il testo nel merito delle questioni che solleva, ossia l’esistenza o meno di un corpus di testi e di una sensibilità comune. Mastrantonio ha guardato la luna anziché cercare lo sporco sotto l’unghia che la indica. Al contrario di chi spreca il tempo e lo spazio a disposizione per dimostrare che non è un saggio scientifico e sistematico (e quindi ofelè fa el to mestè), quando è dichiaratamente un insieme di note e suggestioni, un… memorandum appunto.

    Almeno Serino dice che è sbagliato il mio approccio ma qualcosa effettivamente si muove (lui propone di chiamarlo “neon realismo”). Meglio questo del “niente di significativo sotto il sole”.

    Nelle pagine culturali della stampa vedo amplificata una caratteristica già vista in rete. Si conferma quanto scriveva Francesco Forlani proprio su NI, mesi fa:

    “Un esempio che mi viene in mente riguarda il tentativo compiuto da Roberto Bui di fondare una corrente di pensiero narrativo, noto ai più come New Italian Epic. Ebbene al di là della ‘fondatezza’ di certe riflessioni condivisibili o meno (io ad esempio non ne condivido l’impostazione, la meccanica, ma su questo ci ritornerò) non c’è stato un vero dibattito sulla cosa, in rete, corrispondente in energia al numero di frecciate, cannonate, insulti più o meno benevoli e spallucce nel migliore dei casi da parte di chi al solo sentire Wu esplode in stizza e in rabbia come un leghista alla parola N A P O L I.”

    Resta la domanda che è già stata posta varie volte:
    perché mai un invito alla lettura comparata di alcune opere, all’individuazione a posteriori di un corpus di testi, è suonato e tuttora suona tanto minaccioso a certi “addetti ai valori”?

    Altra questione interessante:
    l’oggetto-libro, nonostante la sua diffusione sia destinata a rimanere poca cosa rispetto ai download del memorandum digitale, è vissuto come ancora più minaccioso. La pubblicazione su carta conferisce (o si tema possa conferire)… status al discorso.

    P.S.
    Mi spiace vedere Garboli “buttato fuori carreggiata” dagli OT. Se non rammento male, allo Strega del ’99 Q arrivò in cinquina anche grazie al suo voto.
    [Peccato solo che lo Strega sia una baracconata. Noi, mesi prima, avevamo dichiarato al Corsera: “Consigliamo all’Einaudi di comprare il quarto posto”. E quarti in effetti giungemmo :-/ ]

    P.S. 2

    …WU!!!

  17. Per chi fosse interessato, la mia analisi comparata / decostruzione retorica / proposta di lettura morfologica delle prime, frettolose reazioni al libro NIE (di Trevi, Rondolino e altri) uscirà nei prossimi giorni su Carmilla e su Giap.
    “Penso che sia interessante studiare questo tipo di documenti e gli stratagemmi utilizzati dai loro artefici: ricorso all’assiomatica, sofismi, paralogismi, tecnica dei morceaux choisis per comporre tesi caricaturali da attribuire all’avversario. Ad ogni modo, come già rilevato dalla redazione di Carmilla (e anche qui da qualche commentatore), finora Luca Mastrantonio è il solo ad aver affrontato il testo nel merito delle questioni”

    Mi scuso per l’OT, ma a proposito della “Redazione di Carmilla”, Emanuele Trevi non era da lei ritenuto un critico dall’autorità indiscussa (“data l’autorevolezza del recensore”) che scrive “recensioni splendide” come quella su Battisti, o un critico smette di essere autorevole quando non apprezza più quello che scrivi?

  18. > “Indiani, l’avete voluto come collaboratore, costui. Adesso son tutti cazzi vostri :-)”

    Tranquillo, si tratta di un’ospitata ogni qualche anno (l’altra su Andersen è del 2005: https://www.nazioneindiana.com/2005/04/20/nascere-da-un-uovo-di-cigno/ )

    Ribadisco solo la differenza tra me e te: io sono un progressista illuminato e libertario, tu un progressista coi paraocchi e zdanovista. Non a caso mi hai ripudiato – dopo avermi persino ospitato nel sito della wumingfoundation e più volte in carmilla – dopo i miei primi affettuosi attacchi al NISE (New Italian Self Essay: saggio scritto da se stessi su se stessi). Buon cammino, Robertuccio Bui.

  19. Ma c’è forse qualcuno qui che è per l’autorevolezza indiscussa sempre e comunque? Se uno è bravo allora tutto quel che scrive è giusto? Anche gli intellettuali di maggiore spessore possono avere momenti di fiacca, processi involutivi, diatribe personali o di congrega che abbassano la qualità di un loro scritto… Abbiamo bisogno di Vati?

  20. “Ma c’è forse qualcuno qui che è per l’autorevolezza indiscussa sempre e comunque? Se uno è bravo allora tutto quel che scrive è giusto? ”

    certo che no, ma concederai che se è uno giudicato autorevole quando concorda con te (vedi il caso Battisti) e diventa un fesso nel momento in cui ti critica, qualche sospetto viene. ad ogni modo faccio i miei complimenti sinceri a WM1, col suo saggio è riuscito a mettere d’accordo critici che la pensano diversamente su tutto (per es. Carla Benedetti e Belpoliti)

  21. @ Sergio

    eccomi.
    Trovo facilone, sbrigativo ed eccessivamente stizzoso l’articolo uscito sabato, e rivendico il pieno diritto di disistimare quella versione di Trevi. Le persone sono sfaccettate, gli animi complessi. Il mio animo, quello di Trevi, quello di Garufi.

    Infatti, il mio giudizio negativo si allarga in automatico a tutto quanto Trevi ha scritto e fatto, e nemmeno a tutto quanto scriverà. Anzi, apprezzo pure il tributo a Garboli qui sopra. La mia impressione è che renda meglio quando scrive di testi e mondi che conosce e frequenta, e molto peggio quando si avventura altrove. Forse se ci avesse meditato sopra un poco di più, avrebbe scritto una critica più fondata, meno pretestuosa e utile anche al criticato (come ad esempio, repetita iuvant, quella di Mastrantonio).

    Va poi ricordato che l’opinione di Carmilla a cui fai riferimento è di cinque anni fa (io non ero nemmeno in redazione allora), e fa riferimento a una recensione di dieci anni fa uscita… su “Liberal”. Pensa a quant’è cambiato il mondo nel frattempo, figurati se non possono farsi più sfumati e articolati i giudizi.

    In ogni caso, ho detto che sto lavorando a un testo che analizza le reazioni nei dettagli, ti chiedo la pazienza e la cortesia di attendere quello.

    Ciao,

    WM1

    P.S.

    WU!!!

  22. Wu Ming 1 ha scritto: Noi, mesi prima, avevamo dichiarato al Corsera…

    “Forse non tutti sanno che Walt Disney simpatizzava per i nazisti. Se avesse vinto Hitler, forse il padre di Mickey Mouse sarebbe diventato presidente degli Usa, e oggi l’intero pianeta somiglierebbe a questa Fiera del Libro… ” (Dal “Corriere della Sera” di sabato 15 maggio 1999)

    Ed in piccolo non avevano poi tutti i torti…

    Forse non tutti sanno che dal 1992/1994, Einaudi, di fatto, non esiste più, è un marchio Fininvest. Se si pensa che dal 1935 al 1988 la Mondadori aveva un accordo con Walt Disney per pubblicare in Italia tutto il loro materiale e Berlusconi, diventerà il prossimo presiNIEnte della Repubblica, l’Italia somiglia proprio ad un paese dove vengono pubblicate le opere dei Wu Ming.

  23. @ rovelli. Certo che sono ***illuminato*** [ma è saltata la nota a piè pagina: “D’un tratto, come il principe Gautama Buddha sotto il fico sacro a Bodh Gaya, l’Angelini intuì almeno una delle Quattro Ignobili Verità sulla NIE ( “Ce stanno a pijjà per culo”) e la burleschità dell’ Ottuplice Sentiero millantato da Roberto Bui.”] e ***libertario***: purché non si tratti della libertà di negare il diritto di parola agli altri.

  24. P.S. E se Wu Ming 1 studiasse gli stratagemmi utilizzati da lui stesso nel suo saggio per infinocchiare i gonzi (ricorso all’assiomatica e all’agoritmica, sofismi, paralogismi, tecnica dei morceaux choisis per comporre tesi postmoderniste, riferimenti a MITOLOGIE autorevoli e ad EPICHE reali… ) ?

  25. cari amici !
    ho scoperto il magico mondo dei comments con qualche decennio di ritardo, ma ormai è una dipendenza ! dicevo al mio amico piero sorrentino che mi ero incuriosito perché avevo visto un gran numero di commenti al pezzo sulla “camera separata“ di garboli, e allora mi ero messo a leggerli, stupito del fatto che tanta gente avesse qualcosa da dire sull’opera di questo grande saggista ahimé ormai dimenticato co

  26. “Forse non tutti sanno che dal 1992/1994, Einaudi, di fatto, non esiste più, è un marchio Fininvest. Se si pensa che dal 1935 al 1988 la Mondadori aveva un accordo con Walt Disney per pubblicare in Italia tutto il loro materiale e Berlusconi, diventerà il prossimo presiNIEnte della Repubblica, l’Italia somiglia proprio ad un paese dove vengono pubblicate le opere dei Wu Ming.”

    …e anche di Trevi, allora, che con l’Einaudi (questa Einaudi) ha pubblicato e curato libri. E’ un argomento povero, questo.

  27. SCUSATE, MENTRE SCRIVEVO AVEVO PREMUTO IL TASTO DI INVIO
    cari amici !
    ho scoperto il magico mondo dei comments con qualche decennio di ritardo, ma ormai è una dipendenza ! dicevo al mio amico piero sorrentino che mi ero incuriosito perché avevo visto un gran numero di commenti al pezzo sulla “camera separata“ di garboli, e allora mi ero messo a leggerli, stupito del fatto che tanta gente avesse qualcosa da dire sull’opera di questo grande saggista ahimé ormai dimenticato come accade sempre in italia pochi anni dopo la morte (per poi, come si spera nel caso di c.g. essere riscoperti più tardi). volevo solo testimoniare che wu ming 1 dice il vero, mi ricordo che garboli non solo sosteneva “q” al premio strega, ma mi costrinse a leggerlo e a votarlo (anch’io sono giurato del famigerato premio romano) – cosa che feci con molto piacere perché è un romanzo molto bello. vedete, la gente come me non nega che esistano romanzi molto belli. ma pensate a cos’era la letteratura una volta, e a che cosa è oggi. abbiamo perso nel giro di pochi anni più generi letterari che specie animali e vegetali. quando io avevo vent’anni, erano importanti zanzotto, ceronetti, cristina campo, mario praz, roberto longhi…e assieme a loro, ovviamente, i romanzieri, chi lo nega. ma dentro una democrazia delle forme che era una democrazia dell’informazione, dell’editoria, dell’opinione. oggi si parla SOLO di romanzi CHE VENDONO, non c’è nient’altro che ha una reale importanza, ammettiamolo. voglio dire: un cioran di vent’anni morirebbe di fame. non c’è una persona al di sotto dei 40 anni che abbia mai sentito solo nominare libri come
    “il pesce-scorpione” di nicolas bouvier
    “viaggio in armenia” di osip mandel’stam
    “sentieri nel ghiaccio” di werner herzog
    “colloqui con kafka” di gustave janouch
    cosa sono questi libri: atti linguistici piantati nella loro singolarità, solitudini che diventano forme irripetibili, sulle quali non è possibile esprimersi usando un “noi”. ringrazierò sempre un uomo come cesare garboli per avermi insegnato a diffidare di ogni collettività, anche mascherata da comunità. per chi è vissuto sotto il fascismo, mi diceva sempre, il pronome “noi” fa raggricciare la pelle.
    grazie a piero sorrentino e a “nazione indiana” dell’ospitalità: e chi se ne frega se andiamo fuori tema ! avrei tante cose da raccontare, su “q” dei luther b., su garboli e carlo ginzburg e adriano prosperi che scrisse una bella (ma velenosa) recensione sulla “talpa”, su cosa sono gli eretici e cosa sono gli gnostici…sull’eterna lotta tra chi crede che il mondo possieda un significato e chi lo ritiene un’illusione, la suprema magia degli dèi…ma ragazzi, bisognerà trovare un minimo di ordine in questo guazzabuglio !!!

  28. @ Andrea

    Ha ragione. Recuperi il catalogo storico Einaudi e quello odierno, e si renderà conto dell’impoverimento…

  29. chissà perché, quando riceviamo delle critiche, le vogliamo sempre approfondite, meditate e ridotte al rango di semplici riserve, mentre per un apprezzamento ci basta un cenno, un gesto, una parola…(come a dire: s euno ci dice stronzi – per citare il pezzo di cui si discute – non ha capito niente di noi, ma se ci danno del genio, miracolo!, hanno capito esattamente, pur non conoscendoci, di che pasta siamo fatti)…

  30. e poi, scusate, tanto per restare agli esempi fatti: il pezzo di mastrantonio è un pezzo critico (cioè, di critica)? A me sembrava, piuttosto, l’ottima ricognizione di un bravo giornalista culturale (genere forse raro, oggi, ma non per questo confondibile con una funzione – pratica, esercizio, fate voi – diversa qual è quella critica)

  31. e ancora: se si pretende – intende, vuole, etc… – fare teoria con gli slogan, perché lamentarsi se la critica risponde con le battute???

  32. Trevi, io su quel che dici non sono d’accordo, e mi pare la nota più stonata della tua recensione (sulla quale approfondirò con calma, non ho fretta, io agisco, la re-azione è quella altrui).
    Vedi, non c’è mai stata tanta “biodiversità” di generi e forme come oggi. Il problema è che il campo da esplorare è più vasto del “campo letterario” tradizionalmente inteso, abbraccia l’intera produzione culturale, include internet, fumetto, gdr, videogame, tutte pratiche e forme che fanno inorridire i “letterati” “puri”, che però devono pure rendersi conto che tra cielo e terra ci son più cose etc.
    L’aspetto della “transmedialità” è proprio quello che nella tua recensione hai ignorato, ma pensa a un romanzo come Manituana (l’hai scritto tu che citarsi è legittimo), da cui nascono a getto continuo raccolte di haiku, giochi da tavolo, storie a fumetti, radiodrammi, intere compilation.
    Tra i generi desueti menzionavi gli epigrammi: io non vorrei bestemmiare, ma sui blog, su tumblr, su twitter vedo ogni giorno epigrammi argutissimi. Il fatto che non vengano stampati non significa che il genere sia estinto.
    Denunciavi una presunta dittatura del romanzo a cui corrisponderebbe un vertiginoso “restringimento del campo d’azione” dello scrittore. Buffa critica, nella recensione a un testo che cerca di valorizzare quanto appena descritto, e chiede di prestare attenzione sull’oggetto narrativo che “aberra” ed esce dai confini certi della forma-romanzo.
    E se proprio vogliamo rimanere agli autori anziché alle opere, come a me non piace fare ma a te sì, basterebbe ricordare che non uno degli autori tirati in ballo nel nostro libro scrive solo romanzi. Ciascuno di essi pratica una miriade di altri generi, media, pratiche espressive, dalla poesia al travelogue al teatro al giornalismo al fumetto alla saggistica alle sceneggiature per cinema e tv. Ma appunto, bisognerebbe essere disposti a cercare il molteplice… nel molteplice. Cercare la poesia non solo nel giardino del poetico ma anche altrove (nei poetry slam etc.)
    Insomma, Trevi, sei giovane, sei brillante, abbraccia l’orizzonte, non sprecarti per un’idea angusta di Letteratura.

  33. “…in ogni persona c’è «un mistero», che si può definire come «il rapporto tra l’essere e il fare». O anche, ovviamente, «tra il non-essere e il fare».”
    ma la maggior parte della gente vive il mistero del rapporto tra l’essere e il non-fare, che è il più profondo e doloroso ma non interessa il critico perché l’opera non c’è.
    il non-fare resta incapsulato nel campo di forza personale che spesso è talmente forte da ingoiare ogni possibile emissione individuale, come fanno i buchi neri con la luce.

  34. @ tashtego
    non so bene perché, ma ammesso che sia possibile e voglia dire qualcosa, sono d’accordo con te…

    @ wu ming 1
    biodiversità, molteplicità, transmedialità vs “un’idea angusta di letteratura”? Com’era la storia del dito e della luna???

  35. @ Wu Ming 1. Scrissi nel post “Neo-epiche reazioni al post di ieri” del 9 maggio 2008 (!!!):

    *** PS: Faccio notare che il parametro n. 7 del Prontuario per Misurare la Neo-Epicità di un testo recita: «7. Comunità e transmedialità. – Sono opere transmediali e in qualche modo “collettive”. Danno infatti spesso avvio a una serie di spin-off e “riappropriazioni”, in una modalità che i Wu Ming associano alla “natura ‘disseminata’” dell’epica greca antica.»

    Ebbene, io mi sono riappropriato a modo mio del saggio di Wu Ming 1, e quel lunatico mi ha tolto il saluto. Che ingiustizia, peròòòòòò:-/ ***

  36. @ E. Trevi
    Oggi si parla SOLO di romanzi CHE VENDONO, non c’è nient’altro che ha una reale importanza, ammettiamolo.
    Perché dovremmo ammetterlo? Hai appena criticato una proposta di comprensione del romanzo italiano degli ultimi 15 anni, nella quale sono citate decine di romanzi che NON vendono. Di romanzi che non vendono se ne parla, eccome (e mica solo a proposito di NIE): ma c’è chi si ferma ai primi cinque dell’elenco.
    Voglio dire: un Cioran di vent’anni morirebbe di fame.
    Infatti Cioran, ai bei tempi in cui era tutta campagna e Berta filava, a vent’anni la faceva, la fame. Anche a quaranta. Anche a sessanta. Il primo libro di Cioran che ha avuto successo editoriale, al di fuori della nicchia degli estimatori, è stato Aveux et Anathèmes (1987: Cioran aveva 76 anni). Se non avesse avuto una mansarda pressocché esente da affitto, ci sarebbe morto, di fame. Tu che te ne sei occupato ne ignori la biografia?

  37. L’unica definifizione di “letteratura” che mi abbia convinto è quella che si basa sull’idea del “poeta forte”.
    Il poeta forte è tale quando, attraverso un nuovo linguaggio e nuove metafore, riesce – nel senso di Nietzsche e di Davidson- a “ridescrivere” il mondo.
    Arrivando a poter dire del passato: “E’ cosi che io l’ho voluto”.

  38. amici,
    scusate l’entusiasmo del neofita, ma è bellissimo chiacchierare così di cose supreme ! piero, biondillo, perché non me l’avete detto prima ! se lo sto facendo io, sicuramente ormai è FUORI MODA e DA SFIGATI e chissà quale altra diavoleria mi tenete nascosta !
    caro tashtego, quello che dici sarebbe piaciuto molto a garboli, poiché è la chiave dei suoi primi quarant’anni. me ne ha parlato molte volte. la mia opinione ovviamente conta molto di meno, ma nel fare c’è sempre il suo bello, siamo un po’ come le scimmiette all’inizio di 2001 odiessea nello spazio, ci piace trasformare, vincere la resistenza del mezzo. almeno per me, il non-fare è pericoloso, non sono così saggio. freud diceva che per essere felici bisogna amare e lavorare, sono abbastanza d’accordo.
    INVECE
    col rognoso wu ming 1 (ma gli altri ? non sono stati invitati ?) non sono affatto d’accordo, e il tema meriterebbe davvero un confronto serrato. nel suo intervento color puffo, parla di un’interattività che è sempre sotto l’ombra (ideologica e insieme commerciale) del romanzo, della storia ben fatta. non mi immagino che qualcuno faccia un gioco da tavolo ispirato alle poesie di celan, francamente, o ai saggi di maurice blanchot. va bene, direte voi, ma questo perché odia i romanzi, e poi magari si diverte a leggere proprio “q” ? da anni sto cercando di scrivere un libro intitolato “contro il romanzo”, e se non ci riesco è proprio perché la questione non è facile, quindi considero preziosissime queste discussioni. io non parlo del genere letterario in quanto tale, ma della formula-panacea universale contemporanea, “COME UN ROMANZO” – questo si legge come un romanzo, quello è avvincente come un romanzo, ecc. l’altro giorno su “repubblica” c’era questo titolo: “il papiro di artemidoro come un romanzo”. come sapete, la vicenda del papiro di artemidoro è molto spinosa, c’è chi sostiene sia un prezioso originale greco, e chi una contraffazione ottocentesca. la cosa ha imbarazzanti risvolti anche perché per il suo acquisto sono stati spesi molti denari pubblici. il titolo del giornale lascia intendere: questa è sì una questione da specialisti, ma in fondo, tutti ci si possono appassionare, perché è un po’ come “il codice da vinci”. quindi quello che dice wu ming è insieme vero e falso: certo, esistono molte cose che non sono romanzi. ad esempio una polemica filologica su un papiro antico (o finto) ma l’unico criterio valido per interpretare queste cose è pur sempre un criterio narrativo. le cose ci interessano in quanto sono riferibili a una storia. a questa ideologia di fondo wu ming imprime una lieve ma efficacissima curvatura psicotica, perché la comprensibilità del mondo attraverso la narrazione è anche legata al senso del complotto, del mistero politico, dell’intellettuale-che-sa-la-verità. il povero pasolini, almeno, diceva “non ho le prove”. questi nuovi, hanno l’aria di sapere cose. intrattengono corrispondenze ed amicizie con poliziotti, con agenti segreti, con ex terroristi. alludono costantemente a un vera storia del mondo che solo un atto narrativo potrà restituire alle coscienze. solo da questo punto di vista monologico, i generi potranno essere diversificati. gli si potrà dare asilo come colonie e province del narrativo. gli esempi che fa wu ming fanno pensare alle tribù di negri nelle esposizioni universali delle capitali europee.
    io insisto: oggi, un cioran morirebbe di fame. io ho iniziato a leggere negli anni settanta, e me lo ricordo bene l’impatto che potevano avere un libro di milo de angelis, una coreografia di pina bausch, o roba del genere che non era possibile riassumere, comprimere in una trama.
    quello che è più brutto, è che io sono sicuro che esistano dei cioran, dei milo de angelis, delle pine bausch di vent’anni. ma quello che abbiamo perduto sono i criteri di leggibilità delle opere che non paghino il loro tributo alla vita-come-romanzo, cioè alla razionalità del reale, alla necessità del divenire. ci credo che wu ming odia il pensiero gnostico ! oggi uno spirito pazzo e ribelle, se vuole emergere in qualche modo, deve assoggettarsi a questo pensiero unico:
    il mondo è una storia
    una storia è un organismo dotato di senso
    il mondo è un luogo dotato di senso
    povero artaud, che te ne andavi a cercare la verità fra i tarahumara ! oggi per farti capire dovresti tornare a casa, e con l’aiuto di un buon editor scrivere un romanzo in un cui un piccolo popolo della sierra messicana possiede un segreto capace di sconvolgere il mondo, mentre una ricercatrice del dams di bologna, bella e magari un po’ mignotta, riceve delle strane mail dall’università di stanford, e dei poliziotti dei servizi segreti francesi piantonano giorno e notte la sua casa. quando una notte il telefonino inizia a squillare e…
    NON è vero che il romanzo si limita ad assorbire gli altri saperi, come voleva la teoria classica. assorbendoli, li narcotizza, li avvilisce, li mette in vetrina. e allora poi si vanta che non c’è bisogno d’altro, che sta tutto lì in mezzo.
    tutto questo è insieme buffo e tragico, e naturalmente, non è colpa di wu ming. ma insomma, quella che può sembrare un’ottica vecchia potrebbe anche essere un’ottica preoccupata di un eccessivo impoverimento, di una perdita del reale potere cognitivo della letteratura…non credete ?

  39. Visto che lo stesso autore del post non ha nulla in contrario circa il fatto che si devii dal tema principale discutendo di un altro suo articolo, mi permetto di aggiungere qualche altra considerazione. Per me Trevi è uno dei migliori critici della mia generazione, e questo lo affermo da tempi non sospetti. Se continuo a leggere Alias nonostante l’uscita di Cortellessa è soprattutto per lui e per Belpoliti. A me non sorprendeva il silenzio della critica ufficiale sul saggio di WM1, perché penso che sia talmente sconclusionato e dilettantesco che l’unica reazione possibile da parte loro fosse quella. Ed è vero, come dice WM1, che il pezzo di Trevi sul NIE non è uno dei suoi migliori. Lui sempre così chiaro nell’esposizione degli argomenti qui invece è imbarazzato, confuso, non sa da dove iniziare, e forse l’unica cosa sensata e appropriata è proprio quel NO perentorio ripetuto in modo stizzito. Che si può dire, infatti, di un saggio critico sulla nuova narrativa italiana che istituisce la categoria degli “UNO”, gli oggetti narrativi non ben identificati, i libri che non si sa bene come classificare? Che se ne può dire seriamente, intendo, se non che ricorda la tassonomia fantastica di Borges circa gli animali che si dividono in a) appartenenti all’imperatore, b) imbalsamati, c) addomesticati, d) maialini di latte, e) sirene, f) favolosi, g) cani in libertà, h) inclusi nella presente classificazione ecc? Ecco, per me il NIE è una tassonomia letteraria che istituisce la categoria de “i libri inclusi nella presente classificazione”. Poi magari il saggio di WM1 in futuro ispirerà un altro capolavoro come quella tassonomia borgesiana ispirò “Le parole e le cose” di Foucault, ma sarà qualcosa di totalmente involontario, e ad ogni modo Borges scherzava… Perché il problema è che anche una stroncatura è una forma di legittimazione, vedi per es. la recente punzecchiatura delle vespe di Chiaberge proprio sul NIE, tant’è che nel loro sito i Wu Ming danno molto risalto alle liquidazioni più brutali della Benedetti e a quest’ultimo pezzo di Trevi. Il consenso oggi si fonda soprattutto sul parlar male, i programmi di maggior successo (vedi il Grande Fratello) nascono già con la loro satira incorporata (la Gialappa’s), Fabrizio Corona e la Gregoracci devono il loro successo ad uno scandalo infamante che li ha portati alla ribalta. La critica letteraria ufficiale in genere ignora ciò che non considera meritevole di attenzione, oppure si limita a una battuta denigratoria, come appunto Carla Benedetti, ma perché è tale il divario che non ci si mette neppure. Sarebbe come lamentarsi che Federer non voglia giocare a tennis con noi che ci vantiamo di essere arrivati in finale al campionato interregionale under 16. In più c’è il fatto che quello della rete è un ambito molto diverso dalle pagine dei giornali, anche solo per ragioni oftalmiche, qui prevalgono le battute brillanti, non i ragionamenti, per questo mi ha stupito l’intervento di Trevi in questo thread, e se da un lato mi auguro che voglia frequentarlo con assiduità, che sarebbe di arricchimento a tanti, dall’altro in tutta onestà non glielo consiglierei. Il rischio è la fine che ha fatto un fine biblista, un accademico di 60 anni invitato a discutere in tv con Antonio Socci che gli dava dell’incompetente e lo irrideva. In ogni caso mi fa piacere che almeno per una volta il “buonista” Trevi ci abbia parlato di cosa non gli piace (anche se nel commento ha corretto il tiro sottolineando ciò che gli piace di WM). Onofri in “Recensire” glielo rimproverava, ricordando quando nelle “Istruzioni per l’uso del lupo” lui raccontava il proprio apprendistato all’università e il fatto che desse 30 a tutti gli esaminandi. Garboli, uno dei suoi padri adottivi, aveva tante cose da prendere ad esempio – e mi limito in questo caso a elogiare la sua cultura interdisciplinare, come i suoi magnifici discorsi sull’arte, che mi sorprende sempre constatare quanto poco i critici della mia generazione la conoscano (non Trevi, che difatti da Garboli ha preso molto) – ma la sua idiosincrasia verso la stroncatura era a mio avviso deleterea, e dare solo 30 a tutti i libri di cui si parla significa non fare un buon servizio al lettore, il vero e unico interlocutore di ogni critico letterario.

  40. un saluto a Trevi, che ha letto Blanchot ( e non è poco)

    “povero artaud, che te ne andavi a cercare la verità fra i tarahumara ! oggi per farti capire dovresti tornare a casa, e con l’aiuto di un buon editor scrivere un romanzo in un cui un piccolo popolo della sierra messicana possiede un segreto capace di sconvolgere il mondo, mentre una ricercatrice del dams di bologna, bella e magari un po’ mignotta, riceve delle strane mail dall’università di stanford, e dei poliziotti dei servizi segreti francesi piantonano giorno e notte la sua casa. quando una notte il telefonino inizia a squillare e…”

    funny :)

  41. “Cioran, ai bei tempi in cui era tutta campagna e Berta filava, a vent’anni la faceva, la fame. Anche a quaranta. Anche a sessanta. Il primo libro di Cioran che ha avuto successo editoriale, al di fuori della nicchia degli estimatori, è stato Aveux et Anathèmes (1987: Cioran aveva 76 anni). Se non avesse avuto una mansarda pressocché esente da affitto, ci sarebbe morto, di fame. Tu che te ne sei occupato ne ignori la biografia?”

    Il caso di Cioran è un po’ più complesso di come lo descrivi, e dovresti saperlo se conosci la sua biografia. Prima dell’87 lui aveva già rifiutato proposte di collaborazioni editoriali, diversi premi oltre alla partecipazione a programmi televisivi sui libri che gli avrebbero garantito soldi e notorietà. Prima di quell’anno pubblicava da Gallimard ed era tradotto all’estero, di sicuro in Spagna e in Italia (vado a memoria perché sono fuori casa). Nella famosa mansardina in affitto di rue l’Odeon 21 campava soprattutto dello stipendio di Simone Boué, la sua compagna, che insegnava. In ogni caso il discorso di Trevi mi pareva che lo prendesse ad esempio come paradigma di un’epoca in cui il successo era considerato qualcosa di volgare e degradante (“il castigo della consacrazione”), un’epoca in cui il best seller era semplicemente il libro più venduto, non il più venduto (seller) dunque il meglio (best).

  42. “…quello che abbiamo perduto sono i criteri di leggibilità delle opere che non paghino il loro tributo alla vita-come-romanzo, cioè alla razionalità del reale, alla necessità del divenire”

    una sintesi fulminante dello “stato delle cose”. grande ET

  43. A me di Randolino è piaciuta soprattutto questa dichiarazione:

    “la letteratura dev’essere LIBERTARIA, perché ogni vero scrittore è per natura insofferente a qualsiasi visione del mondo che non sia la sua***.

    Direi che è ESATTAMENTE QUESTA la ragione per cui ho detestato la chiamata alle armi di Wu Ming 1 fin dalla prima versione.

  44. Diaciamo che il NIE come opera critica nasce con un vizio di forma, ossia che l’oggetto preso in esame è anche il critico. un conflitto d’interessi insomma. questa è la cosa che forse nuoce di più al saggio. voglio dire, c’è chi lo condivide chi no (io no per esempio), ma resta comunque un modo di fare il punto della situazione, quantomeno “un” punto. chissà, se il saggio fosse venuto da una penna che di mestiere fa il critico forse avrebbe avuto un’accoglienza diversa.

  45. più che romanzo Trevi dovrebbe dire fiction, un prodotto di grande leggibilità con una storia che presenti una serie ravvicinata di picchi perché il lettore possa arrivare alla fine senza annoiarsi, all’americana, per intenderci, altrimenti si fa confusione, o almeno la faccio io

  46. Emanuele (Trevi),
    te lo dissi ben oltre un anno fa, a Roma, di farti un giro su Nazione Indiana ché ti saresti divertito, ma non m’hai dato retta. Il solito critico snob della carta stampata!

    Alessandro Ansuini,
    WM1 non è il primo e non sarà l’ultimo scrittore che fa anche critica. Che lo faccia bene o no, non è certo questo un problema di conflitto d’interesse. Ci sono esempi illustri nel passato, e quasi sempre la critica era che si facevano pubblicità. E dunque? Andiamo oltre?

    Sergio (Garufi),
    cos’è, “esattamente”, la critica ufficiale? E’ qualcosa di perfettamente statico, definito? Sta nelle accademie? Le rigetta? Sta nelle soffitte? Si autoriconosce?
    E, comunque, qualunque sia questa critica “ufficiale” credo debba fare i conti con una cosa come in NIE, anche per criticarla, ma come oggetto di interesse letterario, e di sociologia della letteratura, non può non leggerlo. Sarà che io ho in mente il vecchio (ma sopratutto quando era giovane!) Spinazzola, ma Trevi aveva, in un certo senso, il dovere di leggere e dire la sua. E che lo abbia letto il libro, questo, è innegabile. Non casca, come la maggior parte dei critichesi, nell’aver addocchiato a malapena l’indice. O la quarta, come la vespa chiabergiana (ma lì sai come la penso. È solo una questione di investitura, non di critica). Trovo però (me lo permetti Emanuele?) deludente l’approccio un po’ troppo urlato, contro-ideologico di Trevi.

    Ci fu un dialogo sfiziono, anni fa, fra Hemingway e F.S. Fitzgerald. Uno disse all’altro (vado a spanne): “Non ci sono solo i ricchi ossessionati dal denaro..”
    l’altro rispose: “No. Ci sono anche i poveri.”
    (non era così ma quasi).
    Per dire: trovo nella ossessione antiromanzesca di molti critici che io leggo sempre con sincera attenzione (e loro lo sanno: si chiamano Belpoliti, Cortellessa, Trevi, …) la stessa ossessione dei romanzisti ad oltranza. In fondo non ho mai conosciuto nessuno ossessionato dalle trame come chi odia i romanzi (e nello specifico quelli di genere). Io quando leggo Chandler mi interessa la sua lingua, il mondo che mi trasmette, delle sue trame non me ne frega una cippa (e non me ne ricordo una che sia una!). Mentre ad un “antiromanzista” solo l’idea che ci sia un poliziotto o un serialkiller in un libro gli vieta immantinente addirittura di aprirlo!
    Capisco, in fondo, l’urlo di dolore di Trevi. Siamo davvero in un mondo letterario che appare come canalizzato solo dal romanzo uber alles. La letteratura si fa in molte forme, lo dico da sempre: con la poesia, con la memorialistica, col teatro, col racconto, etc. Eppure non c’è volta che si legga sui giornali la più terribile delle affermazioni (nel caso di un debuttante – rarissimo- di racconti): “lo aspettiamo alla prova del romanzo”. Ma che cazzo vuole dire? Il succitato Borges non ne ha scritto uno che sia uno (tranne quelli – gialli – scritti con Bioy Casares). Eppure la sua porca figura nella storia della letteratura la fa. E ho sempre detto che alcuni autori che io amo dovrebbero smetterla di scrivere romanzi, che non ne hanno la stoffa. Che sanno fare bene e meglio altro.
    E in fondo – pro domo nostra – Nazione Indiana è un luogo dove davvero si legge “di tutto”, e il “romanzesco”, a conti fatti, è il meno presente dei generi pubblicati qui da noi.
    Detto ciò, però, mica possiamo fare di tutt’erba un fascio, così, per pura ideologia.
    Sarebbe stato bello leggere un NIE (che magari si sarebbe chiamato NIET, VAFF, o STRONZ, non lo so) della poesia, o del teatro. Sarebbe stato bello vedere il precipitato innescato da questa reazione chimica. Non invece randellare i WM perché, poveri loro, scrivono romanzi. Quello sanno (e vogliono) fare, gliene facciamo una colpa?

    (posso dire una cosa giusto per rompere il cazzo? Scrivere un “antiromanzo”, ormai, è facile. Più facile di quanto uno creda. Non dico scriverne uno “bello”, che cambierà il mondo, etc. ma è più facile di quanto si immagini. La ricetta, in anni e anni di letture, la conosciamo, ormai. Avrei anche la prova, ma la dò in privato a Trevi se mi scrive)

    ;-)

  47. @ Garufi (e Trevi)
    Guarda che so bene, per fonte diretta, di quali espedienti campava Cioran. In ogni caso non con le vendite dei libri, che avevano tirature di nicchia (traduzioni comprese, comunque successive ai sessant’anni del Nostro). Certo che era una sua libera scelta, come lo sarebbe per l’ipotetico odierno pseudo-Cioran ventenne ipotizzato da Trevi non scrivere e non apparire in modo conforme ai desiderata della televisione (come peraltro fanno da sempre i Wu Ming). Il punto è che anche ieri un autore come Cioran poteva vendere, in un paese come la Francia dove le tirature e le letture hanno (e avevano) cifre ben più alte delle nostre, relativamente poco (e anche in Italia ha poi venduto solo quando Adelphi lo ha trasformato in uno dei tanti gadget della finta apocalisse gnostico-calassiana). Se voleva essere un esempio di come OGGI una scrittura di qualità debba pagar pegno alla quantità, è un esempio mal scelto, che dimostra l’esatto contrario.

  48. “WM1 non è il primo e non sarà l’ultimo scrittore che fa anche critica. Che lo faccia bene o no, non è certo questo un problema di conflitto d’interesse. Ci sono esempi illustri nel passato, e quasi sempre la critica era che si facevano pubblicità. E dunque? Andiamo oltre?”

    Ah, per me. evidenziavo solo il vizio di forma infatti. che altri lo abbiano fatto chi lo nega. era per dire cosa c’è che, secondo me, fa storcere la bocca a molti. ma vedo che è evidente, da come lo sottolinei.

  49. @trevi
    “il pronome “noi” fa raggricciare la pelle”

    E’ una cazzata, a prescindere. Snobismo di ritorno, come tutta la spasmodica ricerca del margine che separa letteratura alta e fiction.
    Io sto leggendo il “Davide” di Coccioli, ed è un romanzo d’avventura, d’amore, di ricerca spirituale, scritto in una lingua che è splendida perchè non si compiace affatto della propria separatezza. Una lingua che è poetica perchè rivitalizza ciò che è consunto dall’uso, non pretende di inventare un esperanto che mai nessuno parlerà.

  50. @gianni
    “cos’è, “esattamente”, la critica ufficiale? E’ qualcosa di perfettamente statico, definito? Sta nelle accademie? Le rigetta? Sta nelle soffitte? Si autoriconosce?”

    “critica ufficiale” è lessico da NIE, lo usavo appunto per farmi capire. se controlli su google vedrai che all’espressione si accompagnano spesso complimenti tipo “pugnettari” ecc.; per cui, per rispondere alla tua domanda, direi che si tratta di una categoria liquida, a volte sta nelle accademie a volte no, a volte risparmia un critico e magari pochi anni dopo lo fulmina come un anatema (vedi Trevi battistiano e quello di oggi). in definitiva l’unica caratteristica certa che contraddistingue “la critica ufficiale” è il non apprezzare il NIE.

    @girolamo
    “Certo che era una sua libera scelta, come lo sarebbe per l’ipotetico odierno pseudo-Cioran ventenne ipotizzato da Trevi non scrivere e non apparire in modo conforme ai desiderata della televisione (come peraltro fanno da sempre i Wu Ming).”

    Cioran rifiutava la notorietà, non la televisione. Il fittissimo presenzialismo in rete dei Wu Ming, il vantarsi di 44.000 persone che ad oggi hanno scaricato il memorandum sul NIE, è quanto di più distante da quel modello di vita.

  51. caro gianni,
    è vero, me lo dicesti ! ma io che avevo sempre letto nazione indiana, come il coglioncello che sono, guardavo i testi e sdegnavo i commenti ! TI PREGO, dammi la ricetta, proprio in queste settimane sto portando a termine il libro nuovo !
    una precisazione: cortellessa non è “contro il romanzo”, direi che i suoi rifiuti tagliano trasversalmente l’area della prosa e della poesia, così come i suoi assensi. non sempre sono d’accordo con lui, ma secondo me è un grande. tipo cocciuto, ma mi vanto di avergli fatto cambiare idea su mariangela gualtieri. belpoliti da tanti anni è (con qualche ragione) stufo del sapere letterario, pesca sempre in altri mari. per esempio, di recente ha scritto un pezzo splendido su giacometti. o un saggio sulla foto di aldo moro. tra di noi, è quello con un sapere più ricco e vario.
    quanto a me, non è che se vedo un serial killer in un libro chiudo il libro. però sono d’accordo con ellroy quando dice (in “i miei luoghi oscuri”) che i serial killer sono persone generalmente molto stupide. in generale, io ritengo la maggior parte delle azioni umane molto stupide. un genere di romanzo che mi piace molto è infatti quello comico, dove il mondo non è preso troppo sul serio.

  52. Sentite, io leggo Nazione Indiana da pochi mesi, da quando l’ho scoperta nella nota biografica di un libro: “Metropoli per principianti”.
    Sono un architetto, me l’aveva consigliato un collega di studio, e l’avevo comprato convinto di leggere un saggio disciplinare. Alla fine mi sono trovato a ridere e a commuovermi, a pensare, a indignarmi. Di Biondillo non ho mai letto nulla (non amo i gialli), non so come sia come romanziere. Quello che so è che “Metropoli per principianti” non è un romanzo, ma è sicuramente letteratura.

  53. @gianni
    “E, comunque, qualunque sia questa critica “ufficiale” credo debba fare i conti con una cosa come il NIE”

    io sono convinto che tu abbia letto quel testo e lo abbia apprezzato per quello che è, non perché vi sei citato. credo che sarebbe un bel passo avanti partire da qui, e cioè dalla buona fede dell’interlocutore, invece di accusare chiunque lo critichi di non averlo letto o di difendere il proprio orticello contro un altro che lo avrebbe invaso (le espressioni usate da WM1 in commenti o interviste varie sono molto più colorite, parla di gente che marca il territorio pisciandovi ecc). proviamo ad affrancarci per un attimo dal vizio di ragionare per schieramenti, per dicotomie oppositive (guelfi e ghibellini, pandoro e panettone). ora prova a immaginare il contrario, e cioè che non ti sia piaciuto, come a me e ai “pugnettari” della “critica ufficiale”: perché avresti l’obbligo di parlarne, se lo ritenessi una baggianata? tu, fra l’altro, che a memoria d’uomo non hai mai scritto una stroncatura. ricordo il natale che regalai una t-shirt personalizzata ai miei compagni di questo blog, ognuna con davanti scritto “I love Nazione Indiana” e dietro una frase dedicata: tutti mi dissero che quella per te (“indiani brava gente”) era la più azzeccata.
    avresti l’obbligo perché sta vendendo molto il libro, o è stato molto scaricato il file? un tempo si pensava che vendere molto fdiceva bene scheiwiller, quando gli chiesero la sua opinione sull’equazione consenso=disvalore. rispose: “io non ho nulla contro i libri che vendono, ma neanche contro quelli che non vendono”.

  54. Insisto: Girolamo De Michele, Gianni Biondillo e gli altri scrittori che han giurato (li ho visti in Pontida) fedeltà al NIE dovrebbero astenersi dal magnificare un saggio in cui sono nominati come militanti effettivi: la loro testimonianza è tautologica. Ricorda l’atteggiamento di Wu Ming 1 quando si pretende oggettivo nel parlare bene di se stesso.

  55. Sempre a proposito di un presunto rifiuto di Cioran del “successo”.
    Premesso che considero difficile arginare il successo , se questo si presenta,
    una volta pubblicato un libro.
    Non è che questo mancato successo, per quanto riguarda l’Italia,
    sia stato determinato da ben altre ragioni?

    Ricordo da chi è stato pubblicato Cioran per la prima volta in Italia:
    Edizioni del Borghese, una casa editrice fascista.
    Quando l’egemonia culturale, allora, era degli stessi che distrussero la “collana viola” di Pavese, un gruppo ideologico a cui apparteneva il fior fiore della “critica ufficiale”.

  56. Sarebbe più interessante commentare dialetticamente il bel saggio di Garbioli sul dott Zivago o la distinzione critica su Leopardi filologo, con la considerazione che pr Garbioli la filologia è una scienza mentre la letteratura è una retorica. Molto bello anche il profilo che fa di Citati e la critica che sottilmente gli rivolge

  57. parlo da uno che sta fuori da queste discussioni da “guelfi vs ghibellini”, come qualcuno più su giustamente ha scritto. Mi metto nei panni di chi non ha letto il saggio da Wu Ming: da questi commenti si capisce poco o nulla, così come dalla gran parte delle recensioni che ho letto. Quanto meno il saggio ha il merito di cercare di vitalizzare un dibattito sulla narrativa (chiamiamola così per comodità ), di interessarsi a ciò che succede intorno a noi. Se non ho male interpretato, alcuni accusano Wu Ming di pubblicizzarsi assieme ai suoi “amici”, e che per farlo usa la sua doppia veste di scrittore e critico. In pratica sarebbe come accusare registi tipo Truffaut, Godard o Rivette di fare marchette perché sui Cahiers parlavano l’uno delle opere dell’altro, sotto il grande ombrello “Nouvelle Vague”. Ma che razza di punto di partenza sarebbe? E poi Trevi se ne esce con la sua idea del saggio “Contro il romanzo”, che se non è un’operazione commerciale questa, caspita! Wu Ming s’è fatto il mazzo a ravanare nel “torbido”, come lo definirebbe qualcuno, e zac, subito si scrive qualcosa contro. Questo mi ricorda (per carità, passatemi il paragone del tutto arbitrario) l’accoglienza subita da Deleuze inizialmente all’interno dell’Università italiana. C’erano di quei prof, me li ricordo, che gli davano addosso avendone letto si e no un libro, e per farlo citavano i poststrutturalisti americani che lo criticavano. Era più facile no? Questo per dire: lavoriamo e parliamo dei testi. Non volete chiamarli più romanzi? Bene, allora ricominciamo da Bachtin…

  58. Dall’esterno, agli occhi di un semplice lettore amico di nessuno, questi commenti, questo tirar di fioretto a salve, il critico, gli scrittori, indiani diligenti e non, tutti un po’ amici di tutti; è uno spettacolo davvero, istruttivo :)

  59. @ simone

    il “problema” infatti non è che i Wu Ming ( che immagino stiano ridendo a crepapelle di tutto quanto accade) si facciano pubblicità o meno con tutte le vesti, i trucchi e metodi che preferiscono, ma sarebbe interessante entrare nel merito del reale valore di quello che affermano, e scrivono. Loro non si qualificano solo come narratori, c’è scritto sul loro sito, il progetto Wu Ming è non meno radicale di quanto fatto come Luther Blissett, con precise istanze poetiche e politiche. Tolto questo, loro sembrano soddisfatti del loro operato di scrittori, sta bene ai loro lettori e alle case editrici che li pubblicano. I gusti son gusti e davvero non si discutono, ma se in libreria trovo NIE e nemmeno più un testo della NUE (nuova universale einaudi) anche questo un significato ce l’ha.

    Quanto a Truffaut, Rivette e Godard, tranne quest’ultimo nel periodo rosso dei Cahiers, loro hanno cominciato tutti come critici per non più ritornarci. Gl antichi Cahiers… (sospirone)

    Quanto a Deleuze & Guattari… ci sarebbe troppo da dire…

  60. Concludo la mia salve di commenti – poi rientro nella mia consueta sobrietà:-) – con quest’ultima osservazione:

    ***Se a me qualcuno mi desse del neo-epico, anziché fare la ruota come Di Girolamo sapete che cosa risponderei? NEO-EPICA SARA’ TUA SORELLA!!!*** [si apprezzi il popolaresco “a me… mi”]

  61. Sergio,
    fermo restando che anche io scrivo (raramente) le mie buone educate stroncature, tipo questa, è vero, però, ed hai ragione, che se posso le evito. Ma questa è la mia vigliaccheria, che in fondo il mio ruolo mi permette. Mi posso scegliere i libri da leggere o da recensire. Io, in quanto scrittore non ho il dovere di fare critica, magari il piacere, ma non il dovere.
    Questo però lo pretendo da chi è “critico ufficiale”. Te lo dissi, tempo addietro (mi ricordo pure che eravamo in macchina e mi stavi accompagnando a casa – inciso per Morganthal così gli confermo che siamo tutti una mafietta): Io ho un rispetto sacrale per chi fa critica. Odio chi si permette di sputare addosso a un lavoro così infame, che è destinato quasi al fallimento continuo, al continuo rimettersi in gioco. Come si fa ad essere rabdomanti in questo panorama afastellato di testi?
    Si fa letteratura in molti modi, dicevo, e uno è anche quello della critica, per come la vedo. Ma in più dal critico io pretendo (in modo puerile) che si comporti da fratello maggiore. Deve essere migliore di me, più colto, più preparato. E specchiato in ogni sua parola. Deve aver letto tutto, molto più di me. Deve darmi la rotta. Anche, magari, per andare in rotta di collisione con lui, ben inteso.
    Io voglio che Cortellessa, oltre a leggersi, sorbirsi, farmi conoscere autori misconosciuti, dica la sua (come ha fatto) su Buttafuoco o su Ammaniti. Io “esigo” (in senso buono) che Trevi prenda in mano il NIE e ci ragioni. In fondo io da scrittore posso pure tacere, ma da loro una parola la voglio. Una parola scaturita da una lettura fatta senza pregiudizi. Vedi come sono addirittura superomista nei confronti dei “critici ufficiali”?
    Di certo, poi, quando s’è trattato di entrare in polemica con qualcuno non mi sono tirato indietro, vedi i casi di Berardinelli, Sgarbi, Di Stefano… però sempre quando la cosa non riguardava un testo mio. Per pudore. Ed infatti per pudore da quando mi sono trovato citato in nota sul NIE io non ho detto più nulla sull’argomento (e qui rispondo al ***maligno Angelini***: cercami un solo testo o commento dove io esalto il NIE e ti pago una cena). Però è innegabile che i primi lettori di questo saggio parlavano più per nervosismo, che per lettura effettiva. E’ da poco che finalmente leggo qualche critica di più attenta alle cose scritte “dentro” il libro e non fuori.

    Emanuele,
    in effetti Simone un po’ c’azzecca: cosa c’è di più paraculo di un testo che si intitola “CONTRO QUALCOSA”? Il “Contro l’architettura” di La Cecla, per dire, è già dal titolo una affermazione della centralità della disciplina. E poi fa una critica fittizia, che se dice che ormai l’architettura è in mano alla moda, lo fa da un testo che usa un claim da pubblicitari, uno slogan da potersi stampare su una tshirt trendy. Tutto si può scrivere, allora: io scriverò “Contro l’agricoltura”, WM1 “Contro la critica”, Garufi “Contro la pastasciutta”, Angelini “Contro i Wu Ming”.

    Milesi,
    giusto perché sono pudico (anche se inutile negarlo i complimenti fanno piacere) volevo dirti che trovo il tuo commento istruttivo: tenuto conto che “Metropoli” ha venduto meno dei romanzi, allora, secondo la logica dei nemici dei best seller, è sicuramente il mio testo letterario meglio venuto. Secondo lo sguardo NIE, invece, essendo un testo che non è un romanzo e non è un saggio, è, perciò, un “oggetto narrativo non identificato”. Come la metto metto casco in piedi. Che culo!
    In ogni caso trovo istruttiva la tua parentesi: “(non amo i gialli)”. Non amo i gialli è un po’ come dire: non sopporto i rumeni, mi fanno cagare i napoletani, tutti i romani sono simpatici, i milanesi pensano solo a lavorare.

  62. @Biondillo. Anch’io ESIGO che la critica ufficiale si pronunci sulla mia dozzina di post anti-NIE (non serve che invii loro la raccoltina completa: basta che sfoglino l’archivio di “Cazzeggi Letterari dal 2008 a oggi). Sta per uscire per un GROSSO EDITORE (vd http://lucioangelini.splinder.com/post/15629071/PUBBLICARE+CON+UN+GROSSO+EDITO ).
    E poi, suvvia, darmi del Maligno (666). Ti ricordo che di cognome faccio ANGELINI (Little Angels, direbbe Wu Ming 1).
    .

  63. Il Maligno,è un bellissimo romanzo di Bruni Fonzi. Un eccentrico che non ha avuto, non avrà,l’attenzione della critica di establishment. Né, a quanto mi risulta, fu mai candidato al premio strega.

    A me piace più l’idea, certamente suggestiva, che un critico si pronunci su libri e autori che apprezza. Mi pare sia stato questo l’orientamento di Emanuele Trevi negli ultimi vent’anni. E per questo non mi sembra che vada messo alla gogna.

  64. E poi scopri che la cotoletta alla milanese a differenza di quanto ti è stato fatto credere per tutta una vita, ( ti hanno ingannato i tuoi, al militare, alla findus, nei ristoranti di tutto il mondo) la vera cotoletta alla milanese, è n’ata cose ( con l’osso) e lo scopri grazie a Gianni Bondillo frequentatore di una straordinaria trattoria zona stazione ( accadde ieri)
    Come critico gastronomico Gianni Biondillo è in assoluto il migliore. Cosa chiedo a un critico se non di mangiare una “vera” cotoletta alla milanese, se non di leggere “vera” letteratura? Certo chiedo anche a quel critico che fa il suo mestiere, di indicare linee editoriali, di promuovere presso gli editori autori che certamente fanno letteratura e che contro ogni previsione riescono ad avere anche tanti lettori. Garboli, non dimentichiamolo, era un critico con le palle perché riusciva a “influenzare” l’editoria italiana. Un vero critico non può arrivare post coitum a dirci che quel libro (e quell’autore) che esistono già, sono già programmati per essere letti, vale o non vale. A mio modestissimo parere un vero critico è quello che si prende di petto un direttore editoriale (ma soprattutto i veri finti manager che dovranno dare l’imprimatur, il visto si stampi) e gli dica: o pubblicate (traducete) questo libro o me ne vado. prima ancora che quell’altro gli indichi la porta recitando l’antico adagio, o ti mangi ‘sta minestra…”
    molto meglio allora le cotolette alla milanese made in Trattoria Sabbioneda in via Tadino (detta da Romolo)
    effeffe

  65. @ Morganthal: “Quanto a Truffaut, Rivette e Godard, tranne quest’ultimo nel periodo rosso dei Cahiers, loro hanno cominciato tutti come critici per non più ritornarci.”

    Si, ma poi ha continuato la tradizione un certo Olivier Assayas. Ejzenštejn non ha smesso sino a che non glielo hanno impedito.
    Karel Reisz ha scritto cose geniali su Ford.
    Per restare invece all’Italia ci scordiamo di Pasolini che, partendo dalle teorie semiotiche del proprio tempo, ha svecchiato l’approccio contenutistco della critica accademica spostandosi sull’analisi formale. Penso, ad esempio, alla teorizzazione ed alla pratica della “soggettiva libera indiretta”. Tanto che Deleuze, leggendo le annotazioni teoriche di Pasolini, scrive tutto il paragrafo sull’immagine percezione (in Cinema1).

    Questo per dire cosa?
    Che la separazione tra teoria e pratica non ha nessun senso, se presa come un a priori. Credo che il merito del saggio di Wu Ming consista nell’indicare alcune possibilità di analisi formale e testuale delle opere (non degli autori). Il difetto della recensione di Trevi è nel livore, che gli impedisce di discutere partendo dai testi per affermare una sua idea di cosa la letteratura debba o possa essere.

  66. caro gianni,
    però c’è anche “contro sainte-beuve” di proust, “contro l’interpretazione” di susan sontag, per non parlare del “contro celso” di origene. e l’ultimo libro di pynchon (se fossi in rizzoli terrei il titolo in inglese) è “against the day”. se scriverai “contro l’agricoltura” ti garantisco pubblicamente una recensione entusiasta

  67. @effeffe

    “A mio modestissimo parere un vero critico è quello che si prende di petto un direttore editoriale (ma soprattutto i veri finti manager che dovranno dare l’imprimatur, il visto si stampi) e gli dica: o pubblicate (traducete) questo libro o me ne vado. prima ancora che quell’altro gli indichi la porta recitando l’antico adagio, o ti mangi ’sta minestra…”

    ammesso che ne sappia di “vera” letteratura ( quindi esiste la “vera” letteratura…) sarebbe bello effettivamente…

    sono veg ma passo l’info per la trattoria :)

  68. @ Emanuele Trevi

    no, purtroppo tranne in francese, per chi lo possieda in traduzione o in biblioteca, “contro sainte-beuve” di proust non è più in catalogo. Era NUE, ora introvabile.

    ancora un saluto

  69. @ dimitri

    intendevo solo riguardo a loro e come critica militante, oltre ad Assayas ce ne sono stati altri. Assayas porello che come cineasta aveva cominciato benissimo, poi…

    Vero quello che dici sul rapporto Deleuze/Pasolini (non scordiamo Guattari però) loro PPP lo hanno letto e riletto per bene. Se conosci loro conosci Bellour. Davvero credi che il saggio sul NIE dica qualcosa, e qualcosa di nuovo ? Non pensiamo solo all’Italia.

  70. “Contre Saint-Beuve” è uno dei libri della mia formazione letteraria, ce l’ho cucito nel cuore. Però ammetterai che, per colpa di Proust, Saint-Beuve non riusciamo a togliercelo dalla mente!

    Hai anche scritto: “se scriverai “contro l’agricoltura” ti garantisco pubblicamente una recensione entusiasta”. Sarebbe la prima che otterrei sul Manifesto. Non so se preoccuparmene o meno.

    In ogni caso se passi da Milano ti porto a mangiare la cotoletta come da video forlaniano, così la finiamo a tarallucci e vino (ché, Cohen, alla gogna io non metto mai nessuno).

  71. “Dall’esterno, agli occhi di un semplice lettore amico di nessuno, questi commenti, questo tirar di fioretto a salve, il critico, gli scrittori, indiani diligenti e non, tutti un po’ amici di tutti; è uno spettacolo davvero, istruttivo :)”

    Anch’io mi sto appassionando molto, e trovo questo dibattito sul NIE divertente e istruttivo. Era molto divertente per esempio il confronto radiofonico a fahreneit tra Lipperini e Ferroni, con la prima che incalzava il secondo come Socci col biblista accademico; oppure gli interventi di Girolamo De Michele su Carmilla con l’invenzione di un Benjamin newagizzante a puntellare il saggio di WM1, roba che Agamben si rivolterà nella cattedra. Un Benjamin più simile a Button che a Walter, con quella sua escatologia rovesciata tutta tesa a propiziarsi il passato (diciamo il periodo fra il 93 e il 2008), anziché il futuro. Ma la vera folgorazione l’ho avuta in un commento di questo thread, quando WM1 si è appoggiato all’autorità di Serino, e ha scritto: “almeno Serino…”. Ecco, quelli sono dei momenti che valgono una vita, tipo quando Ulrich legge su un giornale che un cavallo da corsa era stato definito “geniale”, e in quel preciso istante capisce di essere “un uomo senza qualità”. Leggendo “almeno Serino” io ho visto all’improvviso il nuovo spirito del tempo, “l’annuncio di una rigogliosa estate”, ho avuto la consapevolezza che è definitivamente saltato un sistema di riferimento, un’assiologia, una visione del mondo.

  72. E quando sono venuta a Milano, non ho gustato la cotoletta milanese…
    Proust era un amateur distingué du boeuf mode…
    et de la madeleine.

    Buon appetito§

    Ma ho gia mangiato alla mensa e non posso ancora sognare alla cotoletta…

  73. @ Morganthal:
    “Assayas porello che come cineasta aveva cominciato benissimo, poi…”
    Attento a non dare del porello troppo alla svelta. Io ho tenuto una lezione su “Boarding Gate” ad una platea di cinematografari. Ti assicuro che “porello” non lo ha detto nessuno.

    “Davvero credi che il saggio sul NIE dica qualcosa, e qualcosa di nuovo ? Non pensiamo solo all’Italia.”

    Credo che il memorandum dica molte cose. Sul nuovo dovremmo discutere. Sicuramente gli elementi individuati vengono proposti in un insieme o configurazione che è di fatto inedita.
    Posso dirti come io ho utilizzato il memorandum.

    Un ‘oggetto narrativo’ è tale, secondo Wu Ming1, perché non è più un romanzo, ma non è ancora qualcos’altro. In realtà l’intenzione che si può leggere in filigrana al suo memorandum non sembra quella di voler liquidare la forma romanzo, quanto di forzarne i canoni.Il concetto di ‘oggetto narrativo’ se da una parte ha il pregio di dare un nome ad un’attitudine letteraria di cui ancora non sappiamo e possiamo misurare i confini, dall’altra va considerato per quello che è, ossia una definizione provvisoria. Il genere romanzo, soprattutto nella nostra epoca, ha una codificazione assai debole, una forma instabile che lo rende particolarmente adatto alla combinazione con altri generi di discorso, non solo letterari. Se gli ‘oggetti narrativi’ arriveranno a consolidarsi in un corpus di opere riconoscibile, ossia in un canone letterario, la forma romanzo tornerà a comprenderle, perché sarà quest’ultima a dover essere rimessa in discussione.
    Ma ancor più che accettare o meno la validità di una definizione, è importante raccogliere il suggerimento di Wu Ming1, e non ricondurre questi romanzi ad ‘un’ibridazione endo-letteraria’. Ma cosa può essere un’ibridazione eso-letteraria?
    Per comprenderlo è necessario ricordarsi che le forme che il letterario assume non si lasciano definire unicamente dal rapporto con altri testi letterari, ma anche da quello con il proprio contesto storico, sociale e culturale. Può stupire, se non disturbare, che la vicenda di Vermicino divenga materia narrativa di un romanzo (Dies Irae), eppure è insegnamento base di qualsiasi teoria dell’arte che gli eventi e gli esistenti appartenenti al mondo storico, si collocano in una dimensione estetica solo quando siamo noi a metterceli, indipendentemente dall’occasione in cui si sono manifestati o sono stati prodotti. Si tratta di disporre lo sguardo in un certo modo, lasciandoci guidare dal costrutto di senso che emerge dall’opera stessa.
    E’ per questo che non dobbiamo mai scordarci che ogni opera, non solo quelle letterarie, è legata alla natura costruttiva del linguaggio e, di conseguenza, la sua capacità comunicativa non può mai essere separata dagli apparati di produzione simbolica di una determinata società in un determinato periodo storico. Questo non significa che la produzione artistica debba adagiarsi sullo stato di cose presenti, ma che essa non può ignorare i dispositivi linguistici della propria epoca, perché sono tali dispositivi che presiedono alla produzione sociale del senso.
    Si potrebbe obbiettare che il romanzo, e la narrativa in genere, sono sempre ricorsi alla combinazione di occorrenze extraletterarie. Magari per evitare l’artificialità di una narrazione eccessivamente distaccata dagli eventi narrati, oppure per produrre un effetto di realismo. Basti pensare al romanzo epistolare o, come si è visto, a quello autobiografico.
    E’ però evidente che una tale posizione, quando eretta a principio assoluto, nasconde un idealismo raffazzonato, perché prescinde da quelle occorrenze concrete (i singoli prodotti letterari), attraverso cui si dispiega la letteratura stessa, negandone, in qualche modo, la storicità.
    A chi ripete che ‘non c’è niente di nuovo sotto il sole’, bisognerebbe sibilare nell’orecchio che nella notte dell’assoluto ‘tutte le vacche sono nere’. Ma più che da Hegel forse conviene prendere spunto da Deleuze quando, nelle prime righe di L’immagine movimento, ci avverte che ciò abbiamo di fronte non è una storia del cinema ma, “…una tassonomia, un tentativo di classificazione delle immagini e dei segni”.
    Una differenza non da poco, che se applicata alla letteratura ci permette di guardare alle opere ed alle epoche senza vincolarci ad uno scadenzario cronologico. In altre parole la prima questione da analizzare non è quanto e cosa permanga o ritorni, esaurendo così ogni pratica letteraria all’interno della letteratura stessa, ma quale movimento si stabilisce tra tutti gli elementi in campo quando i modi della rappresentazione subiscono un mutamento. Non possiamo fermarci all’aspetto puramente cronologico, all’uso che di certi elementi letterari è stato fatto, ma studiare l’insieme delle relazioni che si stabilisce tra di essi, riconfigurandone incessantemente il significato. E’ a questo punto che ci accorgiamo che anche dispositivi narrativi, apparentemente necrotizzati, si riattivano secondo una funzione che è però sempre diversa da quella originaria.
    Ciò di cui oggi una teoria della letteratura sembra avere più bisogno è un vocabolario delle forme, descrittivo e non prescrittivo. Ciò non significa che essa debba semplicemente descrivere le cose come stanno, ma che non può inventare le proprie forme ideali a prescindere da quegli atti concreti che dovrebbero incarnarle, ossia le opere.

    Insomma a partire dal lavoro di WM1 io so cercando di elaborare una tassonomia degli “oggetti narrativi”. Quindi quel che dice forse non è nuovo, ma è molto utile.

  74. @ Dimitri. Hai presente il Tristram Shandy? Copio-incollo da wikipedia per brevità: ” un romanzo decisamente insolito, che fa parodia e sperimentazione delle strutture narrative allora in voga, tanto che alla fine si scoprirà che la narrazione ha coperto solo una giornata di vita della famiglia. La nuova concezione del romanzo di Sterne si manifesta anche nelle stranezze tipografiche: una pagina completamente bianca, un’altra nera, una marmorizzata, i capitoli a volte di una sola frase.”

    Be’, oggetto narrativo poco identificabile pure quello, no?… peccato solo che preceda di gran lunga la caduta del muro di Berlino o il September Eleven tanto cari allo scopritore dell’acqua calda.

    Posso farti una domanda? Quando vai in libreria, chiedi del reparto Oggetti Narrativi Non Identificati o ti limiti a dire: “Mi dà il tal romanzo di Genna”, “il saggio sulla Nuova Italiana Epica di Wu Ming” e via discorrendo?

    E comunque: che palle sta nuova regola che tutto debba inzupparsi di contaminazioni d’ogni tipo per far finta di aver innovato la letteratura italiana. Poi passa una manciata di mesi e dell’Hitler di Genna non si ricorda più nessuno.

  75. Scrivere è lavorare sulla lingua, pensarla nuovamente e diversamente, ricrearla per così dire ogni volta. Niente è così errato come la tendenza ad assegnare una posizione privilegiata alla trama e al contenuto ideale o ideologico del romanzo, a quegli elementi cioè che da una traduzione risultano meno compromessi, e a trattare l’opera letteraria quasi come un saggio risolto in narrazione. Questa tendenza, cui forse non è estranea la circostanza che lettori comuni e critici leggono ormai prevalentemente in traduzione, misconosce il senso e la natura della narrazione, ignora che l’opera letteraria è il risultato di un immenso e minuzioso lavoro linguistico che si deposita nel testo (quel lavoro di cui la traduzione , in quanto perifrasi, non è che una rimasticatura); insomma non rende giustizia alla parola. E in letteratura non esiste altro peccato mortale che quello contro la parola.

  76. approfitto per criticare in blocco un certo neo-conformismo che aleggia in italia, nei nuovi lettori finto-disinvolti, e ahimè troppo spesso su NI (trevi non c’è incappato ancora, nei cecchini che sparano su ogni intenzione o meglio tensione seria…ma ricordo ad es. che arminio, osannato quando parla di paesi o poltica, è stato cannoneggiato quando toccava il neo-tabù della morte, che giorni fa alcuni limpidi interventi di buffoni su etica e cattolicesimo sono stati tacciati di pesantezza…in realtà, e in ciò credo di concordare con trevi, quel che snerva e svena la scrittura oggi è la moderazione, quel che manca è una qualsiasi forma di radicalità e tensione… e se la scrittura non è questo, cos’è più? che senso ha raccontare storielle che rappresentano più potentemente i linguaggi visuali? la scrittura deve commerciare con ciò che non siamo, con ciò che non comprendiamo in noi…solo nella parola, che ci costituisce, può darsi o trapelare il senso di ciò che ci sorpassa… perchè la parola è il nostro limite…)

  77. @Lucio: non ti offenderai se rispondo solo alla prima parte della tua domanda. Giusto il paragone con Tristram Shandy, non sei il primo a farmelo notare. Quello che dico è che non ci si può fermare all’uso che di certi elementi letterari è stato fatto. Il contesto socio culturale in cui scrive Genna è diverso da quello in cui scriveva Sterne. La realtà che vivono i due autori è diversa, i testi che la descrivono sono diversi, i valori politici ed i codici culturali con cui si confrontano sono diversi. Dunque è proprio perché il Tristam Shandy precede “di gran lunga la caduta del muro di Berlino o il September Eleven” che siamo dinanzi a fenomeni diversi.

    Hitler: è uscita una recensione sull’ultimo numero di Allegoria. Non propriamente una rivista di propaganda della Neo epica italiana.
    Si, lo so che non ti ho convinto neanche un po’. Ma tieni conto che tu sei Angelini!

  78. @ Dimitri. Sì, certo, va senza dire: cambiano tempi & contesti e cambia anche il senso dell’umana descrizione della realtà (oltre che della sua interpretazione). Resta, però, il valore di certi detti popolari: “Non è tutto oro quello che luccica”, per esempio. E mi astengo da battute contenenti l’espressione idiomatica “oro di Bologna”. All’Hitler di Genna ho dedicato io stesso un’attenta analisi (ben cinque puntate nel mio blog, a suo tempo), in parte fuorviato dalle grida di giubilo della Lipperini, forse “angelo del ciclostile” negli anni della Contestazione, e oggi – mutati tempi e contesti – “angelo della blog-sfera”. Temo però di essere giunto a conclusioni diverse da quelle cui (immagino) sarà pervenuta Allegoria. A proposito: non sarebbe il caso di mutare il nome della rivista in “Allegoritmica”, visto che ormai viviamo ai Tempi del Nie?

  79. @Dimitri

    perdonami, ti ho scritto in risposta e ne è uscito un papiro, se vuoi possiamo proseguire in mail. Ti lascio solo una “microstoria”.

    Il mio “porello” era ovviamente affettuoso nei confronti dell’opera di un regista che ho amato molto e seguito dagli inizi inizi inizi…

    Per il resto…E’ una questione di scelte. Tu ed altri, accogliete e semmai scegliete la “griglia” NIE per amplificare il vostro orizzonte critico e metodologico, io personalmente lo trovo obsoleto e superato in partenza. Se devo parlare della sola Italia (ma esiste davvero l’Italia ?) in altre discipline come le arti performative ad esempio, basterebbe il solo rivolgersi al lavoro della Societas Raffaello Sanzio con la loro “Tragedia Endogonidia”. Dove, se vogliamo parlare di epica e storia, ci troviamo di fronte ad un’opera che Ricapitola e Trascende. Corpus di idee che sono state attuate ed amplificate nell’edizione della Biennale Teatro che Castellucci, il direttore della compagnia teatrale Societas, ha diretto nel 2005, edizione dal titolo, “Pompei – il romanzo della cenere”. Se a qualcuno è sfuggito questo “kolossal teatrale” e tutto l’insieme di idee e scritture che ha portato con se, mi spiace per lui. Perché nella nostra italietta, e Trevi, come credo molti altri qui, lo sa, di ricerca artistica “transmediale”, che è già di per se un termine antico, ad alto livello si fa eccome. Tu citi Deleuze dal testo sul cinema, io citerei un passo dal saggio su Bacon. Alla fine è una questione di scelte metodologiche e da cosa queste scelte sono illuminate (e fu quel – cosa – a fare tutta la differenza… parafrasando Frost). A me non interessa l’ideologia e gli ideologemi, ad altri si. Deleuze e Guattari hanno prodotto opere splendide, nebulose dal potenziale ancora inesplorato, (ad esempio la questione aurale a me cara, sono usciti due saggi su questo in Italia negli ultimi 3 anni) ma ad un certo punto, si sono strafatti della loro stessa “roba”, quasi lo ammette Deleuze nell’abecedaire, e anche questo lo dico con affetto nei confronti di autori che amo. Molta parte del pensiero di Nietzsche ci ha rimesso le penne nel loro impianto a millepiani, proprio tutto ciò che riguardava, non a caso, la storia, le questioni “inattuali”. Quanto a questioni “etiche”. In Italia circola pochissima informazione su cosa accade nella ricerca artistica (arti sonore, performative ecc ecc) nel nostro stesso cortile ed all’estero, molto poco. Tranne gli addetti ai lavori e gli appassionati, ad una fetta di pubblico, a cui interesserebbe, sono davvero precluse zone di informazione e possibilità di attuazione. effeffe diceva di prendere di petto il manager di turno, fosse solo nelle case editrici il problema…ma sono convinto che lui sa bene come funziona. Almeno per l’informazione, la rete riempie buchi ma, bisogna avere tempo e voglia di cercare, e il tempo è davvero un lusso. Tutta questa storia del NIE, da parte degli autori, involontariamente o meno gioca molto, o si giova, del fatto che a livello editoriale e non solo, politiche ben precise, attuano/favoriscono delle scelte, e buona parte dei lettori vive, non per sua colpa, nell’impossibilità di accedere ad un corpus di opere più ampio, opere del passato e opere in traduzione nel contemporaneo, per farsi un’idea adeguata del panorama. A mio modestissimo parere quindi, non sono delle grandi scelte, si perdono possibilità. Continuando così tra qualche tempo, si corre il rischio che “Plan 9 from outer space” di Ed Wood potrà essere considerato più importante di “2001 Odissea nello spazio” di Kubrick.
    Parli delle forme, discorso interessante, mi ha fatto venire in mente un testo bellissimo, “La vita delle forme” di Focillon.

    un saluto

  80. @ Sergio Garufi
    me lo sono talmente inventato, il Walter Benjamin di cui tu dici (quello che farebbe rivoltare Agamben) da aver ampiamente attinto al mio secondo libro su Benjamin, che esiste da 7 anni. Me l’ha pubblicato, pensa un po’, Quodlibet, la casa editrice legata ad Agamben. Questo per dirti che certe cose su Benjamin le vado scrivendo e dicendo e pubblicando dal 1995, non me le sono inventate per l’occasione.

  81. @Morganthal
    “Continuando così tra qualche tempo, si corre il rischio che “Plan 9 from outer space” di Ed Wood potrà essere considerato più importante di “2001 Odissea nello spazio” di Kubrick”.

    Beh… non so se Plan 9 from outerspace sia meglio di 2001 (per me lo è già, ma è un parere personale… non dirlo a nessuno). (Di certo i film di Ed Wood sono meglio e sono più sinceri di quelli di Tim Burton… che guarda caso ha fatto un film su Ed Wood, rendendolo liscio, disneyano, togliendogli il lato più ruvido, abrasivo…).

    Grazie a Emanuele Trevi: “Questa Scientology da nerd”… ancora sto ridendo!!

    E visto che parlavi di cinema:
    “Adieu, Mina. Je t’envoie tout mon être. Je voudrais pouvoir te prendre la main et la garder dans la mienne pendant des heures comme au cinéma”…

    Così Arthur Cravan, in una delle sue ultime lettere a Mina Loy – da Mexico City, prima di scomparire nell’oceano. Non è una magnifica elegia (quasi estinta, come i generi segnalati da Trevi) del cinema?

    E Robert Desnos? qualcuno prima o poi tradurrà Le vin est tiré… Oppure distribuirà in Italia Elle a passé tant d’heures sous les sunlights di Philippe Garrel (che è il suo equivalente filmico)?

    E tutto questo è transmediale?

  82. La NIE è un’invenzione grottesca, a partire dal nome. Una specie di ammucchiata del “chi c’è c’è, basta che serva”, resa pubblica dagli “organi” di stampa e giustificata da un manifesto “surrealista”.

    Ma perchè non vi fate sponsorizzare dalla Hatu, quella dei preservativi?

  83. @ Fabian

    Ed Wood di Burton, a me piacque. Sulla sincerità possiamo essere d’accordo, sui gusti non discuto, l’ho già detto, sono intoccabili.

    Tiri fuori Cravan…e un autore eccezionale, Desnos…qualcosa si trova in traduzione da noi.

    “Transmediale” lo ha usato Wu Ming 1.

    Conosci Ubuweb ?

  84. @Morganthal: devo riflettere un po’ sulla tua risposta, altrimenti rischio di dire cose inessenziali. Bisogna però notare che una volta che si entra nello specifico critico del discorso le cose si fanno più complesse ed interessanti. Il passo ulteriore è arrivare ai testi e confrontarsi su quelli. Spero avremo occasione di farlo.

    @Angelini: e vedessi di chi sono amico su Feisbuc!

  85. Certo… ottimo sito!
    Robert Desnos è davvero in traduzione da voi? La liberté ou l’amour? Le vin est tiré? Corps et biens?
    In ogni caso chapeau! Ecco uno scrittore davvero distante da qualunque NIE…

  86. @ Fabian

    “La liberté ou l’amour” si e gli scritti sul cinema, ma anche alcune cose di Cravan dovrebbero esistere, in traduzione, da loro :)

  87. @Morganthal

    scusa, “transmediale” era una battuta… Ma di Desnos già esiste una traduzione degli scritti cinematografici (ed. Lindau)…
    Perché non tradurre Benjamin Fondane?? (amico di Cioran…) – che so, il suo Baudelaire et l’expérience du gouffre… i suoi scritti sul cinema, per esempio sono magnifici, molto acuti. Che io sappia, in Italia esiste solo la traduzione del suo Rimbaud (x le nubi)…

  88. @ trevi

    “non c’è nient’altro che ha una reale importanza, ammettiamolo. voglio dire: un cioran di vent’anni morirebbe di fame. non c’è una persona al di sotto dei 40 anni che abbia mai sentito solo nominare libri come
    “il pesce-scorpione” di nicolas bouvier
    “viaggio in armenia” di osip mandel’stam
    “sentieri nel ghiaccio” di werner herzog
    “colloqui con kafka” di gustave janouch”

    NON E’ VERO. HO 24 ANNI E LI CONOSCO TUTTI, LETTI 2. IL PROBLEMA è CHE PENSATE A UNA REALTà VECCHIA, LA VOSTRA.
    I LETTORI DI OGGI, QUELLI CHE LEGGONO E HANNO LA MIA ETà, NON HANNO PIù BISONGO DELLA CRITICA, SANNO BENISSIMO MUOVERSI DA SOLI SENZA INCAPPARE IN SILLOGISMO, PRETERIZIONI ETC. CHE INGOLFANO, STUFANO E RISULTANO ALFINE MALEDETTAMENTE PARTIGIANE.
    ABBIATE FIDUCIA, IL FUTURO VI SOPPIANTERà, LA CRITICA OGGI NON HA PIù SENSO PERCHè DOVREBBE RE-INVENTARSI DELLE CATEGORIE E NON PRETENDERE DI USARE ANCORA BACHTIN AUERBACH GARBOLI SPINAZZOLA.
    è AGGHIACCIANTE, MA SONO QUESTI COLORO I QUALI TENGONO IN SCACCO UNIVERSITà E LIBRAI.
    NON I LETTORI PER FORTUNA
    SALUTI

  89. Interessante e pure divertente questa coversazione.
    Dovreste cambiare il titolo in “Citarsi addosso”.

  90. bravo liviobo!
    una Nuova Epoca Della Parola, finalmente, altro, che,da, epicuzze!
    viva la NEDP

    :)
    molti baci a te

    la funambola

  91. Una sola citazione: *** Si tratta di reazioni tra lo stizzito, il sussiegoso e il goliardico. Reazioni interessanti, poiché confermano quanto la critica e il cronismo culturale “accreditato” siano nolenti e/o incapaci di affrontare nel merito quel testo, o meglio, le questioni che pone e il dibattito che lo circonda. Al contrario, ostentano ansia di liquidarlo con poche (o in alcuni casi molte) freddure e boutades. ***

    Insomma totale insubordinazione alla sua consegna sullo sguardo obliquo.

  92. Credo che con questo post di Wu Ming si dovrà fare i conti, perché… eh, leggetelo. Non penso si possa rispondere in un rigo appena.

  93. penso anch’io, almeno sforzarsi di leggerlo oltre il primo paragrafo. L’analisi della critica la trovo una pratica molto utile. In fondo è anch’essa un genere letterario…

  94. Ora – finalmente – si capisce cosa intendeva Wu Ming 1 con “sguardo obliquo”: guardare di traverso chiunque osi spernacchiare le sue bufale. Per fortuna ha dalla sua parte la fida scudiera Lippa-Panza, sempre pronta a megafonare qualunque scorreggina (“de panza” anche quella) del cinese de’ noantri.

  95. Ho trovato spassosissimo l’ombellico nuovo intervento di Wu Ming 1. Peccato per l’utilizzo, come da copione, di un certo lessico popolano, perché ripulendolo un po’ poteva rientrare, in piccolo, come exempla nella storia dei “saggi di simulazione” alla Breton. Il suo, precisamente come, “Saggio di simulazione di identificazione proiettiva”.

  96. Curioso che un OT abbia suscitato una simile ridda di commenti, il che dimostra ad abundantiam, se ce ne fosse bisogno, che i wu ming hanno colto nel segno, con il loro NIE. È inutile stare a lamentarsi sul corso del mondo che va male, e dire come si stava bene quando invece del NIE c’era la NUE, se non si analizza prima il mondo in cui viviamo oggi nelle sue articolazioni. Era il richiamo che faceva Lyotard nel suo rapporto sul postmoderno, e mi sembra ancora valido, anzi, ineludibile a chi voglia non solo dire, ma agire efficacemente nella nostra epoca. Bandite le lacrime sul latte versato, e dismesso il lutto perenne per la nostra cultura vedova di quelle voci di un tempo che fu (tutte voci, per altro, nate quando c’era Lui, un Lui un po’ diverso dal lui che c’è oggi…), bisogna dire che il modo di procedere, il modus operandi più legittimo e valido, per fare argine contro l’industria culturale (ah, ma questo termine, come sa di vecchio), è proprio il loro. Il più adeguato ai tempi che corrono. Io sono un veltroniano convinto, e benché creda che i wu ming non siano affatto dei veltroniani, secondo me hanno fatto qualcosa di molto simile a quanto ha tentato di fare Veltroni. Hanno sostituito a una visione del mondo che non aveva un potere di ridescrizione della realtà al passo con i tempi (il comunismo, Veltroni; l’adornismo, loro), con qualcosa di più aggiornato (la terza via, Veltroni; i cultural studies, loro), riuscendo in qualche modo a operare una sintesi teorico-operativa valida in ogni suo aspetto. C’è da sperare, però, che nel mondo della letteratura, l’onestà e l’originalità di chi innova non debba essere soffocata da chi si aggrappa a ciò che, vecchio, non è più fungibile in un mondo complesso quanto il nostro, in cui i modelli di analisi del reale come quelli di Adorno hanno dimostratio di essere ben lungi dall’essere efficaci nel farcvi comprendere come vanno le cose. Risultato: il NIE è davvero la terza via nel mondo della letteratura: una via che germinalmente, rizomaticamente, potrà far nascere ancora dei barlumi di giustizia e di bellezza, in questa epoca.

  97. trovo interssante l’intervento del 24enne in pillole, e mi allarga il cuore che abbia letto quei libri. tuttavia trovo che tu (anacolutizziamo) ti faccia prendere da un 24ennesco ottimismo e faziosa difesa della categoria. se qualche anziano ti richiama a bachtin e a qualche schema culturale, non è per ideologia o nostalgia, ma perchè constata i nefasti effetti dell’attuale incultura, o meglio del predominio di una cultura esclusivamente visiva e sensoriale. tu avrai letto, ma ti risulta che in italia leggono un libro all’anno solo l’1% della popolazione? e ti risulta che l’uomo sia essere di parola, e quello etico e civile essere di scrittura? e ti risulta che la politica, l’arte del bene e la felicità comune, fra poco si farà con le votazioni del grande fratello? abbiate fiducia, dici tu?
    @lla funanmbola
    d’accordissimo con la NEDP (che almeno l’acronimo è in italiano… che epica italiana può venire da un gruppo col nome cinese che la nomina in inglese?)

  98. @ Grünewald

    Su onestà, politica, etica e industria culturale, non ti dico la mia, unicamente perché non è davvero questo il luogo, ma, MAGARI, ripeto, MAGARI, esistesse il modo di poterne parlare davvero…ne uscirebbero delle belle. Ti dico solo che, se sei solo un semplice
    curioso appassionato attento lettore, in questa guisa ti sto rispondendo, guarda a fondo, e guarda tutto. Lo spettacolo, va visto non dal palco, non dalla platea, ma di lato.

    Quanto al resto, non si tratta di vecchio contro nuovo, o viceversa, queste sono categorie, modus operandi e modalità discorsive e di pensiero, almeno per me, inesistenti. Ci tengo a questo punto, perché è proprio giocando tutte le possibili “invenzioni” su questa dicotomia, che tanta cattiva arte (sostituisci ad arte a quello che preferisci) viene spacciata per chissà cosa. Parlavo chiaramente, di politiche culturali, non di epistemologia. I gusti son gusti, le scelte metodologiche ognuno le compie, consapevolmente o meno, guidato dal proprio “sguardo e destino”, come direbbe Gargani. Per te, l’ottica NIE dei Wu Ming è imprescindibile per comprendere il contemporaneo ? E’ la tua scelta o di altri, ma ti invito a riconsiderare passaggi come

    “bisogna dire che il modo di procedere, il modus operandi più legittimo e valido, per fare argine contro l’industria culturale (ah, ma questo termine, come sa di vecchio), è proprio il loro. Il più adeguato ai tempi che corrono.”

    perché quei “più” suonano davvero totalizzanti e rischiano di segnare una chiusura di orizzonte, che è davvero vasto e molteplice.

  99. @ Morganthal

    Ho amato alla follia, alla disperazione il libro che tu citi, di Gargani. Erano altri tempi, leggevo Bernhard, leggevo Beckett, leggevo Bachmann (guarda il caso, tutti autori con la b, non ci avevo mai pensato prima…). Io non credo che si possa davvero imputare ai Wu Ming la possibilità di una chiusura dell’orizzonte. La chiusura la farà il mercato, semmai. Loro invece, mi pare, cercano di instillare nella casalinga di Arcore inquietudini culturali. è il midcult al servizio della rivoluzione culturale, e penso sia un progetto davvero efficace, e lodevole. e ripeto, mi pare calzante questa similitudine politica con Veltroni: come il socialismo è un progetto troppo totalizzante per cambiare il mondo, così certa letteratura parla a troppo pochi, e deve allargare il proprio campo di diffusione. Detto questo, con i tempi che corrono persino il progetto del nostro nobile Veltroni può apparire troppo oltranzista. Ma questa, hai pienamente ragione, è un’altra storia… Anche i Wu Ming fanno arrabbiare, perché dicono qualcosa di diverso, diciamo diverso se nuovo non ti piace, e ciè che si può ridare fiato alle grandi narrazioni, che si può fare della leteratura che vende, e che può essere utile allo spirito dell’utopia, esattamente come il moderatismo di centro-sinistra di Veltroni. Lo sapeva bene Pasolini, sei una strega buona, ma pur sempre una strega, e ti muovi dentro certi ambienti. Non fare come Samantha, che prometteva al suo maritino piccolo borghese e pubblicitario (un copywriter, no?) di non usare i suoi poteri magici, e obbligava anche la piccola Tabatha ad autocastrarsi per rimanere dura e pura.

  100. . Per quanto mi riguarda ma l’ho anche detto a Roberto, il suo pamphlet se ha il merito di cercare, per dirla con deleuze un agencement, ovvero una connessione di tipo trasversale tra diverse poetiche e narrative dall’altra ha il torto di farlo, in uno spirito post coitum, o post prandium se si vuole essere meno espressivi, indicando la tavola su cui si è appena finito di banchettare per dirci cosa si è appena mangiato. Manca, secondo me, l’idea di un progetto che flirti il meno possibile con quella tanto detestata società dello spettacolo ( e della Com) e che suggerisca pratiche di rottura. L’industria culturale ha fatto passi da gigante, ci dicevamo qualche tempo fa con un amico critico,(massimo rizzante) ecco allora che mi sarei augurato da Roberto la famosa buccia di banana se non uno sgambetto
    effeffe
    ps
    scritta per l’articolo di Wu Ming via FB

  101. @ Morganthal

    beh, allora sbagliavi a imputare ;)

    i “più” suoneranno totalizzanti, ma non sono tali. come diceva Boine, d’annunzio non è tutto il mondo. nemmeno il NIE lo è. ma è qualcosa di importante e da non demonizzare come qui mi pare la maggior parte è portato a fare.

    però mi piacerebbe davvero sapere la tua su politica, industria culturale, etc.

    Tanto ormai che siamo così off topic…

  102. @ effeffe

    ultrasintetizzando

    Alcuni non credono all’eterogenesi dei mezzi, Wu Ming ed altri con loro, si. Mi riferisco alla questione, (modalità) “critica” / industria culturale. Ma davvero è un discorso troppo troppo lungo e non si può fare qui. Magari prima o poi si fa una tavolata, con le cotolette :)

    un saluto

  103. tanto per correttezza, il Contre Saint-Beuve è stato anche un tascabile Einaudi (più fortunato, dunque, delle Giornate di lettura) e prima anche un Millennio di scritti proustiani…

  104. “tanto per correttezza, il Contre Saint-Beuve è stato anche un tascabile Einaudi”

    ne approfitto per dire che il saggio di Wu Ming sul NIE è pubblicato da Einaudi, la nota casa editrice legata a Proust e Adorno (anche un po’ ad Agamben, con le introduzioni alle opere di Benjamin).

  105. @ NIE
    Scrive WU MING a Emanuele Trevi: “Vedi, non c’è mai stata tanta “biodiversità” di generi e forme come oggi. Il problema è che il campo da esplorare è più vasto del “campo letterario” tradizionalmente inteso, abbraccia l’intera produzione culturale, include internet, fumetto, gdr, videogame, tutte pratiche e forme che fanno inorridire i “letterati” “puri”, che però devono pure rendersi conto che tra cielo e terra ci son più cose etc.”

    Azzz. Sarebbe questa la transmedialità? Sarebbe questa la novità? Ok, convinti loro… Segnalo un passo, un po’ vecchiotto:

    «Amavo i dipinti idioti, soprapporte, scenari, tele da circo, insegne, miniature popolari; la letteratura fuori moda, latino da chiesa, libri erotici senza ortografia, romanzi di bisnonne, racconti di fate, libretti per l’infanzia, stantii melodrammi, sciocchi ritornelli, ingenui ritmi». (1873)

  106. Dall’americano di Carosone al Dulcamara di Donizetti! Wonderful!!

    “Udite, udite, o rustici;
    attenti, non fiatate.
    Io gia’ suppongo e immagino
    che al par di me sappiate
    ch’io sono quel gran medico,
    dottore enciclopedico,
    chiamato Dulcamara,
    la cui virtu’ preclara,
    e i portenti infiniti
    son noti all’ universo
    e… e… e in altri siti.

    Ecco qua: cosi’ stupendo,
    si’ balsamico elisire,
    tutta Europa sa ch’io vendo
    niente men di nove lire
    ma siccome e’ pur palese
    ch’io son nato nel paese,
    per tre lire a voi lo cedo,
    sol tre lire a voi richiedo.”

  107. sebbene poi terminasse così:

    “Cela s’est passé. Je sais aujourd’hui saluer la beauté” ,

    che nella ‘minuta’ suonava così:

    “Tout cela s’est passé peu à peu.
    Je hais maintenant les élans mystiques et les bizzarries de style. Maintenant je puis dire que l’art et une sottise”

    (A.Rimbaud, Delires II Alchimie du verbe, da Une Saison en Enfer e dalle Brouillons)

  108. certo… per questo brucia gli esemplari d’autore in suo possesso e se ne va, fino a giungere in Africa… resta il fatto che la questione tra ciò che consideriamo “alto” e ciò che consideriamo “basso” (non è questa la questione di fondo?) non è questione recentissima, se è vero che Watteau ha dipinto l’insegna di un barbiere e Nerval e i romantici amavano la letteratura popolare…

  109. io direi che per pescare nel “basso” si debba andare anche un po’ più indietro del romanticismo: vi ricordate di Bachtin?
    E poi non capisco una cosa: significherebbe che oggi non si può più parlare di “popolare” o di contaminazione?
    Neanche la battuta su Einaudi capisco, perché buttata là così pare roba da loggia massonica… troppo sottile anche per me :)

  110. @simone

    “E poi non capisco una cosa: significherebbe che oggi non si può più parlare di “popolare” o di contaminazione?”

    Appunto, se ne parla e non da oggi… volevo solo affermare questo.

    @ manuel cohen

    effettivamente… hai ragione

  111. Un’altra cosa su cui mi ha dato modo di riflettere il momorandum, è che la mescolanza dei generi di per sé non è una novità, si può anzi dire che essa appartiene alla natura stessa del narrare. Ma esaurire le metamorfosi letterarie in una questione di generi, ci pone nella condizione rischiosa di ignorare il rapporto che ogni opera instaura con il suo fuori. Ciò non significa che la discussione sui generi sia inutile, ma che talvolta essa soppianta, in parte o del tutto, una riflessione sui modi della rappresentazione.
    E’ ovvio però che nel momento stesso in cui si chiama in causa il concetto di rappresentazione, ci si avventura in quel territorio liminare che sta tra il testo ed il mondo. Un territorio che oggi è piccolo e brutto e si chiama teoria letteraria.
    Per riagganciarmi a quanto scritto da WM1, è importante non ridurre i romanzi come Gomorra ad ‘un’ibridazione endo-letteraria’, oppure non sapremmo mai dare loro la dignità LETTERARIA che gli spetta.

    PS: Non ho conosciuto Garboli, ma sono convinto che non ci sia tributo migliore ad uno scrittore che cercare di stabilire un discorso sul “letterario”. I morti sono persone serie, mica come i vivi!

  112. di questo passo la critica ufficiale diventerà esattamente quella che sosterrà un libro avvalorando le idee dei suoi autori, legittimandole a tal punto da inficiare qualsiasi posizione contraria…aveva proprio ragione la nonna di Proust: “quelli vogliono staccare i quadri dai musei solo per metterci i propri” (più o meno)…

  113. Di questo passo la critica ufficiale sarà esattamente quella che sosterrà un libro avvalorando le tesi dei suoi autori, legittimandole a tal punto da inficiare qualsiasi posizione contraria…aveva ragione, in fondo, la nonna di Proust: “Questi vogliono staccare i quadri dai musei solo per metterci i propri” (più o meno)…

  114. @lezama: la critica ufficiale è già oltre. E’ quella che pubblicizza gli amici degli amici, sempre più spesso soprattutto nel nostro paese (e non vale solo per i libri). La cosa grave è che non ce li ha neanche più i quadri da attaccare al posto degli altri, ma soltanto riproduzioni in poster al massimo. Questo poi non mi pare proprio un caso esemplare, visto che ancora devo leggere una critica che non dia addosso a Wu Ming. Inoltre, non mi stancherò mai di ripeterlo: ARGOMENTATE LE CRITICHE ANZICHE’ DARE ADDOSSO AD UN SOGGETTO. PARLIAMO DEI TESTI, DEL DISCORSO. Questo dovrebbe fare la critica… ma è più facile essere amici o nemici dei soggetti che non dei testi, perché quelli vanno letti, almeno fino a metà, se proprio non si ha voglia di arrivare alla fine…

  115. @lezama
    “di questo passo la critica ufficiale diventerà esattamente quella che sosterrà un libro avvalorando le idee dei suoi autori, legittimandole a tal punto da inficiare qualsiasi posizione contraria”

    Lezama, sono d’accordo con Simone. Con la tua osservazione esprimi un giudizio sommario e non argomentato. Cosa esattamente ti sembra che abbia fatto la critica letteraria negli ultimi decenni a parte avvalorare le tesi di autori preselezionati in base a criteri che con la qualià letteraria avevano poco a che fare?
    Mi faresti per cortesia un esempio di critica letteraria esercitata su testi contemporanei che sia stata completamente disinteressata e distaccata da logiche di appartenenza? Se hai dei buoni esempi da portare te ne sarò grata.

  116. @ claudia e simone

    la critica ufficiale è quella che vorrebbe wu ming, una proiezione per il futuro, una speranza. Se poi non pensate che quella di Trevi sia una critica meditata e ragionata (e vale anche come esempio di critica disinteressata) vuol dire che la consorteria degli amici e dei nemici ha davvero vinto, ma non nel modo che pensate voi

  117. @ Wu Ming e Biondillo

    scusandomi per il duplice commento, cercherò di essere più preciso. Superati i 150 post diventa difficile rivolgersi a tutti quelli che hanno partecipato alla discussione, ragion per cui taglierò grossolanamente la materia in due e mi riferirò, perché se ne facciano poi le relative ascrizioni all’una o all’atra parte, ai primi diretti interessati, i Wu Ming: latori di una transmedialità che si riflette in un lessico teorico improbabile, siete rimasti toccati da uno dei pochi interventi che vi abbiano riguardato – e considerato -“seriamente”; che gli effetti di questa lettura abbiano poi ridotto la portata delle vostre teorie, non credo sia cosa di cui possiate lamentarvi adducendo di non essere stati presi sul serio (lo so , semplifico, ma la vostra posizione è chiara, l’avete ampiamente diffusa in questa discussione e non ho affatto intenzione di falsarla); introiettare le critiche nel prorpio discorso – e con ciò depotenziarle – è solo un modo, l’ennesimo di agire in regime di falsa coscienza e propagandare nient’altro che la versione contemporanea del contenutismo, o neocontenutismo. Insomma, un passo indietro rispetto al ventesimo secolo e una forma di conservatorismo.
    questo, in linea generale. Nel particolare, se Biondillo ritiene che alcuni critici (Cortellessa, Trevi etc.) siano contro il romanzo, non credo debba affermare altro per dimostrare quanto claustrofobica sia la sua prospettiva romanzesca, forse non all’altezza degli interlocutori che si cerca e chiama in causa….

  118. @ Lezama:
    Tu scrivi riguardo a Wu Ming “introiettare le critiche nel prorpio discorso – e con ciò depotenziarle – è solo un modo, l’ennesimo di agire in regime di falsa coscienza e propagandare nient’altro che la versione contemporanea del contenutismo, o neocontenutismo. Insomma, un passo indietro rispetto al ventesimo secolo e una forma di conservatorismo”.

    Ecco, io mi chiedo, ma a cosa serve tutto questo adornismo? A chi giova? Qual’è la critica letteraria che vorresti? Quella che dice che l’industria culturale è una merda? Quella che sostiene che la lingua italiana va preservata dalle infiltrazioni dell’inglese?

    Lo scorso anno sono andato ad una serie di giornate di studio sulla critica tematica. Presenti c’eano Luperini, Ceserani, Prete e molti altri nomi della migliore critica letteraria. Ad un certo punto la discussione si è avvitata su questa discussione: “naso è una figura tematica oppure no?”.

    Quindi io non so se Wu Ming 1 ha detto la verità, se si muove solo per fama e soldi o se la sua mamma lo ha educato male. Non mi interessa. Ha lavorato sui testi, proponendone una certa lettura, e non c’è che un modo per smentirlo: opporre una lettura alternativa, un conflitto delle interpretazioni.
    Dire” sei un conservatore con la falsa coscienza nel taschino del gilé non basta”.

  119. Lezama,
    guarda che non sono io ad aver detto < da anni sto cercando di scrivere un libro intitolato “contro il romanzo” >, ma Trevi stesso! E proprio in questo post. E’ Trevi che dice d’essere contro il romanzo, mica gliel’ho messa in bocca io quella frase. E con Andrea (Cortellessa) di antiromanzo ne abbiamo parlato per un giorno intero a Cuneo, due anni fa.
    Io qui, invece, ho detto che non credo nella centralità obbligatoria del romanzo, che “La letteratura si fa in molte forme, lo dico da sempre: con la poesia, con la memorialistica, col teatro, col racconto, etc.”.
    Non capisco la tua polemica nei miei confronti.
    Amo i romanzi, amo le storie, le grandi narrazioni, ma per me il romanzo può comunque morire domattina, ti assicuro che io avrò altro a cui pensare. E da leggere. la letteratura saprà, in qualche modo, risarcirmi sicuramente.

  120. @ biondillo
    il motivo della polemica lo sottoilinei tu stesso, ed è, insomma, l’approssimazione. Tanto per capirci, antiromanzo non ha niente a che vedere con contro-romanzo (e qui, lo ammetto, l’approssimazione non è tanto tua, che parli idi antiromanzo, è vero); ma non vedo comunque come possa dire che un anti-romanzista sia irritato dalla presenza di un poliziotto (come molti protagonisti di durrenmatt), a meno di non pretendere che io mi fidi sulla parola (il che sarei anche disposto a fare)
    @ dimitri
    l’adornismo serve perché un’ottima disciplina logica, giova a chi è in grado di praticarla ed è utile alla critica che vorrei; l’industria culturale è un’industria e la lingua italiana va preservata (preservata, bada bene, non conservata); wu ming ha lavorato su ALCUNI testi (per mio conto si tratta del mainstream, cioè della convenzione) proponendo una CERTA lettura, ed è di questo che si discute; quanto alle letture alternative, se si hanno le orecchie dritte e u po’ di fiuto, ti assicuro che c’è in giro chi ne presenta e, soprattutto e cosa più importante, chi fornisce strumenti perché ce le facciamo da soli queste alternative, ed è l’invito che rivolgo a te.
    sul se sia sufficiente dire frasi tipo quella con chiudi te (il taschino del gilè è una tua licenza) ho gia scritto molto sopra che se si fanno teorie con gli slogan non ci si deve stupire se si ricevono delle battute in riposta

  121. @Lezama:
    “la critica ufficiale è quella che vorrebbe wu ming, una proiezione per il futuro, una speranza”.

    Spero che tu stia scherzando, Lezama, perché è davvero sufficiente leggere una rassegna delle recensioni al memorandum per farsi un’idea della posizione della “critica ufficiale”. Ma forse non ci si intende sulle definizioni. Casa intendi tu esattamente per “critica ufficiale”? Carmilla? Permettimi di essere scettica.

    “Se poi non pensate che quella di Trevi sia una critica meditata e ragionata (e vale anche come esempio di critica disinteressata) vuol dire che la consorteria degli amici e dei nemici ha davvero vinto, ma non nel modo che pensate voi”.
    Nessuno credo abbia mai sostenuto che la critica di Trevi non sia stata meditata e ragionata, ma non nel modo che pensi tu. Gli argomenti, è vero, sono presenti, e presto leggeremo una risposta argomentata. Tuttavia, a volte conta più il registro dei contenuti, e purtroppo esistono critiche meditate e ragionate che esprimono fastidio attraverso una scelta di lessico intesa a produrre esattamente quello. Siccome stiamo parlando di libri, sarebbe utile che il fastidio o motivazioni altre rispetto al valore di un libro non interferissero con una lettura serena.

  122. Lezama:
    “la critica ufficiale è quella che vorrebbe wu ming, una proiezione per il futuro, una speranza”.
    ripenso a questa frase così ambigua, e credo che quella virogla abbia più peso di quanto gliene abbia attribuito a una prima lettura. Cioè, stai dicendo che Wu Ming vorrebbe una critica ufficiale che fosse anche una speranza per il futuro? Bhe, penso che questo sia auspicio di molti e non solo di Wu Ming.

  123. @lezama:
    io non penso che la tua lettura e quella proposta da Dimitri debbano per forza rivelarsi conflittuali. Anch’io leggo un sacco di scrittori che nessuno si fila, ma questo non m’impedisce di sentire il bisogno di riflettere su quei testi che circolano più ampiamente (che per te, mi pare di capire, sarebbe sinonimo di convenzione), poiché, che ci piaccia o no, sono quelli il cui discorso va oltre la letteratura. Forse sarà per via dei miei studi in campo cinematografico (che i “letterati” ancora faticano a considerare un’arte) ma ho imparato a non chiudere gli occhi davanti a ciò che mi viene dipinto come “commerciale” (e stabiliamo in base a cosa). Con ciò intendo dire che sono problemi che si muovono su piani diversi, e a me interessano entrambi. M’interessa darmi da fare per scovare quelle cose (libri, film o dischi) che non hanno lo spazio che meriterebbero, e al tempo stesso affrontare quei testi che nell’industria culturale ci sono immersi fino al collo, e capire che tipo di discorsi veicolano all’interno di quel sistema (e questo non significa automaticamente che non siano lavori interessanti, anzi).

  124. @lezama: tu scrivi “wu ming ha lavorato su ALCUNI testi (per mio conto si tratta del mainstream, cioè della convenzione)”

    Cercherò di dimostrare, in modo non polemico e PARTENDO DAI TESTI, che in
    quelli che WM1 definisce “oggetti narrativi” (Asce di Guerra, Gomorra, Dies Irae e Sappiano le mie Parole di Sangue) sono proprio le convenzionali strutture retoriche a saltare. Una cosa che, a ben vedere, può aiutarci anche a determinare cosa intendiamo quando diciamo “realismo”.
    Quando parliamo di realismo di solito ci riferiamo ad una costruzione stilistica che risponde a determinati codici compositivi; codici capaci di produrre sia i messaggi che i modi della loro comprensione. Da questo punto di vista il realismo è quindi il risultato di un effetto psicologico, stilistico e retorico legato più ai modi di codificazione del reale sul piano della scrittura, che non alla realtà di quanto viene descritto.
    Gli eventi narrati in Gomorra di Roberto Saviano, per esempio, non sono più reali di quelli narrati in Sandokan. Una storia di Camorra di Nanni Balestrini, sono solo descritti più realisticamente. La differenza è che mentre Saviano simula una presa diretta sul reale, sia attraverso la messa in campo del proprio simulacro testuale che ricorrendo all’uso della paratassi, Balestrini lascia emergere il proprio lavoro linguistico, affidandosi a dei flussi discorsivi privi di qualsiasi segno di interpunzione. Da questo punto di vista il realismo ci appare quindi come una dominante retorica, come un puro fatto testuale interamente trattenuto nei limiti del testo e dei suoi codici.
    Ma negli “oggetti narrativi” possiamo individuare anche un altro tipo di realismo, una forma di retorica che agisce ad un livello più profondo del discorso e precede la resa stilistica. Quel che accade è che eventi ed esistenti si prolungano in un loro doppio letterario che favorisce lo scivolamento del reale nella sua ricostruzione testuale. E’ piuttosto evidente che l’uso dei documenti storici che fanno questi romanzi è il primo supporto, sia materiale che simbolico, della loro capacità di installarsi nel reale reale. E lo è a partire da un dato immediato: l’estrema vicinanza tra la denotazione ed i modi della rappresentazione. Ma la capacità di denotare in modo verosimile un oggetto, abbia esso la forma di un documento o di un evento, è solo il punto di partenza di una serie di operazioni semantiche attraverso cui elaborare la densità di significati del mondo storico.
    Io chiamo questa retorica del profondo ‘testualizzazione del reale’, che è un concetto del tutto diverso da quello di realismo, perché non si esaurisce all’interno dei canoni della composizione realistica e della scrittura mimetica.
    Con questo termine possiamo indicare la capacità di un testo di esporre e costruire il reale, un reale inteso come spazio socio-culturale rappresentabile e comunicabile, nella misura consentita e stabilita da una determinata cultura.
    Da questo punto di vista la ‘testualizzazione del reale’ è propria di qualsiasi ordine di testualità, letteraria o cinematografica che sia, nel senso che la realtà si presenta nei testi attraverso una serie di riferimenti ad un universo esterno al testo, ma che ‘garantisce’ per il testo stesso.
    Non abbiamo bisogno che Gomorra garantisca per i documenti giudiziari che usa, o Asce di Guerra per le guerre d’Indocina che narra perché non è là che potremmo o vorremmo verificare la realtà di questo mondo storico. Ed è proprio per il continuo rinvio ad un mondo extratestuale e presuntivamente noto al pubblico, che spesso questi romanzi appaiono di difficile lettura. Ciò che viene chiesto al lettore è infatti di completare il percorso cognitivo suggerito all’interno del testo, mediando ininterrottamente tra piano narrativo e campo del reale.
    Una precisazione. Quando dico extratestualità, campo del reale o addirittura reale, non sto indicando un universo di riferimento materiale, esterno cioè al linguaggio ed alla testualità in generale, quanto quella dimensione culturale che è implicata nel linguaggio e che si determina solo in relazione ad una determinata comunità in una determinata epoca storica. In altre parole ciò che definiamo campo del reale non è che l’insieme delle possibilità costruttive del linguaggio all’interno dei nostri codici culturali. Se il realismo è un fatto di scrittura, sottolinea Grande, la ‘testualizzazione del reale’ è un fatto di cultura, e proprio in quanto tale è un campo dai confini mobili, perché soggetto a mutamenti storici, sociali e tecno-scientifici. Faccio un esempio: nel momento in cui Internet e telefoni cellulari iniziano a produrre documenti, il campo del reale muta la propria forma, anche se non necessariamente si allarga.
    A caratterizzare queste opere sono le modalità operative attraverso cui avviene la testualizzazione di eventi ed esistenti. Se da una parte una porzione di realtà viene catturata all’interno del testo, dall’altra essa viene restituita all’universo culturale con un sovraccarico di senso.

    Ti ringrazio dunque quando mi inviti a costruire degli strumenti analitici e non adagiarmi sul memorandum. Come vedi ci sto lavorando. Anzi, se davvero ti interessa il confronto sui testi e non sull’idea di letteratura (adorniana, lukacciana, luperiniana, carmilliana o quant’altro), ti invito ad ascoltare alcuni mp3 di una relazione che ho tenuto qualche tempo fa su Gomorra ed a criticarmi su quelli.

    http://associazionelevel5.wordpress.com/2008/11/20/dimitri-chimenti-testualizzazione-del-reale-e-figure-narrative-in-gomorra-di-roberto-saviano/

    Ora ti rimando la palla. Smettiamola con le parole d’ordine, anche se in risposta ad altre parole d’ordine. O torniamo a lavorare sui testi oppure alla critica letteraria non resta che dichiarare forfait.

  125. Quindi, Lezama, prima dici che sono approssimativo, poi la riga sotto dici che non lo sono. Che ti devo dire? Fai tutto tu! ;-)

  126. @ claudia: perché, se uno degli effetti del valore di un libro è il fastidio non si potrà esprimerlo? Varrebbe anche, in quanto “morivazione altra”, pure per la gioia o il piacere, eppure l’anedotto è noto: “Che sta fecendo, maestro, sta lavorando? – No, godendo, sto godendo”

    @ simone
    perché, se non mi interessassi anche di testi correntemente circolanti, parteciperei a questa discussione? p.s. conoscono pochi “leterati” che non considerino il cinema un’arte

    @ dimitri
    se hai trovato utile il mio invito, non posso che esserne contento. Non posso risponderti diffusamente sulla questione del realismo, perché già l’ho fatto pubblicamente in più di un’occasione col nome che tradirei se riusassi quei concetti (ma poi lezama, che ha un caratteraccio, se ne avrebbe a male, si sentirebbe a sua volta tradito). Posso solo dirti, in alternativa al tuo discorso, che la mia posizione sul Reale muove dalla linea Bataille-Lacan-Leiris (spero possa esserti utile a prevedere almeno le traiettorie della mia concezione – perché solo tali possono essere le notre, non “oggettivate” – del Reale). Così per essere chiaro, siccome possiamo agire su qualsiasi campo vogliamo, ma sempre di letteratura stiamo parlando, le parole hanno un peso e non mi piace la terminologia di “oggetti narrativi”, mi sembra mostri i limiti della concezione romanzesca di chi vi faccia ricorso; “oggetto narrativo” sarebbe un libro per il solo fatto che esorbiti da registri formali? Così dovremmo definire il sempre citato – a ragione – Tristram? Vabbe’, è questione di gusti, lo so, non dirimente. Ripeto, negli “oggetti narrativi” che citi – con l’eccezione, per me di Babsi Jones – non vedo che una nuova forma, ugualmente sclerotizzata, di contenutismo; che poi le fogge siano contemporanee, ritagliate sul reale o in aperta dialettica col campo del reale – così lo chiami, giusto? – questo, a mio avviso, non inficia il senso che vi attriubuisco, che è quello di una letteratura che non ha altro strumento per “forzare” quell’Impossibile che è il Reale (ecco Lacan) che adagiarsi sul “fatto” (sia storico, documentale o – questo l’aspetto innovativo degli “oggetti nrrativi” cui, richiamando Wu Ming, fai riferimento – o ipotetico),. Insomma, come dici tu la forma del reale muta ma, in questi libri, in questi romanzi, non cambia la sostanza dell’approccio al reale.

  127. @ dimitri
    en passant, ti ringrazio per aver reimmesso nel discorso il nome di Maurizio. Si meriterebbe questo, e di più. Quello, in linea di massima, che io rimprovero ai testi che citi, è proprio la serialità praticata nella testualizzazione del reale, che in questo modo perde progressivamente significatività, nonché la codificazione del modello, che quella testualizzazione tradisce. O si opera nei codici per rimandare a quanto tra le norme è solo alluso (sì, insomma, il Libro Segreto), o si scompaginano. E’ per questo che non mi sento di accostare l’opera di Babsi alle altre che citi – e, si badi, nonostante sia nata in limine ad alcune di quelli, o comunque in consonanza con le idee di alcuni loro autori, in specie di Genna.

  128. @ biondillo
    certo, ci metto del mio (chi potrebbe farlo, altrimenti???), ma non troppo: Per dire: trovo nella ossessione antiromanzesca di molti critici che io leggo sempre con sincera attenzione (e loro lo sanno: si chiamano Belpoliti, Cortellessa, Trevi, …) la stessa ossessione dei romanzisti ad oltranza. In fondo non ho mai conosciuto nessuno ossessionato dalle trame come chi odia i romanzi (e nello specifico quelli di genere). Io quando leggo Chandler mi interessa la sua lingua, il mondo che mi trasmette, delle sue trame non me ne frega una cippa (e non me ne ricordo una che sia una!). Mentre ad un “antiromanzista” solo l’idea che ci sia un poliziotto o un serialkiller in un libro gli vieta immantinente addirittura di aprirlo!
    l’approssimazione per me resta – e, ora che rileggo, anche una certa pretestuosità nel tirare ancora fuori le trame.

  129. @lezama: bene, questo è il modello di discussione che preferisco. Confrontiamoci sui romanzi e lasciamo perdere l’essere favorevoli o contrari al memorandum di WM1.
    Tu sostieni che gli “oggetti narrativi” – con l’eccezione di SLMPDS – siano di un contenutosmo volgare. Con questo forse intendi che sanno “cosa” dire, ma non sanno “come” farlo. Io penso invece che materia narrata e meccanismo narrativo divengano indistinguibili. Cerco di dimostrarlo attraverso l’analisi testuale di una sequenza di Dies Irae.
    Come negli altri romanzi, anche in questo è innanzitutto il simulacro testuale dell’autore ad innestarsi su eventi ed esistenti rappresentati. L’unico personaggio alla cui voce sia affidata la narrazione è, infatti, Giuseppe Genna. Le capacità motorie e cognitive del personaggio sono però affette da una forma di aprassia che lo costringe ad un peregrinaggio senza meta: le sue visioni si fanno allucinatorie e Milano diviene uno spazio inabitabile ed inagibile, le cui forme architettoniche sembrano concepite appositamente per opprimere l’individuo. Tuttavia si tratta di un effetto di distorsione che non risulta mai derealizzante, perché ciò che la visione allucinatoria ci rivela è l’aspetto estraneo, ma reale, dell’assolutamente familiare. Questo è ciò che accade quando la narrazione si concentra su eventi ed esistenti che possiedono un valore iconico immediatamente riconoscibile dal lettore. Ma poiché il bersaglio è, quasi sempre, un’iconicità costruita per via mediatica, ciò a cui assistiamo è un rovesciamento dell’esperienza percettiva fondata sul modello televisivo.

    “Sul piccolo palco, riprese, sono due donne, scatenate, ululano come menadi ed impartiscono ordini nel nulla come gorgoni, se ignorassi le tre telecamere a cui si rivolgono sarebbe una rappresentazione dinamica lettrista.

    Invece è reale, pesantemente reale. Sono sotto curatore fallimentare, le due donne, e fanno finta di non accorgersi della sua cerea presenza nella penombra dietro le telecamere e urlano di comprare, comprare, comprare.
    Sono madre e figlia.
    Tutto questo lo sto vedendo davvero, lo sto vivendo davvero, e sono l’uomo più disperato del mondo.

    Sono Wanna Marchi e sua figlia Stefania e qui c’è da ripagare una bancarotta. Sono costrette a vendere le merci in giacenza per pagare i creditori.”

    In questa breve sequenza sono riconoscibili tre passaggi: nel primo Giuseppe proietta il proprio immaginario sulla scena – “menadi”, “gorgoni”, “rappresentazione dinamica lettrista” – distorcendone la percezione, nel secondo c’è invece un riaggancio alla realtà della visione ed alla posizione testimoniale del personaggio – “Invece è reale, pesantemente reale”, “Tutto questo lo sto vedendo davvero, lo sto vivendo davvero”- mentre il terzo raggiunge e nomina l’esistente – “Sono Wanna Marchi e sua figlia Stefania” – saldando i tre livelli di significato.
    A ben vedere la visione allucinatoria impedisce un riconoscimento dell’oggetto che parta dalla sua iconicità precostituita. Il lettore è costretto ad allungare il proprio percorso cognitivo, perché la descrizione parte dalla “cosa” per giungere alla sua immagine mediatizzata, ma quando arriva all’icona la colpisce e la scheggia, ne deturpa la struttura simbolica e la rende al contempo grottesca e spaventosa.
    Da questo angolo prospettico si può dire che l’autore arrivi a concepire, sul piano della scrittura, un procedimento analogo a quello sperimentato da David Lynch in campo cinematografico: l’immagine reale e quella virtuale raggiungono un livello di interscambiabilità e si contagiano a vicenda. Quest’ultimo accostamento ci offre, a ben vedere, l’occasione per chiarire un equivoco oggi molto diffuso. La scrittura di Giuseppe Genna, così come la cinematografia di Lynch, viene spesso definita visionaria o allucinatoria. Si tratta di termini accettabili solo a patto che ci si intenda, preliminarmente, sul loro significato e le conseguenze che vogliamo trarre dal loro uso. Definire Dies Irae un romanzo visionario, non deve farci perdere di vista il rinnovamento del concetto di realismo che quest’opera, assieme ad altre, porta avanti.
    Nella sequenza appena richiamata a prendere il centro della rappresentazione è ciò che, in termini cinematografici, chiameremmo fuoricampo. Le telecamere, il curatore fallimentare e le merci in giacenza entrano nel nostro campo percettivo grazie allo sguardo ponte di Giuseppe. Così come avviene con la voce narrante eterodiegetica quando viene descritta la caduta del Muro di Berlino, anche in questo caso la narrazione, omodiegetica, si colloca nello spazio interstiziale che sta tra l’evento e la sua rappresentazione. Ma la distorsione divarica questo spazio, apre l’immagine da tutti i lati del quadro e ne libera la polisemia: il risultato è una visione aberrante della cui realtà, però, non abbiamo alcun dubbio. Se l’effetto allucinatorio non risulta irrealistico è perché, pur divenendo indistinguibili l’oggetto e le sue moltiplicazioni, vediamo a cosa veramente assomigli il mondo in cui viviamo. Riprendendo un concetto freudiano, limitatamente però alle sue implicazioni estetiche, si potrebbe dire che questa tipologia di rappresentazione ha un carattere ‘perturbante’.

    Ecco secondo me è difficile definire Dies Irae un romanzo “contenutistico”.

  130. Lezama, m’è venuta in mente una cosa che scrissi ormai 3 anni fa: tutta questa “Mi sembra la triste polemica solariana fra contenutisti e calligrafi. (Esistono polemiche fondamentali, diceva Gadda, e polemiche eleganti. Quella su Solaria era, per l’ingegnere, elegantissima. E, inter nos, lui facilmente catalogabile fra i calligrafi non disdegnava difendere le ragioni dei contenutisti… proprio perché in sé la contrapposizione è bizantina e infruttuosa).”

    L’estratto l’ho preso da qui:
    https://www.nazioneindiana.com/2006/03/02/chiose-di-tutti-i-giorni/

    che è la ripresa di un pezzo mio precedente, questo:
    https://www.nazioneindiana.com/2006/02/22/una-lingua-che-dice/

  131. @ biondillo
    vedo che ci intendiamo, la tristezza polemica – o per polemica elegante – è la stessa che ho provato quando ho letto le reazioni al pezzo di trevi (ce l’ho talmente presente – forse è una mia fissazione – che ho più volte, mi pare, usato il termine di neocontenutismo). Grazie

  132. @ dimitri
    va tutto bene ma, ripeto, il contenutismo (che non mi pare di definire volgare; per quanto mi riguarda è solo poco interessante e, alle volte, corruttivo) è una questione di metodo, di approccio, non di strumenti. Se imputo ad un romanzo il “realismo”, è chiaro che lo faccio comprendendo nell’equazione il fattore “realtà contemporanea”

  133. @lezama: scrivi “il contenutismo è una questione di metodo, di approccio, non di strumenti”.
    Lo dico senza nessun spirito polemico, ma non capisco cosa vuol dire. Mi interessa il tuo punto di vista, potresti spiegarmi un po’ meglio, magari con un esempio sul testo?
    Ed in realtà ho capito poco anche “Se imputo ad un romanzo il “realismo”, è chiaro che lo faccio comprendendo nell’equazione il fattore *realtà contemporanea* ”
    Il realismo, pare a me, che sia un codice stilistico che precinde dalla realtà extratestuale.

  134. Già che ci siamo, Lezama, che ne pensi di queste parole dette da uno degli autori più “letterari”, “alti”, fanatico cesellatore della lingua inglese, in odore di Nobel, forse oggi il più importante (e invenduto) scrittore irlandese, John Banville?

    “Una delle cose peggiori che ha prodotto il modernismo novecentesco è il fatto che la trama, così come la rappresentazione nelle arti pittoriche, o l’armonia nella musica, fossero intese come borghesi, da ceto medio, quindi da disprezzare. Il modernismo, che ha comunque prodotto dei capolavori, in questo senso è stato un movimento deleterio, perché ora noi dobbiamo rendere di nuovo “rispettabile” quelle cose che un certo Novecento disprezzava, dobbiamo restituire alla trama la dignità che le è stata sottratta.”

    Trovi l’intervista qui:
    https://www.nazioneindiana.com/2008/11/05/parlando-di-scrittura-con-john-banville/

  135. @ dimitri.
    Infatti, per questo non è che un fattore di un’equazione complessa
    Quanto all’esempio testuale, premesso che la critica di questo tipo è più un ordine interpretativo che un vaglio qualitativo (e meno fallace, probabilmente, di quest’ultimo, perché meno azzardosa), valga come tale il Testo in sé, chiaramente letto anche con strumenti altri (siano quelli della critica sentimentale o tematica, non importa, fai te). L’analisi testuale – o fenomenologica – è la stessa che fa di Mike Bongiiorno un esempio, a sua volta, sicuro. Ma di cosa?

  136. @ biondillo
    di Banville mi sono occupato e ti ringrazio dell’omaggio (forse involontario) e penso che, per quello che conta, non sono d’accordo. Se poi per modernismo B. non si rivolge ad u concetto quasi astratto dalle sue manifestazioni (come si è dovuto fare per conferirgli senso, col manierismo e col barocco), ridurre a questo i testi che passano come tali (da Joyce a Pound etc.) è alquanto riduttivo, un modo per scrollarsi dalle spalle il loro peso relegandoli in una distanza storico-artistica che vorrebbe ridurne la portata. La trama non è né degna né indegna, è un elemento, i migliori dei quali ad usarlo sono stati, mi sembra, James e Borges. Insomma, quando non sottoposta a una torsione, diventa davvero irrilevante (non in senso poetico) ma questo vale per tutti gli altri elementi (la lingua, la sintassi, la visionarietà, l’immaginario, la realtà oggettiva etc. che contribuiscono all’unica cosa determinante: lo stile, ovvero la morale di un testo)

  137. Molto interessante il tuo ultimo commento (che condivido in parte). Purtroppo devo uscire per un appuntamento. Mi farebbe piacere che tu leggessi (se hai tempo) i link che ti ho lasciato nei commenti precedenti. Ne riparliamo.
    ciao, G.

  138. A scanso di equivoci, nella fiera del dileggio e del coquettismo: il memorandum NIE e’ un testo interessante che sta man mano assumendo forma meno romboidale, da 1.0 a 2.0 fino a 3.0 buon ultimo, che spero di leggere presto: mi pare sia ora piu’ equilibrato rispetto al realismo italiano, che resta per me l’ipotesi-ombra alla base del tutto.

    Se lo si depura dalle istanze comunarde e dai botti da sagra della salsiccia, questo memorandum NIE e’ un apprezzabile tentativo; che venga adesso conteso fra giovani accademici e scaffalistiche strapaesane, e’ parte del personaggio pubblico wu ming che mi ha sempre divertito, ma che aggiunge poco e niente al succo del discorso.

    Dileggiare Rondolino e’ facile, ma non e’ questo il punto. Il punto e’ (o forse era) la “dimenticanza” di una tradizione tutta italiana di romanzi, oggetti narrativi e quant’altro scatolame che risale almeno a Manzoni-Verga-Svevo & Vittorini-Alvaro-Moravia-Calvino, con nel mezzo scapigliati, futuristi e neorealisti. La critica principale che tanti muovono e’ che i nuovi bastioni 1993-2008, confrontati agli illustri predecessori, valgano letterariamente poco.

    Ci sta che fra dieci anni questo NIE sara’ ricordato come altri aggregati simili negli intenti (fra gli ultimi: gruppo ’63, parola innamorata, cannibali), cioe’ come un punto di vista che ha creato una singolarita’ nel discorso letterario. Sara’ da vedere se tale singolarita’, al netto del volar di piume, lascera’ testi memorabili, che e’ poi cio’ che interessa i lettori. Il Pagliarani dal gruppo ’63 e’ stato un grande esito, per dirne uno… altri non ne ricordo.

  139. @ GiusCo
    Arbasino, Giuliani, Ripellino, Filippini (e gli eccentrici, ma conniventi, Manganelli, Villa, Lombardi etc…)

  140. @lezama:
    per “letterati” che snobbano il cinema intentdevo soprattutto gli accademici, per fortuna sempre meno, ma ci sono ancora. L’esempio della proficuità di “sguardi obliqui” è data proprio da Dimitri, che usa gli studi di Grande per esplorare un altro campo. Mi sembra ottima cosa ripartire dagli strumenti, e la piega presa dalla discussione ne è un esempio.

  141. @ simone
    grazie a dio, su Grande ci incontriamo tutti
    per la cronaca, pur essendo io un critico non accademico (nel senso che l’academia, cioè l’università, l’ho frequentata per laurearmi in tutt’altra disciplina rispetto a quella letteraria), conosco molti critici accademici (letteralemente “che appatrtengono all’accademia”, sempre che sia questo a qualificarli come tali) che sono anche militanti e ritengono il cinema un’arte.

  142. @lezama: E’ mia opinione che ciò che differenzia il lettore comune dal critico letterario non sia uno statuto ontologico o sociale, ma la quantità di lavoro che viene spesa sui testi di cui si vuol parlare. Certo, poi si tratta di passare all’interpretazione, che è sempre discutibile, ma solo dopo aver individuato le linee compositive che sorreggono il testo. Il rischio, altrimenti, è che si perda l’oggetto del ragionamento. Talvolta si leggono critiche che potrebbero benissimo essere riferite a qualsiasi cosa, a un film, ad un libro come ad una performance teatrale.
    Quel che intravedo anche nel tuo approccio alla questione, e magari mi sbaglio, è l’anteporre un’idea di letteratura alle opere letterarie. E’ questa, secondo me, la vera crisi della critica, soprattutto di quella accademica : riesce solo a produrre modelli dentro i quali le opere dovrebbero incastrarsi. Il pericolo è di convincersi che il critico debba svolgere una funzione “prescrittiva”, anziché “descrittiva”. Il grande pregio del memorandum di WM1 consiste proprio in questo tentativo tassonomico. Non importa che sia quello giusto, ma che ci spinga ad interrogare il ruolo della critica letteraria.
    Non ho capito il riferimento a Mike Bongiorno.

    @GiusCo: quando riguardo al memorandum scrivi “mi pare sia ora piu’ equilibrato rispetto al realismo italiano, che resta per me l’ipotesi-ombra alla base del tutto.” Credo che tu abbia ragione al 100%.
    Trovo in parte giusta anche la riflessione che fai su certi “oggetti narrativi” del passato. E’ mia opinione, però, che la differenza tra questi non sia rintracciabile in un presunto valore letterario, quanto nei codici compositivi adottati.
    In tutti, o quasi, gli autori che citi (e qui sarò wuminghiano, ma un riferimento ad opere specifiche sarebbe stato di maggior aiuto) l’aderenza all’extratesto svolge una funzione deittica capace di ricostruire una datità semantica, od un continuum storico, su cui far attecchire la produzione di senso specifica del testo. Penso, per esempio, ad un libro come Cristo si è fermato a Eboli.
    Nel caso degli oggetti narrativi presi in considerazione nel memorandum è invece a partire da questo “habitat semantico primario” che l’innestarsi della narrazione su eventi ed esistenti può funzionare anche come “operatore di discontinuità” rispetto all’orizzonte storico presupposto dal testo. Se pensiamo nuovamente a Dies Irae ci accorgiamo che l’innesco retorico sui tessuti discorsivi di cui si compone la narrazione (l’iconicità televisiva, il discorso politico e quello giornalistico, l’autobiografismo etc) organizza un continuum solo apparente, che viene squarciato e reso discontinuo dai codici espressivi adottati dal romanzo (la matrice manzoniana, la posizionalità della voce narrante, le allegorizzazioni fantascientifiche).
    Tutto questo mi pare, se non nuovo, almeno da indagare ex novo.

  143. Leggere gli ultimi commenti, così ricchi di suggestioni e riferimenti, mi ha fatto tornare alla memoria un ricordo personale sull’impossibilità di comprendersi…

    Erano strani giorni http://www.youtube.com/watch?v=5yaXPx6xWEQ

    In libreria uscivano insieme “SLMPDS” di Babsi Jones e “Shock economy” di Naomi Klein http://www.naomiklein.org/shock-doctrine/reviews/highlights Quest’ultimo, testo che considero eccezionale per analisi e contenuti, in quel momento, prese il sopravvento. Tra i vari retroscena svelati dalla Klein, viene descritto come mai l’aspartame http://it.wikipedia.org/wiki/Aspartame (ormai notoriamente cancerogeno) si trova ad esser stato approvato dalla Food and Drug administration http://www.fda.gov/ Mi mancavano gli ultimi capitoli quando, un’amica che non vedevo da tempo, a cui piace molto il cioccolato con le nocciole, mi telefona per annunciarmi in giornata, il suo arrivo in città. Abbandono il tomo arancione e lesto mi fiondo alla volta del negoziante prossimo mio, pieno di Lindt fino al soffitto (trovare prodotti Amadei http://www.amedei.com/jspamedei/index.jsp?lang=it purtroppo in quel momento era impossibile). Oltrepassata la soglia, mi aggiravo in perlustrazione stile Babsi Jones nel booktrailer, di SLMPDS http://libri.rizzoli.rcslibri.it/media/jones.mov , ormai giacente come sostegno del comodino b. Apparso il patron, più somigliante all’ipnorospo http://r33b.net/ che ad un sorridente figuro belga http://www.lindt.com/845/847.asp , chiedo una maxi tavoletta. Mi dice, – guardi, se le interessa abbiamo anche quelle senza zucchero – . – Cavolo – dico tra me e me, – mi faccia vedere – dico a lui. Ne tira fuori un po’, guardo cosa contengono, ovviamente c’è l’aspartame. Gli dico, – ma qui c’è l’aspartame -, lui mi guarda stranito, – è cancerogeno gli faccio, lo sa ? – Impettito mi risponde – credo che la Food and Drug administration abbia più a cuore di lei la salute delle persone. Cosa fare a quel punto ? Non potevo emulare Benicio del Toro in “Paura e Delirio a Las Vegas” http://www.youtube.com/watch?v=DahP4zpUljc causa mancanza di complice al mio fianco. Di lasciare senza cioccolata una donzella, non mi sembrava un’opportunità da prendere in considerazione, intavolare un dibattito sul libro di Naomi Klein, data ormai acquisita l’ostilità del commerciante mi sembrava impraticabile. Io e l’altro, due culture diverse, due impostazioni metodologiche differenti, se fossero apparsi Griaule, Mauss o Levi Strauss avrebbero potuto venirci incontro, dono scambio cerimonia. Lo ammetto, feci spallucce, afferrai Tarkovskijanamente la tavoletta normale alle nocciole, e andai via. Certo, complice la teobromina http://it.wikipedia.org/wiki/Teobromina ci fu un gran pomeriggio http://www.imdb.com/title/tt0273168/ ma questo, non cancellò l’amarezza di quel fallito tentativo d’impossibile…

  144. @ dimitri
    colui che risponde al nome anagrafico di lezama spende – e testimonia – la sua vita sui testi (mi spiace, non posso svelarti chi sia, ma devi fidarti), e si è fatto un’idea letteraria, proprio sui testi. Che poi si usi – anche sottoponendola alla prova di resistenza – questa idea di letteratura, è normale per un critico letterario – forse meno per un semiologo. Il rischio, pari a quello che si perda l’oggetto del ragionamento, è che si poissa interpretare qualsiasi cosa; esercizio del tutto legittimo, ma estraneo alla critica letteraria (in questo senso il tuo approccio è più da studioso che da critico). nell’ordine: quanto all’accademia, vedi quanto ho scritto poco sopra non ricordo a chi, credo a simone; sulla funzione descrittiva del critico, proprio Grande attaccava Raboni sconfessando l’utilità del critico in quanto descrittore. Il critico, soprattutto il militante, devo proporre gerarchie, offrire prospettive anche verticali; che faccia ciò non vuol dire che il suo giudizio sia insindacabile o non rivedibile, ma la scommessa che la funzione – o, preferisco, l’esercizio della prassi critica – comporta è questa. Ad altro soppersicono, appunto gli studiosi, che possono passare anni su un singolo testo ignorandone il contesto, cioè gli altri testi. la tassonomia di Wu Ming è esattamente llimitata perché determinata da un’idea di letteratura. il riferimento a Mike Bongionro è un esempio di analisi del testo svincolato dal valore artistico dello stesso, un esempio di critica semiologica appunto, non applicata alla letteratura (che, pur nella sua democrazia magica, èquestione di gerarchie).

  145. @ dimitri
    insomma, i testi cui ti riferisci (ho ascoltato anche il tuo intervento linkato) hanno alle spalle, in alcuni casi, un progetto, ma la loro analisi (semiologica, strutturalista, tematica) non impedisce che, all’esito, si respinga il progetto come tale. L’attnzione più disciplinata e rigorossa che si rpesta a un testo deve poi fare i conti, per lo specifico del testo che analizza – ovvero artistico, nel caso nostro – con qualità – mi rendo conto – più sfuggenti quali lo stile (nient’affatto sinonimo di bello stile) e il gusto (tutt’altro rispetto al buon gusto) che sono più o meno l’equivalente dell’orecchio in musica…

  146. @ dimitri
    chi si affidasse solo a questi talentacci (gusto e stile), ove li possedesse, commetterebbe lo stesso errore di chi si lasciasse prevaricare esclusivamente dall’analisi del testo

  147. @lenzama:
    si, la divisione tra “critico” e “studioso” può essere condivisibile, nel senso che il critico è autorizzato ad essere più “partigiano”, ma è pur vero che non sono due categorie a tenuta stagna. Molto spesso gli studiosi sono anche critici (per tornare al cinema penso ad esempio a tutta la tradizione francese dai cahiers in poi) o viceversa. Ancora una volta, più che sui soggetti (anche se in questo caso astratti: il critico e lo studioso) mi soffermerei sui discorsi che i due campi autorizzano e veicolano. Negli anni ’80, un po’ in antitesi a quanto affermi tu, Maurizio Grande parlò di “crisi della critica” poiché essa non aveva più il tempo di venire dopo l’opera (di analizzarlo dunque) ma era costretta a starle addosso, limitandosi ad essere discorso di propaganda o promozione.
    Una curiosità: quando parli di gusto ti riferisce alla definizione che ne dà Kant o a che cosa?

  148. @ simone
    quando affermo qualcosa sulla critica degli ani ottanta?
    per gusto, va benissimo Kant o la tradizione italica dell’idealismo, ma il parallelo con l’recchio musicale credo si a meno esatto ma più chiaro

  149. no, dicevo che non mi tornava il tuo riferimento a Grande sul ruolo del critico, perché lo trovavo un po’ in contraddizione con quanto afferma lui negli anni ’80 rispetto alla “crisi della critica”

  150. @ simone
    forse mi sono espresso male ma è perfettamente in linea con quanto Maurizio facava in quegli anni, ossia, di fronte alla crisi della critica, rispondere con una pratica propositiva, di fiancheggiamento e di ispirazione per le opere che un critico prima della crisi avrebbe, appunto, solo analizzato ex post. Maurizio è stato, in quegli anni, uno dei primi a rivendicare e ad assumersi la responsabilità (delle scelte, delle predilezioni e dei rifiuti) come valore intrinseco dell’atto critico

  151. @Lezama:
    ok, ma Grande faceva sia il critico che lo studioso, perciò direi che sulla sua esperienza ci possiamo trovare d’accordo. Per inciso faccio anch’io il critico (di cinema) eppure me ne occupo anche da studioso. Va da sé che quando devo scrivere da “critico” sono preso in un ordine del discorso molto diverso (per vari motivi, anche i pù banali eppure importanti, come la brevità dello spazio) da quello con cui ho a che fare nella forma saggio.
    Io mi fermo qua e ti ringrazio per la piacevole chiacchierata, perché mi pare che questo post abbia superato i limiti accettabili dai comuni lettori :)

  152. Maurizio Grande (che lo era davvero) rules! (è proprio uno slogan)

    @ simone critico di Sent. Selv. ?

  153. @Morganthal: no, non scrivo su Sentieri Selvaggi.

    p.s.: però, trovo più conoscitore di Maurizio Grande qua che all’Università!

  154. gli accademici sono pizzosi :)

    Basti pensare solo a tutto il lavoro fatto sul teatro di Carmelo Bene, e non

    solo quello ovviamente

  155. Oggi, quando si tratta di affrontare un testo o l’esperienza che abbiamo dei segni, i risultati sono di una clamorosa banalità. Le ambiguità, le contraddizioni interne, le rotture e elisioni dell’intenzionalità autoriale, le indeterminazioni polisemiche già osservate e persino decostruite da generazioni di lettori precedenti, vengono presentate con il lustro di scoperte nuove. La metacritica è sempre una critica, spesso di tipo patentemente discorsivo e persuasivo

  156. @ lezama. Sono pronto a crederti sulla parola. Ma dire che un critico letterario conosce la letteratura e quindi sa attribuire il giusto valore alle opere, significa enunciare un principio di autorità. Non posso accettare la tua, come non accetto quella di Luperini, di Ferroni o di Cortellessa. Si tratta di una forma di autolegittimazione squisitamente politica, molto simile a quella che solitamente si rivolge alla cosiddetta “antipolitica”. Credo anzi che sia proprio per il fatto che Wu Ming1 ha messo in difficoltà tale protocollo autolegittimante (ed automodellizzante) che la critica ufficiale sta cercando di farlo a pezzi.

    Per quanto riguarda gli incroci tra critica e semiologia, e non solo quella, mi pare che la storia sia piena di ottimi esempi: Gilles Deleuze, Maurizio Grande, Roland Barthes, Pier Paolo Pasolini, Julia
    Kristeva, Cristhian Metz, Marco Dinoi e…mi fermo qui.
    Per quanto riguarda la limitatezza delle idee wuminghiane, forse sarebbe prudente aspettare a storicizzare, ma questo da buon critico letterario lo sai già. Stessa cosa per quanto riguarda l’attribuzione di un valore estetico alle opere di cui andiamo parlando. Non lo decideremo adesso, e non è detto che tale riconoscimento avvenga in Italia.

    Per quanto riguarda il tuo secondo commento. Dobbiamo intenderci sulle parole che usiamo. Quando diciamo stile non parliamo dell’ineffabile, ma di una serie di codici (linguistici, retorici, e comunque rinvenibili nel testo) che si installano sulla lingua naturale. Il riferimento alla lingua manzoniana in Dies Irae è appunta una notazione sullo stile. Dei tagli verticali mi fido poco, prima voglio sapere se chi taglia almeno ha letto il libro.
    Parlare di stile o gusto in termini di orecchio musicale è suggestivo, ma dice pochino. Le cose o si possono spiegare, e dunque trasmettere e condividere, oppure siamo nell’orfismo, che, ne converrai, è cosa diversa dalla critica. Ti faccio un esempio: domani ho lezione all’università, devo spiegare a 20 studenti i concetto di “stile” e “gusto”. Secondo te sono onesto se dico loro che sono più o meno l’equivalente dell’orecchio in musica?
    Ecco io non dormirei tranquillo la notte, ma sono giovane…

    PS: grazie del semiologo, ma la semiologia la conosco poco.

  157. Avete presente le “costanti della fiaba” individuate da Propp? Bene. Ottimo e utile lavoro. Ma verificare la presenza di uno o più parametri fra quelli individuati da Wu Ming nei romanzi dei suoi collaboratori o amici (l’ucronia, il what if, il punto di vista inconsueto e le altre menate) a quali utili conclusioni può mai portare circa la qualità e l’importanza delle opere prodotte negli ultimi lustri?

  158. Curioso: Dimitri insegna all’università, però rifiuta il principio di autorità e in più scrive “qual’è”. E’ proprio vero, ognuno ha i fan che si merita.

  159. @ sergio
    ma l’apocope è ‘na brutta bestia, specie se usata in questa specie di chat. Ti invito ad essere più indulgente. C’iao

  160. @ dimitri
    brevemente, perché sono di passaggio – si NI e in questa vita, bien sur -, d’accordo su tutti i nomi che fai. La qualifica di semiologo, se te la danno prendila se te la meriti, come credo, e cerca di esserne all’altezza. Quanto al principio di autorità, è un principio della prassi critica; Ferroni e Cortellessa non ne abusano, se la sono guadagnata e ogni volta che intervengono come critici sono disposti a metterla in conto posta. Ci si legittima, non ci si autolegittima (anche se Freud parlava di autorizzarsi). Quanto a me: ho letto i libri, sì, forse non ho imparato niente come mallarmé, ma li ho letti. Un critico non attribuisce il giusto valore, fa delle scommesse sulla base delle sue argomentazioni e delle proprie idee; queste difende e queste mette in gioco. Quale sarà il risultato di domani, non può impedirci di rischiare oggi. Daei rischi che corrimao siamo chiamati a rispondere, non di altro, ed è già abbastanza…Quanto a stile etc., sì!, prova a parlare ai tuoi studenti di orecchio, forse da qui potrai anche spiegargli il perché elle scelte di direzione di furtwangler (che altrimenti gli risulterebbero impossibile anche solo da immaginare)…io la notte non dormo affatto…
    grazie delle risposte, a presto.

  161. Non insegno all’università, sono un dottorando. Forse neppure tanto bravo, hai ragione tu, ma a Siena siamo messi male e gli studenti debbono accontentarsi di quel che c’è. Questo, credo, potrebbe anche spiegare i miei problemi con l’autorità.
    Non ti accuso di niente Sergio. Solo una cosa. Che senso ha sfottere uno come me? Cosa ti spinge a buttare le cose in vacca? Perché senti il bisogno di umiliare?
    Vorrei sapere cosa pensi, davvero.

  162. Dai, Sergione, ‘sta storia del “qual’è” è frusta e non fa ridere. Hai idea del milione di errori che faccio quando commento un post? (e tutti noi facciamo?).

  163. E’ il contesto che lo rende ridicolo. Il “qual’è” fa ridere se proviene da un demagogo tutto serioso che si cita addosso (in quel suo commento sono stati sparati almeno una ventina di nomi illustri, e liquidati altri come Ferroni, Luperini e Cortellessa) e che rifiuta il principio di autorità salvo poi vantarsi di avere degli “allievi”.

  164. Ma qualcuno l’ha mai sentito parlare in pubblico o a un convegno o all’università Ferroni? l’ha mai sentito parlare oralmente? ha mai ascoltato la sua lingua?

  165. Ancora c’è chi crede che la critica serva alla letteratura? serve piuttosto una volontà di potenza. E’ un’ingenuità (celata?) epistemologica. Nella sua forma più provocatoria, la critica, , l’abrogazione dell’innocenza del discorso, trova la sua origine nelle riflessioni di Wittgenstein su e contro la lingua. La fine del Tractatus situa diacriticamente i campi dell’esperienza e del coinvolgimento morale ed estetico fuori dal discorso, delle convenzini dimostrabili dell’intellegibilità e della refutazione. Letto in senso stretto, proposizioni come la 201 e la 202 delle Ricerche non ci permettono di sfuggire alla logica di cancellazione totale dell’intenzionalità e del significato verificabile della lingua stessa. In questo senso, Wittgenstein volente o nolente, annuncia un futuro del mondo dove non ci sono condizioni di verità, fatti corroboranti ai quali appellarci per determinare e stabilire dall’esterno significazioni linguistiche. la chiarificazione delle regole usate in qualsiasi gioco linguistico, in qualsiasi data mossa del discorso, è un operazione interna e autoreferenziale (la critica). Ricordaltelo dimitri, te lo dice un 50enne che sta da 25anni nelle università, quando finirai il dottorando. Ma non è colpa tua, perché sono le filosofie del linguaggio che hanno avuto la meglio negli ultimi diciamo 60 anni. Non per nulla nelle nostre università erano accolti dappertutto Deleuze, Derrida, lo stesso Gadamer. E la semiologia ha dominato, tutto è segno! oddio che banalità! C’è stato il lavaggio dei cervelli. Mi sembra anche ben riuscito.

  166. pensa te, e io che pensavo che Deleuze nell’università ci fosse entrato solo da un paio d’anni. Vabbè, battute a parte, io invece sono assolutamente convinto della necessità delle critica in quanto gesto che prolunga gli effetti dell’opera, o come scriveva vent’anni fa Leutrat, che la faccia brillare, più che illuminarla. Forse la differenza tra un critico e uno studioso sta tutta qua, ed è ancora una volta una questione di atteggiamento (il discorso), non di autorità (quella c’entra si, ma dal momento che il critico, se scrive sui giornali che contano, ha il potere d’influenzare il pubblico).

  167. come si dice dei portieri in volo plastico: Per i fotografi!: “lo stile mi sembra essere, senz’altro, il modo che un autore ha di conoscere le cose.Ogni problema poetico è un problema di conoscenza. Ogni posizione stilistica, o addirittura direi grammaticale, è una posizione gnoseologica” Gianfranco Contini

  168. @Sergio: in cosa consisterebbe la mia demagogia? Nel fatto che non sono d’accordo con te?
    Io non mi vanto di avere degli allievi, è che la mia università sta fallendo e sono dottorandi e ricercatori a tenere molte delle lezioni. Ma tu sui giornali li scrivi solo o li leggi anche? Lo sai come funzionano le università in Italia?
    Quello che davvero intristisce è che non provi neanche ad entrare nel merito degli argomenti, preferisci prendermi per il culo o cercare di offendere (“demagogo tutto serioso che si cita addosso”). Ma non eri un compagno che scriveva per Liberazione? Non capisco.

    Comunque se hai qualcosa da dire sulla letteratura, ti invito all’università di Siena. Ovvio non c’è gettone di presenza, però ti ascoltiamo. E poi ti facciamo le domande…

  169. E poi Sergio io non ho “liquidato” Luperini, Cortellessa e Ferroni, dicendo che sono “demagoghi tutti seriosi che si citano addosso”, ho solo detto che non accetto il principio di autorità (però leggo i loro libri).

  170. Il non accettare il principio di autorità è un segno dei tempi, anche se è più proclamato che reale, democrazia dal basso, quanto mai illusoria.

    (Dimitri, tutta la mia solidarietà per il qual’è, mi è capitato di peggio)

  171. @ Alcor. Però con l’analisi letteraria è più facile. Basta che non usi la parola “postmodernismo” ed hai rifiutato il principio di autorità di mezza accademia (e di quasi tutta la critica giornalistica).
    Grazie per la solidarietà, anche a me è capitato di peggio. Una volta ho perso il portafogli.

  172. mah, alcor, per la mia esperienza “rifiuto del principio di autorità” in ambito accademico ha un senso abbastanza preciso, non significa sovvertire tutto e tutti, ma semplicemente, ad esempio, dimostrare in una discussione pubblica che il tuo venerato maestro su questo o quel punto ha detto una minchiata. peraltro non lo ritengo un segno dei tempi, è una pratica erratica ma comunque consolidata. e certo non è facile ma insomma, ci sono rischi peggiori nella vita.

    sul “qual’è”, dimitri, sei in buona compagnia, anche pasolini (tra molti altri) lo scriveva così.

  173. Certo, la critica prolunga l’opera, ma con una relazione a mio parere accidentale con l’opera, che è il risultato di una significazione indimostrabile, ragione per cui bisognerebbe guardare alla critica come genere di finzione.Un critico è uno che profitta di un testo altrui per scrivere il “suo” testo. Detto più chiaramente: un critico “inventa” una sua lettura. C’è chi inventa bene e chi male.
    Quando leggo Citati non mi fido di quello che dice degli altri autori, non m’illumina su nulla degli autori di cui scrive, m’illumino “solo” per quello che riesce a esprimere nella sua scrittura della “sua” comprensione di un testo. E’ bravo per come comunica ciò che ha capito di un testo. Lo sa dire. Questo vale per Citati come per qualsiasi critico, per cui ci sono bravi critici e cattivi critici, ma la distinzione è nel come esprimono la loro comprensione.
    Oggi invece si vuole guardare alla critica come funzione di orientamento (questo è il discorso che interessa alla critica come autoreferenziale e all’industria libraria come marketing. Mi sembra un processo inevitabile dl nichilismo letterario contemporaneo).
    Uno si può fare orientare come gli pare ed entrare nel mondo dei consumatori che si fa consumare.

  174. Il principio di autorità è saltato nel 68 nelle università, con la democratizzazione del sapere, che certo sarebbe una bella cosa se non fosse che a poco a poco le cattedre sono state occupate da persone delle quali non è stato possibile misurare e verificare la competenza. Ma questo processo non è che la conseguenza di un sottosuolo nichilistico che abita dappertutto e che ha minato le fondamenta di un sapere. Per cui oggi è leggittimo poter dire il contrario di tutto. Dentro questo schema chi vince (non chi ha la verità) è chi sa organizzare il suo potere meglio degli altri.

  175. “bisognerebbe guardare alla critica come genere di finzione”: d’accordissimo… in un post precedente credo (ma forse non era in questa discussione) d’aver detto che la critica è un genere letterario. Il problema è che oggi molta critica si limita a “servire” da orientamento, spesso in cattiva fede, e il caso scoppiato sul testo di Wu Ming mi pare emblematico di questo atteggiamento.

  176. @ Alcor. Hai centrato il problema. Siamo fuori dall’Accademia, intesa come autorità che si esprime attraverso convegnistica e publlicazioni, eppure abbiamo il volante in mano ogni giorno. Siamo autisti di autobus che vorrebbero andare a schiantarsi nel muro. Ma quando ti giri pensi che i passegeri non c’entrano niente.

  177. Non ho intenzione di ficcarmi di nuovo in questa discussione, ho già dato:-)
    Ma il ’68, poveretto, non vuol dir molto in sè, chi aveva vent’anni allora non ne può più, a parte qualche reduce incallito e nostalgico della propria giovinezza, a leggere qui sembra che prima non ci fosse niente, il sessantotto è cominciato col cosiddetto boom degli anni ’60 .
    Lo so che la storia è passata di moda, ma diamine, qualche analisi un po’ meno letteraria non farebbe male a nessuno.

  178. A partire dal 68 l’università è stata distrutta. Il 68, nel suo piccolo, rappresenta quello che è accaduto prima e dopo in altre forme altrove e che Nietzsche aveva annunciato.

  179. “in cosa consisterebbe la mia demagogia? Nel fatto che non sono d’accordo con te?”

    negli stati uniti c’è stato un lungo e appassionato dibattito in questi anni sull’antielitismo, considerato uno dei pilastri culturali della demagogica e populista ideologia di destra che si affermò lì e anche da noi nell’era bush e berlusconi. in rete puoi trovare un riassunto abbastanza esaustivo di questo dibattito sul blog di sofri jr, basta digitare su google antielitismo e wittgenstein (il nome del blog). l’antielitismo si fonda sul rifiuto del principio di autorità e su una falsa democratizzazione della società, la cui classe dirigente non sarebbe più espressione dei migliori, ma specchio del paese. pensa a berlusconi, quando attaccò i giudici o chiunque non fosse d’accordo con lui perché rivestiva quel ruolo per aver fatto un concorso mentre lui godeva dell’investitura del popolo, come se la gente disponesse degli strumenti necessari per capire chi è più meritevole da eleggere come primario d’ospedale o direttore del c.n.r . o pensa al linguaggio del potere, che non è più l’oscuro latinorum che atterriva il povero renzo manzoniano, bensì il “ce l’ho duro” di bossi, le barzellette idiote del premier, il lessico basico di gasparri…d’altronde è stato proprio franco cordelli, di recente e a proposito di certi atteggiamenti tipici wuminghiani, a far notare come molte idee di destra siano trasmigrate a sinistra, vedi l’accusa di “invidia” rivolta a chi critica libri molto venduti. stupirsi perché chi scrive su liberazione non ama la demagogia del rifiuto dell’autorità è perlomeno ingenuo, a parte che tutta l’espressione (“Ma non eri un compagno che scriveva per Liberazione?”) è perlomeno ingenua. l’autorità esiste, in tutti i campi, rifiutarla suscita un facile consenso ma equivale a negare la realtà. se lavori in università è paradossale che tu ti faccia paladino di questi pregiudizi, perché quello è uno dei luoghi elettivi dell’autorità. il professore non è sullo stesso piano dello studente, e neppure del dottorando, c’è una gerarchia che può non piacere, può essere contestata e svillaneggiata ma persiste, inamovibile. è il professore che giudica l’allievo, gli dà un voto, lo promuove o lo boccia, indipendentemente se occupa quel ruolo con merito o meno. ma questo accade ovunque. io sono un libero professionista, in teoria non dipendo da nessuno, eppure un datore di lavoro c’è sempre, e nel mio caso è il cliente. è lui che se non compra più di fatto mi costringe a chiudere. anche nella democraticissima rete è lo stesso. le parole di chi scrive un post qui hanno un’evidenza e un risalto maggiore di chi scrive un semplice commento. il problema non è il “qual’è” su cui si è fatta altra demagogia patetica, con le sollecite e gratuite solidarietà (anche a me, anche pasolini). certo che gli errori li fanno tutti, che discorsi, ma se un dottorando sale in cattedra e pontifica ha responsabilità maggiori, e se io non rifiuto il principio di autorità, perché so che continuerebbe ad esistere anche se lo negassi, dal mio banchetto in fondo alla classe mi permetto comunque di fargli la pernacchia. cosa che non farei per esempio a un compagno di banco, che è al mio stesso livello e che parlando probabilmente non aveva alcuna velleità di spiegarmi “gli incroci tra critica e semiologia” e “il concetto di stile di gusto”. ferroni può legittimamente non piacere, può commettere errori marchiani, ma quel che è certo è che appartiene alla ristretta cerchia di persone che “fanno” il canone, l’elenco degli autori e delle opere che i nostri figli studieranno un domani. qello che leggiamo è il frutto di mille filtri: ciò che gli editor decidono di pubblicare, ciò che arriva effettivamente in libreria, ciò che viene recensito e pubblicizzato; fingere di ignorarlo può essere consolatorio, come se fossimo noi gli artefici di tutto. ma noi determiniamo ben poco, e pure le classifiche, che dovrebbero essere l’apoteosi del lettore comune che si ribella all’autorità e se ne infischia delle recensioni, in realtà sono frutto di mille condizionamenti, ben più sottili, efficaci e subdoli di quelli di una stroncatura su alias. il minimo che possiamo fare è cercare almeno di esserne consapevoli.

  180. Si Sergio, va tutto bene. Ma la letteratura quando arriva? Dopo quante premesse si può arivare a confrontarsi con il testo? Quanta ginnastica devo ancora fare per potermi permettere di notare un determinato procedimento stilistico anziché un altro? Dov’è la teoria in tutto questo? Cosa diviene la critica? Solo permessi e divieti?
    E’ questo il corpo vuoto dell’ideologia? Un cadavere delizioso da cui non ci vogliamo più separare?
    Facciamo una cosa, ricominciamo da zero. Un campo neutro. Non chi siamo e cosa facciamo. Io scrivo la mia su un testo, tu mi dici dove sbaglio. Però senza darsi di figli di troia.

  181. Io non credo che i nostri figli seguiranno Ferroni. Forse qualche studente all’università perché glielo mettono in programma. I miei figli che leggono libri di tutti i tipi neanche sanno chi è Ferroni.

  182. @ illuminalamena
    Ti sbagli in buona fede, i nostri figli seguono Ferroni, Cortellessa, Luperini. Non lo sanno, perché è probabile che non comprino i loro libri. Però vanno a scuola, e studiano sui loro manuali. Che spesso sono non solo il primo, ma anche il principale, se non l’unico, quadro categoriale che, spesso senza saperlo (chi conosce il metodo dell’autore del proprio manuale scolastico, a 16 anni?) acquisiscono. Per decenni gli italiani sono stati crociani senza aver letto un solo libro di Croce, e anch’io lo sono stato senza saperlo (via de Ruggero-Canfora, per capirci).

  183. @Girolamo: è vero sono loro a produrre la manualistica, e dunque ad esercitare il canone, il punto è che per loro stessa ammissione (cfr. Romano Luperini, La fine del Postmodernismo) la critica oggi non è più in grado di produrre un canone. Ovviamente la colpa è di quelli come te, che non sono all’altezza dei padri, o di quelli come me, che non rispettano l’autorità (e quindi non riconoscono i padri).
    Comunque i figli (ed anche i padri) continuano a leggere quei libri che il canone non prevede. “Io non ho speranza, ho fede”.

  184. Caro Garufi,
    ho letto con estrema attenzione il suo intervento, che mi colpisce non poco.
    Forse perché mi sono formata in una università inglese e, avendo inziato ad insegnare in quella università, non ho avuto contatti con i baroni italiani, quando leggo le sue parole mi chiedo fino a quale punto di accettazione dello stato di cose si possa giungere, senza provare disgusto delle proprie parole. Leggere questa sequenza di frasi impregnate di spirito omertoso da parte di una persona che in teoria dovrebbe avere uno guardo critico sulla realtà circostante, credo che dia la misura dello stato della critica e della cultura in Italia. Mi chiedo se non dovrebbero essere le firme di Liberazione e del Manifesto (e di tutti i quotidiani indistintamente: non era – forse altrove – IL mestiere del giornalista e del mediatore culturale rappresentare in modo critico la realtà? Forse qui, per pratica di quotidiano asservimento, il senso di quel mestiere si è perso).
    Ma entro nel merito del suo intervento.
    “Stupirsi perché chi scrive su liberazione non ama la demagogia del rifiuto dell’autorità è perlomeno ingenuo, a parte che tutta l’espressione (”Ma non eri un compagno che scriveva per Liberazione?”) è perlomeno ingenua”.
    Stupirsi dell’annullamento di qualsiasi aspirazione a una società basata sul merito è anche ingenuo, Garufi?
    “è stato proprio franco cordelli, di recente e a proposito di certi atteggiamenti tipici wuminghiani, a far notare come molte idee di destra siano trasmigrate a sinistra”
    E’ davvero triste che un intellettuale del calibro di Cordelli non riesca a più a riconoscere cosa sia di destra e cosa di sinistra. Ma certo, siamo in epoca di “in fondo”, “ma anche” e relativismi vari, infatti basta alzare lo sguardo per notare i risultati di questa confusione.
    “l’autorità esiste, in tutti i campi, rifiutarla suscita un facile consenso ma equivale a negare la realtà”.
    Quale realtà? La sua? Nella mia realtà quotidiana, per esempio, l’autorità non esiste.
    “se lavori in università è paradossale che tu ti faccia paladino di questi pregiudizi, perché quello è uno dei luoghi elettivi dell’autorità”.
    Quale università? In quella italiana, sì, certo, d’altronde lo stato di cose è legittimato dall’autorevole parere delle firme di Liberazione, quindi finché il cane continua a scodinzolare, i baroni continueranno ad assegnare progetti di ricerca su base preferenziale. A scanso di equivoci, vorrei specificare che io non ho neppure tentato un concorso in Italia, perché mi è stata offerta un borsa di studio all’estero prima che avessi il tempo di pensarci. Quindi le mie parole non derivano da frustrazione per esclusione subita, ma dalla conoscenza diretta della situazione italiana senza per fortuna averla privata in prima persona.
    “il professore non è sullo stesso piano dello studente, e neppure del dottorando, c’è una gerarchia che può non piacere, può essere contestata e svillaneggiata ma persiste, inamovibile”.
    Guardi Garufi che il problema non è la gerarchia per meriti accademici. Il discorso antiautoritario di Dimitri aveva uno spessore che lei non ha colto, perché il suo pensiero è sclerotizzato sull’accettazione dello status quo, e più in là di così non si riesce a spingersi. Nessuno mette in dubbio il rispetto per i meriti accademici. C’è però una situazione che lei non avendo mai affrontato forse non conosce, ed è la difficoltà di produrre ricerca originale, per via delle pesanti interferenze e pressioni (su base economica naturalemente, perché tutto passa di lì) di un gruppo di ordinari che intralciano il lavoro di ricercatori. Quando si parla di antiautoritarismo non significa mancare di rispetto a chi ha seguito un percorso accademico e prodotto pubblicazioni significative. Significa mettere sotto esame quello che è stato prodotto per vedere se regge al tempo. Ci sono pietre miliari, e studi anche minori, che reggono perfettamente. Ci sono, invece, libri e teorie che posso tranquilamente essere trasferite in soffitta, perché nuove leve producono idee più utili a comprendere la realtà circostante. Questo si chiama evouzione della ricerca. Le università americane investono molti soldi nella ricerca, perché l’avanzamento del paese dipende anche dalla capacità di produrre ricerca che sappia fare avanzare la società. Per avanzare bisogna mettere in discussione l’autorità. Come vede, la questione dell’antiutoritarismo con tutto quello che ha menzionato lei c’entra motlo poco.
    “è il professore che giudica l’allievo, gli dà un voto, lo promuove o lo boccia, indipendentemente se occupa quel ruolo con merito o meno”.
    Mi permetta di farle notare che esiste una grossa differenza fra chi giudica avendo raggiunto un grado di autorità per merito, e chi invece pur non avendo nessun merito si permette di giudicare il serio lavoro di altri. La cosa si complica se chi viene giudicato da chi non ha acquisito nel tempo gli strumenti per farlo dimostra con i fatti di essere perfettamente in grado di prescindere da quel giudizio e bypassare quella giuria e quella autorità.
    Ecco, io credo che stiamo a questo punto. Quindi Trevi e i Wu Ming c’entrano in maniera molto marginale, perché ciò che urta non è il contenuto di quel saggio, ma il fatto che una cerchia di ricercatori stia adottando quel metodo per bypassare un’autorità che non riconoscono più.
    Il suo discorso qualche anno fa mi avrebbe irritata, ma non avendo alcun bisogno di irritarmi guardo invece a questo paese con tristezza e un velo di disgusto. Un paese dove firme di Liberazione, un quotidiano che un tempo leggevo nella speranza di trovarci istanze di critica sociale, producono una serie di luoghi comuni di stampo omertoso e mafioso, di cui c’è veramente da vergognarsi.
    Senza neppure rispondere alla domanda che le era stata posta.
    Attendo quindi una risposta articolata al quesito che le ha posto Dimitri, visto che siamo giunti al punto di dover interrogare sui contenuti i nostri mediatori culturali, per verificare se sono sufficientemente preparati per esercitare il loro mestiere.

  185. C’è qualche refuso, ma credo che sia normale quando si scrive in rete. Lo dico per via della penosa osservazione mossa a Dimitri in precedenza.

  186. Claudia,
    però, per quanto comprenda la tua indignazione, mi pare che tu stia esagerando, nel tuo commento a Garufi, con l’omertoso e il mafioso. Sergio, tra l’altro, è persona davvero estranea a tutti i giochi, micro o macro, di potere culturale.
    Dici:
    *** “l’autorità esiste, in tutti i campi, rifiutarla suscita un facile consenso ma equivale a negare la realtà”.
    Quale realtà? La sua? Nella mia realtà quotidiana, per esempio, l’autorità non esiste. ***
    Vediamo di capire: non si può “discutere” il teorema di Pitagora. Non si può dire “non sono d’accordo che il quadrato dell’ipotenusa è uguale alla somme dei quadrati dei cateti”. Eppure questo è quello che molta demagogia populistica (quella che irrita Garufi) ha fatto della nostra società: si va in televisione, Porta a Porta, o Le invasioni barbariche, e su un tema tipo “le cellule staminali” si chiede l’opinione di un genetista e di una pornostar, come fossero equiparabili. Non lo sono. Se si parlasse di pompini la pornostar sarebbe una autorità, e se il genetista vorrebbe dire la sua dall’alto della sua laurea sarebbe ridicolo.

    Ecco: spesso ci sono critici che si comportano come genetisti che parlano di pompini. ma anche scrittori che si muovono come pornostar che pontificano di staminali.

    Io ho sempre riconosciuto ai critici sunnominati una autorità, guadagnata sul campo. Ma dato che nel campo letterario un po’ ci sto pure io (ché se si parlasse di pompini o di staminali, zitto me ne starei), vorrei che le mie parole venissero ascoltate senza facili ironie. Non chiedo indulgenza, ma rispetto. Se non delle idee quanto meno delle persone.
    Qui si personalizza tutto, questo è il problema.

    A Sergio che dice che il suo “padrone” è il cliente, potremmo dire: dunque tu sei lo scrittore che offre il suo prodotto e il tuo successo è dovuto a chi? Ai tuoi fornitori (editor, critici) o al tuo padrone (chi ti compra i libri, il pubblico)?

    Certe volta le cose si confondono, e ho la sensazione che molti giochino su più piani. Nego l’autorità ma in fondo la cerco. Parlo male del grappolo d’uva, ma appena mi avvicino lo rubo, dico di voler stare fuori di casa, ma perché non ho ancora trovato le chiavi per entrarci.
    Ben inteso: è umano. Persino il buon Stephen King si lamenta della critica che lo caga poco. Sul rosicamento, l’invidia, le nevrosi, le contraddizioni, tra l’altro, si fondano molti dei migliori libri della nostra letteratura.

  187. E’ un peccato che si giunga sempre ad uno scontro, poi anche spezzare lance lo è un riverbero di questo. Non avevo mai sentito parlare di Garufi prima di tre giorni fa leggendolo qui nei commenti. Dalle sue parole mi sembra una persona intellettualmente onesta, e forse anche quello che ha detto va letto in profondità.

  188. Biondillo, la prego: “se il genetista vorresse”, e non “se il genetista vorrebbe” ;)

  189. @ Gianni. Non stiamo parlando di una pornostar e di un genetista, ma del rapporto che sussiste tra la critica che, come sottolinea Garufi, canonizza ed una schiera di studiosi (dottorandi, ricercatori, professori a contratto, coordinatori di dottorato, assistenti oppure semplici letori attenti). Dunque non si tratta di confrontare pompini e narratologia.
    Se l’autorità, o meglio autorevolezza, di Luperini su Verga non la nega nessuno, è perché in quel caso è evidente un lavoro sui testi, una metodologia, un’attenzione prima analitica e poi politica.
    Oggi mi pare che questa autorità venga pretesa, senza emettere fattura.
    Al confronto sulle opere vengono contrapposte argomentazioni sul “postmodernismo”, se parli di codici linguistici ti rispondono “il senso è nel tempo”, fai una domanda bastarda per capire se almeno il tuo interlocutore ha letto il libro su cui scaracchia ti senti rispondere “che certe cose si capiscono a naso”. Ti spacchi il culo a dissezionare un testo e prima che apri bocca ti viene risposto “ma questa è solo industria culturale”.
    Io riconosco autorità a molti studiosi, ma non solo perché le cose stanno così. E poi le cose non stanno mai così. Se domani Allegoria chiude baracca, e potrebbe essere anche se non lo spero, finisce la critica?
    No, perché le mie cose le pubblico in inglese (lingua sconosciuta ad alcuni canonizzatori).

  190. Morganthal, come mai non mi mandi i cioccolatini su Nazione Indiana?
    Perché non ci offri un esempio concreto di cosa significhi leggere in profondità l’ntervento di Garufi, visto che io evidentemente o non ci sono riuscita, oppure ho toccato corde che non andavano sfiorate?
    Prego, io leggo volentieri questa conversazione fra uomini di una certa età, perfettamente inseriti nell’industria culturale esclusivamente maschile di questo paese (il che giustifica un atto demenziale come mandare link di cioccolatini a chi all’estero viene dato normalmente spazio e voce senza sessismi di sorta) con codici comunicativi da salottieri, e perfettamente indifferenti allo stato culturale del paese in cui vivono. Complimenti, bel salottino davvero. Manca solo Trevi con le sue battutine livorose e la mancanza di argomenti.
    Vorrei sottolineare che sotto la dicitura “idee confuse” dell’esimio giornalista cade anche la monografia che sto per pubblicare io.
    Nessuno si preccupi, per carità, se andiamo all’estero a cercare lavoro, e se qui vi restano solo le ronde a smazzettare gli extra comunitari. Tutto normale.

    Biondillo, io dell’intervento di Garufi ho dato la lettura che che ho creduto. Se tu non percepisci accettazione supina ai limiti dell’omertà non è affare mio convincerti del contrario.

  191. scusate,
    sto seguendo questo vostro dibettito, e dico vostro perchè quando si va su un terreno di ideologia, di valori, di cos’è di destra e cosa di sinistra io mi chiamo fuori, per molte ragioni…comunque, un dibattito molto interessante dal quale imparo molte cose, MA c’è un fatto che non capisco: a parte sergio garufi e biondillo, perché la maggior parte delle persone non si firma con nome e cognome ? passi per wu ming, c’è dietro tutta una filosofia…ma per esempio, questa studiosa che viene dall’inghilterra ed è così incazzata, questa “claudia”, che cos’è, un’intelligenza collettiva anche lei ? insomma: perché moralizzate tanto sul potere, sull’industria culturale eccetera e non vi ponete un problema fondamentale in ogni comunicazione, che è l’attribuzione degli enunciati in maniera più limpida possibile ? se dovessi gestire io un sito, esigerei nome cognome, codice fiscale, indirizzo materiale ! ammetto che funiculì funicolà non è male, ma insomma…leggendo, si ha la sensazione che un certo maggiore grado di responsabilità sia legato all’uso del nome e del cognome. l’unica eccezione è wu ming, perché in quel caso l’anonimato è l’ultimo dei problemi. ma insomma, nel giro di una settimana ho capito che è meglio leggere che scrivere per gente come me, ancora legate al vetusto concetto dell’identità e dei suoi mezzi di riconoscimento.

  192. Caro Emanuele Trevi, non mi sono firmata perché non mi sembrava necessario visto che questo luogo è frequentato dalle stesse persone che leggono Carmilla e frequentano Lipperatura.

    “Quando si va su un terreno di ideologia, di valori, di cos’è di destra e cosa di sinistra io mi chiamo fuori, per molte ragioni…”
    Guardi, non è che non si sia notato. Io, invece, i soldi per leggere il Manifesto li ho cacciati, ma quello che ci trovo non mi piace più.
    Ora che mi sono firmata con nome e cognome non so cosa cambi per lei. Una volta fra compagni ci si chiamava per nome. Ora, invece, se vuole, si può appuntare il mio cognome per il futuro.
    Cordialmente

  193. funiculì funiculà: GULP! Mo’ Garufone mi bacchetta!!! ;-)

    Claudia, lungi da me volerti convincere o farmi convincere. Buttarla poi sulla questione di genere (sessuale, non letterario) non mi sembra, in questo caso, importante: non so che sesso abbia metà dei nick che scrivono qui.

    Emanuele, ti prego, non aprire questo discorso che non ne usciamo più. Se vuoi la prima volta che ti vedo ti faccio un disegno, così facciamo prima. ;-) *

    * questa roba qui sopra è un’emoticon. Questo lo sai, vero?

  194. @ trevi

    è una vecchia e dibattuta storia, o posizione, indebolita dal fatto che se volessi scrivere qui sotto un commento a firma trevi potrei, anzi, lo faccio, solo a scopo dimostrativo, a meno che Jan non abbia potuto modificare gli accessi, adesso ci provo, poi chiedo a sorrent5ino di cancellarlo

  195. @Emanuele. Nel mio caso basta cliccare su “dimitri” e si apre una pagina web dove c’è nome, cognome, fotografia ed un po’ del lavoro che faccio (si, il codice fiscale manca). Basta un colpo di mouse, prova.
    Ma non voglio polemizzare con te, anzi grazie dell’ascolto.
    Hai qualcosa da dire sull’opportunità che la critica torni a confrontarsi sui testi?

  196. @ biondillo, mi fa piacere che vi siate smaliziati, ma tu sai che è anche perché non ho fatto la furba io, del resto è per questo che ho finito per aprire il blog:-)

    peccato però, Trevi poteva avere l’emozione di vedersi vestito di blu per un nanosecondo

  197. grande, grazie per le dritte !
    l’emoticon me l’ha spiegato chiara, la mia ragazza.
    capisco di aver toccato una vecchia questione, scusate, ma non sapevo che cliccando su certi nomi…
    quanto a claudia boscolo, beh, sì, è sempre meglio. mettiamo che ci siano due claudie, per esempio. una di queste claudie è una sperticata ammiratrice di trevi, la pensa come lui, legge gli stessi libri, semina nel mondo gli stessi giudizi. all’altra invece trevi fa schifo, proprio non lo sopporta ecc. – è vero, potrebbero esistere anche due claudia boscolo, ma è già una cosa da romanzo di paul auster, abbastanza improbabile nel campo degli studi letterari. una volta, tu dici, tra compagni ci si chiamava per nome…ma pensi cosa succede quando non si capisce più chi sto citando…walter benjamin o walter veltroni ?!?
    per dimitri – certo, sono d’accordissimo, è una questione di proficuità del lavoro, del tempo che ci si spende. intere teorie del mondo si reggono su stupefacenti atti di lettura diretta dei testi. secondo me, il libro teorico più importante di tutto il novecento è “la sapienza greca” di giorgio colli.

  198. “Si Sergio, va tutto bene. Ma la letteratura quando arriva? Dopo quante premesse si può arivare a confrontarsi con il testo?”

    dimitri, perdona, scrivo di fretta perché devo uscire ma spero si capisca il senso. sarà che la mia stima per belpoliti è talmente grande da seguirne idealmente le orme, ma anch’io inizio a preferire altri ambiti, soprattutto se per letteratura s’intende quel “culto delle classifiche” di cui parlava trevi. non voglio convincere nessuno della mia opinione negativa circa il NIE, men che meno i fan di wu ming che mi danno dell’omertoso. m’interessa però, e molto, il tema del rifiuto dell’autorità e dell’antielitismo, che carsicamente riaffiora in questa discussione, e che a mio avviso è legato a pratiche di potere e condizionamento e che innerva pure la struttura del NIE. pensavo a un bel saggio di david foster wallace, non ricordo dove anche perché non ho più i miei libri con me, in cui si analizzava con grande acume la comunicazione di un famoso spot della pepsi, quello il cui slogan dice: “the choise of new generation”, dove i pubblicitari sono riusciti a far passare un riflesso pavloviano per una scelta deliberata (la massa di giovani che accorre al baracchino della pepsi in spiaggia appena sente il rumore delle bollicine della bottiglietta stappata). anche l’idioletto basico e becero del potere persegue le stesse finalità, vuole produrre identificazione, io che sono uno importante parlo come te quindi fidati, ti capisco. è una trappola, seppur lusinghiera, questo falso egualitarismo. non è vero che “è tutto intorno a te”, come dice la pubblicità di vodafone e di mediolanum. mi vengono in mente pure gli studi di antropologia del turismo, forse i primi ad accorgersi di questo fenomeno, lo snobismo di massa, quando evidenziavano come il discorso della promozione turistica dovesse essere antituristico, perché oramai il turista ha fatto suo il disprezzo che il viaggiatore gli riservava. come crizia, il cretese bugiardo, il turista enuncia instancabilmente un paradosso, dicendo di continuo “io non sono io”, cioè in sostanza nega se stesso e si disprezza. cos’hanno in comune tutti questi esempi eterogenei che ho fatto? appunto l’antielitismo, una pratica di potere che attraverso la comunicazione vuol farci credere che ognuno di noi esprime delle libere scelte (i giovani pavloviani della pepsi); è speciale, al centro dei loro interessi (vodafone e mediolanum, il turista); e che non esistono gerarchie, perché il potente è uguale a noi (il linguaggio di berlusconi ecc). il risultato è una massa di persone atomizzate, che fanno le stesse cose degli altri mentre pensano di essere unici e irripetibili. come in quella storiella di logica sulla donna americana di nome norma, che veniva importunata al telefono ad ogni momento dai sondaggisti per conoscere le sue preferenze in fatto di detersivi, proprammi televisivi o candidati presidenziali, e quando si stufa e chiede perché interpellano sempre lei un sondaggista onesto risponde che lei è l’unica ad essere interpellata perché incarna alla perfezione i gusti dell’americano medio, per cui sapere chi voterà significa sapere prima chi sarà eletto. al che lei protesta, dice “non è vero, io sono unica e irripetibile”, e il sondaggista replica “appunto”, ossia come l’americano medio. il fine del potere è sempre lo stesso da migliaia di anni: divide et impera.

  199. e questo il codice fiscale (con cappuccio incorporato):

    BRLSLV36P02T1816

    p.s.

    scusi, dott. Trevi, ma la preferisco quando parla di libri e di critica…

    e tolgo il dis-turbo, salut’ando

  200. Sono d’accordo con garufi. Il suo ultimo intervento mi è piaciuto molto.
    Signor Trevi il camuffamento (si fa per dire, perchè qui tutti sanno di tutti) non è cosa di oggi. Cristina Campo era uno degli pseudonimi di vittoria guerrini. Poi si chiamò puccio quaratesi, poi assunse bernardo trevisano.
    Mi complimento per la sua scelta su Colli. Per me però il più importante è Filosofia dell’espressione e mi sembra strana a questo punto la sua ricerca dell’identità.
    ps. i dati sensibili, tipo codice fiscale, hanno diritto alla privacy (sempre che ontologicamente esista)

  201. Se Forlani non ci fosse bisognerebbe inventarlo.

    Bondillo: guarda che la questione del sessismo era mirata a una piccola ditriba fra me e Nonno Morganthal che risponde solo ad argomentazioni poste da uomini e a me invece manda cioccolatini. Per carità, non è che mi facciano schifo i cioccolatini, ma capirai che se vengo qui ad impegnare del tempo per avere almeno una versione di cosa sta succedendo in questo paese devastato, uno come Morganthal o lo schivo come la merda, o lo prendo per il culo, e preferisco il metodo ff.
    Quanto ai salotti letterari dove UOMINI attempati e digiuni di cultura di questo millennio decidono cosa sia da leggere o meno, la questione sessista non è poi un argomento secondario. Anche se convengo con te che quello principale è chi non sa di cosa sta parlando farebbe meglio a tacere. Giusto per non sparare cazzate, e soprattutto per non spararle su un quotidiano che un tempo faceva contro informazione, mentre adesso fa pena.

    Trevi: il suo articolo su Garboli è bellissimo. Ecco, continui fare quello. Si occupi di Novecento e lasci che a decifrare questo secolo ci pensi chi ha l’età, la vitalità e la preparazione necessaria per farlo e fuori dai canali incancreniti che usa lei.
    Uno che alla sua età dice “la mia ragazza” e ha bisogno di farsi spiegare gli emoticon dai ggiovani, in rete sarebbe meglio che non ci stesse. E se ci vuole proprio stare si prepari a fare la magra figura che sta facendo. Adieu.

  202. Sì Sergio, va tutto bene. Ma la letteratura quando arriva? Dopo quante premesse si può arrivare a confrontarsi con il testo?

  203. @garufi: a me sembra che il discorso di Dimitri sul rifiuto dell’autorità sia piuttosto preciso, riferito alla trasmissione del sapere (e del potere) all’interno di istituzioni come la scuola o l’università. Le sue argomentazioni, per altro interessanti, si riferiscono invece ad altri campi, come la pubblicità o il turismo di massa. Vogliamo quindi dedurne che anche l’università è un luogo di mercificazione del sapere, dove si preparano gli studenti ad essere atomi funzionali ad una cultura di massa? Purtroppo un certo tipo di università è davvero così, ma è quella che ha iniziato a fondare Berlinguer e quelli dopo di lui, non certo quelli della nostra generazione. Ci consentirà, quindi, di dissentire da una certa autorità, da docenti (per fortuna non tutti) che replicano gli stessi programmi di anno in anno, che campano di rendita su studi e teorie edificati vent’anni prima, e che si rifiutano di toccare con mano la realtà al di fuori di quelle pagine. Nel nostro paese manca all’appello un’intera generazione, lo dicono le statistiche, e quella generazione (dei 30-35 enni) è proprio la nostra…

  204. ecco, adesso anch’io ho messo il cognome, anche se ieri mi ha contattato su facebook un mio omonimo chiedendomi gentilmente di cambiar nome (perché a suo dire io ne avrei in realtà un altro), altrimenti avrebbe preso seri provvedimenti… almeno in internet possiamo un poco spersonalizzarci :)

  205. Di ritorno dopo svariati giorni, vedo che la cosa si è spinta molto oltre le premesse dell’OT. La deriva è difficile da seguire, ad ogni modo, se posso fare dell’eziologia:
    credo che il problema di molte discussioni su NI derivi dal fatto che si parte dallo scontro tra diverse idee di cosa sia / debba essere la letteratura (idee generali, astratte, talvolta iperuraniche), anziché dalle prassi concrete che, nel tempo, trasformano il campo letterario. Scompaiono i testi, le opere, su cui il confronto potrebbe essere costruttivo, e rimangono soltanto opposti assiomi elenchi di autori da spararsi l’un l’altro come proiettili. E’ quello che ho cercato di dire nel pezzo su Carmilla, e credo sia il fondamento di quasi tutti i “rigetti” che il NIE sta provocando in certi ambienti.

    [Prima di proseguire, vorrei chiarire una cosa: recensioni come quella di Trevi o Rondolino sono in qualche modo necessarie. Diventano a loro volta oggetti di analisi e indagine. Corrono lungo linee di frattura e le evidenziano. E’ una cosa che nel dibattito dei mesi scorsi era stata addirittura invocata, e in ogni caso annunciata (cfr. prefazione al memorandum 2.0). Se i critici raccolgono la critica della critica, si possono superare alcuni blocchi, e la “matassa” cambia forma, si arricchisce di nuove linee e curvature. Altrimenti, amici come prima.]

    C’è un altro problema. La difficoltà di avere uno sguardo d’insieme su tutte le questioni proposte e non risolte (perché si tratta di appunti per un dialogo pubblico) nel e dal libro.
    Su Lipperatura una lettrice ha iniziato a raccontare l’esperienza di una lettura di gruppo del libro NIE che sta portando avanti con alcuni amici. Questo è un metodo possibile.
    L’altro potrebbe essere quello delle mappe mentali. Nulla di nuovo, intendiamoci, ma lo vedo applicato poco dalla critica letteraria, e in ogni caso il fatto che una cosa non sia nuova non significa che non sia utile. Faccio un esempio:
    qualche settimana fa ho tenuto una lezione in un master, su quella che per noi WM è l’etica del nostro lavoro letterario. Una delle iscritte ha preso appunti con il metodo della mappa mentale. Quella che si vede qui è la seconda parte della lezione:
    http://mappementaliblog.blogspot.com/2009/01/mappementalilab-4.html
    Ecco, secondo me se chi è pro o contro smettesse di essere semplicemente pro o contro, e componesse la sua mappa mentale del dibattito sul NIE, confrontarle sarebbe più interessante che scontrarsi.
    [La prima metà della lezione parlava di cosa significhi per noi “artigianato”, ed era introdotta da un “viaggio” nei fonosimbolismi della parola “scrivere”, e si trova in mp3 qui, nella finestra “ITALIANO /1″:
    http://www.wumingfoundation.com/suoni/suoni.html ]

    Un’ultimissima cosa.
    Sì, l’industria culturale ha fatto passi da gigante. Non in una direzione sola, però. Si sappia che Adorno e la vecchia teoria critica non bastano più. I paradigmi sono cambiati, i canali e i mezzi si sono moltiplicati, ci sono molti più soggetti in campo, le pratiche sono più complesse etc. Suggerisco ancora una volta la lettura dei due libri di Henry Jenkins pubblicati in italiano, Cultura convergente (prefazione nostra qui) e Fan, blogger e videogamer. Adorno rimane un grande, ma ha descritto una situazione storicamente data in una particolare fase storica. E per guardare con più distacco critico certe cose che scrisse sulla cultura di massa, basterebbe vedere quali abbagli abbia preso scrivendo di jazz, musica che non conosceva punto, ma contro cui emise sentenze sommarie prive di fondamento, veri e propri anatemi. E infatti i jazzofili sono sempre stati vaccinati dal facile adornismo in cui ci si va a rifugiare quando si trasformano i dispositivi…

  206. @Emanuele: Bene, sono felice che si possa trovare un terreno comune su cui appoggiare i piedi, i libri di cui parliamo. Quanto mi è dispiaciuto della tua recensione all’ultimo libro di WM non è la critica negativa, che è sempre legittima, ma che tu non sia entrato nel merito dei testi presi in analisi. Anziché sapere che non condividi la lettura wuminghiana, avrei voluto conoscere la tua. Sarebbe stato interessante sapere come interpreti l’uso dell’io narrante in Saviano, che senso attribuisci al tentativo di romanzi quali Dies Irae o SLMPDS (non propriamente libri da classifica) di innestarsi sul continuum storico e funzionare da operatori di discontinuità rispetto ad un passato che non passa.
    Non lo dico in quanto fan di Wu Ming, non credo di esserlo, ma come lettore di libri. Vorrei davvero sapere cosa pensi dei romanzi e non solo cosa pensi di quello che pensa Wu Ming, altrimenti non abbiamo più terra sotto i piedi.

    @Sergio: E’ difficile contraddire qualcuno di cui condividi, almeno in parte, le idee. Bisogna però stare attenti a non trasferire di peso certe considerazioni sulle società contemporanee (e occidentali perché in Cambogia le cose stanno diversamente) nel dibattito letterario. Si corre il rischio di una “metabasis eis allo genos”, ossia si trasferiscono le premesse logiche di un discorso su di un altro senza neppure verificare se appartengono allo stesso genere.
    Quando parliamo di “industria culturale” l’attenzione al particolare acquista importanza, perché se abbiamo già deciso che essa è il luogo dell’alienazione, dello sfruttamento e della manipolazione ideologica quersto troveremo. Capisci che in una tale visione generale i particolari, cioè le opere, contano poco.
    Gli studi migliori che oggi sono in circolazione esplodono di dettagli, offrendo eccezioni, qualificazioni e complicazioni che frantumano molte teorie generali della letteratura. Questo è il non riconoscimento dell’autorità di cui sto parlando, che, ammetterai, poco ha a che vedere con gli esempi che tu riporti. L’autorità o è dinamica oppure è dittatura.
    Guardare ai momenti concreti della produzione culturale, della sua circolazione e della sua ricezione può aiutare lo studioso (ed il critico) a capire la complessità che circonda ogni testo culturale.

    @Wu Ming1: Quel che mi interessa del tuo lavoro, al di là della sua giustezza o meno, è il suo carattere non totalizzante. Se non avrai la tentazione di richiamarci all’ordine e ci lascerai prendere pezzi del tuo lavoro, magari anche per tradirne l’intenzione originaria, noi giovani critici saremo tuoi interlocutori (non fan).

    PS: posso apparire maleducato per via del tu, usato con tutti. Se ci incontreremo in un bar vi darò del lei, sul web funziona come lo “you” inglese. Grazie a tutti dell’ascolto.

  207. “a me sembra che il discorso di Dimitri sul rifiuto dell’autorità sia piuttosto preciso, riferito alla trasmissione del sapere (e del potere) all’interno di istituzioni come la scuola o l’università. Le sue argomentazioni, per altro interessanti, si riferiscono invece ad altri campi”

    ho deviato il discorso su altri ambiti per diverse ragioni, la prima perché è falsa la contrapposizione tra muffiti accademici detrattori del NIE vs. “giovani critici” (definizione di dimitri) estimatori del NIE. trevi non è un accademico, per dirne uno. l’unica cosa che hanno in comune ferroni, belpoliti, trevi, carla benedetti, la porta, rondolino ecc (fra un po’ l’elenco sarà talmente lungo che somiglierà al censimento di un formicaio) è che non gli è piaciuto quel libro, e l’unico grande merito del saggio di WM1 per me è proprio quello di aver messo d’accordo gente che la pensa diversamente su quasi tutto. in quanto al testo ho già detto che mi riconosco in molte osservazioni di trevi, quando parla di “dittatura della trama”, di “mistica del romanzo” e “culto delle classifiche”. continuare a scannarsi con questa logica di contrapposizione non ha molto senso. ogni volta che mi inserisco in una di queste discussioni finisce che tutta la ciurma delle mie nere ombre junghiane prende il sopravvento, ed io, come benito cereno, so con certezza che a salvarsi sarà solo la parte più idiota di me, perché a lei soltanto è destinata quella stucchevole, cerulea indignazione.

  208. I pezzi sono lì, bisogna solo usarli (oddìo, bisogna… se si vuole!). Tenendo conto però che c’è bisogno anche di sguardi d’insieme. Non necessariamente coincidenti con il mio, anche perché gli sguardi d’insieme non sono inquadrature fisse, sono carrellate, e quindi in movimento. Anzi, io penso al falco che plana sulla battaglia di Gaugamela (era Gaugamela?) in Alexander di Oliver Stone.

    Quanto all’ordine: ogni ri-chiamo all’ordine è insensato, poiché presuppone che prima vi fosse un ordine. Ma “i bei tempi non ci sono mai stati”.

    A me interessa la natura aperta dell’allegoria, e l’allegoria non si preoccupa affatto di mettere “ordine”. Per dirla con Benjamin, l’allegoria raccoglie gli oggetti ma li dispone in modo “labile”, li ammassa “in attesa inesausta del miracolo”, miracolo che può essere solo una nuova dispersione, seguita da una nuova raccolta e disposizione. “Le allegorie sono nel regno del pensiero quel che sono le rovine nel regno delle cose”, dice. Gli elementi dell’allegoria giungono fino a noi come sono giunte a noi (con un processo di labile, imprevedibile selezione nel corso del tempo) le vestigia del passato, elementi che usiamo per dare una continuità e un senso alle nostre vite, e che “processiamo” ogni giorno per costruire una nuova totalità. Benjamin paragona l’arte degli allegoristi barocchi a quella alchemica: mettere insieme gli elementi in cerca del “prodigio”.

    E’ il contrario del richiamo all’ordine.

  209. @ Sergio: non si tratta di muffa, ma di formazione. Io e Gilda Policastro abbiamo, più o meno, la stessa età. Trevi e WM2 hanno, credo, la stessa età.
    E la quaestio non è quella della contrapposizione sul libro di WM, non è così semplice. C’è una marea di persone che non si accontenta più delle parole d’ordine (postmodernismo, modernismo, dittatura della trama). Rifiutiamo di fingere che tali parole definiscano alcunché, vogliamo solo tornare al lavoro.

  210. cara claudia boscolo, quello che è vecchio, non è trevi perchè non sa usare gli emoticon, ma questa idea tecnica della letteratura, che va a cercare le nuove epiche, e che è esattamente quella di pippo baudo e dei vescovi su facebook, come pure tutti questi cazzeggi su questioni che si potrebbero liquidare in 3 righe. dice bene l’angelini sul suo blog, che ti definisce come una che mette il dito nella messinpiega

  211. @ Wu Ming 1
    Ho letto il libro in questione, come ha fatto senz’altro Trevi – ci vogliono meno di due ore – e ho avuto sentimento di ripulsa simile al suo. (Una delle cose che più mi irrita, quando un critico ha un sentimento di ripulsa, è affermare apoditticamente, di lui, che quel libro non l’ha letto, in quanto ne dà un’immagine distorta e le citazioni che fa sono decontestualizzate; se l’immagine distorta ciò dipende evidentemente dall’emotività con la quale reagisce a ciò che lo infastidisce – l’emotività era manifestata con grande onestà nel suo pezzo da Trevi, del resto, come suo solito -; le citazioni decontestualizzate sono semplicemente, specie nello spazio breve di un articolo su un giornale, le citazioni che si possono fare per condurre il proprio discorso, o contro-discorso, critico; come qualcuno ha già fatto notare, quando questa pratica la si usa in una recensione favorevole, stranamente, nessuno la trova disdicevole).
    Come forse sai, ho letto con grande favore i primi vostri libri, che mi sembravano la migliore performance possibile di un atteggiamento, di matrice situazionista, di sabotaggio dall’interno dell’industria culturale (sì, proprio quella di nonno Adorno, anche se pure a me fa specie che debba tirarlo in ballo un Rondolino). Già in quelli immediatamente successivi, mi sembrava che questa carica di corrosione si fosse decisamente annacquata. Oggi la proposta del New Italian Epic contiene senz’altro molti punti d’interesse, ma il quadro (il package editoriale, diciamo, intendendo il termine “editoriale” nella sua accezione più ampia) in cui essi si inseriscono rende il tutto a me alieno e inaccettabile. Lo diceva anche, in una parentesi, Scurati nel suo pezzo, complessivamente positivo, uscito con grande (cioè preordinata) tempestività su Tuttolibri: non giova al NIE l’aver sottomesso le sue idee teoriche (su ciascuna delle quali si può discutere a lungo perché, come qualcun altro ha ammesso, di nessuna di esse si può dire che non abbia una lunga storia alle spalle) a una “politica” complessiva eccessivamente subalterna rispetto ai poteri editoriali. Proprio quelle strutture materiali della cultura, cioè, che la pratica di Luther Blissett prima e, per un certo tempo almeno, di Wu Ming poi, intendeva mettere in discussione (in buona misura riuscendoci, fra l’altro).
    Tu chiedi che si discutano, oltre alle tesi teoriche, le analisi dei testi, che delle tesi costituiscono un aspetto performativamente probante. Non posso che approvare il principio, appunto in linea di principio. Tanto Trevi che il sottoscritto, infatti, prima che eventualmente dei teorici, sono in primo luogo lettori e interpreti (anche se Trevi non accetterebbe il termine, ma ci intendiamo; a proposito, trovo grottesco che si tratti un personaggio come Trevi, che di letteratura sa moltissimo ma milita in nessuna accademia, di accademismo barbogio; e poi, con toni berlusconoidi e quasi fascistoidi, persino di ignoranza e arretratezza perché non sa servirsi degli emoticons). Anzi, forse proprio quel che connota la distanza della nostra generazione da quelle precedenti è proprio questo sano impianto fenomenologico (altri, dalla generazione precedente appunto, la considererebbe, va senza dire, pusillanimità concettuale; amen).
    Ma è in primo luogo la scelta dei testi sui quali impiantare la tua proposta critico-teorica, cioè la loro sostanziale povertà, che mi lascia fortemente perplesso; e spiace dire che la loro analisi critica, nel contesto del manifesto NIE, non sovverte le mie riserve (non mi sembra, in altri termini, che la tua interpretazione di De Cataldo o della Muratori ne risollevi di un ette le quotazioni critiche; spiacente). Qualcuno dice: ma si parla anche di scrittori non commerciali come Giuseppe Genna e Babsi Jones. No, non ci siamo proprio. Se i libri di Genna e Babsi Jones non hanno venduto quanto prospettavano le rispettive collane editoriali, il perché non lo so o posso intuirlo (al di là del rispettivo valore; perché della scrittura di Babsi Jones, al di là delle riserve ideologiche, ho la massima considerazione), ma non si può negare che entrambe le proposte figurassero in un package comunicativo aggressivo ed editorialmente assai strumentato. Come del resto tutti i testi da te analizzati.
    Molto avrei apprezzato, invece, che la pratica di apertura indiscriminata di piani e livelli, e di circolazione di materiali culturali dal basso, che hai sempre predicato, si fosse applicata anche su questo piano. Andando a scovare testi, in termini empirici, assai meno vulgati ma che davvero lavorino sulle categorie epiche (new o meno, ma certo più condivisibilmente tali che in Letizia Muratori), e lo facciano da tempi non sospetti. In generale trovo incomprensibile (se non appunto interpretandolo come subalternità), per es., che la tua ricerca si sia limitata alla narrativa. Quando è evidentemente in poesia, da noi e nei paesi anglosassoni, che per tutto il secondo Novecento è rimasta aperta l’ipotesi dell’epica. Eppure ti so sodale, come me, di un poeta come Lello Voce: che dell’epica moderna e delle sue tradizioni più o meno recenti è un grande conoscitore (oltre che nuovo interprete). L’insofferenza che mostri nei confronti delle avanguardie, moderniste o meno, è un altro evidente corollario della subalternità editoriale da te sofferta in questa circostanza. Ma per districarci dalle pastoie che subito si annodano appena si fa cenno all’avanguardia, in questo disgraziato paese, basti pensare, in altre letterature, alla poesia narrativa (e possentemente epica) di autori come Walcott, o Les Murray, che nulla hanno a che fare con l’avanguardia in alcuna sua forma.
    Il fatto è che della poesia con tutta evidenza non interessa un fico secco alle sulledate strutture materiali della cultura contemporanea. La poesia, o in generale la scrittura, che Trevi rivendicava alla fine sel suo pezzo, non è funzionale a nessun piano industriale; è disfunzionale e sovversiva, strutturalmente infungibile. Dunque insostituibile. Omero, o chi per lui, scriveva in versi.

  212. che cosa è una “idea tecnica della letteratura”? Sull’epica di Pippo Baudo e dei vescovi su facebook mi arrendo invece a prescindere… Comunque qua non si va avanti, se non per spot o attacchi personali, c’è poco da fare…

  213. @ Simone Ghelli
    sì, infatti, mi pareva di non essere stato così “attaccante”. Ho stima per Wu Ming, la discussione è sul suo testo (e anzi, come nelle sue opere precedenti, sulla complessiva operazione comunicativa al cui interno si colloca il suo testo).

  214. l’idea tecnica della letteratura, è quella di chi non considera suo fine o meglio significato l’efficacia, l’effetto sul mondo, il ritorno alle cose di quella loro duplicazione che è la parola, ma ne fa un gioco di inquadramenti tecnici, un feticcio, un’azione che si risolve nel rapporto e confronto con altre parole. bello l’intervento di cortellessa, che però a mio avviso è un altro che ha una visione tecnica della letteratura.

  215. @ Livio Borriello
    Conosco questa tua posizione. Ma mi pare curioso che un’idea disfuzionale e sovversiva di letteratura, come quella (polemicamente) appena enunciata sia al contempo stigmatizzabile come “tecnica”, nel senso in cui usi tu il termine. “Tecnica”, sempre nella tua accezione, è una concezione autonomistica del letterario; mentre quella appena rivendicata, semmai, pecca di esistenzialismo vieux jeu (o nouveau, se Wu Ming preferisce), e dunque rientra nell’orizzonte eteronomo da te prediletto.

  216. solo per aggiungere a Les Murray e a Derek Walcott richiamati da Cortellessa “Autobiografia del rosso” di Anne Carson, una splendida novel in versi
    p.s. Garboli sarebbe stato felicissimo di questa discussione..
    besos, Viola

  217. Liviobo, la tua opinione è sacrosanta come quella di chiunque altro. Tuttavia non stavamo qui parlando di idea di letteratura, che sia tecnica o meno, ma di testi. E’ quindi molto più interessante ciò che dice Cortellessa, che propone un’analisi di un testo che ha effettivamente letto.
    Sull’epica, visto quello che si è detto finora, suggerirei (ma è solo un invito che avanzo da ricercatrice in quell’area, e che naturalmente può essere bypassato, visto che sono la prima ad affermare il principio di non autorità) di mantenere un po’ di silenzio, perché dell’epica è necessario avere una conoscenza approfondita per poterne davvero parlare. Poi, per carità, di tutto si può chiacchierare, e infatti, a parte un paio di interventi sostanziosi fra cui quello di Cortellessa, che non per nulla il suo mestiere lo sa fare davvero, il resto sono piacevoli chiacchiere da blog, che con il lavoro di ricerca non hanno molta affinità.
    Ora mi congedo da questa piacevole discussione. Grazie per l’ospitalità.

  218. @cortellessa
    è tecnica se sovverte o rende disfunzionale solo o prevalentemente il livello del significante in senso stretto, senza arrivare a sovvertire quel linguaggio più complesso e più profondo che è la nostra percezione del mondo, quel discorso concettuale che svolge il nostro modo di percepire, valutare, emozionarsi (perchè il pensare e il parlare non sono infine che una modalità del sentire) fare la spesa o votare- e che per me è l’oggetto della letteratura necessaria. comunque, certo il discorso andrebbe per le lunghe, e io penso che sui blog si debba restare nelle 10 righe
    @claudia b e per ghelli
    la mia era solo una doverosa e diciamo etica reazione a certe tue frasi su trevi

  219. @ Andrea Cortellessa.
    Apprezzo molto il carattere non urlato di quest’intervento.
    L’impressione è però che vi sia un rischio di tautologia. Dal tuo commento mi pare di poter ricavare un’asserzione di carattere generale che riassumerei così (dimmi se sbaglio) :va bene partire dall’analisi testuale, ma i testi scelti devono avere un valore letterario e non solo editoriale.
    La mia è una domanda che riguarda il metodo. Come può un giudizio di valore su di un testo precedere l’analisi del testo stesso?
    Poi ho l’impressione che tale giudizio, nel tuo caso negativo, sia da ricercarsi al di fuori del testo ( “in un package comunicativo aggressivo ed editorialmente assai strumentato”).
    Forse non ho capito bene, ma in questo modo mi pare che l’analisi letteraria debba chiedere prima il permesso alla sociologia.

  220. Liviobo: doverosa? che è, Trevi c’ha bisogno dell’avvocato d’ufficio? Guarda, non penso proprio, mi sembra perfettamente in grado di reagire da solo.
    Detto ciò, saluti davvero.

  221. @ liviobo. Spero scuserai la lunghezza del mio commento, ma quel che dici è interessante.
    Mi pare che tu stia suggerendo che la sovversione che la letteratura riesce a fare dei propri oggetti, consiste nel riuscire a creare un supplemento estetico e noetico, dove il secondo termine va inteso come un correlato husserliano al primo, ossia come l’emergere del lato soggettivo dell’esperienza formata da tutti gli atti di comprensione (percepire, ricordare, immaginare) verso l’oggetto.
    Semplifico un po’ il discorso: ciò a cui assistiamo sono due momenti di uno stesso processo creativo, che da una parte produce, o riproduce, l’oggetto, e dall’altra genera la forma della sua stessa comprensione attraverso il contesto narrativo e linguistico. In realtà non credo si tratti di un processo disgiunto o disgiungibile, perché è ovvio che un momento non si da senza l’altro, quanto di un processo che sembra eccedere il limite simbolico tra l’oggetto e la sua rappresentazione.
    Penso, ad esempio, a Gomorra. Se il documento d’archivio sembra caratterizzato da un semplice valore informativo, e quindi privo di ogni valore estetico in quanto destinato ad esaurirsi nel proprio valore d’uso, Gomorra sposta l’accento sul suo valore simbolico attraverso una forma di indagine-narrazione che rende indistinguibile la materia narrata dal meccanismo narrativo.

  222. @ Andrea,

    scusami, tu scrivi “@ Wu Ming 1”, e usi sempre la seconda persona singolare, quindi io penso: ok, si sta rivolgendo direttamente a me. Però in mezzo ci metti cose scritte da altri e atteggiamenti avuti da altri, gli emoticons, l’accusa a Trevi di accademismo, e allora io non capisco più con chi stai parlando, ma soprassiedo.

    Sulla posizione di Trevi ho già scritto alcune cose, altre ne scriverò o meglio, ripartirò da alcune cose scritte da Trevi (es. lo strano scandalizzarsi perchè a qualcuno, peraltro buon ultimo, I demoni ricorda eventi del presente; il primo di questa catena di equivoci fu ovviamente l’autore stesso, a cui il libro che andava scrivendo… ricordava stranamente il caso Necaev, ma “che sensazione è mai”??) per poi allargare il quadro, ma ci vuole pazienza. Calma e gesso.

    Sulla tua ripulsa, me ne dispiaccio però al momento ho poco da dire, io finora ho capito che hai provato ripulsa perché hai provato ripulsa, e hai provato ripulsa perché parlo/parliamo di libri che vendono o al massimo “dovevano vendere”, perchè se vendono o ci si auspica che vendano, allora c’è qualcosa che non va, e quindi ripulsa. Ne prendo atto. Per ora posso dire che vedo anch’io, come Dimitri, il forte rischio della tautologia.
    In mezzo a tutto questo, un’implicita accusa di “pastetta” perchè Scurati su TTL ha recensito il libro che era uscito da poco. E io che c’entro? Prenditela col tuo diretùr di supplemento, che avrebbe dovuto attendere almeno qualche mese. Però, la prossima volta che recensirai un libro alla sua uscita, io ti chiamerò al telefono (chiedo il numero a Lello) e ti dirò, in ferrarese: invargògnat, budlòn! :-)

    Però, Andrea, io sono quasi commosso nel ritrovare un tuo vecchio cavallo di battaglia: “non sei più quello di una volta”. Ah, quant’era radicale Luther Blissett! Gli avversari di polemica, si sa, hanno sempre un passato bellissimo (un passato che non meritano) e un presente di indegna decadenza. Poi sì, ci infili alcuni svarioni e clichés, ma vabbe’, non è questo il punto. Se a te piace così, allora sono stato “situazionista”. Lo sono stato perché ti voglio bene, voglio che il piacevole ricordo (finto come quelli dei replicanti di Blade Runner) ti dia sollievo nei terribili giorni della dittatura di Wu Ming e altri poteri forti. Se la cosa può eccitarti, mi invento anche un passato negli Zengakuren e nei Mau Mau :-)

    In soldoni, comunque, avremmo tradito assunti iniziali che però, ecco… erano piuttosto diversi da come li ricordi, e rimando al paragrafo “Dien Bien Q” di questo testo qui:
    http://www.lutherblissett.net/archive/478_it.html
    Insomma, ehm, un passato iconoclasta e “anti-scopico” io non ce l’ho, e a nonno Adorno ho sempre preferito zio Abbie e zio Frank (Sinatra o Zappa? Entrambi!)

    Ribadisco, comunque, la mia impressione: troppo spesso si ragiona a partire da un’idea di industria culturale (e relative pratiche) data per scontata, quando scontata proprio non è. Come alcuni pensano che i mercati di oggi funzionino come descritto dugent’anni fa in The Wealth of Nations, altri pensano che l’industria culturale sia la stessa descritta da Adorno, Horkheimer e al massimo quello più giovane, com’è che si chiama? Ah, sì: Habermas! Una bella promessa, vero? Va tenuto d’occhio. A proposito, lo sapete che hanno inventato una cosa che si chiama transistor? Avremo apparecchi radiofonici molto piccoli e senza valvole. Sì, senza valvole. Pazzesco.

    Sul leggere / non leggere i testi, perdonami, detesto rivangare, ma ricordo un tuo incespichìo sull’ultima raccolta di saggi di Evangelisti: attribuisti al suo libro la posizione che lui enunciava nelle prime due pagine a scopo polemico, e che subito dopo rovesciava e smontava con durezza. Saltasti la parte che, iniziando con “Così, almeno sembrerebbe”, proseguiva con una critica molto dura – perché dall’interno – alla letteratura di genere e ai suoi presunti allori e successi, e prendesti quelle prime due pagine come prolessi delle *sue* tesi.

    Quindi, insomma, non dico che accada sempre, però accade, non nascondiamoci dietro un dito, dài. Accade. La fretta dettata dai tempi redazionali, i tanti libri da leggere, il lavoro di editore, i convegni etc. Siamo esseri umani o no?

    Comunque, Andrea, avremo senz’altro occasione di discuterne en amitié davanti a una pizza e una birra (tu: io sono astemio).

  223. Tanti bei discorsi, ma intanto il NIE è morto. Lo assicura Wu Ming 1 qui:
    http://kaizenology.wordpress.com/2009/01/27/il-new-italian-epic-e-morto-intervista/
    “È morto perché recava in sé il suo epitaffio con tanto di date: 1993-2008; ed è giusto che sia così, in un paese in cui non sembra morire (né nascere) mai nulla, in cui il ciclo della vita è arrugginito, inceppato.”
    Insomma, fino a prima che Wu Ming 1 lo inventasse dal nulla, dell’esistenza del NIE non si era potuto ovviamente accorgere nessuno, nemmeno la Repubblica e l’Unità, i due quotidiani sempre pronti a diffondere le genialate dei Wu Ming (compresa quella precedente dei VMO). Adesso Wu Ming 1 ci racconta che il neonato NIE è anche neo-morto. Che dire, se non mettersi a canterellare la versione aggiornata di una vecchia filastrocca:

    ***MARA-NIE perché sei morto?
    Lipperin non ti mancava
    l’insalata era nell’orto
    e una casa (l’Einaudi) avevi tu… ***

  224. P.S. Ho scritto o non ho scritto un’introduzione in versi all’ultimo libro di Lello Voce, che tu hai pubblicato con Le Lettere?
    Ho scritto o non ho scritto nel libro – che tu hai letto – che molta scrittura di oggi che si presenta come prosa in realtà è stata scritta in versi, facendo anche esempi?
    Ho riportato esempi tratti da Babsi Jones, in Balocchi, in De Michele, e interi capitoli di alcuni libri di Genna sono scritti in alessandrini in seguito “rovinati”, e il mio New Thing è stato scritto, in prima stesura, ricorrendo a metriche di diverse traduzioni (cosa che a volte riemerge nelle letture dal vivo).
    Ho scritto o non ho scritto un’analisi della metrica quantitativa nascosta nei testi di Battiato?
    Abbiamo o non abbiamo sul nostro sito un’audioteca con le registrazioni di nostri esperimenti narrativo/poetico/musical etc.?
    Però apprendo da te che sono un nemico della poesia.
    Queste cose son sempre buone a sapersi.

  225. «Il fatto è che della poesia con tutta evidenza non interessa un fico secco alle sulledate strutture materiali della cultura contemporanea. La poesia, o in generale la scrittura, che Trevi rivendicava alla fine sel suo pezzo, non è funzionale a nessun piano industriale; è disfunzionale e sovversiva, strutturalmente infungibile. Dunque insostituibile. Omero, o chi per lui, scriveva in versi»: Andrea Cortellessa, post, h. 19.46;
    «Il romanzo, oggi e soprattutto in Italia, è mutante e mutogeno, oltrepassa tutte le linee e divisioni, persino quella primaria fra prosa e poesia. Diversi romanzi odierni “aberrano” e diventano strani oggetti narrativi, e in alcune parti – parti significative – sono scritti in versi [seguono esempi]»: New Italian Epic, p. 84;
    «Ho letto il libro in questione, come ha fatto senz’altro Trevi – ci vogliono meno di due ore»: Andrea Cortellessa, post, h. 19.46.
    No further comment needed.

  226. Vabbe’, Giro, non è che in due ore poteva leggere proprio tutto, su :-)
    E’ divertente perché in quasi tutti i pezzi più incazzati contro il libro, si danno per assenti o non prese in considerazione cose che invece nel libro sono affrontate in passaggi-chiave.
    Nel libro c’è anche scritto:

    —-inizio citazione—-

    […] Ricerca di un terzo elemento che sia eccentrico rispetto a una coppia di opposti data come problema.
    Ipotizziamo quale coppia di opposti «lingua di servizio» vs «manzonismo degli stenterelli».
    Il terzo elemento eccentrico potrebbe essere una lingua (letteralmente) inaudita, che senza inutile chiasso penetri nella mente e sciolga la barriera tra «quel che è al di qua e quel che è al di là» del suono (per dirla con Karoly Kerényi che parla di Virgilio)
    [* K. Kerényi, Virgilio, Sellerio, Palermo 2007. Da questo libro (pp. 60-61) è tratto l’esempio che segue, introdotto dalla frase: «Oggetto e mezzo espressivo sono un tutt’uno, la componente “contenutistica”, entrando nell’illimitata e onnipotente lingua, è anche quella “artistica”».]

    Nel secondo canto dell’Eneide Laocoonte sta sacrificando un toro:

    Laocoon, ductus Neptuno sorte sacerdos,
    sollemnis taurum ingentem mactabat ad aras

    [Eletto sacerdote di Nettuno, Laocoonte
    un enorme toro ai piedi dell’ara solenne uccideva]

    In quel momento, Laocoonte è assalito da due serpenti, parte una sequenza d’azione e il toro non viene più menzionato. Svanisce.
    Ma svanisce soltanto in apparenza, al livello della descrizione degli eventi. La sua sorte è raccontata a un altro livello, attraverso una similitudine e un particolare «colorito fonico». Le grida di Laocoonte sono:

    qualis mugitus, fugit cum saucius aram
    taurus et incertam excussit cervice securim

    [come muggito di toro che fugge dall’ara
    scuotendo via la scure che l’ha solo ferito]

    In questi due versi, su ventisette sillabe ben undici contengono una u. Onomatopea del toro.
    Questa è la lingua dell’epica in una forma «pura» e massimamente raffinata. È raro ottenere simili risultati, ma quel che intendo per «sovversione nascosta» si avvicina al modello come un asintoto: ciò che conta è il movimento.

    —-fine citazione—-

    Ma è chiaro che della poesia non ce ne frega niente, c’è una dittatura del romanzo, l’egemonia di una lingua piatta e commerciale etc. etc. :-D

  227. Manzonismo degli stenterelli; Kerényi; fonosimbolismo. Ma tu sei colui che ha costruito questi versi? (Si noti l’incidenza della vocale posteriore [u] nell’ultima frase):

    La clinica nido di membra stanche la casa del riposo
    sorge su un colle azzurra come lama di forbice
    bianca come latte in polvere come
    un lenzuolo e silenzio attorno
    La Pace
    Arcadia dell’ultimo miglio
    qui si è raccolta la famiglia prega assiste la ragazza
    si prepara
    morta da tanti anni si appresta a morire
    senza la paura né l’orrore né bisogno
    di aggrapparsi a una mano nell’ultimo momento
    [come nei film prove d’attore a buon mercato]
    prima del tuffo nel vuoto perché fluttua già nel vuoto
    magra nel sarcofago vuoto solo un canale non sintonizzato
    sotto la palpebra vuoto

    P.s.
    Ma sì, fai bene, benissimo a baccagliare. Come vuole l’epigramma:

    Vino non c’è cui non bisogni frasca, / Autor che non annunzia non intasca

  228. Però… per quanto vero quello che dici, WM1, io per primo dissi in questa discussione: “Sarebbe stato bello leggere un NIE (che magari si sarebbe chiamato NIET, VAFF, o STRONZ, non lo so) della poesia, o del teatro. Sarebbe stato bello vedere il precipitato innescato da questa reazione chimica.”
    Ché tu sai che io apprezzo la capacità intenzionale e la possibilità di apertura del NIE. Però deve sapere di non poter essere esaustiva (anche in questa versione 3.0). Il NIE così com’è accentra la sua attenzione a una tipologia di testi che per quanto tangenti non sono, strictu sensu “poetici”. E credo sia anche naturale, per indole dell’estensore (a meno che non si pensi superumano).
    La richiesta di Cortellessa è lecita per me. Auspicabile.
    Qui su NI si fa quasi una lotta antiliristica accesa, è tema che ci coinvolge. Chiaro che se avessi di fronte un “poeta lirico” di straordinaria fattura non lo escluderei ideologicamente dalle mie letture. Così come non lo si può fare con un romanziere se ha il talento vero del narratore, del cantastorie. Cosa che spesso lo si fa, appunto, ideologicamente.
    Back to the books, mi verrebbe da dire se fossi un rapper.
    E meno personalismi: a Cortellessa ne sono usciti dalla tastiera un paio evidentissimi, ma tu ne hai fatto una colonna intera! ;-)

  229. @ Cortellessa, Wu Ming 1, Biondillo

    Pare che vi abbiano letto nel pensiero!
    http://lellovoce.altervista.org/spip.php?article1694#forum10251

    Io, umilmente, aggiungo che una cosa è dire che il NIE è una lettura che pone al centro il romanzo e anche se tocca la poesia vera e propria non si rivolge a quella; ma un’altra cosa è dire che il NIE è un’operazione delle corazzate editoriale che vogliono distruggere la poesia ecc. Io in certe filippiche lette qui sopra, ho letto questa posizione e chiedo scusa ma, la trovo insostenibile.

  230. Gianni, il punto è esattamente quello riassunto qui sopra da Grassini.
    Interessante il testo di Cuccaroni: una risposta pratica, un fare costruttivo, molto diverso dalle lamentationes e dai piagnucolii (tra Adorno e Adornato) che ho letto in questo thread. Sono curioso di vedere come prosegue.

  231. @ Wu Ming 1
    Per quanto riguarda l’articolo di Scurati, osservo che questa notevole tempestività è stata esercitata da uno degli autori che il tuo scritto menziona all’interno della corrente NIE. Il che è perfettamente legittimo, ma contribuisce ad accreditare l’impressione, non solo mia, di una forte coesione di gruppo e coonestazione reciproca. Il che è storicamente altrettanto legittimo: specie nei movimenti d’avanguardia che però, guarda caso, tu dichiari di avversare.
    Apprendo anche con estremo interesse che nulla nella tua formazione e nella tua attività degli anni Novanta abbia mai avuto a che fare appunto con l’eredità dell’ultima avanguardia, appunto, del Novecento, i Situazionisti. Ti sei chiamato Luther Blissett evidentemente perché eri un appassionato di calcio.
    Per quanto riguarda la sufficienza di “Girolamo” (immagino un altro degli autori trattati nel tuo testo) nei confronti della mia lettura, indicando un passo dove parli di fenomeni prosimetrici osservabili nei testi da te analizzati, mi limito a ricordare che la letteratura italiana semplicemente comincia con un prosimetro, la Vita nova. Pratica anche Italian, dunque, anche se non necessariamente Epic e neppure troppo New. Naturalmente bisognerebbe andare a vedere come si conduce il prosimetro, se davvero cioè lo si rende un oggetto testuale instabile e metamorfico, o se i versi rappresentano solo un abbellimento (nel migliore dei casi) o una stucchevole belluria (nel più frequante). Immagino che un simile scrupolo sia tacciabile di veteroformalismo. Ma i testi da te analizzati, con l’eccezione di quello di Babsi Jones e, in parte, di quello di Saviano, a mio modo di vedere e malgrado la tua analisi non eccedono affatto i confini del genere al quale assai prevedibilmente rinviano. Ben altri sono gli esempi che andavano fatti, però per farli occorreva muovere un passo al di là dei cataloghi delle majors. Peccato, sarà per un’altra volta. (Lo so bene che hai scritto la prefazione al libro di Lello Voce, non so se ti sei accorto chi dirige quella collana; proprio per questo mi fa specie che non abbia considerato, nel tuo testo teorico, testualità come la sua.)
    Il fatto che mi rivolga a te, che sei l’oggetto di questo immenso OT in quanto teorizzatore del NIE, non toglie che possa, argomentando, dire “fra l’altro”, cose che riguardano effati di altri. I quali peraltro a loro volta si rivolgevano a te o te riguardavano. Anche tu rivolgendoti al “Giro” di cui sopra, infatti, ti sei riferito a me, ribadendo (fra una strizzatina di emoticon e un’altra) che non ho letto tutto il tuo testo. Il che semplicemente non è vero. Se ti fa piacere partire da questo presupposto perché ti fa sentire più tranquillo, fai pure. Il paragone col pezzo su Evangelisti, il quale a sua volta mi accusava di non aver letto tutto il suo Distruggere Alphaville perché ne attaccavo una tesi che poi lui a sua volta ritrattava (o per meglio dire retoricamente faceva le mosse di ritrattare) nel prosieguo del medesimo testo, è in tal senso indicativo. Se quel testo ospitava in sé passaggi che ne contraddicevano un assunto (anzi, il presupposto di partenza, che ideologicamente peraltro improntava anche il resto dell’argomentazione), era quanto meno un testo fortemente contraddittorio. Dal punto di vista dell’argomentazione saggistica, non stava in piedi. E io avevo interesse a confutare quella tesi specifica non altre, con essa più o meno contraddittorie, con le quali potevo anche essere eventualmente d’accordo.
    Anche nel tuo testo ho riconosciuto che ci sono diverse parti interessanti. Che a mio modo di vedere non si integrano con coerenza, infatti, in un contesto che ribadisco, ai miei occhi, subalterno nei confronti dell’industria editoriale di oggi, febbraio 2009, non di quella degli anni Quaranta di cui parlava, negli anni Quaranta, nonno Adorno. A mio modo di vedere l’industria editoriale di oggi è molto peggio di quella del tempo di Adorno, e la sua descrizione più efficace è contenuta in testi degli anni Novanta e Duemila di Eduard Schiffrin, Editoria senza editori e Il controllo della parola (Bollati Boringhieri; rinvio al dibattito contenuto nel n° 35 della rivista il verri, ottobe 2007 (non pubblicata da una major: et pour cause.
    Io non ho invocato le categoria di Adorno, in questa occasione; attribuirmele non è meno scorretto degli errori di logica argomentativa, o delle vere e proprie scorrettezze, che hai imputato ad altri su Carmilla. Quindi se devi fare a tutti i costi dello spirito, a uso della claque, circa “lamentationes e piagnucolii (tra Adorno e Adornato)”, per quanto mi riguarda questa discussione si chiude qui.
    Se vuoi discutere davvero, invece, accomodati; mi pare di essere venuto qui precisamente per farlo. E con rispetto. La questione che ho posto è la subalternità, che io ravviso, della tua proposta teorica ai fini e ai comportamenti dell’attuale industria culturale. Se credi, opponi a questa mia lettura degli argomenti.

  232. @ Wu Ming 1
    Comunque, riguardo alla pizza e alla birra: alla prima ci sto, alla seconda no. Sono astemio anch’io.

  233. @ Dimitri
    Rispondo alla tua impressione, che il mio ragionamento pecchi di tautologia. Sono ovviamente d’accordo col principio di analizzare i testi, una quantità sufficiente di testi, prima di fondare una proposta teorica. L’ho detto prima. Ma è proprio questo, secondo me, il principale punto debole di quella di Wu Ming: le sue analisi testuali a mio modo di vedere semplicemente non giustificano l’inserimento di questi testi, e non altri, all’interno del quadro teorico. Io non li ho letti tutti, beninteso (non quelli del tranciante “Girolamo” per es.). Di quelli che ho letto, però (fra quelli proposti), diversi non eccedono affatto il genere di riferimento; diversi non sovvertono neppure in maniera “nascosta” le norme linguistiche che a essi generi pertengono (e perché dovrebbe essere per forza “nascosta”, poi, ‘sta sovversione, se non in omaggio a una logica situazionista? ma già, no, il situazionismo no, avanguardia, pussa via!); diversi non sono allegorici né nel senso di Benjamin né nel senso di Dante né nel senso di Manzoni che (teste Gadda – oddio, Gadda, che palle!) “parla a nuora Spagna perché intenda suocera Austria”.
    Dunque delle due una: o Wu Ming ha letto molti altri testi, li ha analizzati, e ha prescelto questi e non altri perché essi si confanno a perfezione alla sua proposta teorica, e dunque è quanto meno disastroso in analisi (e non parrebbe; anzi in alcune di esse è persino brillante, per non dire capzioso). Oppure ha costruito una bel quadro teorico, molto glam e di tendenza, e ha fatto in modo di farvi rientrare, con le buone o le cattive, un po’ tutti gli autori che sente vicini o che sente bene accetti all’industria culturale. E dunque è quanto meno scarso in deontologia: come anticorpo, cioè, dell’industria culturale. (Di quella del febbraio 2009, non degli anni Quaranta.)
    Per me quella vera, dico e ribadisco, è la seconda che ho detto.

  234. Contrordine: il NIE non è morto. E’ appena uscito un testo di Nico Orengo (Islabonita) in cui il mondo è guardato attraverso gli occhi di un’anguilla. E siamo sempre in zona Einaudi…

    @Cortellessa. Wu Ming 1 non si è minimamente accorto dell’esistenza del massimo sperimentatore linguistico dei nostri tempi, Andrea Comotti, per esempio (“L’organigramma”, catalogo Vibrisselibri). Ma si è accorto benissimo del titolo della sua amica Monica Viola (sempre in Vibrisselibri), cui il servile Girolamo De Michele non ha mancato di dedicare una bella recensione in Carmillaonline.

  235. @ gianni biondillo

    “Però… per quanto vero quello che dici, WM1, io per primo dissi in questa discussione: “Sarebbe stato bello leggere un NIE (che magari si sarebbe chiamato NIET, VAFF, o STRONZ, non lo so) della poesia, o del teatro. Sarebbe stato bello vedere il precipitato innescato da questa reazione chimica.”

    Ed io per primo le risposi, e riprendo. In Italia, la ricerca letteraria, la letteratura di ricerca, la sperimentazione letteraria, usate i termini che preferite, in termini di innovazione di linguaggi, è indietro (termine orribile) rispetto ad altre discipline quali ad esempio le arti teatrali e performative. Avevo portato come esempio il lavoro svolto dalla “Societas Raffaello Sanzio”, ne riporto un altro, il lavoro che ha svolto proprio sulla scrittura e sul romanzo ad esempio la compagnia “Fanny & Alexander”. A prescindere dalla discutibilità dei gusti, forse è il caso se qualcuno ignora, che vada a dare un’occhiata a quanto è accaduto negli ultimi 15 anni e sta accadendo ora. Quanti registi vorrebbero trovare in Italia scritture all’altezza dello stato delle cose, ed io di Martin Crimp di Sarah Kane e Jon Fosse non ne vedo affatto. Si continua a parlare di testi a confronto, qualcuno vada a mettere accanto “SLMPDS” di Babsi Jones e “Blasted” di Sarah Kane (tutto il teatro della Kane è edito da Einaudi tra l’altro). Forse c’è poca comunicazione o uno snobbarsi a vicenda tra differenti discipline, magari uno spazio di incontro produrrebbe qualche risultato interessante.

  236. @ Morganthal
    Vano, mi pare, rinfacciarsi “tu non conosci questo, tu non conosci quello”, e insomma ribadire il topos della Gita a Chiasso. Quelle a cui ci esorti sono poi fruizioni piuttosto diffuse. Chiunque abbia messo piede a teatro in questi anni dovrebbe conoscere bene il lavoro tanto di Fanny & Alexander che della Socìetas Raffaello Sanzio. Quello di Sarah Kane, poi, a me pare ampiamente sopravvalutato.
    Ma la realtà – clamorosamente evidente a chi non si senta chiamato a un referendum sì/no, a maggioritario secco, su Wu Ming – è che si possono citare infinite testualità, anche molto più vicine a noi (geograficamente), che sono incredibilmente più valide e interessanti di quelle analizzate in NIE. Anche tenendo conto dei parametri teorici che Wu Ming propone.

  237. @ Andrea Cortellessa

    le mie parole, mi creda, fuori da qualunque rinfacciarsi. A giudicare dai discorsi saltati fuori, forse di piedi a teatro ne son stati posati pochi (e non mi riferisco a lei). Portavo l’esempio di quei due testi in particolare perché, giudizio personale, trovo degli aspetti in comune. Il tema era “reazioni chimiche” in altre discipline. Di testualità a noi prossime, lascio a lei la parola perché è il suo campo e ne sa molto più di me.

  238. C’è chi ha la sindrome dell’escluso e chi la sindrome dell’angelo del ciclostile, sempre pronta a lavare i piatti e a rifare il letto al Revolucionario delle patrie lettere.

  239. ERRATA CORRIGE. Chiedo venia, pensavo di stare postando in Lipperatura (aperto in contemporanea). Lo si consideri postato là, dove la Lippa censurerà all’istante (non tollera deviazioni dal Pensiero Unico).

  240. @ Morganthal
    Uno degli aspetti che ho trovato sinceramente interessanti, in NIE, è stato confinato in una nota a piè di pagina (per la precisione a p. 23; che sia seminascosto qui è peraltro un indice, ai miei occhi, che questo tipo di discorso è meno funzionale alla politica industriale al cui interno l’operazione NIE si colloca, e dunque non conviene strombazzarlo con la prosopopea di altri enunciati): laddove si legge che “la contaminazione da tempo non è più una scelta ma un già-dato, un ambiente in cui tutti ci muoviamo”. Sono talmente d’accordo che da due anni e mezzo dirigo una collana, per Le Lettere, che si chiama fuoriformato e che parte dal medesimo presupposto. Sono rari (non dico: impossibili), oggi, testi di valore, nei quali la “reazione chimica” transmediale (per usare il linguaggio a volte un po’ ingessato di NIE) non si verifichi, e che restino orgogliosamente barricati entro la propria tradizione. Proprio per questo trovo deludentissima la scelta dei testi proposti alla nostra attenzione da Wu Ming: i quali, nella loro grande maggioranza e a dispetto degli equilibri retorici e sovrainterpretativi cui sono sottoposti, per l’appunto restano barricati entro la propria tradizione (non tanto orgogliosamente, forse, perché la perizia artigianale con la quale vengono eseguiti non è commisurabile a quella di prodotti molto più onesti, e infatti molto meno commerciali).
    Qualche post fa il medesimo Wu Ming 1 citava una pillola dal Bignami di Benjamin per concludere: tutto il contrario del richiamo all’ordine. E’ questo il double bind nel quale ha insaccato i suoi commentatori, e credo ne vada fiero; ma, mi pare, anche se stesso. Le sue premesse teoriche non sono solo “interessanti”, in effetti: in notevole misura sono anche le nostre. E tuttavia da tali premesse, nel testo NIE, discende il circoscrivere un campo di attenzione che proprio quelle premesse, a ben vedere, smentisce frontalmente. Così ideologicamente si può continuare ad affermare di essere “il contrario del richiamo all’ordine” (detto contrario peraltro, in termini di storia della letteratura, ha un nome preciso – che però lui, chissà perché, a tutti i costi non vuole venga pronunciato: Avanguardia) ma, empiricamente e pragmaticamente (cioè sul piano delle strutture materiali della cultura), tale richiamo all’ordine lo si promulga, eccome. Questo a casa mia si chiama voler impersonare insieme l’anarchico bombarolo e il carabiniere a cavallo. O, in termini più prosaici, volere la botte piena e la moglie ubriaca.

  241. @ Andrea

    tu il libro lo hai letto. Con ritmo da “catena di montaggio della lettura” (poco più di trenta secondi a pagina, a tuo dire), ma lo hai letto.
    E’ che con la tua lettura, non posso nemmeno essere in disaccordo.
    Nel “cosa” e nel “come” della tua lettura, manca qualunque bitta a cui legare la fune dell’accordo o del disaccordo. La nave e il porto sono in due mondi diversi e nemmeno paralleli.

    Il “cosa”: continui a parlare di culto delle classifiche, cataloghi delle major, esclusioni, asservimento al mercato etc. Sempre con quella proiezione fobica nei confronti dei “molti”, mamma mia, che paura, gli zombies circondano casa mia.

    Il “come”: alla faccia del “doppio vincolo”! Un testo presentato come memorandum e insieme di appunti e proposte aperte – che da quasi un anno stimola in rete discussioni che mi paiono feconde e prese di posizione non certo acritiche – da un lato viene accolto come testo chiuso, “manifesto”, imposizione di canone, lista di proscrizione, tavola dei nuovi comandamenti imposti da un Dio del male che odia la vera letteratura; dall’altro, invece, lo si rimprovera di non essere un testo sistematico e coerente. Cosa che il testo stesso dichiara fin da subito.

    Il problema è di fondo e lo hai ammesso anche tu: a te non interessa il “campo di attenzione”. Pienamente legttimo da parte tua. E’ un terreno altro rispetto a quelli in cui ti muovi. Sono opere che non ti interessano, che giudichi a priori “non oneste” perché non corrispondono alla tua idea di letteratura. Per me questa è una fallacia, ma amen. Da qui deriva il rimprovero di non aver tenuto conto di opere “più oneste”… perché non popular. Ma che io volessi occuparmi soprattutto di un modo di stare dentro il popular in modo conflittuale era una delle premesse non solo del testo, ma di tutto il mio percorso

    [e qui sta l’impossibilità di ricondurre le mie/nostre pratiche al situazionismo: il Luther Blissett Project si ispirava principalmente allo zapatismo, cosa evidente fin da “Mind Invaders” (Castelvecchi, 1995) ed era totalmente estraneo al terrore per il “recupero spettacolare” che informava ogni analisi e presa di posizione situ e pro-situ.]

    Insomma, nell’accusarmi di incoerenza, si esige una mia incoerenza.

    Io mi chiedo: perché la ripulsa e non il semplice disinteresse? E’ come se io provassi ripulsa per un libro di modellismo con la creta. Si può polemizzare solo tra persone che si muovono sullo stesso terreno, ribadisco: contra negantem principiam etc.

    Sul concetto di “transmediale” (e non di multimediale, che è un pleonasma), rimando a Jenkins, ho già fornito indicazioni bibliografiche. Guarda che quei due libri sono interessanti davvero, non te li consiglio per coglionarti. Leggili entrambi, tanto ci metti un’ora, al massimo un’ora e mezza :-) Poi ne parliamo, anche in privato se vuoi.

    Sull’avanguardia: per me è un paradigma vecchio, carico di connotazioni oggi poco utili, ma non impedisco a nessuno di cercare di ottenerne ancora del buono. “Avanguardia” e “sperimentazione” non vanno per forza insieme, ma se uno le vuole tenere insieme, ok. Purché non mi si dica che lavorare tra pochi e per pochi è moralmente superiore al lavorare tra molti e per molti. E invece è proprio sulla moralità che si fanno i distinguo, e allora, caro Andrea, io dico: va bene, sei migliore di me. Sei più a sinistra di me. Sei più antagonista e disfunzionale di me.
    Contento?

  242. @ di nuovo ad Andrea

    forse non si è capita a sufficienza una cosa, anzi, due, e allora le esplicito: 1. per la pizza dico sul serio; 2. io ti “pungolo” perché non ti ritengo un cretino (ah, la litote!), perché comunque a differenza di altri stai argomentando (partendo da premesse che ritengo concettualmente fallaci e lungo direttrici che ti portano in un mondo in cui la mia voce non può raggiungerti, ma stai argomentando), e vorrei di più e meglio, e non è detto che più e meglio non arrivino.

  243. @Andrea Cortellessa. Grazie della risposta. Sono d’accordo con te solo in parte.
    Sono d’accordo quando indichi la perfettibilità di una proposta teorica, meno quando sostieni che tale perfettibilità sia da escludersi a priori perché le opere prese in considerazione sono ben accette dall’industria culturale.
    Io, per esempio, ho voluto sottoporre a “verifica testuale” quelle opere che WM1 ha definito “oggetti narrativi” (anche se forse non sono convinto della giustezza di una tale definizione, che trovo efficace ma provvisoria).
    A legare opere come SLMPDS, Asce di Guerra, Gomorra, Dies Irae o L’Uomo che Volle Essere Peron non è uno stile, che varia da quello iperletterario e lirico di Babsi Jones a quello conciso e letterariamente dissimulato di Roberto Saviano, ma un livello più profondo del discorso che precede la resa stilistica.
    Quel che accade è che eventi ed esistenti si prolungano in un loro doppio letterario che favorisce lo scivolamento del reale nella sua ricostruzione letteraria.
    E’ forse a partire da qui che possiamo individuare una caratteristica comune a queste opere, ossia il confronto narrativo che esse stabiliscono con eventi ed esistenti. Non solo la collocazione spazio-temporale della narrazione è sempre molto precisa, ma sono anche molti dei personaggi e delle vicende rappresentati a trovare la propria referenzialità nel mondo storico.

    Mi interrogo sulle funzioni di questi romanzi ed arrivo ad una duplice conclusione.
    L’aggancio della narrazione ai significati condivisi e ritenuti reali del mondo storico assolve una funzione deittica capace di ricostruire un continuum storico, su cui far attecchire la produzione di senso specifica del testo. In Dies Irae (ma potrei citare Gomorra come Asce di Guerra) Alfredino Rampi, Benito Craxi, Moana Pozzi, Enrico Berlinguer, Silvio Berlusconi, Jerry Calà, Umberto Smaila, Tangentopoli, la Fiat Tipo, la bomba di Capaci e quella di via dei Georgofili, la discesa in campo di Berlusconi funzionano come operatori di continuità rispetto a un’organizzazione del senso extratestuale, un vero e proprio continuum storico inteso come “habitat semiotico primario”.
    Questa però è una posizione pericolosa, perché, come sosteneva Marco Dinoi, un giovane studioso da poco scomparso, il rischio è di arrivare “a interpretare il passato come ciò che appare definire deterministicamente le regole di produzione del presente; quest’ultimo non può dare inizio a una sua azione essendo appunto il risultato del tempo precedente e delle sue logiche.”
    E’ un rischio che si fa palpabile soprattutto in SLMPDS e Dies Irae, dove la rappresentazione del tempo è circolare e posa sulla coazione a ripetere. E’ però vero, a mio parere, che a partire da un “habitat semiotico primario” questi romanzi funzionano anche come “operatori di discontinuità” rispetto all’orizzonte storico presupposto dal testo, e lo fanno intercettando la molteplicità delle linee storiche, per poi rimodularle, prolungarle o mostrarne le possibili vie di fuga nello spazio tra una linea e l’altra.
    In questo ritrovo anche un rimando all’epica che da il nome al saggio di WM1, o forse si può risalire fino a Barthes “l’arte critica è quella che apre una crisi: che lacera, squarcia la coltre, produce fessure nell’incrostazione dei linguaggi, interrompe e diluisce l’avvelenamento della logosfera; è un’arte epica che rende discontinui i tessuti discorsivi, che distanzia la rappresentazione senza annullarla”.

    Ora tutto questo non è per fare il “giovane critico che le canta a Cortellessa”, sono coglione, ma non fino a questo punto. Credo solo che sia ingeneroso qualificare tutto come “un bel quadro teorico, molto glam e di tendenza”. Magari il lavoro che sto facendo è sbagliato e le premesse teoriche fallaci, forse la semiotica e la narratologia non hanno dignità di critica letteraria. Va bene tutto, però questo cosa c’entra con l’industria culturale?

  244. Caro WM1,
    premetto che anch’io ho trovato spiacevole i toni e il metodo cui Trevi è ricorso nella sua recensione. Quel che mi ha infastidito, però, non sono le citazioni strumentali e fuori contesto, ma il falso candore di ammettere una inadeguatezza a comprendere cosa diavolo sia questo benedetto NIE. Mi ha infastidito perché è vero piuttosto il contrario, e cioè che elenchi i punti del tuo ragionamento in maniera fin troppo chiara. Così chiara che i limiti e le contraddizioni emergono con tale luminosità da oscurare il resto, il buono. Giacché del buono c’è, perlomeno nelle intenzioni; e l’ho sottolineato in tempi non ancor sospetti in un articolo comparso sul «manifesto» (tanto per rendere chiaro anche il fatto che non ho pregiudizi di sorta). Premesso ciò ti esorto, o meglio ti invito a non dedicare troppo tempo a stilare un vacuo catalogo della «fallacia» critica. Entra invece nel merito delle questioni e, magari, ripensa alcuni punti. Purtroppo Cortellessa ha ragione quando dice che i testi da te menzionati non vengono rivalutati dalla tua gabbia teorica. Il problema non è la loro «sostanziale povertà», bensì il fatto che le sbarre sono troppo esili o troppo distanti tra loro per fungere da gabbia. Conosco assai bene Cortellessa (mi ha persino pesantemente stroncato) e posso assicurarti che dispone di tutti gli strumenti per venire a capo in meno di due ore di un libro come il memorandum sul NIE. Anziché contestargli una lettura da catena di montaggio bisognerebbe contrapporgli argomenti concreti su nodi centrali come quello dell’avanguardia, nodi sui quali mi trovo personalmente più vicino alla tua posizione che a quella di Cortellessa. Il guaio è che la premessa su cui hai edificato la gabbia NIE — il superamento del postmoderno — ti ha obbligato a tirare per i capelli determinati passaggi logici. Spero mi perdonerai se ti dico che non v’era e non v’è alcuna necessità di un simile superamento in un contesto come quello italiano dove il massimo (e pressoché unico) esempio di romanzo postmoderno è rappresentato da Il nome della rosa. Con questa insensata ambizione hai finito per ingabbiarti da solo, enucleando una serie di tratti salienti che francamente fanno un po’ sorridere, come la storia dello sguardo obliquo che è per l’appunto una delle caratteristiche tipiche della «vera» narrativa postmoderna. Pensa al racconto di Barth dal punto di vista di uno spermatozoo, pensa all’episodio della lampadina in Gravity’s Rainbow, pensa al volo di un cane dalla finestra di un altro racconto di Barthelme. E potrei continuare. Ma pensa soprattutto a quanto Barth scriveva in quello che può essere considerato un memorandum del postmoderno, La letteratura dell’esaurimento. Pensa al fatto che Barth centrava le sue riflessioni sul problema della multimedialità; allora si usava il termine intermedia ma il concetto era più o meno lo stesso sebbene non ci fosse ancora internet. E sempre a proposito di sguardi strani, scendendo a un livello più basso e nostrano, pensa ad Achille Bonito Oliva, che sul postmoderno ha costruito la sua fortuna non facendo che parlare di «passo dello strabismo». Voler marcare a tutti i costi una distanza dal postmoderno ti ha poi imposto la messa al bando dell’ironia in nome dell’empatia, come se una debba per forza escludere l’altra, come se certi testi postmoderni fossero privi di una commossa partecipazione alla condizione umana. Ti sei poi ritrovato a parlare di ucronia e storia alternativa citando da Philip Roth (che non è esattamente un maestro del genere) a Il signore degli anelli, sorvolando bellamente sul nostro Morselli; non è roba da poco visto che questo «epic» dovrebbe essere «italian», almeno sulla carta. Ma il punto più dolente (dal mio punto di vista) e quando si giunge a questa infelice definizione: oggetti narrativi non-identificati, anch’essa frutto inevitabile del tuo ragionamento. E in cosa consisterebbe l’impossibilità di dare un nome a libri misteriosi come Gomorra? Nel fatto che sono un po’ fiction e un po’ non-fiction, un po’ questo un po’ quello. Sarei curioso di sapere cosa ne pensa in materia, non dico Truman Capote, ma un certo Dante. Sarei curioso perché stento a capire (e qui rischio di fare la fine di Trevi) come tutto ciò si concili con l’evidenza che Gomorra è andato in libreria con su scritto «romanzo». Stessa sorte capitata a Hitler e Italia De Profundis malgrado Giuseppe Genna abbia specificato a più riprese che si tratta di non-romanzi. Ora io ti domando (e senza il benché minino intento malevolo): non ti pare che questa palese contraddizione, oltre a sortire effetti involontariamente ironici, denoti un problema su cui varrebbe la pena di riflettere e dal quale scantoni? Come forse ricorderai, ti ho già contestato la cosa a suo tempo senza ottenere reazioni degne di nota. Non è questione di poco conto: nella sua recensione Trevi conclude affermando che in fondo al tuo memorandum intravede quel che meno gradisce in letteratura, l’ideologia del romanzo. Cortellessa, sotto sotto (ma anche sopra sopra), quando parla di asservimento alle logiche di mercato, lascia intendere che il romanzo non dovrebbe più essere il mestiere di nessuno. Ma ahimé la realtà delle cose è che nel tuo memorandum nomini una gran quantità di testi come L’ottava vibrazione di Lucarelli, che qualunque uomo della strada dotato di un minimo di buon senso non esiterebbe a definire romanzi. Di fronte a tutto ciò nemmeno io mi capacito del fatto che in una simile messe di «epiche» citazioni non compaia, per esempio, un testo come Groppi d’amore della scuraglia. Non mi capito e me ne dispiaccio, perché sotto sotto (e sopra sopra) io mi sentirei più dalla tua che di quelli che ti danno addosso, perché scrivo romanzi e intendo seguitare a scriverne, perché sono convinto che parte della barbarie in cui sta precipitando questo paese non sia disgiunta dai moti di schifo aprioristici per la finzione di derivazione romanzesca. Perché nessuna cosa è slegata dalle altre. Perché, come diceva Balzac, i romanzi sono la storia privata delle nazioni. Gli oggetti non identificati, non so.
    Con simpatia,
    tommaso pincio

  245. @ Tommaso Pincio

    sì, conosco la tua posizione, che avevi già esplicitato nell’articolo su Goliarda Sapienza uscito tempo fa sul Manifesto.

    [All’epoca avrei voluto scriverti una precisazione sulla questione dell’ucronia, perché nel memorandum parlavo di “ucronia potenziale”, di storie che si svolgono in tempi di possibili, quasi imminenti biforcazioni che però non si verificano. Il “what if potenziale” non è ucronia vera e propria, quella di cui parlavi tu nell’articolo: è frustrazione dell’ucronia possibile. Se ci fai caso, di ucronie vere e proprie in Italia se ne scrivono poche, e comunque le ucronie sono spesso ipotesi controfattuali molto formulaiche, meccaniche, poco interessanti. A me interessa quanto di “ucronico” sta sotto la pelle di una narrazione che non è un’ucronia. Poi mi sono scordato, non te l’ho più scritto. Ne ho approfittato ora.]

    Adesso ti invito a una “visualizzazione”.

    Pensa a dieci mesi di dibattito, decine e decine di discussioni on line, testi su testi prodotti in risposta al memorandum, con prese di posizione utili e non certo acritiche, che hanno modificato il memorandum stesso.

    Sì, perché la versione 2.0 va oltre la 1.0 riconoscendo inadeguatezze e precisando. E la 3.0 contiene ulteriori precisazioni.
    Anche sul fatto che “oggetti narrativi non-identificati” è una definizione provvisoria, perché in futuro – come spesso è accaduto – saranno ritenuti romanzi.
    Questo perché, anche grazie a interventi come il tuo (ma soprattutto grazie al lavoro di Chimenti e Level 5, devo dire), ho ritenuto che prima questo fosse troppo implicito e foriero di equivoci.

    Pensa inoltre che io sto cercando di mettere in questione e verificare le mie ipotesi in giro per l’Italia, tra presentazioni, conferenze, convegni e ogni sorta di incontro pubblico.

    Questo va avanti dall’aprile 2008. Ed è quello che volevo succedesse, dato che la mia proposta era – e lo ripeto per la millesima volta – aperta, relativa, provvisoria.
    Ora, per favore spiegami in che senso io avrei “scantonato” ed evitato il “merito” delle questioni. Anche tu, in questo tuo ultimo commento, sembri trattare il testo sul NIE come fosse una proposta chiusa, definitiva, nella quale addirittura… mi sarei intrappolato da solo. Che devo fare, se non ribadire che tutto quanto è in continuo divenire?

    Sulla questione della fallacia: può piacerti o no il modo che ho scelto in questo specifico frangente, ma per favore non dire che in quel testo non entro nel merito, perché l’esposizione della fallacia del “non è letteratura” per me entra eccome nel merito di una questione molto importante, fondamentale. O si parte dall’idea di letteratura, oppure si parte dai testi.
    Anche nella seconda parte userò una fallacia per entrare in un merito, quello dell’allegoria, e pure in un altro merito, quello sguardo d’insieme vs. ottica riduzionistica.
    Questi sono contenuti. Si può essere in disaccordo, ma sono contenuti. Se ci vedi molto loglio, in quel testo, ti invito a dividerlo dal grano, e poi ci confrontiamo su questo.

    Appunto, l’ottica riduzionistica. Da mesi invito a ragionare su quelle che mi sembrano essere particolari, peculiari sintesi che si sono prodotte nella letteratura italiana degli ultimi quindici anni. Sintesi. Compresenza di elementi e loro interazione con un contesto, e si produce un tutto superiore alla somma delle parti.
    Eppure molti – anche tu qui – continuano a rispondermi: ma il tal elemento era già presente là, il tal altro era già presente qui etc.
    Ragazzi: sforziamoci di guardare l’insieme. Chiedo più attenzione per le sintesi. Contestatemi su questo, ditemi: non vedo peculiarità di questa sintesi, la situazione italiana non ha nulla che porti la nostra letteratura a distinguersi da altre, queste sintesi non ci sono oppure non sono interessanti o addirittura sono inutili, infruttuose, non sedimenteranno nulla, da qui non si va da nessuna parte. E poi spiegatemi i motivi. Potreste anche convincermi.

    Ma non il riduzionismo, ti prego. Perché, per fare un esempio – Gomorra non è soltanto la somma dei suoi elementi. Dies irae non è solo la somma dei suoi elementi etc.

    Sul postmoderno, il problema non è che non si possa superare il postmoderno. E’ che non si supera la disputa terminologica su cosa sia stato il postmoderno, perché – come tutti i termini-ombrello – il termine non ha più alcun senso, se mai ne ha avuto uno. Non ho ancora trovato due persone che ragionando sul termine e sul concetto partano dalle stesse premesse. Certe persone lo usano in un modo che mi ricorda Peppino che dice: “E ho detto tutto!”, con Totò che gli risponde: “E che hai detto?”.
    Infatti, io da mesi ho scelto di non utilizzarlo più.

    L’ultima volta che l’ho usato, nel settembre 2008, l’ho fatto nel memorandum 2.0, cercando di spiegare cosa intendevo usando il termine nella prima versione.
    Invitavo a non definire il postmoderno tramite un elenco di caratteristiche formali o scelte stilistiche. Non credo che il postmoderno, in letteratura, sia la contaminazione, né il citazionismo, e nemmeno la frammentazione del soggetto. Anche in questo caso, come per il NIE, si potrebbe dimostrare che ciascuno di questi elementi, ciascuna di queste strategie testuali, esisteva già prima ed era già stata usata per ottenere effetti eclatanti e memorabili.
    Io credo che l’espressione “postmoderno” abbia senso solo se la usiamo come nome di comodo per descrivere – anche qui – una grande sintesi, cioè: la messa di tutto quanto appena elencato al servizio di un’attitudine di fondo, condivisa da molti autori di quella fase storica e letteraria, in quel contesto, per quei lettori.

    E per me quell’attitudine è la stessa denunciata da Foster Wallace nell’intervista a McCaffery: l’ironia che, da figura retorica usata dapprincipio in modo critico, si fa sistema di pensiero, si fa ubiqua e indiscriminata e toglie valore a tutto, con un effetto deresponsabilizzante.

    Ora, tutto si può dire dei libri che ho preso in esame (fanno schifo, sono spazzatura, sono scritti male, i loro autori sono perfette teste di cazzo), ma, onestamente, mi sembra che abbiano già una tonalità emotiva diversa da quella che Wallace denunciava. Magari non ancora abbastanza diversa, e su questo possiamo discutere. Ma lo scarto, secondo me, c’è.

  246. @ Andrea Cortellessa
    premetto: non era certo mia intenzione insinuare che Lei non conoscesse la Vita Nova, ci mancherebbe. Spero non volesse insinuare Lei che a me Dante è ignoto. Ma di certo lei voleva solo farmi notare il rigore di del ragionamento: la Vita nova era Nova e Italian(a) senza essere Epic(a). Una brachilogia che cela con accortezza le premesse fallaci, se proprio devo dirla tutta.
    È vero, sono uno degli autori (Girolamo De Michele: “quell’altro che…”, nella prosa di Emanuele Trevi) citati con favore da Wu Ming (peraltro, a suo tempo, anche da L’Indice, sono incidenti che capitano): e dunque? Lei mi dirà che è solo una constatazione, come con la menzione di Scurati: e no, caro Cortellessa, qui (non su Dante) mi offende, questi trucchetti rettorici di bassa lega, questo schizzetto di fango ad hominem, giusto per indirizzare subito la ricezione, questo sottintendere “parli tu, che…”, è roba da bassofondo del web, un banale cazzeggio letterario.
    Veniamo alla sostanza.
    Lei imposta la sua argomentazione con due macro-frame argomentativi: quello dei dotti di Salamanca, e quello di Cremonini. In base al primo, da una rappresentazione adorniana (di un Adorno maldigerito, se permette: da bignamino, che ognuno ha i propri) dell’industria culturale deduce che, se tale è lo stato delle cose, (a) non può esistere buona narrativa al presente, o, in alternativa (b) se esiste, è male che esista. E se qualcuno cerca di portarle evidenze, Lei, come Cremonini, rifiuta di guardare nel diabolico cannocchiale.
    La sua dottrina definisce il reale, e il reale così definito legittima la dottrina: bene, Lei può dormire tra due guanciali, questo è certo, perché il suo sistema è inattaccabile. Se qualcuno Le proponesse un’altra chiave interpretativa – ad esempio Benjamin, ad esempio Deleuze – Lei risponderebbe che ciò che di buono in Benjamin era già in Adorno (e tanto peggio per i fatti e le cronologie), e ciò che di Benjamin non è in Adorno non è buono.
    Da qui, una serie di corollari quasi tautologici: che, ad esempio, tutto ciò che proviene da una casa editrice medio-grande è male (non si da, nel Sistema, la possibilità che un buon libro sa pubblicato da un editore che mira al guadagno), e la mitologia delle piccole o piccolissime case editrici. Che Lei vede solo a tratti, senza una reale ricognizione dei cataloghi editoriali: è chiaro che se cerca noi narratori solo nei cataloghi delle Majors, poi ne trarrà l’impressione che pubblichiamo solo presso di loro. Un metro, mi consenta, che ricorda molto da vicino il Galli Della Loggia critico del bolscevismo editoriale degli anni Sessanta.
    Il punto è che la Sua piramide dottrinale si regge sulla capocchia di uno spillo argomentativo che non ammette altre chiavi, altre letture, altre ermeneutiche. Sulla sua lavagna scorrono, lineari e coerenti, le argomentazioni che spiegano l’impossibilità del movimento: tanto peggio per quei quattro cinici che, dal fondo dell’aula, si permettono di passeggiare.

  247. Dimenticavo: la maggioranza dei testi che cito nel libro sono romanzi. Romanzi-romanzi. “Romanzoni”. E sono descritti come tali. Solo per alcuni (non più di cinque o sei, se non ricordo male) ho usato l’espressione “oggetti narrativi non-identificati”.
    Sull’obiezione “perché non hai nominato questo, perché non hai nominato quello”, nel memorandum rispondo già: sta agli altri aggiungere nomi e titoli, e infatti è successo. Negli interventi pubblicati su Carmilla c’è un allargamento di raggio, e proprio oggi Cuccaroni cerca di allargare alla poesia.
    Io ho messo in condivisione appunti, indicazioni, suggestioni, come invito al dibattito. Non ho messo insieme un canone della letteratura italiana contemporanea, né una “rassegna”, né tantomeno un elenco telefonico degli autori.

  248. @ Tommaso Pincio e Wu Ming1:
    Questo vostro scambio è la cosa più utile e problematizzante che potessi leggere. Sarebbe un guadagno per tutti mantenere il dialogo aperto, anche se non necessariamente qui e adesso.
    Vi ringrazio entrambi.

  249. Grazie a te, Dimitri, è soprattutto merito tuo se questo thread non è degenerato. Io credo che tutti stiamo dando una buona prova. Era partita male, questa discussione, ma dall’ingresso di Trevi in prima persona (una specie di segnale: accetto questo come luogo di discussione) tutto si è indirizzato nel verso giusto e, a parte qualche cacca di cane che basta scansare, è proficuo. Anche lo scambio con Cortellessa – “stanato” (absit iniuria :-)) dalla buona piega che aveva preso il dibattito -, ma soprattutto quest’ultimo con Pincio.
    Lo vedete che serve, cazzo? Lo vedete?

  250. Dimitri, ho linkato Level5 in NI: davvero una bellissima scoperta, che non ho ancora finito di esplorare. Intanto grazie!

  251. Scusate, sono sensibile alle perplessità espresse da Cortellessa. Non essendo un teorico della letteratura e neppure un critico, vi porto un esempio preso da un ambito differente, che mi è più congeniale. Qualche giorno fa ho visto in libreria un libro di Gianfranco Bettetini, il cui titolo suona affascinante quanto promettente: Il timpano dell’occhio. Riprendo un sunto degli argomenti toccati da Bettetini:

    «Il linguaggio multimediale è uno degli ambiti più stimolanti e studiati dalle scienze della comunicazione negli ultimi anni. In questo volume l’autore – fra i maggiori esperti italiani del linguaggio filmico e televisivo – ha scelto di concentrarsi sugli effetti psicovisivi e psicoacustici che l’audiovisivo induce nello spettatore e, di conseguenza, sull’universo estetico ed estesico, emotivamente composito, al quale essi danno vita. Innanzitutto, egli riflette sugli effetti visivi e acustici sollecitati dalla fruizione del testo filmico o televisivo; poi, sulla dimensione narrativa prodotta contemporaneamente dall’immagine e dal suono; ancora, sulla prospettiva della comunicaione insita nei testi audiovisivi, intesa come complesso di atti, capaci di produrre situazioni di illocuzione e di perlocuzione; sugli effetti psichici ed estetici sullo spettatore; sulla dimensione estesica, antecedente a ogni presa di coscienza contenutistica o estetica dei testi audiovisivi.»

    Bene, mi dico, molto interessante. Scorro l’indice e mi aspetto di trovare – che so – non dico una riflessione sui film di Arthur Lipsett, ma almeno pagine dedicate a Jean-Luc Godard (chi più di lui ha lavorato su cinema-video e sul complesso rapporto tra immagine e suono?)… invece mi ritrovo – sbalordito – approfondimenti dedicati a film di Ozpetek, Virzì, Notturno Bus…
    Ecco, io non metto in dubbio l’autorevolezza di Bettetini; mi chiedo, però: tutto questo sforzo teorico ermeneutico per parlare di un film di Ozpetek?

    Mi pare che il discorso di Cortellessa sia in fondo simile.

  252. @ Fabian

    Lo sforzo teorico ed ermeneutico di Bettetini in questo libro non è mirato ad esprimere una valutazione estetica dei film analizzati (nella descrizione da te allegata si parla infatti di “dimensione estesica, antecedente a ogni presa di coscienza contenutistica o estetica dei testi audiovisivi.”), ma teso all’individuazione di certe funzioni dell’immagine audiovisiva.

    Un lavoro analogo è stato fatto sul suono da Michel Chion dando vita ad un corpus di opere fondamentale per gli studi di teoria cinematografica.

    Inoltre è importante parlare di film molto popolari perché essi strutturano in parte il nostro immaginario. Per esempio Maurizio Grande si è occupato del cinema fascista (quello considerato insulso dei “telefoni bianchi”), per mostrare come lo spazio del reale venisse strutturato in quei film.
    Tutte gran letture, te le consiglio.

    Bettetini si occupa semmai delle strutture

  253. @Dimitri

    infatti Chion si è occupato di Kubrick (o di Hitchcock, o di Renoir, o di Mizoguchi… a proposito dell’acusma)… come affermavo non volevo certo sminuire il lavoro di Bettetini (riportavo appunto una semplice descrizione), ma solo segnalare una discrepanza tra la portata delle questioni affrontate e la pochezza degli esempi…

    Su Grande, mi sembra che il discorso sia diverso: si è appunto dedicato a un corpus di film che – volente o nolente – importa e fa problema.
    Comunque il mio era solo un esempio, non vorrei deviare dalla questione qui in ballo…

  254. @ Girolamo De Michele
    Non capisco cosa ci sia di scorretto od offensivo nel citare un “Girolamo” che così si firma (non so perché faccia così fino omettere il cognome, se poi lo si dichiara, per di più col tono di chi dice “lei non sa chi sono io!”) ipotizzando che si tratti del De Michele citato nel testo NIE. Non era esplicito, era facile desumerlo, io l’ho dedotto. Mi dica dov’è il “fango ad hominem“, please.
    Quanto a Dante (Vita nova giusta l’ultima ed. crit. a c. di G. Gorni, Einaudi 1996), anche qui non faccia il retoricamente offeso, la prego. Io l’ho evocato esclusivamente per il seguente, che mi spiace essere costretto a ripetere: “Naturalmente bisognerebbe andare a vedere come si conduce il prosimetro, se davvero cioè lo si rende un oggetto testuale instabile e metamorfico, o se i versi rappresentano solo un abbellimento (nel migliore dei casi) o una stucchevole belluria (nel più frequente)”.
    Il punto resta tutto qui, mi spiace. Invece si continua a evitare il problema. Si dice che NIE non è canonizzante, non è prescrittivo, non è normativo. Ma il piglio dell’argomentazione (sin dal titolo) è invece altroché se aggressivo e piazza-pulente. Si ambisce a segnare una discontinuità col passato, nonché col presente. E lo si fa portando ad esempio testi che, mi spiace per Pincio, in primo luogo sono per lo più “sostanzialmente poveri”: se le sbarre della gabbia sono larghe perché devono far passare degli oggetti grossolani (“romanzoni”, roba de panza appunto); e che tra loro sono molto, troppo distanti.
    Quanto al suo reale argomento, De Michele, la informo che a differenza di Trevi non ho in programma alcun saggio dal titolo Contro il romanzo. Il romanzo, nel Novecento (più nella prima metà, devo dire, che nella seconda) ha incarnato la grande sfida del Moderno e, come rapidamente ricordava Pincio, sempre entro strutture romanzesche ha dato le sue migliori prove il Postmodernismo internazionale.
    Il libro a venire di Maurice Blanchot, Estetica e romanzo di Michail Bachtin, Repertorio di Michel Butor, Il romanzo del Novecento di Giacomo Debenedetti sono alcuni dei miei testi sacri, quelli sui quali si sono formate quelle che a lei appaiono le mie “argomentazioni che spiegano l’impossibilità del movimento”. Sono tutti saggi essenzialmente sul romanzo, anzi su singoli Romanzi. Da Cervantes a Joyce, da Henry James a Musil, da Dostoevskij a Kafka, da Flaubert a Svevo. Non mi pare proprio che questi testi neghino la possibilità del “movimento”; mi pare piuttosto che su testi di questa magnitudo, formale e umana, si sia edificato il “movimento” di quella che chiamiamo modernità. Oggi Wu Ming mi dice che il “movimento” deve camminare sulle gambe di Giancarlo De Cataldo e Letizia Muratori, e lei stesso si pone fra i “quattro cinici” abilitati a finalmente passeggiare in libertà. Io, se il “movimento” è questo, davvero preferisco restarmene a casa. Il fatto è che ho buone ragioni per credere che il “movimento” sia altrove, tutto qui (e non solo nei ghetti dorati, si fa per dire, della piccolissima editoria cancellata dalle librerie-maxistore). Ma capisco che a lei faccia più comodo costruirsi un feticcio voodoo il quale pensa la scemenza che “(a) non può esistere buona narrativa al presente, o, in alternativa (b) se esiste, è male che esista”. Se vuole continuare a prendersela con questo suo fantoccio psichico, le auguro buona passeggiata.

  255. @ dimitri

    ricordi la questione aurale rimasta in sospeso ? Lascia stare Chion con
    Bettetini :) c’è davvero poco di analogo, per impostazione e produzione
    di saperi (anche se Chion è meglio sui testi che a lezione). Qui ci vorrebbe uno spin off solo su aurale e visuale in relazione alla scrittura e non. (una mail tua ?)

    “…bisognerebbe andare a vedere come si conduce il prosimetro, se davvero cioè lo si rende un oggetto testuale instabile e metamorfico, o se i versi rappresentano solo un abbellimento (nel migliore dei casi) o una stucchevole belluria (nel più frequente).”

    Cortellessa ( e non solo lui) ha posto l’attenzione, con quel “davvero” sul lavoro sulla lingua, e la qualità della scrittura. Può essere importante parlare di film (testi ecc ecc) popolari perché strutturano in parte il nostro immaginario, ma, riprendendo la frase di WM1 “Purché non mi si dica che lavorare tra pochi e per pochi è moralmente superiore al lavorare tra molti e per molti”, ecco, non si dica nemmeno l’opposto però, e non solo moralmente.

  256. Lo dico ad Andrea Cortellessa: se si ragiona sul “piglio” di un testo, si rimane sul generico e non si cava (anzi, non si piglia) un ragno dal buco. Perché ognuno sente il “piglio” secondo la propria sensibilità, il confronto diventa davvero molto, molto difficile.

  257. A dire il vero Chion prende molti esempi dal cinema popolare, per esempio quando fa notare che in “Guerre Stellari” le porte pneumatiche non le vediamo mai, si sente solo “psssss”. Grande si è occupato di un cinema che prima di lui non faceva affatto problema, ma era considerato un fenomeno da botteghino (i.e la commedia all’italiana).
    Non dico questo per fare il saputello, è che non conviene puntare gli occhi solo a ciò che riteniamo alto. Altrimenti ci facciamo i lividi nelle caviglie.

  258. Ma allora andiamoli a vedere nei testi, gli esempi di prosimetro o di lavoro sull’accentuazione, sulla sincope etc. E vediamo se hanno un senso o sono soltanto belluria. E facciamo le stesse verifiche con le figure retoriche e tutto il resto.

    Invece in questa discussione, se non lo tiravo in ballo io, il prosimetro col cavolo che veniva fuori. In quel frangente mi si stava rinfacciando… che Omero scriveva in versi. Ah sì? Questa sì che è una notizia. Mi si stava più o meno tacciando di agente di loschi potentati che vogliono impedire che si legga poesia, in nome della dittatura del romanzo.
    Invece, a me la poesia come linguaggio e medium interessa eccome, tant’è che ci rifletto sopra, ci lavoro, e anche di recente ho affidato al verso una presa di posizione che giudicavo molto, molto importante e per la quale ogni prosa mi pareva inadeguata (non linko più, ho già linkato troppe cose e ho il sospetto che nessuno clicchi).

    Comunque, tornando al punto:
    – il prosimetro in Sappiano le mie parole di sangue è solo ornamento o risponde a uno scopo espressivo? L’uso degli ottonari in un contesto tragico e dolente è “belluria”? Non direi. L’effetto è stridente.
    – l’abolizione del verbo “essere” e la paratassi super-ellittica in La visione del cieco sono fini a se stesse o volte a creare un effetto che è coerente con quanto nel libro viene raccontato?
    – l’uso di figure retoriche assillanti e catene di anafore e catafore in Nelle mani giuste è fine a se stesso o risponde alle esigenze che ho descritto nella mia lunga analisi del testo citata in nota nel memorandum? [Quel passaggio è stato tagliato e rimontato da Trevi in modo da farmi passare per deficiente, ma vabbe’, è a disposizione di chiunque lo voglia leggere]
    Andiamo su questo. Sui testi. Sugli esperimenti e i tentativi reali, non quelli vagheggiati. Alcuni di questi tentativi secondo me non possono dirsi riusciti, ma perché i fallimenti non dovrebbero essere interessanti quanto i successi? I fallimenti sono, potenzialmente, ottimi oggetti d’indagine.

  259. @ dimitri

    Occorrerebbe guardare davvero e, come recitava Renè Char “la lucidità è la ferita più prossima al sole” e perdonami la citazione, anche io senza voler fare il saputello.

  260. @ WM1

    “Alcuni di questi tentativi secondo me non possono dirsi riusciti, ma perché i fallimenti non dovrebbero essere interessanti quanto i successi? I fallimenti sono, potenzialmente, ottimi oggetti d’indagine”

    Se non si confonde il valore di entrambi e se non diventa l’unico metodo (e se tirassimo in ballo Beckett che sulla nebulosa del fallimento ha scritto cose mirabili) personalmente, sono assolutamente d’accordo con lei.

  261. @Dimitri
    guarda, con me sfondi una porta aperta… non ne faccio una questione di popolare o meno. Ti lascio Kubrick e mi tengo Roger Corman. Certo, prima ho citato JLG, ma il riferimento era relativo alle questioni poste dal libro di Bettetini. Se poi per indorare la pillola bisogna fare esempi popolari, ok: perché non parlare di Un posto al sole?
    Grande si è occupato di Telefoni Bianchi (e in tempi non sospetti) proprio perché oltre al successo di pubblico ha intravisto lì un discorso più ampio e problematico. Lo stesso esempio potremmo farlo con il libro di Aprà e Carabba dedicato a Matarazzo. E avevano ragione, a parer mio.

    E poi, scusa, Grande non è forse il miglior chiosatore di C.B.? Io lascerei perdere popolare non popolare…

  262. @ Andrea Cortellessa

    Con tutte le violenze verbali, i colpi di fioretto e di lametta, gli sgambetti e gli artifici retorici (da ogni parte, voglio esser chiaro), questa non è una chiacchierata in spiaggia tra giocatori di sudoku che hanno completato lo schema e ingannano il tempo aspettando l’uscita del prossimo giornale. È una disputa, in senso lato (ma anche alla lettera, in taluni momenti) tra due incompatibili visioni del rapporto tra presente, passato e futuro: tra Adorno e Benjamin, se mi passa la banalizzazione.
    Lei ha buone ragioni per restare in casa, al riparo da quelle brutte letture che io frequento, Amanniti e Sarah Kane, per dirne due, io per passeggiare, lontano da quei bastioni della modernità che Lei si tiene stretti e che per me le sono diventati ostacoli epistemologici.

  263. …e parlerei proprio di testi, come suggerisce Wu Ming – ma non so se apprezziamo gli stessi :-)

  264. Con pazienza di tutti soprattutto dopo quest’ultima fase di interventi Cortellessa, WM1, dimitri, Cortellessa, Pincio, De Michele, WM1, cmq si sta arrivando a qualcosa. So che è difficile perché ognuno possiede un “ego” da difendere (ed uso il termine in chiave esclusivamente buddhista) ma si stanno chiarendo molte cose.

  265. @ Wu Ming 1
    Giusto, i fallimenti sono istruttivi. (Altro presupposto di ogni avanguardia -lo noto così di sfuggita, tanto per fare lo stronzo.) Allora, io dei tre testi che ora proponi in lettura ne ho letto uno, il primo, e ne ho anche brevemente scritto. E’ un signor testo, come ho detto ogni volta che ho potuto, anche in questa discussione (sospendiamo anche stavolta le questioni che solleva la sua ideologia). Proprio il martellamento ritmico di Sappiano le mie parole di sangue, peraltro, fu oggetto di una discussione fra me e Daniele Giglioli, che pure l’apprezzava ma mi faceva notare la monotonia del colon fisso (in realtà non è così fisso, ma andiamo avanti) in un testo invece polimorfo, fuoriformato, nonidentificato ecc. ecc. Come spesso mi capita con Giglioli non so dare una risposta, per me la sua obiezione resta un problema. L’unica cosa che so con certezza è che come lettore mi ha impressionato, quindi questo caso specifico mostra che quella che è ai miei occhi un’imperizia, o comunque un appiattimento formale, ha sortito effetti di lettura quasi sconvolgenti. Il che vale a dire almeno due possibili cose. La prima è che forse si tratta di un mezzo fallimento ma, appunto, di straordinario interesse. La seconda è che sono possibili, oggi, testi narrativi di grande coinvolgimento e ricchezza: anche in mancanza di mezzi linguistici sopra la media. Il fatto è che in questo caso occorre “lavorare” altre dimensioni del testo.
    Faccio altri esempi relativamente recenti: Lo spazio sfinito del qui intervenuto Tommaso Pincio, Piove all’insù di Luca Rastello e, sì, Q del mio contendente (sotto altro nome). In tutti e tre i casi (come pure in Babsi Jones) si lavora il tempo della narrazione, lo si proietta in un “altro-tempo”, lo si deforma stiracchia accartoccia estende a dismisura. La narrativa – il romanzo, orsù – ha proprio questo di bello: si estende (il che non vuol dire che debba per forza fare “romanzone”, l’estensione nella mia accezione è una qualità non una quantità); ma è il modo in cui si estende, le pieghe e gli avvallamenti che tale estensione produce, a essere il succo della sua ricerca, del suo uso del tempo per dirla con Butor. I tre o quattro esempi da me citati (uno solo dei quali in comune con NIE, facendo salva l’autoanalisi dell’autore di Q) non “lavorano” la lingua, o non principalmente (Rastello per la verità fa anche quello; ed è infatti, il suo, forse il migliore dei quattro); “lavorano” invece, ciascuno a suo modo ovviamente, la struttura dei piani di concatenamento. Lo fanno in maniera originale e sono, infatti, delle opere originali. Degli ottimi romanzi contemporanei (nessuno dei quali pubblicato entro una micronicchia di sfigati): a differenza della maggioranza di quelli citati e analizzari in NIE.
    La domanda che pongo a Wu Ming 1 è allora la seguente. Se è così facile trovare ricchezza e stimoli e valore in libri che si trovano in ogni libreria, romanzi che più o meno tutti abbiamo letto (volutamente non ho tirato in ballo gli esoterici, i monatti, i reietti che invece per te – è interessante questo capovolgimento metaforico – sono gli abitanti del “Parnaso di stronzi”; volutamente non sono stato lì a pensarci, ho citato a memoria e scritto di getto), perché affannarsi ad arrampicarsi sui vetri della sovrainterpretazione onde tirare fuori improbabili eversioni linguistiche o strutturali da onesti o meno prodotti di intrattenimento che, in cuor loro, mai più avrebbero pensato di sovvertire alcunché?

  266. @ Morganthal

    “Con pazienza di tutti soprattutto dopo quest’ultima fase di interventi Cortellessa, WM1, dimitri, Cortellessa, Pincio, De Michele, WM1, cmq si sta arrivando a qualcosa.”

    Concordo, pare anche a me… benché si sia dovuto, ehm, camminare in tondo, ritrovando alla fine la medesima borraccia lasciata appesa a un ramo all’inizio (= l’invito a verificare le ipotesi sui testi, non partendo da un assioma sulla “vera letteratura”).

  267. Mi scuso, ritorno sulla questione del “testo”… ok, mi sta bene. Roland Barthes per esempio ha costruito un corpo a corpo magnifico con Sarrasine di Balzac (S/Z, anno di uscita 1970). E stiamo parlando di Balzac.

    «Il testo, nella sua massa, è paragonabile a un cielo, piatto, e insieme profondo, liscio, senza bordi e senza punti di riferimento; come l’augure che vi ritaglia con l’estremità del bastone un rettangolo fittizio per interrogarvi secondo certi criteri il volo degli uccelli, il commentatore traccia lungo il testo delle zone di lettura, al fine di osservarvi le migrazioni dei sensi, l’affiorare dei codici, il passaggio delle citazioni».

    Ecco: andiamo sui testi. Assolutamente d’accordo. Dipende quali…

  268. Ma come, Cortellessa, mi parti così bene, mi dico per quasi tutto il commento: ok, dài, finalmente ci siamo, un ponte lo abbiamo gettato, e poi alla fine… torni a riproporre 1) un a priori (lo hai detto tu che quei libri non li hai letti); 2) una dicotomia tra vera letteratura e intrattenimento; 3) un desumere l’intenzione di autori i cui testi non hai letto (“non volevano sovvertire alcunché”)?
    Scusa, ma se non conosci i testi in base a cosa dici che io, nel leggerli, ho scalato specchi? Se non conosci i testi, come fai a giudicare “improbabili” degli esiti?

    Sull’avanguardia (anzi, l’Avanguardia, come hai scritto in un commento più sopra), modo di porsi a cui tu sembri attribuire un po’ tutto l’attribuibile purché positivo e salvifico, mi è capitato di risponderti su Lipperatura. Non chiedermi il perché, qualcuno ha riportato là un montaggio delle tue frasi sull’argomento, e io ho risposto. Non lo avevo fatto qui perché ero stanco di questo “stare sulle generali”, questo alzare come vessilli i concetti e i modelli e i paradigmi.

  269. @ Wu Ming 1
    Sull’avanguardia non ho visto l’altro commento, non riesco a essere così multitasking da condurre una discussione contemporaneamente su due siti (e spero che qualcuno non mi faccia una pernacchia o chiami l’INPS, per quesro). Comunque mi cito anch’io: l’attacco del “manifesto” di fuoriformato suonava “Questo non è tempo di avanguardie”. L’ultima sensata sono stati i Situazionisti, l’ultima in Italia il Gruppo 63. Roba di ormai quasi mezzo secolo fa. Non ci sono le condizioni storiche perché si manifesti oggi un’Avanguardia (anche se mi guarderei dal salutare con esultanza, o anche solo con sollievo, un simile dato storico).
    Sul fatto che sarei scivolato all’ultima porta dello slalom, per favore non rimandiamo a quel che non ho letto io e quel che non hai letto tu (anche tu potresti non avere letto testi che sono importanti per me; mi astengo dal tirarli in ballo in questa discussione). E non ci nascondiamo dietro un dito: degli altri tre esempi che fai qui, ora, non posso dire nulla appunto perché non li ho letti. Molti altri testi che citi in NIE, attribuendo loro fantasiose intenzioni, invece cì che li ho letti (o ci ho provato). Se ognuno dice “eh, ma non hai visto cosa fa Camilleri a pagina 240 del suo libro del ’93”, non ne usciamo vivi. Vuoi discutere? Discuti.

  270. @ Wu Ming 1
    Sarò più preciso (spero). Tutti sanno come la critica postmoderna abbia speso molte delle sue migliori energie per trovare autentici tesori nella paccottiglia di intrattenimento (qualcuno citava prima Maurizio Grande, mi pare che lui facesse un discorso più politico al riguardo e meno camp di come lo si tratteggi qui, ma andiamo avanti). Sono il primo a riconoscere che è stata una grande stagione di sovvertimento del gusto e del bon ton. Bene, è finita. Oggi la paccottiglia è al potere, in tutti i campi. Ha estromesso la non-paccottiglia da tutti le sedi che, più o meno Parnaso di stronzi, occupava in precedenza. Non vale solo per l’arte, si badi; basta vedere la statura dei leader mondiali appetto a quella di quelli, anche mostruosi, di trenta o quarant’anni fa.
    Non ha più niente di trasgressivo indicare Camilleri a modello della nuova narrativa. Camilleri è assai simpatico, come persona (io ho visto solo delle interviste televisive, ma me lo conferma anche chi lo conosce bene), perché non ha mai preteso di essere qualcosa di diverso dall’ottimo intrattenitore che è. Quando sento che qualcosa è importante perché è senza pretese, questo sì che mi pare un atteggiamento da stronzi. E’ un po’ come chi dice (oggi fa fino) che Pound e Céline fossero grandi scrittori in quanto fascisti. No, perdio! Lo sono, certo, malgrado fossero dei fascisti!
    Ristabiliamo un po’ le proporzioni fra le cose, per favore.

  271. No multitasking. Io per primo ho criticato l’anonimo che a scopo polemico ha tagliato pezzi dei tuoi interventi qui per postarli là, una cosa senza senso. Dell’avanguardia ne parleremo davanti alla famosa pizza.

    Sui testi, è dall’inizio che dico che ci vuole un terreno comune, e quel terreno comune ovviamente sono i testi che abbiamo letto entrambi.

    Per quello mi faceva specie, dopo un commento così buono, trovare alla fine, come – a mio vedere, superfluo – appendage l’ennesima, trita generalizzazione. Su quel terreno lì, per me è impossibile seguirti. Non possiamo, non dobbiamo, non vogliamo.

    Sul libro di Babsi Jones invece, c’è un terreno comune, e immagino avrà qualcosa da dire anche Dimitri, che quel libro lo ha sviscerato e che dall’inizio chiedeva di stare sui testi.
    Su Q, pensa che per noi quello è un libro… sopravvalutato e che oggi ci sembra in molte parti scritto male. Comunque, vorrei sentire i pareri di altri oltre al tuo, e comunque non il mio, che ben conosco. E rimando a un testo di autocritica (non auto-critica: proprio autocritica, riconoscimento di nostri errori) che renderemo pubblico tra poco, per il decennale (ma che posso mandarti in anteprima se vuoi, solo che è in inglese).
    Lo spazio sfinito, colpevolmente, è uno di quelli di Pincio che non ho letto, ma secondo un amico rientrebbe a buon diritto nella famigerata, esploranda “nebulosa” :-) Del resto, dieci anni fa Pincio co-firmò una sorta di manifesto che in più parti anticipava il dibattito di oggi…

  272. @ Andrea Cortellessa

    Non voglio davvero ora aprire una questione e/o polemica, e cito subito il testo della Kristeva “Poteri dell’orrore”. Cèline fascista, detto così, può portare a parecchi fraintendimenti. Sono assolutamente d’accordo con lei soprattutto su questo :

    “Oggi la paccottiglia è al potere, in tutti i campi. Ha estromesso la non-paccottiglia da tutti le sedi che, più o meno Parnaso di stronzi, occupava in precedenza. Non vale solo per l’arte, si badi; basta vedere la statura dei leader mondiali appetto a quella di quelli, anche mostruosi, di trenta o quarant’anni fa.”

  273. Ci siamo sovrapposti, mentre tu scrivevi il post scriptum io rispondevo al commento prima.

    Andrea, ho la vaga impressione che tu mi usi come sponda (si parlava di feticci vudù, poco sopra) per colpire tutt’altri avversari. Perché questo discorso che fai è perfettamente complementare al mio contro l’ironia indiscriminata, contro il tono sempiternamente ridacchiante della comunicazione, contro l’ansia rivalutante, contro – per usare un’espressione che ho messo nel libro – la parodia della parodia come ipercubo costruito sul quadrato dell’ipotenusa dell’opera. Io detesto il culto del trash. Già cinque anni fa scrivevo:

    —inizio citazione—

    UNA NOTA SUL REGIME TRASH

    Ormai il trash è di regime – regime fascista. Gerarchi a panza nuda fingono di combattere rivoluzioni contro chissà quali Anziani Savi, per scongiurare complotti ai danni del Gusto Popolare. E’ da un pezzo che s’è finito di combatterla, ‘sta guerra: Apocalittici e integrati è di quarant’anni fa, ormai si “rivaluta” pure l’ultimo scampolo di subculturame. Dove sono mai i guardiani imbronciati di un’ortodossa divisione tra cultura “alta” e cultura “bassa”? Suvvìa, abbiamo vinto, si vorrebbe stravincere, “stroppiare”? Ma che mi vuoi dire, che la merda è buona da mangiare?
    Es. oggidì la vera destra culturale di questo paese è la masnada dei cinéphiles, gente rovinata dal Dams, intellettualità di massa che si crede bastiancontraria mentre è conformista, conformistissima, ci dice che Spiderman 2 è un capolavoro assoluto, descrivendo un kolossal (imposto in mille sale con strategie tipo “Shock & Awe”) come fosse un prodotto trash, un B-movie che va protetto dalla critica parruccona e trombona e scoreggiona.
    I got news for ya, pals: siete voi la critica scoreggiona, ormai lontani sono i tempi in cui ci si sentiva eretici a far l’apologia di Tanio Boccia o Nando Cicero. Siete i più flatulenti di tutti. Petando, venite a dirmi che Michael Moore è un reazionario, e giù a spiegare gli astrusi motivi estetici per cui lo è fuor di dubbio, mentre Enzo G. Castellari sarebbe il più grande sovversivo della storia del cinema.
    Così, a furia di épater les camarades (o cercare vanamente di farlo) vi ritrovate in balotta con la maggioranza ex-silenziosa, gli elementi più retrivi e obnubilati, e tra un po’ definirete Panariello un genio della comicità. Che schifo. Aridatece er puzzone! [Er puzzone = Theodor Wiesengrund Adorno, 1903-1969]

    —fine citazione—

    Il problema è che, proprio come “si è sempre i terroni di qualcuno”, il pop di un uomo è ritenuto trash da un altro. Per te, insomma, sono un rivalutatore trash pure io, un nobilitatore della paccottiglia.

  274. Guarda, ora purtroppo devo uscire e rientro stanotte. Alla fine dei conti (o all’inizio di altri conti, più dettagliati) non è un caso che, gira gira, dei testi da te in ultimo citati, ci troviamo su uno solo, quello di Babsi Jones. Per il semplice motivo che non è un prodotto di intrattenimento. Al contrario. E’ un testo fortemente disturbante, spiazzante, urticante. La maggior parte di coloro che ho convinto a leggerla l’hanno odiata (se è per questo l’ho odiata anch’io, pur colmo di ammirazione). Tu dici che è razzismo il mio, che non voglio discutere di Camilleri (immagino tu possa pensare una cosa simile). Dico che di Camilleri ho letto mezzo libro e non mi ha interessato. Lo dicevi tu non so quante decine di commenti fa: non è che possiamo interessarci a tutto. Abbiamo sinapsi limitate. Se la tua idea è sostituire gli Intrattenitori ai Parnasistronzi, malgrado le buone intenzioni non ci intenderemo mai. L’unica chance è che entrambi pensiamo che questa divisione non c’è, non ci deve essere. Quella che ci deve essere è relativa solo alla qualità dei testi. Che, come dicevo in maniera un po’ scalmanata nel commento precedente, è dato sì trovare in testi teoricamente di intrattenimento; ma solo per eterogenesi dei fini (e in pochissime eccezioni). La critica postmoderna di cui sopra ha fatto in tal senso le fortune dei Chandler e dei Dick, del che non posso che compiacermi. Ma dobbiamo proprio ripetere questa storia? Cosa c’è di New, in questo?

  275. @ Andrea Cortellessa:
    Sono io a citare Maurizio Grande. Però ti prego di non chiamare in causa il “postmodernismo”. Io quella parola non la userei neppure sotto tortura (bè, forse sotto tortura anche si), ma soprattutto chi la usa poi se ne prende la responsabilità. Il mio riferimento a Grande consisteva nel richiamare l’opera di lettura che ha fatto di fenomeni considerati di “costume”. In particolare mi riferisco alla commedia all’italiana, ritenua a lungo dalla critica un puro prodotto dell’industria culturale (tutto questo, più o meno, sino ad una serie di convegni, tenuti alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro tra il’74 ed il ’78).
    Ma è un’altra la cosa che voglio dire. E’ mia opinione che vi siano almeno alcuni romanzi, riferibili o riferiti al NIE, che “lavorano” sia la lingua che i piani di concatenamento. Penso, per esempio, all’apertura di Dies Irae sul pozzo artesiano dove, nella sera del 12 giugno 1981, è caduto Alfredino Rampi.
    “[…] e nel centro di questo Paese che muore, nella piana dolce laziale, in fondo a un buco è una piccola mummia raggrinciata come un feto e piccina di fango che copre il corpicino di un bimbo e ancora non si leva da lui lamento o se si leva da lui, sepolto vivo 36 metri sotto il terreno in un foro di centimetri 30, nessuno lo ascolta poiché il foro traverso cui è precipitato è stato coperto. Da una lastra. Metallica.”
    Se il contrasto tra uso letterario della lingua, di chiara ascendenza manzoniana (ma non solo, come testimonia l’ellisse in paratassi: “. Metallica.”), e oggetto della narrazione instilla un certo turbamento, esso non può essere imputato ad una distorsione ironica che è, di fatto, assente dal discorso. E’ piuttosto l’immedesimazione primaria del lettore, quella con la voce narrante, che viene fatta saltare da una prosodia che, rendendo difficile l’ancoramento percettivo, inibisce l’attualizzazione dei contenuti tragici della vicenda. Appunto un lavoro su lingua e piani di concatenamento.

  276. @ Dimitri
    Spiacente, non ho letto Dies irae. Ho sfogliato alcuni dei primi libri di Genna, e professionalmente ho dovuto sorbirmi sino all’ultimo Hitler.

  277. comunque difficile non chiamare in causa il postmodernismo in tutta questa discussione. Molto difficile. Cos’è, un tabù?

  278. Stiamo arrivando a qualcosa.

    Uno dei nodi: cosa intendiamo per “lavorare la lingua” ? Perché qui le opinioni son differenti.

    Siamo sicuri che talvolta parte della critica (involontariamente/inconsapevolmente o meno) non proietti, errando, sulle opere ombre dei propri strumenti chirurgici ? Insomma che veda consapevolezza (o inconsapevolezza) di mezzi e strumenti in opere di autori (ed autori) a cui questo non appartiene assolutamente ?

  279. @Dimitri
    mi accorgo ora di aver sovrapposto il libro di Francesco Savio sui telefoni bianchi al libro sulla commedia all’italiana di Maurizio Grande. Me ne scuso.
    Credo che comunque ci siamo capiti

  280. senti wu ming,
    una cosa che non sopporto è questa storia (anche da parte di pincio) che uno tagli e rimonti il tuo testo per essere “strumentale”. e che me ne frega di vincere con te, scusa ? tra l’altro barando ? se ero a stalingrado nel 1943 magari di vincere contro i nazisti mi fregava, poteva avere una sua utilità, ma proprio non vedo perché dovrei usare delle scorretezze argomentative ai danni di persone alle quali auguro solo prosperità. “l’arte di avere ragione” insomma mi fa pena, è pura sofistica degenerata. se ho scritto quella recensione così negativa, è perché penso che il tuo modo di fare teoria manchi del necessario “esprit de finesse”. insomma, io non ritengo giusta la posizione di chi dice “i critici facciano i critici e gli scrittori gli scrittori”. ma la tua mi sembra una critica fatta male, ecco tutto. se adesso mi parti con questa nuova pippa mentale della fallacia, stravincerai, anche perché volentieri passerei la vita a risponderti e controbattere, ma ci si allontana troppo dal nocciolo del problema, che è molto serio.
    allora, per dirlo in soldoni: secondo me, “il dramma barocco tedesco” e il saggio su kafka di benjamin proprio non li hai capiti bene, mi dispiace. pensi che mento ? pensi che faccio parte di un complotto contro di voi del “manifesto” ? bene, invochiamo un gran giurì. fattelo spiegare da giorgio agamben, da massimo cacciari, da umberto eco, da chi vuoi tu. l’allegoria di benjamin è solo SECONDARIAMENTE e ACCESSORIAMENTE un dispositivo di produzione di significati, se per significati si intende idee, visioni del mondo, situazioni umane ecc. per questo quello che wu ming 2 dice sull’ “idiota” di dostoevskij è una cazzata che dovreste espungere dal vostro saggio. dostoevskij non ti starebbe nemmeno a sentire, ma benjamin ti butterebbe il pc dalla finestra ! cercherò di spiegarmi (ma poi, se non ti fidi, ti ripeto, riferisci l’idea vostra e la mia a un’autorità super partes, e vedrai, vedrete): ciò che è allegorico, nei “demoni”, non è il complottino nichilista di provincia che a voi fa tanto pensare a gruppi di imbecilli contemporanei. ALLEGORICI NON SONO GLI ARGOMENTI MA I PROCEDIMENTI. nel caso concreto, allegorica, cioè produttrice di significato, è infatti l’incredibile, indimenticabile voce narrante del romanzo: qualcuno che sta sempre tra i piedi, ogni tanto appare sul fondo (un po’ come hitchcock che si infila per caso in certe inquadrature), è uno dei loro ma è anche un delatore, sa sfruttare al massimo tutti i benefici della distanza e tutti quelli della presenza. allora, non si può essere così superficiali: ciò che è demoniaco in dostoevskij, è l’atto del racconto, non il terrorismo.
    capisco che questo sia molto duro da ingollare per una persona che pensa che nella letteratura possano succedere delle cose a partire dal 1993 – affermazione che ritengo assurda come se qualcuno applicasse una data simile all’evoluzione degli organismi vertebrati, o di una certa specie di pianta.
    allora, questa dell’allegoria è solo una delle tante cose che non vanno del vostro metodo. io non dico che non potete fare i critici, chi ve lo impedisce. io vi suggerisco, molto umilmente, di studiare di più. non vi fate prendere dall’entusiasmo per le idee, masticatele come fanno i ragazzi della via pal con il mastice, ammorbiditele con frequenti ripensamenti. prendete esempio da cortellessa, e da tante altre persone che sono intervenute in questa discussione.
    purtroppo quella su benjamin non è l’unica toppa, ce ne sono ahimé delle altre che riguardano l’analisi formale, e il suo senso.
    anche qui, però, la discussione è bene accetta solo se uno si toglie dalla testa le paranoie dell’ “estrapolazione tendenziosa”. io non cito mai a casaccio, e se ho problemi di spazio evito proprio di prendere in considerazione quel dato punto del testo di cui parlo.
    insomma, io non penso che voi scriviate disonestamente, anzi sono convinto che alla base di “new it.epic” ci sia una reale generosità intellettuale. ma non fate degli altri dei disonesti, per carità !

  281. E’ veramente un’impresa titanica questo confronto. Pochissimi presupposti in comune, 355 gradi di non condivisione. Appena usciamo da quello spicchio, forse soltanto apparente, ricomincia la confusione.

    Pop e popular, negli studi culturali e non solo lì, non sono affatto sinonimi di “prodotto facile per la massa” e “intrattenimento spensierato”. Sulle copertine dei dischi degli Area c’era scritto “International Pop(ular) Group”. E oggi la complessità di alcuni prodotti e mondi del pop fa impallidire molte opere d’avanguardia o “alte” (cfr. alcuni studi di Jenkins, ma soprattutto Tutto ciò che è male ti fa bene di Steven Johnson: a tratti facilone, discutibile e molto “americano”, ma davvero illuminante).

    Per me il libro di Babsi Jones è pop come lo era, per dire, Captain Beefheart. E’ il Trout Mask Replica della letteratura italiana. Babsi Jones (che prende il nome dall’amica di Christiane F. e il cognome da David Bowie) scrive un libro difficile ma non perdendo mai dal campo visivo Burroughs, Ballard, il rock, il punk, Lou Reed, Diamanda Galas, i film di Kusturica, il giornalismo della Fallaci… etc. Persino Asce di guerra (altro fallimento) è un riferimento abbastanza evidente. Ci senti tutto questo, nel suo libro, sono tutte le sue influenze. E’ un mondo popular, attraversato dai flussi mediatici, non un Parnaso.

    Riguardo a Genna: leggilo, Dies irae. Non puoi dire di aver letto Genna e di avere un’idea del suo percorso senza aver letto il suo romanzo-monstre, perché c’è un Genna pre-DI e un Genna post-DI. Anzi, io ritengo addirittura sconveniente recensire un qualunque suo libro successivo senza aver letto DI.

  282. No, Andrea, non è un tabù, ma è una valigia concettuale. Tu se vuoi usala pure, basta che poi non chiedi a me di spiegare cosa significhi.
    La mia idea è che concetti quali “postmodernismo” siano categorie paralizzanti per la critica letteraria. Se uno è ingenuo pensa di aver detto tutto, se invece è un po’ meno ingenuo di averla data a bere a chi ascolta.
    Quest’ultima, lo ammetto, era una citazione mascherata da “Il romanzo del ‘900″ di De Benedetti, mentre questo stralcio da Hitler di Genna (che hai letto)…

    <>

    E’ una citazione mascherata di un articolo di Rivette, dedicato a Kapò, uscito sui 1961 sul n.120 dei Cahiers du Cinema

    <>

    Insomma questo per dire il postmodernismo inteso come nichilismo ilare o …..(aggiungere definizione che serve alla bisogna) centra poco, semmai, come dici tu ” si lavora il tempo della narrazione, lo si proietta in un “altro-tempo”, lo si deforma stiracchia accartoccia estende a dismisura.” Oppure no?

  283. Grande figura di merda. Pas mal, si riprova.

    Da Hitler di Giuseppe Genna
    “Su quei convogli, io sono.
    Oltre la visione mentale si arresta. Un passo oltre il nome del campo di concentramento e sarebbe l’oscenità.
    Istruzione per tutti gli scrittori: sia ammainata la finzione, la fantasia, oltre la linea che divide il territorio dal campo di sterminio. Chi non compie quest’opera di testimonianza cieca è osceno. Maledizione su di lui.”

    Da Dell’abiezione di J. Rivette

    “Guardate, in Kapò, l’inquadratura in cui Emmanuelle Riva si suicida, gettandosi sul filo spinato ad alta tensione, l’uomo che decide, a questo punto, di fare un carrello in avanti per inquadrare il cadavere dal basso verso l’alto, avendo cura di porre la mano alzata esattamente in un angolo dell’inquadratura, ebbene quest’uomo merita solo il più profondo disprezzo”

  284. Stavo rispondendo a Cortellessa, ora vedo che – dopo che qui si è riusciti a fatica ad avviare un discorso – è arrivato Trevi abbastanza preso male di stomaco (già la recensione era affetta da iperacidità) e un po’ incontinente con i richiami al principio d’autorità, determinato a farmela vedere. Alla faccia del non voler vincere, qui addirittura si invoca il tribunale dell’esegesi benjaminiana. Ubi maior minor cessat, studiate di più etc. Va bene, va bene, dell’allegoria non ho capito niente, sei contento? Benjamin l’ho letto male, ok?

    Però a forza di scollare i procedimenti dagli argomenti e le voci narranti dai contesti in cui risuonano e dalle storie che narrano, temo che ci ritroveremo nelle mani pugni di mosche. Il bello dell’allegoria – ma certamente ho capito male e me ne scuso – mi sembrava essere proprio questo: una dimensione in cui procedimenti, argomenti, voci, contesti, storie formano una matassa in cui ogni elemento, su qualunque linea si ponga, può rimandare con forza a qualunque altro, e l’attivazione di questo contatto è imprevedibile nei modi e nei tempi. E’ il prodigio. “L’allegorista estrae ora qui e ora là un pezzo dal fondo disordinato che il suo sapere gli mette a disposizione, lo affianca ad un altro e prova se si adattino l’uno all’altro: questo significato a quest’immagine o questa immagine a quel significato. Il risultato non può mai essere previsto, giacché fra i due non c’è nessuna mediazione naturale.”
    Per questo mi sembra arduo dire con certezza che ne I demoni QUESTA cosa è allegorica (la voce narrante che è uno di noi e uno di loro) e giammai quest’altra (le vicende emblematiche che il narratore attraversa, perfora, ci porge e ci sottrae). Anche perché quella voce è parte dell’argomento. Quella voce è e non è, ad esempio, Fioroni nel contesto del “7 Aprile”, e così via.

    Ma ripeto, sono certamente in fallo io. E sicuramente mi sono spiegato male. Il fatto che, da quando è stato scritto, quel libro abbia ispirato continui paralleli con situazioni concrete, e che la stessa cosa abbiano fatto film e piéces teatrali ad esso ispirate (riadattamenti nei quali era ovviamente scomparsa quella particolare voce che c’è nel libro), è sicuramente dovuto a una catena di truffaldine coincidenze.

    Ad ogni modo, Trevi: tu hai condotto la tua disamina in un certo modo. Di quel modo ti può essere chiesto conto, non solo dall’autore, ma da uno qualunque dei lettori. Lo scrivere, l’esprimersi in pubblico, è uno scambio. C’è un feedback. Faccio qualcosa, qualcuno me ne chiederà conto. E qualcun altro farà una disamina della tua disamina. Se la si prende bene, questa cosa può pure essere proficua. Se la si prende male, brucia lo stomaco. E lì si può prendere il Maalox.

  285. Niente da fare, pur con tutta la buona volontà trevi e cortellessa non cambiano idea. vabè, consoliamoci, “almeno serino…”

  286. E invece, Garufi, questa è una gran bella discussione, e non sono l’unico dei partecipanti a pensarlo. Anche lo scambio con Trevi, sotto la superficie della polemica, è utile.
    Se uno pensa a quant’era stupido il primissimo commento… Chi l’avrebbe mai detto che si sarebbe sviluppata così?

  287. @ Emanuele Trevi:
    Le citazioni sono da “Il Dramma Barocco”.
    Benjamin sosteneva che quando l’oggetto è “morto, ma garantito per l’eternità”, esso viene consegnato mani e piedi alla discrezione dell’allegorico. Secondo Benjamin è l’allegorizzazione che ci permette di intrattenere con i nostri oggetti culturali, anche con quelli il cui significato ci appare storicamente più distante se non esaurito, un rapporto che non è dettato dalla semplice coazione a ripetere.

    “Il che vuol dire che a partire da questo momento esso […l’oggetto] è per sempre incapace di irradiare un significato , un senso; come significato gli compete ciò che l’allegorico gli assegna. Questi glielo pone dentro e più in profondo: lo stato di cose non è, qui, psicologico, bensì ontologico. In mano sua la cosa diventa un’altra, e così parla di qualcosa d’altro”

    Ritenere l’allegorizzazione un intervento di carattere ontologico significa porne in risalto la dimensione storica. La vera catastrofe, ci dice Benjamin, è che le cose continuino ad andare avanti seguendo un loro corso ineluttabile. L’allegoria invece interrompe questo corso, lo urta ed apre un varco che risucchia l’oggetto nella storia. Non un ritorno del tempo perduto, ma discorso sul presente che rende l’oggetto altro (allos, appunto) da ciò che era originariamente.

    “E’ questo che costituisce il carattere scritturale dell’allegoria . Essa è uno schema, e in quanto è questo schema è anche oggetto del sapere, non più perduto in quanto fissato: immagine fissata e segno fissante ad un tempo..”

    Il potere dell’allegoria non consiste solo nel dare un senso a ciò che è inerte, ma anche nel fissarne iconicamente il significato senza disperderlo in una serie infinità di rimandi. “Immagine fissata e segno fissante” vuol dire appunto questo, che l’immagine allegorizzata svolge una funzione cognitiva e non meramente percettiva, essa segna cioè un percorso della memoria e non solo dello sguardo.
    Ed ora un salto a Sappiano le mie parole di sangue ed allo schema cognitivo – allegorico che costruisce intorno alla figura di Amleto, declinandolo sia sul binomio ricordo-vendetta che sulla concretezza di una guerra etnica

    “Claudicanti, sdentati, infagottati in paltò posttitoisti, i bardi ingloriosi continuano il lavoro: ognuno è impresario di se stesso, pronto ad indossare i panni dell’Amleto che celebra un passato secolare e offre ai posteri un futuro già impossibile: il piano temporale si è fottuto, e qui rivivono ogni mattina un 15 di giugno. Il Padre chiama alla vendetta, il tempo è un silenzio egoista che riesce a contenere tutte le nenie morte, e zero narrativa.”

    Secondo me il richiamo all’allegoria e a Benjamin non è del tutto una cazzata.

  288. @ Wu Ming1

    mi ha molto colpito questa sua frase, di qualche commento fa:

    Sull’avanguardia: per me è un paradigma vecchio, carico di
    connotazioni oggi poco utili, ma non impedisco a nessuno di cercare di
    ottenerne ancora del buono. “Avanguardia” e “sperimentazione” non vanno per
    forza insieme, ma se uno le vuole tenere insieme, ok.

    mi ha fatto venire in mente pasolini e il
    neosperimentalismo. c’entra qualcosa? è una
    concezione officinesca dell’antagonismo letterario? tra i padri spirituali del Neo Epico c’è il Neosperimentalismo?
    è la domanda che mi premeva porre anche perché navigando in
    rete mi è capitato un articolo (che ho linkato prima) che definiva volponi
    autore neoepico. e anche lì questa idea di richiamo officinesco mi si è
    parato davanti agli occhi.
    mi pareva (e per questo apprezzavo molto) che la vostra
    concezione di letteratura si distinguesse bene da quel mondo lì: lì mi pare che
    si creda all’opera letteraria come a qualcosa di agalmatico, che si carica di
    una forza contemporaneamente conflittuale ed estetica in virtù di operazioni
    inconsce, e che voi sfuggiate a questa idea… cioè che per l’autore noepico l’opera
    vada costruita e cesellata con il bilancino della coscienza, non con la brossa
    dell’inconscio (che è diverso dall’incoscienza). dopo tutto, se è solo inconscio,
    il lavoro vero, quello che conta, da parte dell’autore, se siamo solo all’ispirazione
    (e ho l’impressione che in fondo, quando parliamo di volponi, non ci muoviamo
    troppo da lì, anche se potrebbe sembrare di no), non è negare una dimensione di
    agentività all’autore, e dire dunque che il conflitto fa parte di qualsiasi
    letteratura sono a livello di epifenomeno incidentale? mi spieghi, davvero:
    questo dibattito è troppo appassionante per lasciarne digiuni i lettori che non
    possono incontrarvi di persona…

  289. Sto spegnendo il computer, stremato, e credo di non essere l’unico. Non ho ben capito la domanda: mi sta chiedendo se preferisco Pasolini o la Neoavanguardia? Credo che cinquant’anni dopo si possano apprezzare certe cose dell’uno e certe dell’altra, o no? Ho amato Opera aperta ed Empirismo eretico, senza sentirmi cerchiobottista. Petrolio è uno dei libri su cui più mi sono interrogato, e sto lavorando su Salò o le centoventi giornate di Sodoma.

  290. Il primo commento è ciò che ha dato il via a questa discussione, se no ce ne sarebbero stati solo 3 di una riga ciascuno in cui si facevano i complimenti all’autore per il pezzo su garboli. io finora ho visto che nessuno sostanzialmente si è schiodato dalle proprie posizioni, anzi in certi casi si irrigidiscono ulteriormente, vedi trevi. l’unico beneficiario di tutto questo sei tu, e l’obiettivo non è tanto il desiderio di legittimazione da parte di chi altrove si schifa (“la critica ufficiale”) – che sarebbe l’ennesimo paradosso del tuo saggio, dopo il voler incarnare “sia l’anarchico bombarolo che il carabiniere a cavallo” – quanto piuttosto la creazione di un “caso” intorno al tuo libro, perché solo con accese polemiche ci s’impone all’attenzione del pubblico. e in ogni caso per la legittimazione c’è sempre serino…

  291. Evabbe’, allora che ti devo dire? Prot!
    Non voglio certo stare a convincerti della bontà degli spunti emersi in questo thread. Ti sei auto-programmato per non coglierli.
    Speeeengoooooo. Ciao.

  292. @ sergio

    non dimenticare i lettori. Almeno per me, è la prima volta che mi trovo a poter comunicare e leggere in presa diretta (anche se in web) con Trevi, Cortellessa, WM1, Pincio, voi di NI e tutti gli altri. Si forse nessuno cambierà idea, e forse il fine non è questo, ma rendere almeno certi nodi più espliciti. Sono saltati fuori titoli di libri che magari nessuno ha mai letto o conosceva prima, così come temi e riflessioni, ognuno porta se stesso e sarà libero o meno di approfondire a suo modo e tempo.

    un saluto

  293. @ WM1
    Ti sono grato per la risposta articolata. Di una sola cosa ti prego: non mettere anche me nei gironi infernali della fallacia. Non puoi nasconderti sempre dietro questa storia che l’elenco dei testi inseriti nel NIE non è esaustivo. Se vogliamo ragionare sulla gabbia teorica che proponi dobbiamo anche assumere che quei testi, per te, sono più emblematici degli altri che hai escluso. Devi lasciarmi la possibilità di balzare sulla sedia quando vedo citato Roth (seppure per un romanzo in particolare) in merito all’ucronia, e dimenticato Morselli che ha forse scritto l’unico importante romanzo di storia alternativa del Novecento italiano. Quanto al chiamare in causa il poemetto di Tiziano Scarpa: in quel preciso punto del mio intervento aveva un senso figurato che mi pareva chiaro. Non era assolutamente nelle mie intenzioni rimproverarti esclusioni, ché poco me ne frega; volevo soltanto marcare il ragionamento con qualcosa di visibile, concreto. L’epica è poesia e oralità, presa alla lettera; come i Groppi d’amore, dove tra l’altro Tiziano si inventa un nuovo dialetto. Non escludo a propri che possa diventare epica anche un’Ottava vibrazione, ma quel libro, a prescindere dalla sua qualità, non sposta di una virgola quello che già sappiamo sul romanzo storico. Vederlo piovere così, nel tuo memorandum, mi pone sinceramente dei problemi. Nulla in particolare contro Lucarelli, sia chiaro. Avrei potuto fare tranquillamente i nomi di Evangelisti o Muratori o altri. Il principale motivo per cui la tua selezione ha senso e merita di essere discussa con attenzione è che fino a poco tempo fa, in Italia, di libri simili o non se ne scrivevano o se ne scrivevano pochi o venivano totalmente disdegnati. È sulla questione italiana che dobbiamo ragionare, perché soltanto ripartendo da qui, a mio modesto avviso, è possibile tirarti fuori dal collo di bottiglia in cui rischi di cacciarti. Il mio scopo sincero è quello di lasciarti intravedere una strada alternativa, una via di fuga. Se ti contesto alcuni punti è soltanto per questo. Se Trevi avesse scritto quella sardonica recensione negli Stati Uniti gli avrebbero riso dietro. Qui da noi, però, meditare un libro «contro il romanzo» non è la sparata di un supponente. È un qualcosa che una sua ragione d’essere, un prodotto coerente del nostro humus culturale. Per questo motivo dobbiamo fare «politica sul territorio»; per questo motivo è un errore parlare di postmoderno come fai tu. Una mia professoressa di storia dell’arte, al liceo, diceva sempre che è sbagliato parlare dei mocassini come di scarpa «classica». Le vere scarpe classiche, secondo lei, erano i calzari dei tempi di Fidia. La mia simpatica professoressa — chissà che fine ha fatto — avrebbe avuto ragione se oggi la nostra esistenza ruotasse tutta intorno a questioni di arte greca. Siccome non così non è, mi dispiace per Fidia e i calzari dei tempi suoi, ma ha ragione mia mamma a pensare che i mocassini sono scarpe classiche. Insomma, quando ragioni sul postmoderno, temo di vederti fare la fine della mia professoressa. Per esempio, ogni qualvolta salta fuori la faccenda dell’ironia tu estrai dal cilindro questa famosa citazione di David Foster Wallace che ti ha sottoposto Genna (e lo preciso per dimostrarti che, pur essendo rimasto nell’ombra, la discussione l’ho seguita anche dal suo interno). Ma il nostro compianto autore, nel dire quelle cose, dialogava a distanza con Pynchon e Barth. Tu con chi dialoghi? Con Barth e Pynchon anche tu? O forse con Eco o Portoghesi o Vattimo o Achille Bonito Oliva? È vero che abbiamo vissuto in una condizione postmoderna, ma in questo fumoso zeitgeist tutto e il contrario di tutto rischiano di diventare una sola cosa. Bisogna delimitare il campo. L’ascissa e l’ordita del nostro discorso devono essere “letteratura” e “Italia”. È da qui che dobbiamo partire, è qui che dobbiamo confrontarci. Una volta sciolti alcuni nodi potremmo anche pensare a fare discorsi «international», oltre che «italian». Ora cercherò di spiegarmi nel modo più sintetico e chiaro possibile. Se ce l’ho tanto con questa storia degli oggetti non identificati è proprio perché viviamo in un contesto culturale che permette a Trevi di avversare quella che lui definisce “ideologia” del romanzo. È vero, solo per pochi titoli hai parlato di oggetti non identificati. Purtroppo, però, lo hai fatto per un testo chiave, Gomorra, che pur non essendo un vero romanzo è stato definito così in copertina, salvo poi essere collocato dai librai nella sezione giornalismo. La commistione di fiction e non-fiction, l’io narrante che coincide con l’autore e fa da guida in un inferno reale non è affatto «new», rientra perfettamente nel solco della tradizione italiana: è figlio di Dante e della sua Commedia. Anche Petrolio di Pasolini, che Genna cita sempre, si muove su un binario simile. E lo stesso potrebbe dirsi del Contagio di Siti, di Rondini sul filo di Mari e di tanti altri testi. È questo il nostro DNA narrativo. Non Lucarelli né Evangelisti né Wu Ming e nemmeno il sottoscritto (così è chiaro che non ce l’ho con nessuno). Nessuno dei testi sopra citati è però un romanzo in senso romanzesco. Nel senso in cui Hawthorne definiva il «romance», cioè. L’anima romanzesca è aliena alla nostra letteratura e non per nulla, nel mio articolo sul manifesto, ho richiamato la battuta di Ippolito d’Este ad Ariosto. Mi diverto a essere vezzoso quando scrivo, non lo nego, ma in genere i miei riferimenti, quantunque frivoli in apparenza, sono meditati. Ariosto era l’autore preferito da Calvino, il quale, fino a prova contraria, è a sua volta il nostro solo autore che si sia cimentato seriamente nel fantastico (“solo” nel senso di sufficientemente noto all’estero). Negli studi internazionali sulla letteratura del fantastico l’Italia o non compare affatto o compare con due soli nomi: Dante e Calvino, il primo dei quali fatto spesso a sproposito non considerando che il mondo ultramondando di Dante era perfettamente coerente con la cosmogonia dell’epoca e che i personaggi della Commedia sono persone reali. (Tengo a precisare che non sono l’unico a pensarla in questi termini: a beneficio di chi è interessato ad approfondire la questione cito un interessante articolo dell’italianista Ferdinando Arrigoni «Putting Ghosts to Good Use: Savinio, Bontempelli, Landolfi»). Giunti a questo punto dobbiamo chiederci perché la nostra letteratura (ma un discorso analogo potrebbe essere fatto per il cinema) ha sostanzialmente prediletto un realismo di stampo individualista, dove cioè è l’io dell’autore a raccontare e trasfigurare il reale. Non mi dilungo per non sfasciare troppo le scatole; traccerò soltanto poche e rapide coordinate. Sono affermazioni grosse con macigni, buttate lì con rozzezza eccessiva. Lo so. Chiedo a tutti indulgenza, bisognerebbe scriverci un libro ma non è questo il luogo.
    Dunque.
    Punto Primo: È mia profonda convinzione che la nostra cultura si sia evoluta in questo senso per via di come la chiesa cattolica ha forgiata la nosta morale.
    Punto Secondo: il genere dominante della nostra narrativa è figlia dell’istituto cattolico della confessione.
    Punto Terzo: la morale cattolica e la confessione hanno prodotto un concetto distorto e strumentale della verità, e dunque del racconto della realtà.
    Nel precedente intervento citavo Balzac: il romanzo è la storia privata delle nazioni. Ebbene, WM1, credi che noi italiani abbiamo una storia privata? Guardati attorno, guarda a ciò che succede, ai casi Englaro, alle ronde, al primo caso accertato di corruzione senza corruttore. Guarda la nostra nazione cattofascista. Cos’è, secondo te, tutto ciò: una storia privata o uno pubblico e progressivo sputtanamento? Se avrei preferito la parola «romanzo» a «epic» è perché mi sarebbe piaciuto vederti fare più i conti con ciò che siamo, anziché citare di quando in quando Wes Craven o Tarantino o reagire de panza a critiche che hanno una loro cittadinanza. Ma soprattutto: perché un paese di soli verismi e realismi è un paese senza verità e realtà.

  294. e chi li dimentica i lettori? la creazione di un caso è in funzione loro, per destare la loro attenzione, mica serve a chiarirsi con i critici.

  295. Ehi Morganthal, uno zozzo cinematografaro anche tu? Un giorno ci facciamo una gran chiacchierata (però smettila di madare fiori e cioccolatini a Claudia) :-).
    Anche io sono stremato. Buona notte a tutti, anche a te Sergio, che alla fine mi sa che sei pure uno ganzo (è che ti disegnano così). E a te Lucio, che a un certo punto ho temuto di averti convinto sul serio!
    Quasi dimenticavo. A chi interessasse, domani a Siena altra letteratura.
    MODERNITA’ E MODERNISMO: Luperini, Domenichelli, Prete, Policastro, Ferroni. Io ci vado (però non lo dico mica che Wu Ming c’ha ragggione).

    http://www.unisi.it/ricerca/dip/dip_fcl/DottoratiWeb/ScuolaDottInterpretazione/LezLocGiornModernita24250209.pdf

    Grazie a tutti, davvero.

  296. Per favore Dimitri registri Ferroni e poi riporti su carta. Poi si procuri una matita rossa e blu. Più rossa che blu

  297. @pincio
    davvero non capisci le ragioni dell’esclusione di groppi? del perché quelle sbarre della gabbia teorica che ti sono sembrate troppo larghe a volte invece su certi nomi si saldano fino a diventare un muro invalicabile? beata ingenuità. l’appello all’autorità di serino non è solo un segno dei tempi, lui incarna l’apoteosi del bee-jay, il “promotore letterario” per eccellenza, quello che ti vende i “titoli spazzatura” creando i casi con la critica urlata, denunciando i plagi da operetta e scoprendo gli inediti dell’acqua calda. serino è la critica al tempo dei wu ming.

  298. @ Wu Ming
    “L’allegorista estrae ora qui e ora là un pezzo dal fondo disordinato che il suo sapere gli mette a disposizione, lo affianca ad un altro e prova se si adattino l’uno all’altro: questo significato a quest’immagine o questa immagine a quel significato. Il risultato non può mai essere previsto, giacché fra i due non c’è nessuna mediazione naturale.”

    Ripartiamo da Benjamin, ma ho l’impressione che – come segnala Trevi – tu ne faccia un cattivo uso, o meglio, ne abusi. Benjamin non ha nulla a che fare con il post-moderno, con la transmedialità! Spero che su questo saremo d’accordo.
    La questione dell’allegoria rimanda a una questione cara a Benjamin: la dimensione messianica, di redenzione legata alla catastrofe della storia. E’ qualcosa che ritorna nei Passages (Benjamin come straccivendolo della storia) fino – naturalmente – alle pagine dedicate al concetto di storia.
    Si parla ovviamente di costellazione, citazioni, di immagini e significati. Il fondo del discorso di Benjamin è però paolino, come ha segnalato Giorgio Agamben: non è certo post-moderno. Piegare la dimensione di allegoria e di citazione (e di immagine) come fai tu è piuttosto arbitrario, e ha ragione Trevi «ciò che è allegorico, nei “demoni”, non è il complottino nichilista di provincia che a voi fa tanto pensare a gruppi di imbecilli contemporanei.» E la stessa cosa vale per la citazione di Rivette nel testo di Genna. La questione legata alla citazione in Benjamin è così acuta e complessa che non è possibile ridurla a questo (e ancora, non ha nulla a che fare con il post-moderno).
    Rimando alla chiusa del libro di Giorgio Agamben dedicato al seminario dedicato a San Paolo, “Il tempo che resta”. Scrive Agamben:

    «Das Jetzt der Leserbarkeit, “l”ora della leggibilità” (o della “conoscibilità”, Erkennbarkeit) definisce un principio ermeneutico genuinamente benjaminiano, che è l’esatto contrario del principio corrente, secondo cui ogni opera può essere in ogni istante oggetto di una interpretazione infinita (infinita nel duplice senso che non si esaurisce mai ed è possibile indipendentemente dalla sua situazione storico-temporale). Il principio benjaminiano suppone invece che ogni opera, ogni testo contengano un indice storico che non indica soltanto la loro appartenenza a una determinata epoca, ma dice anche che essi pervengono alla leggibilità in un determinato momento storico».

    Certo, forse Didi-Huberman non sarebbe della stessa opinione (penso alle sue riflessioni sul concetto di aura e immagine dialettica…). In ogni caso mi fermo qua.
    Buongiorno a tutti.

  299. @ Tommaso Pincio (ma in realtà tutti, attenzione)

    Il tuo intervento mi è prezioso, come mi è stato prezioso quello precedente e come mi fu prezioso quello sul “Manifesto”, che mi ha spinto a precisare alcune cose sugli UNO, anche nel dibattito in rete.

    Quindi continuo a non capire come mai tu mi rovesci addosso queste metafore dello svicolare, del nascondersi, del proteggersi o chessoìo. Sono qui senza corazze a beccarmi anche i getti di merda. Scusami, so che mi hai detto di non farlo, ma non posso non pensare a un preciso frame retorico (che usi involontariamente, perché sulla tua volontà di confronto non ho dubbi altrimenti non saresti intervenuto tre volte).

    Allora, a te dà fastidio che io usi la parola “fallacia”, a me dà fastidio che tu continui a reiterare questo approccio, lo possiamo trovare un accordo o no?

    Sono giorni che sacrifico tempo di lavoro per star qui a confrontarmi, chiedo – non da solo – di confrontarci *sui testi*, e non su testi qualsiasi, ma su quelli che ho menzionato nel memorandum. Ma l’interlocutore di turno mi dice che di Genna ha sfogliato solo i primi libri e per intero ha letto solo Hitler, che di Camilleri ha letto solo un mezzo romanzo (con tutta probabilità un Montalbano, mentre io mi concentro su alcuni romanzi storici non seriali) etc.

    E questo mi fa capire molte cose: nei mesi scorsi il mio discorso è stato recepito molto bene dai lettori, che non ci hanno trovato nulla di incredibilmente forzato o sorprendente. Per due ragioni molto semplici:
    1. E’ proprio dagli accostamenti che facevano i lettori (ad esempio su Anobii, andate a vedere i libri che i lettori spontaneamente catalogano come “New Italian Epic”, e cercate come me di interrogarvi sul perché lo facciano), dai loro commenti, dai loro consigli incrociati, che ho tratto l’immagine della “nebulosa”.
    2. I lettori quei testi li conoscono, li hanno letti e quando dico che sono in risonanza l’uno con l’altro, capiscono bene cosa voglio dire. Asce di guerra e La presa di Macallè. Q e Il re di Girgenti. Dies irae e Gomorra.

    Invece, i critici quei testi – e lo ammettono candidamente – non li conoscono.

    Ora, se il mio memorandum/libro ha un difetto che sovrasta tutti gli altri (che, intendiamoci, sono numerosissimi), credo sia questo:
    non sta “in piedi da solo”. In quel testo non riesco a far capire il mio discorso a chi non abbia letto i testi.

    Però va anche detto che se uno i testi non li ha letti, non dovrebbe smerdarli a priori come invece avviene qui da parte di diversi intervenuti (non tu).

    Ma torniamo al nostro scambio a due, collega.

    Ora, cosa ha prodotto in me il tuo intervento di qualche tempo fa? Mi ha fatto capire che, nelle successive tappe del dibattito, avrei dovuto precisare una cosa, e l’ho fatto. Cioè che gli UNO non sono affatto una faccenda nuova. Moltissime opere che oggi sappiamo definire erano partite come “oggetti non identificati”. Direi che è quasi un pre-requisito per essere opere importanti e memorabili. Don Chisciotte comparve come un oggetto non-identificato. L’Ulisse di Joyce era un oggetto non-identificato etc. E, certo, la Divina commedia. Il romanzo, poi, è un genere a codificazione debole, questa è la sua forza, è inclusivo, si espande, oggi chiamiamo romanzi opere che alla loro uscita non erano considerate tali.

    Però c’è da dire una cosa, che parrebbe pleonastica ma non lo è affatto:
    in ogni epoca, gli “oggetti narrativi non-identificati” (cioè quelli che in futuro saranno considerati romanzi o altro, comunque descrivibili in modo meno vago) sono diversi da quelli delle generazioni precedenti. Altrimenti non sarebbero… oggetti narrativi non-identificati.

    Già due anni fa, parlando di Gomorra qui:
    http://www.wumingfoundation.com/italiano/Giap/gomorra.htm
    scrissi che la commistione di giornalismo e letteratura non ha nulla di nuovo né di peculiare.
    Peculiare è il modo in cui Saviano lo ha messo in pratica. E questo è testimoniato da diverse recensioni attonite richiamate più volte nei mesi scorsi (anche da Dimitri Chimenti nella sua trattazione su inserti, prelievi e innesti in Gomorra), a cominciare da quella di Rachel Donadio sul NYT, che cito pure nel libro. Ma potrei citare anche questa riflessione post-lettura di uno scrittore indiano, uscita su The Hindustan Times:
    http://tinyurl.com/bkvac8

    Gomorra, nel suo piccolo Asce di guerra (il nostro libro peggio scritto), Sappiano le mie parole di sangue sono peculiari oggetti narrativi non-identificati dell’epoca nostra e del nostro contesto nazionale. E a me interessa analizzare questo.

    Queste cose le vado ripetendo da tempo (nel caso di Gomorra, appunto, da due anni). Se i tuoi input mi danno l’occasione di ricapitolare e organizzare meglio il discorso, ti ringrazio.

    L’esempio dei mocassini e dei calzari mi sembra fuori fuoco. Mentre sul fatto che i mocassini siano oggi scarpe classiche non mi pare difficile trovare un consenso, su cosa sia o sia stato il postmoderno il discorso è non soltanto aperto, ma spalancato. Persino lo spazio di discussione della voce “postmodernism” su Wikipedia è un campo di battaglia con morti e feriti e guerra sporca e bombardamenti col gas.
    http://en.wikipedia.org/wiki/Talk:Postmodernism
    Scommettiamo che invece la voce “Mocassino” è bella tranquilla?
    http://en.wikipedia.org/wiki/Slip-on_shoe

    Faccio notare che quell’intervista di DFW a McCaffery sono stato io a segnalarla a Genna, a suo tempo, e non lui a me :-)

    @ FabianLloyd

    La questione dell’allegoria è una cosa, quella della transmedialità un’altra, e quello sul postmoderno un’altra storia ancora. E’ assente qualunque giustapposizione di questi tre piani, nel memorandum e nel dibattito. Se la premessa da cui parti è contestare una presunta equivalenza tra allegoria e transmedialità, allora sono d’accordo con te. Ma chi l’ha fatta?
    Forse per uscire dallo stallo è utile misurarsi su un testo espressamente dedicato a come si parla di allegoria nel dibattito sul New Italian Epic:
    http://www.carmillaonline.com/archives/2009/01/002919.html#002919

  300. L’appello all’autorità di Serino è, molto ovviamente, un’invenzione di Garufi, che da diversi giorni si rigira nella testa un paradosso da me offerto più sopra, e davvero non riesce a venirne a capo :)

  301. Molto interessante il discorso di pincio, mi fa ricordare che in qualche commento di wuming1 – nn ricordo dove, abbiate pietà – si concludeva con una frase del tipo “in questo senso il caso italiano è molto particolare, nel bene e/o nel male l’italia è un laboratorio”. Ecco, è un caso, una coincidenza che alcuni romanzi degli ultimi anni si occupino del passato coloniale del nostro paese? Perchè adesso? Perchè in forma romanzo e non solo in termini di conoscenza storica/accademica? E’ una evoluzione personale dei singoli autori? D’accordo, ma intanto mi si sta segnalando un sentire sottotraccia che evidentemente accomuna. Allora forse il tentativo di sintesi che si prova ad elaborare vuole segnalare che c’è un terreno condiviso, di cui possono essere resi espliciti alcuni punti – appunto di condivisione. Ma la validità del provare a fare una sintesi sta anche nel ragionare proprio sull’avere l’italia una storia privata o sprofondare in un progressivo sputtanamento.
    Grazie a tutti, comunque, la discussione anche se faticosissima, qui è stata davvero molto interessante. Fa pensare.

  302. Qui:
    http://www.anobii.com/tags/New%2BItalian%2BEpic/page/2/
    la “nube di catalogazione spontanea” del New Italian Epic formata dalle libere associazioni che fanno gli iscritti ad Anobii.

    Su Anobii, lo dico per i profani, ciascun iscritto cura la propria “libreria”, l’elenco dei libri letti o che sta leggendo o che si propone di leggere. Ogni libro diventa un’intersezione di diversi insiemi, un luogo dove si incontrano le esperienze di migliaia di lettori. Un esempio a caso, ecco cosa risulta cercando Q:
    http://www.anobii.com/books/Q/9788806155728/0119922211661c1b93/
    Libro presente nelle librerie di 3025 iscritti, valutato da 1837 lettori, commentato 350 volte etc.

    Al momento di includere un libro, un lettore inserisce anche il “genere” o l’area di appartenenza o il campo d’azione in cui, secondo lui, quel libro si muove.

    Quello rinvenibile cliccando il primo link è l’elenco dei 90 libri dei quali almeno un lettore ha detto trattarsi di “New Italian Epic”. E’ una catalogazione acefala, selvaggia, orizzontale in modo quasi ferino (ho detto “ferino”, Garufi, non Serino).

    Ovviamente, non si tratta di essere d’accordo con questa o quella scelta di catalogazione. Si tratta di dare un’occhiata alla “media algebrica” del New Italian Epic secondo una precisa comunità di lettori forti e tecnologicamente svezzati. Un bell’oggetto di indagine. Fossi uno studioso, ci fare un paper.

    E’ da riflessioni come questa che è nato il memorandum. Cioè ad anni-luce di distanza da quel che stava facendo la critica in quel momento.

  303. Grazie, Paola, quel punto dell’intervento di Pincio mi ero scordato di trattarlo, in buona sostanza avrei detto quel che hai detto tu, e l’esempio è il più calzante insieme a quello della “morte del Vecchio”.

    Sempre più romanzi affrontano i nodi del colonialismo italiano, dell’imperialismo pre-fascista e fascista in Africa e nei Balcani, delle origini del nostro razzismo nutrito di stelle d’Italia che additavano un tesor a Tripoli bel suol d’amor, belle abissine in cerca di un altro Duce e un altro Re, italiani brava gente e bongo che stava bene solo al Congo.

    Nei decenni precedenti a questo, i romanzi dedicati a questo tema si contavano sulle dita di una mano (Tempo di uccidere e pochi altri), oggi invece c’è una deflagrazione. Perché proprio adesso?

    Esiste ormai un vero e proprio “filone”, che comprende libri di Carlo Lucarelli (L’ottava vibrazione), Marcello Fois (Memoria del vuoto), Enrico Brizzi (L’inattesa piega degli eventi), Gabriella Ghermandi (Regina di fiori e di perle), Alessandro Defilippi (Le perdute tracce degli dei), Gian Antonio Stella (Carmine Pascià), Anilda Ibrahimi (Rosso come una sposa), e che include anche un medium “cugino” come il fumetto (la serie Volto nascosto ideata da Gianfranco Manfredi).

    E’ una coincidenza? Ne dubito.

  304. @WM1

    Lungi da me il disconoscere che hai fatto e stai facendo un lavoro importantissimo oltre che faticosissimo. Il dibattito che suscitato, incluse le critiche che ti sono piovute addosso, che le tue riflessioni, per quanto opinabili, hanno un senso profondo. Questa volta cercherò dunque di essere telegrafico e non replico alle tue precisazioni su postmoderno e amenità varie perché la polemica sterile sulle quisquiglie non è quel che interessa a me. Auspico soltanto in un discorso proficuo che possa essere utile a te, agli altri e anche a me, in quanto scrittore italiano, null’altro. Certe mie precisazioni e opinioni e contestazioni servivano semplicemente, e ribadisco semplicemente, a far da «frame» a un invito: focalizzare meglio la questione italiana ovvero il rapporto tra vita civile e morale, cultura che questa vita esprime ed esiti letterari. A me sembra, ma posso anche sbagliarmi, che disperdersi nei mille rivoli del postmoderno e tanto più dell’allegoria di matrice benjaminiana (sulla quale non mi sono addentrato per ragioni che ormai dovrebbero esserti ovvie) ci allontani dalla possibilità di toccare il vero nervo scoperto. Dal mio personalissimo punto di vista, un ragionamento più centrato sulle ragioni storiche che hanno portato l’Italia a non sviluppare una narrazione di tipo romanzesco (e ripeto: è discorso che potrebbe valere per altri ambiti, a partire dal cinema ma non solo) è sintomatico di un nostro carattere nazionale, che ha riflessi non secondari nella convivenza civile, nel modo di intendere l’etica, nella politica. Poi, trattandosi «semplicemente» di un invito (e non di critica), sei ovviamente libero di non accettarlo o accettarlo nella misura che ritieni più opportuno. E comunque grazie ancora per l’attenzione che mi hai dedicato.

  305. La critica letteraria Carla Benedetti, firma del settimanale “L’Espresso” e docente all’Università di Pisa, dalle pagine del quotidiano Libero dichiara: “[Il New Italian Epic] è una baggianata. È solo autopropaganda.”

    Nel gennaio 2009 il collettivo Wu Ming utilizza questa stessa frase come “strillo” per l’uscita in libreria di New Italian Epic.

    Il giornalista culturale, poeta e scrittore Paolo Di Stefano, firma del “Corriere della sera”, scrive:

    «Per dimostrare come la «New Epic» sia davvero «very new», i Wu Ming saltano a piè pari le generazioni più vicine. Come a dire: l’ «Epic» si è malauguratamente interrotta negli anni 50, ma mezzo secolo dopo per vostra fortuna sono arrivati gli attuali salvatori della Patria: cioè Noi. […] Resta il dubbio che il manifesto dei Wu Ming sia stato suggerito più da un intento promozional-goliardico che da un autentico slancio (auto)critico-letterario.»

    Il critico e scrittore Marco Belpoliti, firma del quotidiano La Stampa e del settimanale L’Espresso, scrive: “In uno spot giornalistico, sempre su la Repubblica, i Wu Ming s’incensavano parlando di sé e dei propri colleghi usando la definizione new italian epic, coniata in Usa. Una bella formula che però non vuol dire niente”.

    Il critico, scrittore e dirigente RAI Franco Cordelli scrive:

    « La New Italian Epic… Ma anche, perché no, il neo-Tremendismo, il neo-Esotismo, che tocca gli stessi nomi, da De Cataldo a Saviano, da Lucarelli a Genna: storie piene di crimini, criminali, paure, brividi, malati, malati terminali, colori locali. L’ unica causa, per così chiamarla, non è il benessere né la paura incombente del suo scemare. È la saturazione del discorso «di sinistra», ovvero del discorso culturale. Esso veicola valori condivisi (libertà, uguaglianza, fraternità) che con il tempo diventano comuni, cioè luoghi comuni. Ecco, allora, la reazione, tipicamente regressiva, «di destra»; ecco il discorso, perfino romanzesco, e che tende a formulare un nuovo immaginario, il discorso che esibisce la diversità, la rarità, l’ eccezione, l’ eccentricità, la morbosità. Insomma, l’ individualismo come valore di scarto dalla norma, come nuovo valore, con quel pizzico di esibizione, ovvero di compiacimento che con il suo assolutizzarsi porta con sé, così indebolendo la propria stessa qualità.»

    Dopo l’uscita di New Italian Epic in libreria (gennaio 2009), sulla stampa quotidiana sono apparse diversi articoli polemici firmati da critici.

    Riccardo Chiaberge, critico letterario del quotidiano Il Sole 24 Ore scrive:

    “Come diceva Ernesto Calindri in un celebre Carosello anni Sessanta: «Dura Ming! Non dura, non può durare…»

  306. Ecco, questo è il tuo primo commento che non mi piace. ‘sti cazzi, dirai, e vabbe’.

    Apprendo da te che stavamo parlando di quisquiglie, e che m’ero perso in chissà quale meandro del discorso sul postmoderno (di cui non mi frega niente, da mesi ho scelto di lasciar perdere quel piano del discorso e se qui l’ho brevemente ricapitolato è perché lo hai tirato in ballo tu).

    Non solo ti ho risposto accogliendo come utili le tue critiche e accettando il tuo invito, ma sto cercando a mia volta di offrirmi spunti che possano concatenarsi ai tuoi, ho ripreso e circostanziato l’esempio che ti faceva Paola e ho rilanciato la domanda: perché il romanzo, perché quel romanzo, perché adesso. E’ quello su cui mi sto interrogando, non so se s’era capito.

    Mi muovo nella tua stessa direzione, la porta è aperta, pregasi di non fingere che sia chiusa, né di tentare di sfondarla.

  307. Caro Wu ming1

    ho la strana sensazione, quasi certezza, che il problema non sia l’argomento, ma l’impossibilità del dialogo fra te e i tuoi interlocutori.

    una conversazione quale che si deve tenere, presenta per l’oratore, e anche per coloro che lo ascoltano, molti pericoli. Anzitutto, il tema si apre da tutte le parti. Chi lo affronta rischia di continuo di trasformarsi da critico letterario in critico della società, in sociologo,in filosofo, in teorico, più o meno improvvisato, delle comunicazioni di massa. Converrà subito allora, per garantirsi dalla possibilità, o meglio, dalla insidia di siffatti sbandamenti, precisare meglio il campo d’azione della conversazione, e i limiti entro i quali questa dovrà, se possibile, mantenersi.

    I testi sono un buon punto di partenza, ma bisognerebbe giocare su un campo condiviso da tutti. Allora mi chiedo: perché non rispondere alla notazione di Pincio, per esempio, scriveva:

    “[…]Se vogliamo ragionare sulla gabbia teorica che proponi dobbiamo anche assumere che quei testi, per te, sono più emblematici degli altri che hai escluso. Devi lasciarmi la possibilità di balzare sulla sedia quando vedo citato Roth (seppure per un romanzo in particolare) in merito all’ucronia, e dimenticato Morselli che ha forse scritto l’unico importante romanzo di storia alternativa del Novecento italiano. Quanto al chiamare in causa il poemetto di Tiziano Scarpa: in quel preciso punto del mio intervento aveva un senso figurato che mi pareva chiaro. Non era assolutamente nelle mie intenzioni rimproverarti esclusioni, ché poco me ne frega; volevo soltanto marcare il ragionamento con qualcosa di visibile, concreto. L’epica è poesia e oralità, presa alla lettera; come i Groppi d’amore, dove tra l’altro Tiziano si inventa un nuovo dialetto.[..] Ma il nostro compianto autore, nel dire quelle cose, dialogava a distanza con Pynchon e Barth. Tu con chi dialoghi? Con Barth e Pynchon anche tu? O forse con Eco o Portoghesi o Vattimo o Achille Bonito Oliva?[…]Anche Petrolio di Pasolini, che Genna cita sempre, si muove su un binario simile. E lo stesso potrebbe dirsi del Contagio di Siti, di Rondini sul filo di Mari e di tanti altri testi. È questo il nostro DNA narrativo. Non Lucarelli né Evangelisti né Wu Ming e nemmeno il sottoscritto (così è chiaro che non ce l’ho con nessuno).[…]

    E tu rispondi, di rimando, rispondi:

    “di confrontarci *sui testi*, e non su testi qualsiasi, ma su quelli che ho menzionato nel memorandum. Ma l’interlocutore di turno mi dice che di Genna ha sfogliato solo i primi libri e per intero ha letto solo Hitler, che di Camilleri ha letto solo un mezzo romanzo (con tutta probabilità un Montalbano, mentre io mi concentro su alcuni romanzi storici non seriali) etc. ”

    A me pare che Pincio non avesse nominato testi “qualsiasi”. E le sue domande restano senza risposte.

    Perché po solo sui testi da te citati e non su altri? Perché non approfittare per discutere su Morselli? per esempio. Forse non lo conosci?

    Ripeto, ho l’impressione che tu non sappia ascoltare l’altro. Ma è una mia opinione personale.

  308. @ Wu Ming 1
    Con tutta la simpatia (virtuale) per la generosità con la quale ti spendi in un dibattito che tutto mi sembra meno che autopromozionale, ti confesso che trovo irritante il fatto che tu risponda solo alle critiche, o alle domande, alla quali ti fa comodo rispondere. Io te ne ho fatta una, sostanziale: perché indicare alcuni testi e non altri? Tu te la cavi dicendo che non vale la pena parlare con uno che ha letto solo un paio di libri di Genna e mezzo di Camilleri. Punto primo su Genna: mi è stato chiesto dal giornale cui collaboro di recensire Hitler, libro di un autore che non stimavo (e l’ho detto subito al giornale, sperando distogliessero da me il calice, ma hanno insistito), avendo sfogliato appunto i suoi libri precedenti (ivi comprese le da Dimitri, ma non solo da lui, tanto decantate prime pagine di Dies irae), e avendo avuto con lui anche disavventure webbiche che mi facevano un quadro francamente piuttosto impressionante dei suoi comportamenti intellettuali. Il libro l’ho letto tutto, non ci sono volute due ore purtroppo. E ho scritto un pezzo che non si permette di dare un giudizio sull’autore in quanto tale, ma solo su quel libro. Penso sia abbastanza legittimo, a meno che tu pensi che per dare un giudizio su un’opera bisogna prima aver letto tutto quello che il suo autore ha scritto in vita sua. Da te sento molte frasi su Dante, ma immagino tu non abbia studiato con la stessa attenzione della Commedia il De situ terrae et aquae. Hitler l’ho valutato 1) per il suo concatenamento tematico (su un tema eminente, anzi il più importante di tutti, forse) con altre opere da questo punto di vista consimili; 2) per la sua attrezzatura linguistica e più in generale formale. E’ vero che ho definito Genna “scrittore improbabile”, il che voleva dire anche, però, che stando a quel libro non era uno scrittore, e dunque “probabilmente” non lo era, ma non avendo letto Medium, per es., che da come me ne parla lui stesso deve essere decisamente più interessante, sospendevo un giudizio definitivo. E questo malgrado, come lui sa benissimo, non avessi motivi di particolare simpatia nei suoi confronti. A me pare di essere stato molto corretto, e credo che lui l’abbia presa così (ma magari mi sbaglio).
    Quanto poi a Camilleri o ai vari noiristi dei quali pure ho visto poco e sicuramente dal tuo punto di vista male. Allora, qui si innesta la questione politica sulla quale mi fa davvero specie sorvoli così soavemente una persona che so al riguardo 1) interessata 2) strumentata. La questione politica l’ho enunciata in maniera scomposta parecchi commenti fa, e si sintetizza così: oggi la paccottiglia è al potere. Mi spiego meglio, o almeno ci provo. Ha tutto. Case editrici, collaborazioni giornalistiche (poi dice: ma come, gli scrittori di oggi non sono più gli intellettuali degli anni Settanta; sfido, non sono gli scrittori giusti, quelli chiamati a dire la loro sulla società, la politica ecc. Se Paolo Giordano è un eminente intellettuale, io sono Hegel), collaborazioni transmediali (ogni mezza pisciata di Ammaniti diventa un filmone – nell’accezione del tuo “romanzone” -, mentre idee squisitamente e strutturalmente cinematografiche dell’autore vero, ma parnasostronzo, non verranno mai prese in considerazione), ecc. ecc. ecc. A un premio letterario anche di una certa importanza, il sindaco di una città di una certa importanza, venuto a premiare il vincitore (un narratore a me non particolarmente simpatico, ma non, o non ancora – perché ha capito l’antifona e canisciuneffesso – noiristapaccottiglio) proclama in pubblico che per quella città lo scrittore sta facendo davvero belle cose, insomma promette di diventare “il Carofiglio” di quella città. Come se avesse citato Dickens. Il critico letterario (sic) del maggior quotidiano italiano proclama Giorgio Faletti il miglior autore italiano vivente.
    Ecco, questo è il quadro. La paccottiglia è al potere. Mentre i Parnasitronzi devono ridursi a pubblicare i loro lavori, meditati e limati per anni, in collane che non vengono nemmeno distribuite in libreria. Evangelisti, nel suo Distruggere Alphaville, avrà forse (forse) voluto fare l’ironico, ma fotografava una realtà amara e, per chi Paccottiglio non è, disastrosa.
    Quello che fai tu, Wu Ming, che Paccottiglio non sei, e anzi fai le letture giuste (anche se a volte molto superficiali, come Trevi senza aver bisogno del Maalox ha perfettamente indicato nel suo ultimo commento) e hai motivazioni politiche condivisibili, non è affatto fare il trashoso trendy. Fai di peggio, dal mio punto di vista. Perché fai visibilmente sul serio. E’ per questo, in ogni caso, che si sta a discutere con te. Tu seriamente dici che i romanzi di Camilleri o di Lucarelli oggi siano un fronte sul quale discutere, sul quale innervare un canone o una nuova (new) tradizione dominante. Insomma, vuoi “anche la recensione di Alias”, come ha sintetizzato Biondillo nel suo post dall’altra parte. La botte piena e la moglie ubriaca, davvero.
    Ecco, io proprio questo contesto: a te, a Biondillo (altra persona con la quale vale la pena discutere, quando non la butta sul farsesco in cerca di ovazioni; è la sua umana debolezza) e a tanti critici-non autori che la pensano allo stesso modo (come forse Dimitri, come senz’altro gli accademici americani e non solo che fanno interi convegni su Lucarelli e Camilleri, Carlotto e Carofiglio). La Paccottiglia ha già tutto, ma pretende anche il plauso degli “ultimi giapponesi sull’isola deserta”, come ci hai definito, mi pare altrove. Pretende che si arrenda anche quell’ultima isoletta, cioè, che magari preferisce Gabriele Frasca o Tommaso Ottonieri a Carlo Lucarelli o Giancarlo De Cataldo. E invece io ostinatamente penso che sia uno scandalo che i romanzi di Frasca e Ottonieri, che si mangiano in un sol boccone tutti gli autori citati nel memorandum (in quanto “anche” epici, eccome, sia secondo i tuoi parametri che secondo altri e meno grossolani o contraddittori), vengano pubblicati fra mille fatiche da Cronopio, Sossella e, ovviamente, Le Lettere. Io penso che la critica abbia come missione precisamente, E MAI QUANTO OGGI, il fare da contrappeso allo strapotere e all’arroganza, mai così belluine (vi prego di andare a vedere i commenti degli editori nel numero sulla Bibliodiversità del verri che citavo prima), dell’industria culturale (quella che dipinge Schiffrin, non quella degli anni Quaranta). Per quanto mi riguarda personalmente (perché poi i “giapponesi”, a differenza di quelli storici fuor di metafora, fra loro sono divisissimi e l’un contro l’altro armatissimi), io cercherò di esercitare questo contrappeso FINCHE’ AVRO’ FIATO.
    Viviamo in un paese che ha saldato come una morsa, politicamente, il potere mediatico e culturale (se questa parola ha ancora un senso) con quello parlamentare, politico e militar-poliziesco. E in cui l’editore di cultura (se questa parola ha ancora un senso) che risponde a quel potere pubblica il testo teorico di un autore che nulla ha a che fare con quel potere ma che, ai miei occhi, finisce per coonestarne la politica culturale. Questo mi dà un senso di ripulsa, non altro. Sul resto si può discutere anche per anni. Ma su QUESTO, da te, non ottengo rispoata.

  309. @ Old Critics

    grazie di questo tuo pungolo, forse mi sono spiegato male io, dopo oltre 300 commenti uno rischia di dare per scontati alcuni passaggi perché ha già detto una cosa o proposto un link… sessanta commenti prima, ma è un errore e probabilmente l’ho commesso anche in questo frangente. E allora provo a chiarire.

    Rafforzando l’esempio dei romanzi sul colonialismo, intendevo associarmi al quesito di Pincio, reiterato fin dal suo primo intervento sul Manifesto, sul perché proprio oggi questa esplosione (inedita per frequenza e multiformità) del romanzo in un paese in cui il romanzo è sempre stato visto un po’ così, e intendevo farlo esattamente nella cornice che lui ha proposto: storia privata, disfacimento pubblico, tradizione nazionale etc.

    Però io sono meno drastico di lui: non è vero che il romanzesco non sia nel nostro “DNA” nazionale, se pensiamo che uno degli scrittori più influenti sul nostro immaginario è Salgari. Quando Pincio scrive, riferendosi alla linea che dalla Commedia porta a Petrolio:

    “È questo il nostro DNA narrativo. Non Lucarelli né Evangelisti né Wu Ming e nemmeno il sottoscritto (così è chiaro che non ce l’ho con nessuno).”

    Per me generalizza erroneamente una realtà parziale. Lucarelli, Evangelisti, Wu Ming e in fondo anche lui sono PIENAMENTE nel DNA narrativo di questo paese. Evangelisti viene da Salgari. Lucarelli viene dal giallo, sottogenere già fiorente nell’Italia degli anni Trenta, e via così.
    E’ chiaro che se vogliamo rintracciare filoni genealogici, dobbiamo esplorare a tutto campo, non solo nella parte… “nobile” della tradizione.

    Anche la notazione sugli oggetti narrativi voleva essere un complemento alla questione posta da Pincio. Gli oggetti narrativi non-identificati di oggi sono diversi da quelli di ieri, e questa diversità sta anche in un rapporto con la forma-romanzo che dobbiamo continuare a mappare.

    Sulla questione: con quali postmodernisti dialoghi tu oggi?
    Con nessuno. Non mi interessa. Mi sono limitato a fare una critica su quella che ritengo essere una tonalità emotiva ubiqua nella fase tarda dell’epoca postmoderna. Ubiqua perché l’ho riscontrata ovunque, nel cinema, nella tv, nei discorsi pubblici etc. Anche Foster Wallace non si limitava a parlare di Barth o Barthelme, tant’è che quell’intervista era appendice al suo saggio sulla tv, e anche nell’intervista, come peggiore esempio di ironia postmoderna, nominava… Rush Limbaugh. E allora qui che dovremmo dire? C’è la fila! Bonolis, Sgarbi, Chiambretti, Signorini…
    Non è affatto vero che in Italia non abbiamo avuto postmoderno e postmodernismo. E’ che non ne abbiamo avuto tantissimo in letteratura, perché è un paese dove la letteratura conta poco. In compenso, ne abbiamo avuto moltissimo in tv, e moltissimo addirittura al governo (ma è difficile separare governo e tv).

    Dopodiché, nemmeno a Pincio interessa un discorso più generale sul postmoderno. Il passaggio che hai virgolettato lo aveva scritto per esortare tutti a parlare d’altro, cioè della questione di cui ho detto a inizio commento.

    Solo una cosa: ma la finiamo con questa storia che mi chiudo, che mi nascondo, che non ascolto? Io sto facendo tesoro di tutto quello che mi viene detto qui, ed è la mia linea di condotta fin dall’inizio di questo dibattito (non solo questo su NI, quello più vasto iniziato nell’aprile scorso). Non così posso dire di molti miei interlocutori.

  310. @Wu Ming
    scusa rientro ora.
    Per me la questione resta: come tenere insieme Benjamin e Jenkins? E’ – sicuramente – un mio problema, non lo nego.
    Ho letto il testo di Girolamo De Michele. Non mi è chiara la questione Odradek-allegoria-Mcguffin, che trovo forzatissima. Hitchcock alllegorista? Mah…
    Ma è un altro il punto che trovo controverso. Scrive De Michele:

    “Sollecitare una riflessione sul rapporto che passa tra il perdere una funzione (divenire inutile) e ritrovarne una originale (divenire riutilizzabile), come fa l’allegoria, ha una dimensione non solo letteraria, non solo filosofica, ma anche e soprattutto civile.”

    E chi lo nega! Anzi. Detto questo, fatico a capire come un t e l e v i s o r e possa assurgere a tale ruolo. Scrivo televisore in questo modo spazieggiato perché è lo stesso Benjamin a segnalare così – quando scrive a macchina – una citazione, una parola da sottolineare (scrive Agamben: “i termini spazieggiati sono, per così dire, iperletti, letti due volte – e questa doppia lettura poteva essere, come suggerisce Benjamin, quella palinsestica della citazione”).

    Un televisore attraversa 54 cambiando uso e funzione ad ogni apparizione. Oggetto-feticcio? Allegoria? non so, non credo. E’ un terreno scivoloso.
    Certo… la merce ecc ecc… io magari (facendo uno sforzo) vi posso vedere piuttosto una vicinanza a certe cose di Raymond Roussel. Penso al bel saggio di Roscioni e al suo riferimento a Max Müller sulla teoria della “dimenticanza”, ben legata alle ipotesi di Saussure sull'”immaginazione per lacuna di memoria”. Ma anche qui la vedo stiracchiata!

    Interessante invece la questione sul colonialismo. Ed è lampante che solo due cineasti abbiano saputo rendere in termini benjaminiani la questione degli stracci della storia (del passato colonialista italiano) e della loro redenzione per montaggio: Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi…

    per ora mi fermo qui.

  311. @ Andrea

    ma la differenza tra me e te non sarà che io leggo Camilleri e Frasca, leggo Evangelisti e poi presento Voce? Ma mettiamo da parte questo aspetto.

    Che domanda è mai questa che riproponi: “come mai questi testi e non altri?”

    La risposta è semplice e sfiora il tautologico:
    perché, tra i numerosi che ho letto, questi e non altri mi sono parsi avere molto in comune, muoversi tutti nello stesso territorio, con differenze di approccio e di esito, ma nello stesso territorio, che a te non interessa mappare: uno stare nel popular non acquiescente né pacificato.
    Per dire, tu potrai trovarli paccottiglia tutti quanti, ma c’è una bella differenza tra i romanzi di Valerio Massimo Manfredi e quelli di Evangelisti. Poi è tuo diritto disinteressarti di tali differenze, come a me – vegetariano – non frega niente della differenza tra fesa di petto di pollo e fesa di petto di tacchino. Per me è tutta carne e basta. Però non mi metto a comandare ai palati altrui.
    Da quell’insieme di opere sono partito, poi ho proposto ad altri di allargarlo insieme a me o in modi diversi dal mio. Ovviamente, solo chi è interessato a farlo.
    Sono tutti i libri che si potevano citare? Ovviamente no, infatti ho invitato a fare altri esempi. Ma qui giriamo sempre in tondo, forse è inutile.

    E giriamo in tondo anche sulla questione opera / autore.
    Di Lucarelli ho citato uno e un solo libro, perché gli altri che ha scritto hanno pochissimo – se non nulla – a che vedere con la morfologia che ho provato a mettere insieme. E quell’unico libro l’ho citato come testimonianza di un sommovimento, tentativo di uscire da una zona di comfort per muoversi verso un terreno già praticato da noi WM, Evangelisti e altri.
    Di Camilleri ho citato alcuni romanzi storici che infatti i suoi lettori hanno in parte rigettato (La presa di Macallè) o comunque considerato troppo strani e difficili (Il Re di Girgenti). Come ho avuto modo di dire più volte, Montalbano mi rompe i coglioni.
    Però secondo te io avrei detto non che queste specifiche opere sono da leggere, ma che Lucarelli e Camilleri sono gli unici, i grandi etc.

  312. @ WM1
    forse, per via del mio modo vezzoso di esprimermi, ti ho dato la possibilità di fraintendermi e di questo mi scuso. ho usato la parola “quisquiglie” solo per dire, amichevolmente: passiamo oltre, non stiamo li a contestarci le cose punto per punto. altrimenti rischiamo di arenarci. nella tua risposta al mio secondo intervento ti sei concentrato sul postmoderno, sulle “esclusioni” e altre cose sulle quali non è produttivo accapigliarci più di tanto. oltrettutto la natura di questa sede non consente di approfondire nel dovuto certe questioni, a meno di post chilometrici e innumerevoli link. il problema che davvero mi sta a cuore è quello che ho rozzamente concentrato nella parte finale del mio secondo intervento. ti proponevo di riflettere di più e diversamente su questo, e sottilineo “di più e diversamente” perché sia chiaro che non ti imputo la colpa di non aver meditato il problema. la proposta, inoltre, non era riferita solo a te. era intesa al plurale: proviamo a ragionare insieme su questi problemi, proviamo a vedere se possono servire da base per passi in avanti. spero di essere stato più chiaro, perché gli infingimenti non sono nella mia natura.

  313. @ Wu Ming 1
    E’ una risposta che non trovo soddisfacente. Ho detto e ripeto. I romanzi di Frasca – autore che, a quanto dici ora, conosci almeno quanto io conosco Genna – rispondono non solo ai parametri che enunci, ma anche ad altri e (mi permetto di dire) più sofistficati. Però a quelli rispondono, eccome. Frasca come teorico (La lettera che muore, pubblicato da Meltemi: editore che, siccome a sua volta non si arrende al macropotere industriale e ai suoi diktat nazistoidi, sta letteralmente morendo nel disinteresse generale) ci dà la maggiore e più sofisticata strumentazione possibile, circa una nuova possibilità epica “oltre” la postmodernità. E lo fa tracciando una tradizione che va dai Vangeli a Cervantes, da Sterne a Flaubert fino a Pynchon. Però tu ti compiaci di un albero genealogico che sfoggia Salgari e Scerbanenco. Infatti il tuo saggio esce da Stile Libero, quello di Frasca da Meltemi.
    Non solo. Ma siccome comparare Santa Mira di Frasca a L’ottava vibrazione porterebbe probabilmente (dico “probabilmente” perché quest’unica gemma di Lucarelli me la sono persa, hélas) a una SCELTA, fra i due. Che, se si è intellettualmente onesti, non può che essere una. Di conseguenza: censura su Frasca. Censura su Frasca autore, ridotto a Le Lettere e a Cronopio. Censura su Frasca teorico. Censura. “Però secondo te io avrei detto non che queste specifiche opere sono da leggere, ma che Lucarelli e Camilleri sono gli unici, i grandi etc”. Sì, sostanzialmente dici questo. Perché rifiuti di confrontare uno come Frasca con uno come Lucarelli. Sarebbe questo il vero atteggiamento al di là delle barriere, delle torri d’avorio e delle invasioni barbariche di cui ciancia l’Evangelisti teorico. Sarebbe questo l’atteggiamento intellettualmente libero, spregiudicato, che si mette in gioco a tutto campo. Sai come si chiama? Un atteggiamento POLITICO.

  314. @ Tommaso Pincio

    Old Critics ha ragione, ti avevo risposto sul punto che hai a cuore in modo troppo criptico. Nel rispondere a lui, ho ri-risposto a te. Il piano di riflessione che proponi è davvero molto importante, cruciale. Si continuerà, non necessariamente qui.

  315. @ Andrea

    ma che c’entra Frasca con i parametri che ti ho ricordato? Non c’era alcun modo di includere Frasca – di cui pure apprezzo molto gli interventi su poesia, voce, suono etc. – nel memorandum, che tratta di un territorio che non è quello che batte lui. Non c’entra un cazzo. L’ho nominato per dire che, come dovrebbe essere ovvio, leggo anche cose che non sono NIE.
    Scusa, finora ho apprezzato molto il tuo sforzo, ma quest’ultimo commento era un po’ una pernacchia fatta con l’ascella, perdonami…

    Devo andare a prendere la bimba a scuola. Oggi pomeriggio la materna è chiusa, devo stare con lei e non potrò collegarmi. Ciao.

  316. @Cortellessa: sul resistere finché avrai fiato mi trovo d’accordissimo (ce ne fossero così!) e mi pare che questa discussione sia un esempio di scrittori, critici e intellettuali che cerchino di difendere delle loro posizioni (e meno male allora che c’è internet). Il problema di fondo, però, è che il suo discorso rischia di diventare un boomerang. Lei parla di scrittori che non hanno lo spazio che meritano (ma che pubblicano comunque su Cronopio, Sossella e Le Lettere, che nel loro piccolo sono prestigiose), ma scivolando su quest’asse io potrei andare a pescare più in basso, tra editori che manco finiscono in libreria, e che non hanno neanche la fortuna di avere un critico preparato come lei che li difenda. Questo per dire che a me sembrano due discorsi – quello suo e di Wu Ming – che s’intersecano per un attimo, per poi distanziarsi nuovamente, tanto che io finisco per trovarmi d’accordo su tante delle cose che dite entrambi, ma non le prendo come contrapposte. L’utilità di un “lavoro sporco” come quello che sta cercando di fare Wu Ming sta proprio in questo: creare un discorso (anche e soprattutto con le sue debolezze) attorno al quale “ricompattare” la critica, costringerla a parlare di un fenomeno anziché delle singolarità. Il quadro d’insieme anziché il dettaglio (che poi nel quadro si può anche andare ad analizzare il dettaglio). Quando Maurizio Grande affrontò la commedia all’italiana (oggi rimpianta da molti, che alla commedia si è sostituita la farsa televisiva) molti dei critici e degli studiosi storcevano il naso (erano i propugnatori di un certo realismo, gli Spinazzola ed Aristarco) perché non prendevano in considerazione gli aspetti individuati da Grande (o non interessavano loro). Ciò non significa fare paragoni azzardati, perché il tempo potrà anche smentire i confini del campo tracciato dallo studio di Wu Ming. Ecco la differenza, mi sembra: un discorso di campo (su una serie di opere) vs un discorso sugli autori. Sono due priorità differenti, ma a me non pare che l’una escluda l’altra. Credo alla necessità di difendere certi autori (anzi, certi libri) ma anche a quella di cercare di fare una mappa del territorio, che ogni tanto è necessaria, quantomeno per ritrovarsi ad un punto tutti insieme e discuterne. O vogliamo perderci ognuno sulla propria isoletta?

  317. E dirò di più. Pincio l’ha detto, al suo modo obliquo ma l’ha detto. Nel tuo saggio fai politica, sì, ma la fai nel modo più surrettizio e doroteo. Perché censuri non solo autori e pensieri che farebbero crollare il castelletto di carta (o ti costringerebbero a ristrutturarlo in profondità), ma anche altri autori, come Scarpa e altri, coi quali potresti dialogare (non essendo Parnasistronzi) ma coi quali hai avuto dissapori. Io non ho letto a sufficienza Lucarelli, lo confesso, per poterlo commisurare con questi altri autori. E infatti non lo faccio, mi limito ad approfondire scritture che sono censurate da altri, e a mettere a disposizione tutte le mie energie, in questo compito. Ma, a quanto tu stesso confessi, tu sì invece.
    E allora PERCHE’ NON LO FAI?

  318. basta col principio di autorità, con questi fossili che presidiano le terze pagine e non capiscono il nuovo, diamo voce alla gente comune, un bel televoto sul NIE!

  319. Cortellessa ha detto:

    “Viviamo in un paese che ha saldato come una morsa, politicamente, il potere mediatico e culturale (se questa parola ha ancora un senso) con quello parlamentare, politico e militar-poliziesco. E in cui l’editore di cultura (se questa parola ha ancora un senso) che risponde a quel potere pubblica il testo teorico di un autore che nulla ha a che fare con quel potere ma che, ai miei occhi, finisce per coonestarne la politica culturale. Questo mi dà un senso di ripulsa, non altro. Sul resto si può discutere anche per anni. Ma su QUESTO, da te, non ottengo risposta”

    Un nodo importante. Ripartiamo da qui.

  320. “Io sto facendo tesoro di tutto quello che mi viene detto qui”.

    Certo, tanto il libro è già in libreria e più si allunga il brodo dei commenti online, qui e altrove, più aumenta la risonanza intorno a esso… Non a caso – e in tal senso – sono stato definito “utile” (sott. idiota) anch’io, nel mio piccolo…*-°

  321. aggiungo solo una cosa e non per polemica gratuita. spero sia ovvio che quando parlo di DNA mi riferisco alla linea dominante della nostra letteratura. che nel nostro paese si sia prodotta narrativa romanzesca è il minimo, diversamente saremmo proprio alla frutta. la stessa è però un filone minoritario della nostra letteratura. massimo rispetto per salgari, ma siamo onesti, vogliamo paragonarlo a kipling? in inghilterra, nel lontano 1803, jane austen pubblicava una parodia della narrativa gotica (northanger abbey), due secoli fa nel mondo anglosassone già si scrivevano romanzi che replicavano il genere romanzesco, in un certo senso si faceva già del postmoderno. per non parlare di tristam shandy, comparso ancor prima. il contesto italiano era un po’ diverso, mi pare. cortellessa potrebbe illuminarci in tal senso. con ciò non voglio affatto significare che eravamo (o siamo) arretrati rispetto al mondo anglosassone, ma soltanto che questa obiettiva e profonda differenza di tradizione culturale andrebbe discussa maggiormente e messa più a fuoco.

  322. @ Simone Ghelli
    Hai ragione. Infatti i quadri storici, a mio modesto modo di vedere, si devono fare a posteriori. Proprio perché inevitabilmente (e anche malinconicamente, come ogni storiografo sa) il tempo salva alcuni e non altri. Un quadro storico fatto in diretta, come quello di Wu Ming, ha i suoi pregi indubbi, e io glieli ho anche riconosciuti; ma, ai miei occhi, non ha attendibilità, appunto, storica. E finisce per avere, magari per eterogenesi dei fini, effetti normativi e prescrittivi su lettori giovani e poco preparati. Ai miei occhi è incredibile che non si tenga conto del lavoro teorico ormai ventennale di Frasca, su quella che lui non chiama epica ma tale è (nell’accezione di Wu Ming). La conseguenza è che in questa discussione ben pochi conoscono le tesi di Frasca, mentre tutti conoscono quelle di Wu Ming.
    Non è e non vuole essere una pernacchia, non ne ho emessa neppure una in questa discussione (a differenza di un prot! emesso da WM), e posso garantire che non è mia abitudine emetterne. Dico solo che aver recintato un campo che tiene fuori i maggiori rappresentanti possibili, di quel campo, egli finisce per coonestare una censura editoriale e, dunque, politica.
    Il problema maggiore è che la selezione di certi autori e di certi testi, in passato, veniva esercitata precisamente dalla critica. Magari sbagliando (ma la critica successiva interveniva a sanare il guasto). Tempo fa, in un momento di esaltazione collettiva, snobissima e stronzissima, per Salgari, dissi più o meno questo: è vero che ai loro tempi sia Salgari che Svevo venivano rimproverati di “scrivere male”. Ma a posteriori oggi possiamo dare un giudizio spassionato, sulle rispettive scritture, e verificare che lo “scrivere male” di Svevo era un equivoco della critica di quel tempo. Su quello di Salgari invece non sono possibili equivoci. Dopo di che, ciascuno è libero di preferire Salgari a Svevo. Ma a questo punto si va scivolando nel terreno trashoso aborrito anche da Wu Ming.
    Il problema però è che oggi questa funzione selettiva e discriminante (come le compete sin dall’ètimo) la critica non la può più fare. Perché a sua volta essa è fatta oggetto di censura. Censurata perché non citata (come il Frasca teorico non preso in cosiderazione dal NIE). Censurata perché senza peso e senza luogo (cfr. Lavagetto, Eutanasia della critica). Censurata perché non gliene po’ fregà di meno a nessuno, di quel che sostiene.
    E allora il futuro cosa dirà? Precisamente che c’è solo Lucarelli, e quelli come Lucarelli, e che Frasca era un bravo studioso di metrica. Io continuerò a battermi perché questo non accada, ma so che sto perdendo la partita. In questo senso sì, sono un giapponese sull’isola deserta. Ma non è una figura poi così disdicevole. Peccato che su casa mia, lontano, si stia per lanciare la bomba atomica.

  323. @Cortellessa: io non credo che qua qualcuno voglia affondare la sua isola, non io almeno :)
    Anzi, penso che un buon modo sia proprio quello di proporre un’altra mappa, ad es., dove poter indicare altre traiettorie. Anche con metodi diversi, perché no? A me la cosa interessa tantissimo, visto che faccio parte di un piccolo collettivo che è nato proprio dall’esigenza di creare una rete che “salvi” gli scrittori destinati all’estinzione.
    La discussione che si sta facendo qua è importantissima, proprio perché la critica non ha più quella funzione che gli si attribuiva in passato. E’ relegata a recensire, anche se questo dovrebbe essere soltanto uno degli aspetti della critica (tra i meno importanti oltretutto). Spero che il discorso possa prolungarsi anche da altre parti, senza inutili pernacchie o accuse lanciate alle persone. Vediamo quali saranno gli effetti…

  324. @ Andrea Cortellessa

    Spassionatamente, come lei ha sviscerato un nodo importante negli ultimi suoi interventi, e personalmente, come altri qui, vicino alle sue posizioni, le chiedo:

    A parte il munirsi di tute radioattive, data la situazione, che cosa è REALMENTE possibile fare ?

  325. “A parte il munirsi di tute radioattive, data la situazione, che cosa è REALMENTE possibile fare ?”

    prima bisognerebbe mettersi d’accordo su cosa è radioattivo, se no si prosegue così, ognuno per la sua strada.

  326. @Tommaso Pincio
    d’accordo, non possiamo paragonare salgari a kipling, del resto come ricordi tu stesso c’è una profonda e obiettiva differenza di tradizione culturale rispetto al mondo anglosassone; quindi, tanto per sintetizzare in modo brutale ma per capirci, due secoli fa l’inghilterra aveva già avviato rivoluzione industriale, rivoluzione politica, ascesa della borghesia, ecc: allora la tradizione culturale va contestualizzata, non per fare facili determinismi, ma per capirci. Ovvio che l’Italia – anche per i motivi che dicevi tu parecchi commenti più su e che sintetizzo con“la presenza di un cattolicesimo politico e culturale soffocante”, a cui aggiungo però anche un bruschissimo passaggio da paese “arretrato” a paese industrialmente “sviluppato” che ha fatto fare cortocircuito a parecchie cose, penso alla diffusione della cultura di massa o alla implosione sociale e frammentazione degli ultimi anni – abbia sviluppato anche rispetto al romanzo una tradizione diversa. Allora torno a chiedere un po’ ingenuamente: esistono alcuni elementi che accomunano le narrazioni italiane di questi ultimi anni? Se si, perché ora? Se no, perché ad alcuni è sembrato di vederle? Perché anche a livello epidermico molti lettori si sono ritrovati in questa mappatura? Non credo solo perché privi di strumenti più raffinati. Questa secondo me è una domanda, e credo che su questo ci si possa incontrare con le proposte di WuMing. E su questo mi sembra ragionevole il commento di Simone Ghelli.
    @Andrea Cortellessa
    una piccola considerazione che forse esula dal merito, ma invece a mio avviso ha una sua importanza: non sottovalutare il ruolo di un dibattito come questo, perché se fino all’altro giorno molti non sapevano chi fosse Frasca (io per prima), oggi lo sanno o quantomeno si sono presi l’appunto e andranno a leggerselo. Allora il senso di una mappatura – contestabile, da allargare, criticare, smontare e ricostruire – non sta anche nel suggerire e veicolare nuove (vabbeh, nuove per me) possibilità di lettura?

  327. @ sergio

    guarda, io credo che le posizioni qui siano ben delineate, e, solo i differenti gusti (e la rispettiva umana debolezza) possano far si che ognuno se ne vada per la sua strada.

  328. Mi scusi, Cortellessa, ma WuMing le ha già ribadito che lui intendeva occuparsi di scritture che fossero “pop”, che venissero dal genere o che si muovessero da quelle parti, e infatti di quelle si è occupato, ha ragione lui quando le chiede ” mache c’entra Gabriele Frasca?” Senza togliere né aggiungere nulla a nessuno, Frasca per primo (che non conosco ma di cui desumo il curriculum dalla rete e in base a quello mi interrogo) si sarebbe stupito di essere incluso in quel novero. Perché poi? Perché epico, dice lei. Ma tanti sono epici senza avere le caratteristiche che dice WuMing. Se io, putacaso, scrivessi un articolo sui telefilm polizieschi degli anni Settanta, sarebbe assurdo contestarmi l’assenza di “Scene da un matrimonio”. Capolavoro di Bergman, questo, ma non è un poliziesco, come Frasca non c’entra nulla con Evangelisti. Credo sia questo che WuMing si sta sforzando di farle capire.

  329. @ Paola Signorino
    D’accordo. Infatti sono qui che discuto, dico la mia. Lo faccio (mi pare) senza arroganza, senza pernacchie e senza parnaso. E sono riconoscente nei confronti di Wu Ming (lo dico senza alcuna ironia) che ha voluto discutere con me (sia pure in modo intermittente), pur avendo io premesso una mia reazione di ripulsa nei confronti del suo testo.
    Lei pone una domanda a Pincio, mi perdoni se provo a rispondere anch’io. Lei chiede: “Perché anche a livello epidermico molti lettori si sono ritrovati in questa mappatura?” Io una teoria ce l’ho, ed è facile prevederla se si sono letti i miei precedenti commenti. Ci si ritrova, in una simile ricostruzione, perché non se ne hanno a disposizione altre, più articolate e comprensive, più frastagliate e fantasiose, più rigorose e intellettualmente spregiudicate. In questo senso bisogna apprezzare il tentativo di Wu Ming, e io lo faccio senza ironia. Ma come si apprezza, appunto, un utile fallimento (come lui stesso diceva decine di commenti fa).
    D’altra parte lei stessa, che si dice interessata a queste questioni, non conosce Frasca e La lettera che muore (sebbene ne avessi fatta un’ampia recensione, guarda caso, su Alias). Lei non conosce, dello stesso Frasca, un romanzo come Il fermo volere che risponde a perfezione al parametro “transmediale” di cui parla Wu Ming, che innerva un cosmo di riferimenti “colti” e narrativamente “alti” sul palinsesto di un fumetto come Spirit. La cosa è datata 1987, e di recente è stata ripubblicata ma in una versione a fumetti (proprio da Parnasostronzo, no?), quindi ri-trans-medializzata direbbe Wu Ming. Peccato che l’abbia pubblicato non Einaudi (che nel frattempo pubblicava i fumetti di Ammaniti) bensì Edizioni d’If di Napoli.
    Questa ai miei occhi è la definitiva conferma della CENSURA che, magari preterintenzionalmente, hanno esercitato la politica culturale di Wu Ming e del suo editore. Perché un atteggiamento non censorio è quello che pone al giudizio dei lettori, tutti i lettori ciascuno con la sua preparazione e il suo livello di specializzazione, un ventaglio di soluzioni alternative. Mentre la soluzione-Frasca è stata a tutti gli effetti CENSURATA dall’industria culturale.
    Se questa parole, e queste maiuscole, come Wu Ming mi rimproverava molti commenti fa, equivalgono a vedere gli zombi che ti assediano fuori dalla porta, allora ha ragione lui. Solo che gli zombi davvero ci stanno assediando fuori dalla porta.

  330. @ Andrea Grassini
    Non avevo letto il suo commento precedente. Ma le ho già risposto, involontariamente, nel mio ultimo. Mi limito a ricordare, oltre al Fermo volere (che è datato, ripeto quanto al New, 1987), che la poesia più famosa di Frasca, posta in copertina al suo penultimo libro che abbia forzato il blocco industriale nei suoi confronti (Lime, Einaudi 1995), s’intitola Fumetto. Alcuni degli universi di riferimento di Frasca sono il rock, non solo progressive, appunto i fumetti, la televisione in tutte le sue forme, e ovviamente i new media. All’università insegna in un settore che sono i mezzi di comunicazione di massa (riguardo al cui uso politico ha scritto il più bel saggio che su questi temi io conosca, anche questo sconosciuto ai più perché pubblicato nel ’96 da Costa & Nolan e colpevolmente mai ripubblicato da una major, La scimmia di Dio).
    In questa discussione però mi si può rimproverare di non conoscere a sufficienza Camilleri per poterlo giudicare; invece lei non conosce queste cose di Frasca ma dice che nella medesima discussione lui non c’entra. Lei non ha colpe, glielo dico con molta franchezza. La colpa è di qualcun altro.

  331. @ Morganthal
    La domanda CHE FARE è quella fatta apposta per far disperare quelli come me. Io ci provo, in tutti i modi. Ho dato vita a una collana, “trasmediale” che puù “transmediale” non si può. Vi sono stati pubblicati autori di varie tendenze, fra i quali uno venuto dalla rete (Tashtego), e poi ovviamente Frasca e Ottonieri. Ma anche Wu Ming è presente, come lui stesso ricordava, con un’introduzione a Lello Voce (non confluita in NIE). Questa collana non arriva in libreria perché CENSURATA dal sistema delle sinergie (che tutti conoscono nell’ambiente, ma nessuno denuncia) tra majors editoriali e majors della distribuzione (ormai pressoché coincidono, nel nostro paese, nel silenzio generale dei grandi intellettuali materialisti). Ma questa collana, in parte grazie ai miei sforzi promozionali (ivi compreso questo commento, non c’è motivo di nascondersi dietro un dito), è stata ampiamente recensita e commentata come una delle novità pià interessanti proposte dall’editoria italiana in questi anni (un recensore non compagno di merende ha pubblicamente sostenuto essere la migliore in assoluto). Eppure i lettori appassionati, come quelli di questa discussione, non la conoscono. Non ne hanno contezza. Non possono giudicare se sia un fallimento, se sia un parnasostronzo riveduto e corretto, se sia l’uovo di colombo o che. Non la conoscono, e basta.
    Mentre giustamente conoscono, e giudicano, e si accapigliano, attorno a un prodotto che sta in tutti i megastore, come NIE. E come i favolosi testi che NIE rimegafona.
    Non lo so cosa si possa fare. Ci sono altre idee, che cuociono in pentola. Idee rivolte a far discutere, a riavviare il dibattito, a far saltare la separatezza della critica dal senso comune (è un’ironia straordinaria che tutto questo immenso OT sia appendicolare a un titolo ch’era tutto un programma come La stanza separata. Ma so già che, se queste idee non avranno l’appoggio mediatico di qualche settore resipiscente della macroindustria, esse non raggiungeranno i loro destinatari. Cioè avranno fallito.

  332. Una capatina veloce poi me ne vado, qui tutto si sta torcendo e striminzendo e mi dispiace. Mi dispiace poi che venga tirato Frasca per la giacchetta di qua e di là.
    @ Andrea, ma in che razza di imbuto hai infilato una discussione così complessa e vasta e articolata, se adesso il problema è solo che nel memorandum non c’è Frasca?

    Se per te mi sono dimenticato di Frasca (per fretta, per ignoranza, perché di suo ho letto troppo poco e prevalentemente interventi teorici) e anche alcune opere di Frasca potrebbero essere considerate New Italian Epic, beh, ma che problema c’è? Ti invito a scrivere un articolo “Il percorso di Frasca nel New Italian Epic”, che Carmilla ti pubblicherà volentieri. Dico sul serio.

    Ma ovviamente il problema non è quello.

    Il problema è che tu continui a vedere cataloghi, canoni, liste di eletti, sistemi chiusi e terribili complotti dove ci sono solo appunti, suggerimenti, inviti a esplorare una nebulosa della letteratura italiana degli ultimi 15 anni.

    E quindi chiunque non sia stato menzionato nel libro è vittima di un’orrida censura.
    Nel primo memorandum non avevo menzionato alcuna opera di Moresco, più tardi ne ho parlato con dovizia. Ma è inutile fare controesempi perché tu sei partito in quarta, c’è la censura etc.

    E contro chi si abbatterebbe questa mannaia di discriminazione?
    Contro chi, tapino, è costretto a pubblicare con piccoli editori!

    A parte che pure noi WM abbiamo pubblicato con Bacchilega (e l’abbiamo fatto quando già pubblicavamo per Einaudi), voglio solo ricordarti alcuni editori di cui ci siamo occupati su Nandropausa negli ultimi anni, e alcuni di quei libri sono pure inclusi in New Italian Epic:

    Zandegù
    Terre di mezzo
    Meridiano zero
    Derive Approdi
    Iperborea
    ShaKe
    Agenzia X
    Edizioni del Girasole
    Nuovi Mondi Media
    Rubbettino
    Pendragon
    La Scimmia
    Stampa alternativa
    BD
    Innocent Victim / Magic Press
    Arcana
    Avagliano
    Gaffi
    ISBN
    No Reply

    Abbastanza attenti alla piccola editoria per essere dei loschi inquisitori al soldo dei grandi potentati editoriali, no? :-) E io, come giustamente ricordavi, ho persino scritto un’introduzione per un libro pubblicato da Le Lettere, in una collana curata da… oddìo, com’è che si chiama?

    Ad ogni modo è tutto qui se ti vuoi sollazzare:
    http://www.wumingfoundation.com/italiano/nandro_sezione.html

    Comunque, credo che questo dibattito sia come un limone a cui stiamo strizzando l’ultima goccia. Siamo partiti da una precisa accusa, a quella precisa accusa siamo infine tornati. Mi sa che almeno tra noi due resta poco da dirsi. Ci incontreremo ancora un giorno.

  333. E vabbè, io striminzisco. Legittimo peraltro sostenere che anche il campo d’attenzione di NIE fosse alquanto striminziato.
    Buon lavoro.

  334. Striminzito, non striminziato. Se dovesse essere questa l’ultima parola, è giusto così.

  335. @Andrea Cortellessa
    finito o non finito, in ogni caso la ringrazio per la ristampa (ampliata) del libro di Emilio Villa e per quello di Angelo Maria Ripellino…

  336. Forse sono un cialtrone (anzi, togliamo pure il “forse”) ma non sono disonesto.

    Sarebbe anche facile mettersi a fare distinguo capziosi, col bisturi in mano, al commento di Cortellessa delle 12.18: la distanza siderale che sento per Carofiglio e i vari “Carofiglio di questa città”, il Faletti miglior scrittore d’Italia che neppure ho letto, il tema del successo come onta (quando in vita molti scrittori, oggi nel canone, il successo lo hanno avuto, eccome), la facilità nel dire che se la critica a posteriori ha saputo dare valore a Svevo (come dice Andrea) allora saprà di conseguenza chiarire il disvalore di De Cataldo, o Lucarelli al posto di Frasca o Ottonieri, persino mostrare come una coccarda appuntata al petto tutta l’attività di scoperta di autori qui su NI, o le recensioni a scrittori complessi, marginali, pubblicati da microscopiche case editrici, etc.

    Ma il cuore vero che m’ha turbato delle parole di Cortellessa, il sale del suo discorso, mi pare un altro e sarebbe appunto disonesto passarci sopra.

    E’ quando dice: **La Paccottiglia ha già tutto, ma pretende anche il plauso degli “ultimi giapponesi sull’isola deserta”**

    Ebbene io credo che questa debba essare una cosiderazione importante con la quale occorre confrontarsi davvero. Perché ha a che fare, oltre che con le “logiche di posizione” nel campo letterario, con le nostre debolezze personali, umane.
    Non che io mi senta – e persino mi vanti – di far parte della paccottiglia. Sinceramente non lo so. Sinceramente so che ogni volta che digito qualcosa sulla tastiera ci metto la stessa passione critica, lo stesso entusiasmo, la stessa volontà di capire il mondo, lo stesso stupore nei confronti dell’assoluto, dell’infinito. So anche che in certi momenti della giornata, quelli dove mi sento estraneo a me stesso, quando sono distratto dalle cose del giorno, quasi mi guardo da fuori, e vedo con ciglio asciutto la mia pochezza. Non ho mire espansionistiche, in quei momenti, vedo solo arabattarmi sulle cose enormi del mondo, fuori dal mondo della letteratura.
    Eppure, insito, l’affermazione di Cortellessa mi turba. Ché dovremmo davvero chiedercelo. Perché tanta insistenza nel cercare una corrispondenza, una risonanza in chi, coerentemente, ha sempre fatto della sua posizione da “giapponese” un modo vitale d’essere? (giusto, sbagliato, ha importanza?)
    È da una parte il desiderio d’essere definitivamente riconosciuti da quello che appare come il mondo dell’accademia? E’ il desiderio di mettere un piede nella porta d’ingresso, forzare la serratura? È, dall’altra, la voglia di voler essere apprezzati in quanto tali, sinceri nel proprio agire? È la voglia di un’autoconsacrazione? Come andrebbe d’accordo, allora, con l’idea che si è sempre portata avanti del rapporto prioritario col mondo dei lettori? Con l’idea di dare le spalle alle torri d’avorio? Ma poi: sono queste “le torri d’avorio”? Stiamo combattendo una guerra miope?
    C’è, e dobbiamo onestamente ammetterlo, qualcosa che va oltre la disputa teorica, ed è forse anche il desiderio di sentirsi legittimati da qualcuno, soprattutto quando da questi si viene delegittimati.
    Questa su NI è stata una discussione bella nei contenuti e, anche nelle intemperanze, mai davvero scorretta. Nessuno cambierà posizione, forse, fra i presenti. Mi spaventano di più i volontari assenti. Quelli che guardano da fuori per capire quand’è il momento di saltare sul carro di chi vince. E questo sarà umano forse, ma è meschino.

  337. “Ma questa collana, in parte grazie ai miei sforzi promozionali (ivi compreso questo commento, non c’è motivo di nascondersi dietro un dito), è stata ampiamente recensita e commentata come una delle novità pià interessanti proposte dall’editoria italiana in questi anni (un recensore non compagno di merende ha pubblicamente sostenuto essere la migliore in assoluto). Eppure i lettori appassionati, come quelli di questa discussione, non la conoscono. Non ne hanno contezza. Non possono giudicare se sia un fallimento, se sia un parnasostronzo riveduto e corretto, se sia l’uovo di colombo o che. Non la conoscono, e basta”.

    Significa che solo io la conosco e la leggo? Persino Tash mi è piaciuto.

  338. @ Paola Signorino

    Ti ringrazio per il post perché le tue osservazioni sono puntuali e mi consentono di tentare un ulteriore chiarimento. Ciò che dici sull’Inghilterra e la rivoluzione industriale è verissimo e ne sono assolutamente consapevole; al punto che tempo fa scrissi un saggio dove, tra le tante cose, affrontavo gli imprescindibili legami tra nascita della lettura gotica e avvento della macchina:

    http://www.webalice.it/tommasopincio/ZONE_1.html

    Sono anche consapevole che in quel periodo l’Italia si trovava praticamente su un altro pianeta. Oltre a essere un paese desolatamente rurale non aveva ancora conquistato l’unità e il suo sviluppo culturale e sociale era assolutamente disomogeneo, problema quest’ultimo che si è protratto ai giorni nostri.
    Questa condizione, però, non discendeva dal nulla. Ha radici antichissime. Si potrebbe risalire persino alla caduta dell’impero romano d’occidente, quando la chiesa è diventata di fatto lo stato per un paese che non aveva più stato. Alcuni storici, non io quindi, fissano la nascita degli italiani in quanto popolo proprio in quel momento. Ne accenno sommariamente qui, al post «L’Italia è il paese che amo»:

    http://www.tommasopincio.splinder.com/

    Da quegli antichi eventi bisognerebbe ripercorrere ciò che è successo fino al romanticismo, cosa che per ovvie ragioni non è possibile fare in questo post. Tuttavia una cosa è possibile dirla è cioè che la tardiva industrializzazione del paese, avendo cause specifiche, non ci esime dal fare una seria riflessione sull’assenza di una letteratura fantastica. In altre parole, il problema era già presente prima, non a caso ho citato Ariosto.
    Per le stesse ragioni e in questa particolare prospettiva, un confronto tra Salgari e Kipling ha molto senso. Ti dirò di più: Dante può stare tranquillamente al pari con Shakespeare; per alcuni il sommo poeta sarebbe addirittura superiore al bardo. Dante è Dante, e Salgari è quel che è, mi dirai tu. Ma è proprio questo il punto. Se fai mente locale, saresti costretta a constatare che la nostra letteratura si è espressa al meglio in quello che per comodità, semplicità, fretta, ho definito il nostro DNA letterario. Anche oggi è così. Il meglio che le nostre lettere hanno prodotto negli ultimi anni (il meglio secondo il mio opinabilissimo punto di vista) ovvero Rondini sul filo di Mari, Il contagio di Siti e lo stesso Gomorra di Saviano sono testi danteschi. Ripeto: testi dove l’autore, al contempo io narrante e personaggio, trasfigura una realtà prepotentemente sentita come una discesa agli inferi. Dante alla fine del suo viaggio ha visto anche le sfere celesti. Oggi si rimane un po’ più agli inferi. Ahimé i tempi cambiano e le stagioni non sono più quelle di una volta.
    So bene che Wu Ming 1 potrebbe replicare di guardare anche ai piani meno «nobili». Ma se lo faccio ottengo gli stessi risultati. Esplicito: secondo una vulgata comune Valerio Evangelisti è il massimo autore di fantascienza italiana. Vogliamo paragonarlo per caso a Philip K. Dick o anche solo a William Gibson? Sì dirà che è un paragone ingiusto, che Dick e Gibson nascono da un terreno fertile, mentre Evangelisti è un fiore nel deserto. Vero, ma nemmeno questo ci esime dal riflettere sul perché la nostra letteratura non sta al pari di quella altrui ogni qualvolta esce dai binari del suo DNA letterario.
    Lo stesso Evangelisti, in un testo comparso su Carmilla, interrogandosi sulla questione, ha imputato una pesante responsabilità al modo in cui Fruttero e Lucentini hanno diretto la maggiore collana di fantascienza italiana, Urania. Quel che dice è in parte condivisibile, ma è anche ingeneroso nei confronti della premiata ditta F&L. Siamo sempre lì: se Urania è stata diretta in un certo modo è perché l’Italia non è l’America. Anch’io cercato di raccontare questa storia di Urania, parlando però del contesto generale, facendo riferimenti al cinema italiano di quel periodo (in particolare a La decima vittima di Petri e Divorzio all’italiana di Germi, dove la questione dell’arretratezza culturale è il nocciolo della trama), a Cancroregina (piccolo gioiello fantascientifico di Landolfi, anch’esso con una struttura di matrice dantesca), ad alcune riflessioni di Calvino sul fantastico e altre cose. Ci ho messo pure Salgari, tanto per gradire. Questo saggio è in via di pubblicazione; per cui ti chiedo di pazientare. Te lo offro in forma di citazione anticipata soltanto per rimarcare che se talvolta non entro troppo nello specifico è solo perché gli oggettivi limiti di Nazione Indiana lo impediscono. Questi post mi sembrano già infiniti così!
    Dunque: insisto sul solito punto: il nostro DNA letterario è un prodotto della morale cattolica. Ed è un punto che non possiamo permetterci di ignorare perché il nostro paese seguita a essere uno Stato a sovranità limitata. Magari in un altro post cercherò di fare esempi concreti di come la morale cattolica interferisce nella nostra narrativa. Per adesso mi limito a rispondere alla tua domanda: perché ora? Perché in tanti si riconoscono nel NIE? Metà della risposta te l’ha fornita Cortellessa: è la sola mappa disponibile al momento. Ma ci sono anche altre due considerazioni da fare. La prima è ovvia: viviamo in un villaggio globale, oggi le culture sono più ibride che in passato. Negli anni duemila è nell’ordine delle cose che un italiano scriva un romanzo su Kurt Cobain; nel XIX secolo sarebbe stato assai più strano se un nostro connazionale ne avesse scritto uno su Jack lo Squartatore. La seconda è più specifica e importante: dopo Tangentopoli gli equilibri morali del nostro paese sono saltati. Questa frattura è diventata sempre più visibile nel corso degli anni e sta toccando il culmine. Da un lato stiamo precipitando verso la barbarie, dall’altro questo sbracamento di qualunque etica ha reso inconsciamente (e pure coscientemente) percepibile quanto la nostra società sia fondata sulla deresponsabilizzazione dell’individuo. A forza di confessioni e assoluzioni, scrittori e lettori si sono resi conto che dicendo «Ho peccato» non sempre si afferma la verità. In altre parole, si è cominciato ad avvertire con maggiore urgenza che la finzione narrativa (e dunque romanzesca), potrà anche non soddisfare i gusti personali di qualcuno, ma è un ricostituente della democrazia, in quanto ridefinisce costantemente i labili confini tra falso e vero, tra il mondo reale e la sua rappresentazione a fini strumentali.
    Scusate se mi sono dilungato ancora. Spero di aver aggiunto un altro pezzo al puzzle.

  339. @Illuminalamenta
    Se la conosci e la apprezzi mi fa piacere. Magari l’avrai anche manifestato pubblicamente sotto altro nome (non apro qui la questione pseudonimica, se non per scusarmi col raffinatissimo Fabian Lloyd del quale ho storpiato il nick non rendendomi conto a chi alludesse; consolante comunque vedere che c’è sempre qualcuno più parnaso di me). Diciamo comunque che il sistema, sia editoriale che mediatico, non ti ha particolarmente aiutato, in questo. Mi limitavo a rispondere a un paio di persone appassionate all’argomento che non conoscevano la produzione di Frasca e le sue tesi teoriche (dalle quali in gran parte ovviamente discendono le mie, nell’ideare e condurre fuoriformato).
    Che Wu Ming sostenga che era distratto, al riguardo, francamente mi pare meno credibile. Ma, come diceva quello, non ho le prove.

  340. Mah, Gianni, mi pare una questione decisamente mal posta.
    Nel caso di noi WM, sono i “giapponesi” a essersi voluti occupare di noi, dedicandomi paginate e paginate di giornali piene di reprimende. Noi, prima, quando mai li avevamo cercati? Siamo andati avanti anni senza nemmeno accorgerci se c’erano o se non c’erano, loro sul loro territorio (o “campo d’attenzione”), noi sul nostro. Poi, deve esserci sfuggito un cartello “NO TRESPASSING” piantato da qualche parte, perché è evidente che qualcuno ha sentito il proprio territorio invaso da noi. Il che è strano, a ben vedere, perché sono i primi a dire che il nostro “campo d’attenzione” a loro non interessa. Ma allora non dovrebbero nemmeno premurarsi di dirlo, basterebbe ignorare, come prima, volendo anche più di prima. L’ho ripetuto varie volte anche in questo thread, proponendo varie metafore: io non provo ripulsa bensì disinteresse per un libro sul modellismo con la creta; io sono vegetariano e non mi interessa sapere se sia più buona la fesa di pollo o quella di tacchino, etc. In pratica ho ripetuto: se non ve ne frega niente delle cose di cui mi occupo… che ve ne frega se e come me ne occupo? Boh.

  341. @ Gianni Biondillo
    Circa la prima parte del tuo intervento, faccio sommessamente notare che circa la povertà o meno di Salgari, la critica aveva ragione mentre aveva torto circa quella di Svevo. Il primo era il romanzone del tempo, il popular, il secondo molto meno. Poi ci sono le eccezioni, certo, certo. Le eccezioni e la regola. La critica del futuro, ho però scritto molti commenti fa, farà molta fatica a revisionare le selezioni editoriali e mediatiche di oggi, perché oggi i contrappesi (i Larbaud e i Crémieux, i Montale e i Bazlen del caso-Svevo) hanno infinitamente meno prestigio, autorevolezza e visibilità di quelli degli anni Venti. Tu mi dirai: segno della loro pochezza. E non è certo detto che tu abbia torto.

  342. @cortellessa
    il folle dibattito è andato avanti (ma ti cito il tuo arbasino: non saper dire ciò che si pensa in una paginetta è impotenza linguistica), mi riannodo agli sgoccioli perchè so di portare un terzo punto di vista, quello di chi rigetta camilleri, non ama molto wuming e biondillo, ma non vede soluzione in frasca e ottonieri, e semmai a partire da magrelli, che include la sovversione disfunzionale di questi nella lingua semantica e significante di quelli…e ti cito il mio sfogo mattutino sul campo di battaglia adiacente:… biondillo coi suoi eccellenti e commestibili congegni, i wu ming che vogliono creare una nuova epica più nuova e più epica delle precedenti (ci riesce forse, senza volerlo, blob) e tutti i rappresentanti di quella scrittura che io chiamo tecnica…state tutti all’interno, non dico della letteratura, non dico del post-moderno, ma addirittura del romanzo.. state infine tutti troppo nella psiche… che ci fate in quel posto? è un posto in cui ormai non si fa nulla di buono… nulla che serve, e nemmeno nulla che non serve, fate le gare, le gare di conformità al canone… la dico la parola, anche se patetica: ci vuole il senso dell’infinito, altro che tecnica…
    (ora lo rivendica anche biondillo… il che mi fa piacere peraltro…)

  343. @ Wu Ming 1
    Forse hai ragione tu, col tuo ultimo intervento. Francamente non lo so. Io posso dire un’altra cosa che mi ha molto infastidito, in quest’ultimo periodo. Una cosa che ha avuto molta minore pubblicità del tuo libro, ma mi ha infastidito forse per il medesimo motivo. Proprio qui su Nazione indiana, non ricordo più chi (non è fango ad hominem, non me lo ricordo davvero), si è messo ad analizzare il libro di Paolo Giordano utilizzando come strumento il concetto di “letteratura minore” di Deleuze & Guattari. Io non ho mai usato quello di allegoria di Benjamin perché sebbene abbia letto e riletto Il dramma barocco tedesco, per forse duecento ore anziché due (e abbia usato molti altri suoi concetti, e considerando il suo autore uno dei massimi geni del Novecento, anche se secondo Girolamo De Michele io sarei a lui ostile), molto francamente non ne sono mai venuto a capo. Invidio molto altri critici che hanno imperniato su quel concetto interi libri e teorie, da Romano Luperini ai cosiddetti Quaderni di critica (che facevano furore quando studiavo alla Sapienza), ma non mi sono mai azzardato. Poi arrivi tu e lo impieghi con una superficialità incredibile, oltretutto per coonestare la lettura di testi – mi concederai spero – di livello un po’ diverso da Kafka.
    Quanto a Deleuze & Guattari, invece li ho impiegati eccome. Su di essi, e sulla “letteratura minore”, è imperniato un mio saggio di 800 pagine e passa, uscito da un editore non proprio di nicchia, che riguarda la poesia degli ultimi cinquant’anni. Nei commenti dei frequentatori di Nazione indiana, a quel pezzo, scoprivo che molti di loro sentivano parlare per la prima volta del paradigma deleuzeguattariano, e discettavano per post e post se fosse adeguato o meno alla lettura del Nulla cosmico di quell’occasione. Ecco, questo è il NO TRESPASSING. Come tutti i cartelli consimili, è in sé odioso e di per sé fa venire voglia di disubbidirgli. Ma c’è da chiedersi se non stia lì per un motivo.

  344. E’ quello che cercavo di sottolineare ieri: scomodare Benjamin e l’allegoria per parlare di Genna (con tutto il rispetto) mi sembra davvero fare un cattivo servizio non solo a Benjamin, ma soprattutto a Genna…

  345. @ Andrea Cortellessa
    grazie per avermi inserito tra i p a r n a s i a n i

    (spaziature benjaminiane…)

  346. @Cortellessa

    E’ reperibile questo saggio di 800 pagine? come si chiama e chi lo pubblica?
    grazie per la risposta.

  347. Boh, Cortellessa si lamenta, ma ha ragione Wu Ming nel rimproverargli “Non vi interessa, perché accanirvi, visto quel che di noi pensate!”

    Si lamenta, Cortellessa, ma ritiene Wu Ming un “non Paccottiglio” che paccottiglia, mah…gli rimprovera di non interessarsi ai “leletteriani”. Da direttore di collana il Cortellessa ha detto sì alla intro di Wu Ming all’ultimo “esercizio della lingua” di Voce. Insomma, il Wu ming faceva comodo, faceva da traino? Lo vorreste bue, a tirarvi e slanciarvi nel Parnaso delle vendite? Mi pare che ci sia una certa vischiosità non proprio chiara fra i due contendenti. Da una parte gli autori pop, dall’altra i sofisticati ipercotti/colti.

  348. @ Bar Naso
    Non so se potesse fare da traino, Wu Ming, a Lello Voce. Se il libro di Lello Voce avesse accesso alle librerie, sarebbe interessante verificarlo. E ne saremmo tutti contenti.

  349. da lettore minore ho pensato Parola plurale e Nie come due testi che si completassero, questo per la prosa, quello per la poesia. Non potremmo pensarli così?

  350. @ no / made
    La critica più frequente a Parola plurale è stata quella di essere stata troppo inclusiva. Troppe tendenze, troppi indirizzi, troppi autori. Io non lo so, non credo, altrimenti avrei concepito un libro diverso (che comunque è stato realizzato, discutendolo in ogni sua parte, da un collettivo di otto persone). Però a posteriori riconosco che una maggiore selezione avrebbe senz’altro giovato alla sua diffusione. L’intenzione di un libro del genere tuttavia era quella di documentare l’esistente (nei limiti dell’informazione in nostro possesso; ma, appunto, sedici occhi vedono meglio di due), e la base doveva essere dunque forzatamente molto ampia. Anche se partendo anche da comuni esclusioni, comuni rifiuti, comuni NO TRESPASSING. L’intento di NIE mi pare molto differente. E’ vero che alcuni gli rimproverano di ammettere troppe cose diverse, ma la critica che gli faccio io è quasi opposta: non avere considerato nomi maiuscoli, poetiche maiuscole, testi maiuscoli che, pur coerenti coi parametri proposti, avrebbero fatto ombra – per qualità, complessità, valore – a quelli invece ammessi. Nel caso di Parola plurale non vedo, in tutta sincerità, casi analoghi.

  351. “L’appello all’autorità di Serino è, molto ovviamente, un’invenzione di Garufi”

    No guarda, nessuna mia invenzione. Rileggiti il tuo commento del 16/2 alle h13, parli dell’accoglienza critica al tuo testo, e fra le voci favorevoli citi, con notevole sprezzo del ridicolo, Mastrantonio, Serino con riserva e una nota di Forlani. Non aggiungo altro.

  352. Si, ma WuMing risponderebbe che il suo è un memorandum, una proposta parziale che vorrebbe essere ampliata, non precludendo altri autori a quegli esempi. Diversamente da un’ antologia, che come genere avrà sempre un approccio canonizzante-che in Parola plurale per fortuna è stato sigificativamente ampliato. Ma a me ciò che tende a pensarli affini è la prospettiva fenomenologica da cui partono.
    E a cui arrivano. Ad esempio G.Frasca, che in poesia è epico e transmediale. Che poi il problema sia dell’ industria culturale italiana, perchè imputarlo a WuMing.

  353. “la critica che gli faccio io è quasi opposta: non avere considerato nomi maiuscoli, poetiche maiuscole, testi maiuscoli che, pur coerenti coi parametri proposti, avrebbero fatto ombra – per qualità, complessità, valore – a quelli invece ammessi. Nel caso di Parola plurale non vedo, in tutta sincerità, casi analoghi.”

    Cortellessa, a me pare ingenuo aspettarsi che wu ming scriva di quelli a cui lei fa riferimento. Ognuno ha la sua “nebulosa”! Per gusto, sentire o evidenti limiti, sordità. Continui a fare il suo lavoro, mica può cercare un salvatore/infiltrato. Se no la sua si configura come una lamentela da sinistra vittimista, Lui ha le televisioni, noi non possiamo competere con Lui. Dico, se ne infischi e faccia ciò in cui crede fino in fondo senza aspettarsi niente.

  354. va bè, mi spiego in altri termini, per quanto vada per conto mio: la mia idea (terza) di fondo è questa, che se la percezione è il risultato di un’organizzazione degli stimoli e dell’eccitazione attiva, ed è dunque un’attività culturale e linguistica, compito e senso della lettaratura è estendere e costruire le eccitazioni attive che costituiscono la percezione, ad es. immaginando altri mondi o altri sentimenti o rapporti fra le cose o organizzazioni spaziali – il che non fanno i gialli nè le scritture asemantiche. e che questa operazione è quella che incide più radicalmente e potentemente sulla realtà

  355. Bar naso, credo che Cortellessa faccia già “cio in cui crede fino in fondo”. Come anche Wu Ming1. A guardar bene, il dibattito fra Cortellessa e Wu ming1 si identifica con il contrasto fra due punti di vista e due logiche differenti. Invece è necessario, a parer mio, che la discussione tra i due (e non solo) corra parallela, nelle regioni di fondo a quella apertasi ora.

    E rispetto al ragionamento qui svolto, che sarà, bisogna ripeterlo, essenzialmente problematico, il modo migliore per impostarlo è quello proposto da Pincio, cioè di rifarsi, per successivi colpi di sonda, a testi non ancora vagliati appieno. E inviterei Wu ming 1 ad abbandonare per un po’ l’analisi dei testi già proposti per dedicarsi a nuove nebulose. Glielo chiedo solo perché è lui il promotore del memorandum ed è nel suo interesse ampliare il raggio d’azione.

    Spero di non essere l’ultima voce di questo lungo Exultet “Nella stanza separata”.

  356. @ Andrea Cortellessa.
    Io ho letto Fisica del Senso. Credo che il tuo tentativo di declinare le possibilità di un rapporto esperienziale con la poesia sia un gran bel lavoro.
    Te lo chiedo dunque per sincera curiosità: ma tu non credi che Frasca faccia canone da solo?
    Avrei difficoltà ad accostare la sua produzione a quella di un qualsiasi altro autore vivente in Italia. E’ difficile persino definirlo solo uno scrittore, eppure anche nelle sue performances musicali non smette di fare poesia.
    Me lo insegni tu, un’epoca non è necessariamente contrassegnata da un unico canone, talvolta siamo di fronte ad un tempo multicentrico. Del resto così è stato per tutto il Novecento.

    Non mi pare conveniente tirare fuori la storia delle case editrici. Wu Ming1 è stato l’unico a prendere in considerazione un libro straordinario, e tutt’altro che modaiolo, come “Lo Sguardo e L’Evento” (ed. Le Lettere) di Marco Dinoi . Altre riviste (tra cui Alias) al posto della recensione hanno messo un copia e incolla della quarta di copertina.

  357. Nelle regioni di fondo i due contendenti corrono già in parallelo; rilevanti i contatti, sebbene dissimulati; non foss’altro che il sofisma e l’egida intellettualistica somma e letteraria chiudono il campo in cui entrambi si esprimono.
    Certo che però, Cortellessa, non può cercare di costringere forzosamente i cugini (in fondo vi annusate e riconoscete ;-)) a legittimare i suoi autori maiuscoli. Vogliamo capire: paccottiglia o non paccottiglia?

  358. Mi sono permesso di ritagliare gli smaliziati interventi di Sergio Garufi sul CONSENSO DEL PARLAR MALE e incollarli di là da me.
    Il giochino è semplice: Wu Ming 1 – gran drittone – ha pensato bene di strapazzare i critici che hanno strapazzato lui proprio per scatenare grosse discussioni sia in Nazione Indiana, sia in Lipperatura, in modo che l’auspicata risonanza intorno alla sua stronzatina aumentasse di conseguenza. Tu chiamale, se vuoi, tecniche di marketing… Vabbè, fa niente. Per quanto mi riguarda, come ha capito Dimitri, resto aggrappato al caro, vecchio eroicomico:- /

  359. Grazie a tutti per questo ricco e stimolante dibattito. E soprattutto a Pincio per le ultime riflessioni su morale cattolica e letteratura (o cmq produzione culturale) italiana.

  360. @FabianLloyd
    Scusa il ritardo di questa replica. Non sono d’accordo con il tuo post su Benjamin e Agamben. Il libro e l’interpretazione di Agamben che citi sono molto poco convincenti, si basano sul metodo degli accostamenti (Paolo di Tarso ha detto, ma anche Benjamin ha detto, dunque Benjamin aveva in mente Paolo), tirando in ballo autori come taubes, Schmitt, Heidegger che con Benjamin poco c’entrano, e menodovrebbero entrarci. Benjamin, chissà perché, non lo si vuole leggere come Benjamin: o lo si legge all’interno delel griglie francofortesi (poco importa se a conferma o smentita, l’orizzonte di riferimento resta quello), o lo si accosta ad Heidegger (al quale Benjamin avrebbe voluto, ermeneuticamente, “spezzare le gambe”), o lo si inserisce nel calderone della teologia politica e lo si collega impropriamente a Schmitt (se si è eleganti via Taubes), enfatizzando il misticismo ebraico di un autore che non ha mai imparato a leggere l’ebraico, che dello Zohar ha letto solo la traduzione del primo capitolo, che cita la mistica per nascondere il fatto che sta citando il suo amico Scvholem (il “gran rabbino che una volta ha detto…”). E così, cercando l’Angelus Novus, ci si perde nelle angelologie e non si vede Karl Krauss lì, in bella evidenza sulla scrivania. In questo modo se ne fa un autore da canone, di quelli che, alla Steiner (ma allor aperché non usare Steiner, che non è secondo a nessuno) servono a discriminare il buono dal meno buono e l’ottimo dal buono. Con risultato di dire: non puoi applicare Benjamin a uno come Genna (variante Cortellessa: ad autori che non sono all’altezza di Kafka). Ma Benjamin faceva proprio l’opposto: andava a ravanare nella spazzatura della letteratura con lo stesso spirito col quale scavava negli archivi della Biblioteca Nazionale. L’allegoria come metodo è proprio questo, dal Dramma Barocco ai Passages.

  361. da lettore poco colto devo dire che si fa fatica a seguirvi. scusate ma ci sono momenti che sembra tutto un esibir di muscoli/citazioni, molto da addetti ai lavoro/studiosi di letteratura. io che la letteratura l’ho studiata l’ultima volta in quinta liceo (cioè 1982) e mi piace far l’elettricista (davvero) trovo che proposte di lettura comparata come il NIE siano molto interessanti. è uno dei pochi testi di critica che sono riuscito a leggere e che mi ha aperto delle prospettive, senza farmi sentire un ignorante perchè non so nulla di postmoderno. dura leggere altri testi di critica. forse per questo in italia si legge poco e male: da lettore mi piacerebbe trovare critici la cui mediazione culturale mi aiuti. spesso invece la critica pare escludente, perchè molto “alta”, e alla fine quando vado in libreria scelgo a naso, che quello ce l’abbiamo tutti. saluti e grazie dell’ospitalità.

  362. @ girolamo

    Ormai siamo arrivati alla frutta. Agamben non avrebbe capito.
    Io penso che questa tendenza epica nei lettori italiani, come dice Wu Ming, ci sia e sia un fatto di caduta della letteratura italiana ( e non solo quella italiana se si osservano le tendenze dominanti) e di caduta di una intera società di lettori (scadenti). Un’incultura letteraria.

    E’ un momento pessimo per l’italia, a mio parere, per la qualità della lettura e per ciò che dall’estero viene tradotto in italia, con alcune eccezioni. la lingua letteraria poi è peggiorata.

    Un libro come quello di Franco Arminio mi dà un metro di misura della realtà, mentre Wu Ming non mi trasmette nulla, non c’è emozione, vissuto, intimità

  363. Ma quale critica letteraria sergio? se ti legge citati che scrive su repubblica o Trevi dove ce la vedi la critica elitaria e irraggiungibile?
    Il problema è che uno fa i conti con quello che sa o crede di sapere.
    Quel libro di Wu Ming ha uno sguardo così ristretto quanto ampio di lettori incompetenti

  364. Oh madonna, sergiopaoli è tra noi (“Sergio Paoli è una piacevole rivelazione nel panorama del miglior thriller italiano”, Giancarlo De Cataldo). una voce disinteressata..

  365. e vabbeh, prendiamoci pure dei lettori incompetenti nonchè scadenti…
    ma questa caduta della cultura letteraria, addirittura di una intera società di lettori mi lascia molto perplessa, come se fosse esclusivamente un portato di questi ultimi anni: non è che negli anni trenta gli italiani ancorchè analfabeti leggessero tutti pirandello, eh, o che negli anni sessanta fosse tutto un fiorire di letture di massa del gruppo 63, per favore, misuriamo i fenomeni storici per quello che sono, altrimenti cadiamo nell’orribile lamento della decadenza odierna a fronte di un passato dorato e non guardiamo con gli occhi ben aperti la specificità di quello che accade nel presente. Giusto per ricordare che i fanciulli degli anni trenta, appunto, leggevano Pinocchio Balilla, rivisitazione delle avventure del burattino in chiave di regime e gli anni cinquanta hanno visto esplodere la lettura come fenomeno di massa grazie ai fotoromanzi.
    Uno dei contributo più interessanti della riflessione sul NIE è proprio quello di richiamare il nodo fondamentale tra storia e narrazione letteraria, e su questo ha ragione in toto Pincio (che ringrazio per gli spunti che ha messo a disposizione): il legame tra letteratura e vita civile nonchè democratica di una nazione è fondamentale e su questo è necessario lavorare. Capisco anche in parte il discorso di Cortellessa, ma se una riflessione come quella di WuMing serve a rimettere in circolo anche questo punto fondamentale (e senza storia, io credo, non andiamo da nessuna parte), allora ha raggiunto un risultato di non poco conto.
    Dopodichè, gli zombie mi sa che li vediamo arrivare tutti quanti, ma francamente mi rifiuto di considerare in toto i lettori come “scadenti” o a priori incompetenti (e non è a Cortellessa che mi riferisco).
    @Tommaso Pincio
    Il fatto che molti si siano sentiti attratti dal NIE perchè altro non esiste mi convince fino ad un certo punto; e comunque, se anche fosse così, evidentemente segnala un bisogno che non è stato colto da altri. Sul perchè dopo Tangentopoli qualcosa anche dal punto di vista narrativo sia cambiato invece sono d’accordo, e in ogni caso è vero, sempre lì torniamo: il legame tra realtà e narrazione, tra storia (e quindi anche memoria narrativa, nel senso proprio di raccontare storie con funzione di costruzione di miti condivisi) e letteratura. Ecco perchè ho trovato molto interessante il fatto che all’improvviso una serie di opere si occupassero del nostro colonialismo: anche grazie alla letteratura si fanno i conti con il proprio passato, cosa che noi italiani raramente abbiamo voglia di fare.
    Grazie per tutti gli spunti di riflessione.

  366. scrive più caxxate luc’angel (sic!) in un solo post, a volte in appena due righe di commento (sic!), di quante wu ming-one & cortellessa riuscirebbero a mettere insieme in due o tre vite (o in quattrocento e passa commenti a uno scritto del quale non gliene è fregata una santa mazza fin dal primo momento: l’è istèss). la capacità tentacolare di questo troll anagrafizzato è veramente prodigiosa, visto che è riuscito a conquistare alla sua causa anche uno spirito libero come el garouf…

    ardàtece garboli, e riponete, almeno per un giorno, il narciso onanista che è in voi: la vita, letteratura compresa, è altrove, sempre più distante, sempre più irragiungibile

  367. @paola signorino.

    Sì è vero prima non è che ci fossero tutti questi lettori di pirandello, ma c’era un piccolissima minoranza di buoni lettori e colti e preparati. Troppo pochi è vero.
    Ora una massa di lettori impreparati che ruotano intorno a ciò che gli si propina. Il problema non è solo che non c’è altro, ma che la testa è altrove e quello che c’è fa da magnete (involontario? volontario?)

  368. @funiculì funiculà
    “è riuscito a conquistare alla sua causa anche uno spirito libero come el garouf…”

    ti ringrazio per lo “spirito libero”, ma vorrei farti notare che è proprio dall’indifferenza verso i miei temporanei compagni di viaggio, ogni volta diversi, che si misura la mia libertà di giudizio. oggi per es. sul NIE mi trovo assieme a carla benedetti, con la quale in passato ho polemizzato aspramente (sulla restaurazione, o su un brano di “lettere a nessuno” a proposito della casa con pedullà). questo certo non garantisce che i miei giudizi siano sensati, ne garantisce solo l’indipendenza. è che non appartengo ad alcuno schieramento e rifiuto quelle logiche tribali. la mia estraneità alle varie combriccole mi permette di dire esplicitamente ciò che altri per convenienza e bon ton si limitano a sussurrare, vedi l’argomento dell’esclusione di “groppi” di scarpa dal NIE, che pincio ha sollevato molto timidamente in questa discussione. la mia è un’estraneità sancita ufficialmente: basta consultare il “who is who” della letteratura italiana (“il dizionario affettivo della lingua italiana”, dove sono censiti centinaia di scrittori) e vedrai che non ne faccio parte.

  369. @Girolamo

    ovviamente, l’interpretazione dei testi di Benjamin non è univoca (ci mancherebbe…), per questo ci sono posizioni divergenti riguardo alla sua opera. Non sto qui a sostenere che la mia sia la migliore e dunque è lecito che tu dissenta dalla posizione “paolina” di Agamben (sostenuta in un seminario e che per lo stesso Agamben non credo abbia il valore di “verità” assoluta).
    Rifletto solo su un aspetto che tu sottolinei, quello degli “stracci” (possiamo anche aggiungere l’idea di prendere “contropelo la storia”). E per questo ti cito un passo del libro di uno studioso che di questo si è occupato parecchio, Georges Didi-Huberman (lo faccio per darti “in ipotesi” il mio punto di vista, non la verità). Chiosando la famosa frase di Benjamin «Stracci e rifiuti (Die Lumpen, den Abfall), invece, ma non per farne l’inventario, bensì per rendere loro giustizia nell’unico modo possibile: usandoli (sie verwenden)», – scrive Didi-Huberman:

    «Vi è qui, in primo luogo, la sincera modestia dello storico-filologo. Benjamin ha scelto di affrontare ogni realtà culturale complessa – Parigi nell’Ottocento, per esempio – attraverso il rifiuto della sintesi e la presentazione di una miriade di documenti singolari, spesso minuscoli: quelli in genere trascurati dalle grandi costruzioni storiche. Ma lo storico-filologo degli “stracci”, dei “rifiuti” dell’osservazione, sa anche che tra la pura dispersione empirica e la pura pretesa sistematica occorre ridare ai rifiuti il loro valore d’uso: “utilizzandoli”, ossia restituendoli in un m o n t a g g i o in grado di fornire loro una “leggibilità” (Lesbarkeit).
    Il montaggio appare un’operazione della conoscenza storica nella misura in cui caratterizza anche l’oggetto di tale conoscenza: lo storico r i m o n t a i “rifiuti” perché essi hanno in sé la duplice capacità di s m o n t a r e (démonter) la storia e di m o n t a r e insieme dei tempi eterogenei, Già-stato e Adesso, sopravvivenze e sintomi latenze e crisi. Non si può mai separare l’oggetto di una conoscenza e il suo metodo – vale a dire il suo stile».

    Ecco, io tutto questo penso che Benjamin lo riferisse naturalmente – tra le altre cose – alla Parigi del XIX secolo, ottocentesca. Rifacendosi a una “materialità del tempo” (cose che vanno in decomposizione) e a una “spettralità del tempo” (archeologia psichica delle cose – memoria inconscia). E’ una teoria dello scavo (dice Didi-Huberman). Tutto questo è riferito alla memoria e agisce via montaggio (cioè un movimento che rende “visibile” qualcosa). Si tratta di fare emergere l’inconscio di questi stracci, redimerli (scusa ma il lato “messianico” credo sia ineludibile in Benjamin).

    Riassumo: io non vedo come tutto questo possa emergere da un romanzo NIE. E’ una mia perplessità. Ti portavo l’esempio del televisore “mutante” in 54. Ecco fatico a capire come possa essere considerato allegorico o uno straccio dimenticato (ipotizzavo piuttosto un oggetto più vicino a Raymond Roussel, se vuoi).

    Se c’è qualcuno in Italia che ha saputo trarre una lezione “benjaminiana” sugli stracci della storia e la loro redenzione, credo che queste persone siano due cineasti (lo sottolineavo in precedenza): Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi. Due cineasti che scavano in un archivio dimenticato e in decomposizione, fatto di immagini nitrato, materia infiammabile. Se c’è qualcuno che smonta e rimonta gli stracci della storia del ‘900, ecco questi sono loro. Sono loro a fare i conti che le immagini del colonialismo, del fascismo, della violenza delle guerre del secolo che ci ha appena lasciato. Fanno emergere da queste immagini dimenticate un inconscio sepolto.
    Se vuoi ti passo qualche loro film (a proposito, proprio in questi giorni c’è una personale completa su di loro al Moma di New York).

  370. @ Garufi. Però vacci piano con l’anti-Nieismo. La Lippa è sull’orlo di bloccarti l’IP come ha già fatto con me… Ricorda che, insieme alle sue simpatie ti giocheresti in un colpo anche quelle di: Giuseppe Genna, Roberto Bui, Girolamo De Michele, Gianni Biondillo… e in pratica di tutto il Cucuzzaro Neo-Epico.

  371. @ Girolamo

    dimenticavo, il libro di Didi-Huberman è “Storia dell’arte e anacronismo delle immagini” (Boringhieri) – ma preferisco il titolo originale, “Devant le temps”, il cui sottotitolo è appunto “Histoire de l’art et anachronisme des images” (Minuit, 2000)

  372. @garufi

    Io ti credo e ti stimo come scrittore. Purtroppo, qui in Italia ma suppongo che accada anche altrove ma spero non dappertutto la tua posizione di indipendenza che ti porta di volta in volta a essere d’accordo con uno o con un altro e magari poi in altre occasioni a non essere nuovamente in accordo o in disaccordo, porta male, conduce credo all’isolamento.
    Ma lo dico non per dissuaderti, ma per ammirazione.
    Si paga un prezzo, ne so qualcosa, ma secondo me ne vale la pena.
    Quello che a me dà più fastidio nella società di oggi non è tanto la diversità di posizione ma il modo che autodetermina la formazione di una posizione intellettuale nell’attuale panorama culturale della stragrande maggioranza di intellettuali attivi.
    saluti

  373. funiculì, ti capisco. tutti i presenti e eccellenti disputanti, pur dichiarandosi sovversivi e disturbanti, non si “rendono conto”… non si rendono conto ad es. che impongono interventi dell’ordine delle tonnellate verbali, che monopolizzano la schermata; nsrc che tutta la discussione assomiglia a una disputa medievale, che parlano solo fra loro e da posizioni di potere (chi non sa che passano la vita a scalare università e costruire poteri e anti-poteri) e che non intervengono mai sui testi; nsrc che parlano di scritture che nascono già come storia della letteratura, che escono dall’utero già istituite; nsrc che la letteratura è un incidente della vita, e la vita un incidente di non si sa cosa, e che proprio in non si sa cosa vanno fondate le scritture; nsrc che ogni pensare e classificare è una modalità del sentire, e che proprio nel sentire ci si mette in gioco e si gioca più pericolosamente, e così via … ma la cosa paradossale è che di tutto ciò nsrc proprio a forza di cercare di rendersi conto, o comunque di farsi tornare i conti…gioco facile, si dirà, certo di infinite cose nmrc anch’io… appunto, ma mnrc

  374. né sul pezzo su garboli, nè su alcuni anche pregevoli di altri post (che so, l’arminio anche se non al suo top, il bel photoshperò13 di forlani, o il severo racconto di sara palombelli)… mentre si sparano tonnellate di parole classificatorie, di sorveglianza
    (ma non la prendere come un attacco personale, non cadere nella trappola)

  375. @ FabianLloyd
    non esiste un’interpretazione “autentica” di Benjamin (posto che quello di “interpretazione autentica” sia un buon concetto): più interessante è vedere cosa si riesce a estrarre da un’interpretazione, in che modo si può prolungarla “oltre” quel che Benjamin ha lasciato (interrotto, tra l’altro). E, su un certo piano, è molto più utile puntualizzare le proprie tesi, piuttosto che cercare dei compromessi improbabili. La mia lettura di Benjamin parte dalla constatazione di un metodo: Benjamin ha finto di trattare del Barocco per parlare dell’avanguardia, come fingeva di voler parlare del Secondo Impero per parlare dell’epoca presente. Ecco perché pensare “come” Benjamin, piuttosto che “su” Benjamin, permette di usare Benjamin per indagare le linee di tendenza del presente (non i dati: le tendenze). Secondo me, chiaro. Così come, secondo me, i tagli heideggeriani o teologico-politici non sono all’altezza dell’opera benjaminiana. Non sottovaluto il lato messianico di Benjamin, ma credo che la riutilizzazione cui pensava trovi un’espressione migliore nella ricerca di Orlando sugli scarti e i rifiuti della letteratura (la categoria della “rifunzionalizzazione”).
    Dopo di che, lo dico con molta modestia: io credo di essere venuto a capo di certi testi di Benjamin, ma ho anch’io delle bestie nere (ad esempio le “Ideen” di Husserl), come tutti, credo. Conoscevo Didi-Huberman per altre cose, grazie per la segnalazione.

  376. @Girolamo

    sul fatto che le questioni di Benjamin si riflettano sul presente, beh… c’è lì l’Angelus Novus a dimostrarlo. Ma ho il dubbio che rivolgendosi solo al presente, si corra il rischio di perdere di vista tutti gli strati di uno scavo archeologico della memoria di quell’oggetto o straccio: il presente è ovviamente quello di colui che scava, il suo sguardo, unito alla sua capacità di leggere tutto il passato dell’oggetto stesso (o straccio), mi pare.
    Da questo punto di vista i film di Gianikian e Ricci Lucchi non indagano solo il nostro passato colonialista, guerrafondaio, violento, ma quei fotogrammi si riverberano nel nostro presente. La violenza di quelle immagini è la violenza de il-di-ora-tempo (Jetztzeit).

    Che poi questo abbia a che fare con la storia “effettiva” segnalata da Foucault (via Nietzsche) è probabile. In effetti, “Il sapere non è fatto per comprendere, è fatto per prendere posizione” (dice Foucault, ma la traduzione italiana non rende efficacemente: non è “prendere posizione”, ma “trancher”… avrà a che fare con il “montaggio”? come il rendere visibile qualcosa?)

    Forse ha ragione chi ha scritto sopra (abbiamo bisogno di un centro d’igiene mentale :-)) – basta vado a cena.

  377. @ FabianLloyd e Girolamo De Michele
    Vi ammirò per la densità del dibattito benjaminiano. Anch’io ho letto il libro citato di Didi-Huberman (unico intellettuale di oggi nel quale ritrovi il fervore di Benjamin, anche se del tutto laicizzato); è semplicemente un capolavoro. La vostra discussione non è affatto lanacaprina o roba da igiene mentale (metafora poco simpatica, francamente). E’ uno snodo decisivo della discussione, invece. Anche se ovviamente non si sta discutendo di un’interpretazione “autentica” (con Benjamin, poi!) ma della proprietà o meno nell’utilizzare un simile strumentario concettuale al caso in oggetto (come ho scritto ieri sera alle 20.27).
    Mi permetto anche di far notare, in chiave di materialismo volgare (quello che Ginzburg obiettava a Foucault ai tempi di “Alì Babà” e poi del Formaggio e i vermi), che gli “stracci” benjaminiani del Passagenwerk erano “davvero” stracci, non prodotti industriali tirati a lucido e imposti al pubblico pagante dalle catene di montaggio dell’industria. Mi pare una dimensione un po’ diversa.
    Quanto all’utilizzabilità o meno ecc., visto che qui si sono tirati in ballo anche gli Oggetti desueti (libro sul quale si potrebbe fare una bella discussione apposita, e sulla tenuta teorica del quale avrei qualche dubbio), riferisco un aneddoto indicativo (credo). A una conferenza di Francesco Orlando, a Siena mi pare, in presentazione proprio degli Oggetti desueti, lui fece un bellissimo discorso che ampliava e rilanciava il suo lavoro in termini politici, parlando di zone preterite della storia, di rimossi epocali ecc. Nel dibattito che seguì, io impavido e impertinente dottorando osai chiedergli come mai non citasse mai Benjamin, al riguardo. E lui, serissimo e durissimo, rispose che Benjamin con la questione non c’entrava nulla e che un pensatore del genere (ne parlava come se tenesse un insetto immondo fra due dita) non serviva proprio a nulla: alle nostre giovani, tenere menti. Secondo me sull’utilità di Benjamin alla mente di chicchessia aveva, naturalmente, torto marcio; però nel nostro contesto (di adattabilità di certe categorie benjaminiane fuori del loro immediato raggio d’azione) l’episodio mi pare degno di riflessione.

  378. andato a cercare in rete la famosa babsi jones, che mette d’accordo tutti… c’è qualche pagina… col metodo cortellessa la posso PERCENTUALMENTE giudicare… più che interessante, bene pubblicarla…ma è una scrittura quantitativa, intensiva, iperemica…una scrittura per gonzi, in definitiva, per gonzi che hanno bisogno di qualcuno da ammirare…

  379. prego citare, in alternativa (visto che inciti all’analisi dei testi), una scrittura non “per gonzi”

  380. @Girolamo e Andrea Cortellessa

    faccio mie le perplessità di Andrea Cortellessa riguardo agli stracci della storia («gli “stracci” benjaminiani del Passagenwerk erano “davvero” stracci, non prodotti industriali tirati a lucido e imposti al pubblico pagante dalle catene di montaggio dell’industria. Mi pare una dimensione un po’ diversa»)
    E se parlavo di YG e ARL è perché in questo caso gli stracci sono pezzi di pellicola, lacerti, frammenti di materia instabile, abbandonata, decaduta fisicamente, sepolta in archivi o in qualche cantina. Dimenticata. Documentari di Luca Comerio dedicati alla Grande Guerra o inni al fascismo (Su tutte le vette è pace e Dal polo all’equatore). Filmati scientifici, medicali o riprese di malati con traumi post-bellici raccolti in varie cineteca europee (Oh uomo). Oppure l’esodo armeno (Uomini anni vita). O riprese amatoriali dell’altaborghesia, aristocrazia italiana in vacanza in India alla fine degli anni ’20… (Images d’orient – Tourisme Vandale), raramente si tratta di film distribuiti in sala (se sì, sono spesso versioni in formato ridotto, amatoriale e casalingo: 8mm, 9,5 pathé baby…vedi il loro Karagoez). Materialità e spettralità del tempo su cui prendere posizione. Il passato per il-di-ora-tempo (Jetztzeit). Sopravvivenze.

    Come dicevo, anch’io resto perplesso rispetto ad un “uso” più legato a prodotti industriali. Credo che Benjamin si riferisca piuttosto oggetti sepolti, obliati, impolverati. Stracci che ci riguardano (come direbbe Didi-Huberman).

    Piuttosto, qualcosa di simile lo ritrovo nelle “scatole” di Joseph Cornell.
    E’ l’idea di qualcosa che si dà a vedere, si espone, silenziosa. Questo è un punto importante, a mio parere. Sono materiali che si impongono frontalmente, smontati e rimontati (tagliati e incollati nel caso di Joseph Cornell), muti. Malinconici. Non sono tenuti insieme, non sono legati ad un filo narrativo; non c’è una storia che li tiene uniti e li collega. Il collegamento spetta allo spettatore.

  381. @FabianLloyd
    Dimenticavo di aggiungere, prima, che condivido anche l’entusiasmo per Gianikian e Ricci Lucchi. Di loro ho potuto vedere, andandone letteralmente in caccia (il discorso sul cinema, in cui l’industria non è un partner scomodo ma semplicemente l’unico e tirannico principio di realtà, ci riporterebbe a coordinate già toccate), solo Su tutte le vette è pace: di gran lunga la più bella interpretazione “postuma” (dopo il Galateo in Bosco di Zanzotto) di quel grande e inelaborato trauma originario della modernità italiana che fu la Grande Guerra.
    Mentre sulle “scatole” di Cornell andrebbe poi messa in gioco l’eredità surrealista, gli objets trouvés e i Merz di schwittersiana memoria (e il modo col quale Benjamin annetteva quell’attualità letteraria – significativamente quella e non altre – al suo universo concettuale).

  382. @cortellessa
    non era una metafora
    solo una semplice constatazione
    che veniva dal di fuori di una stanza sempre più “separata”
    buona continuazione

  383. @ Andrea Cortellessa

    Le pagine di Benjamin sul surrealismo si addicono perfettamente a Cornell (la parte in cui parla delle energie rivoluzionarie che appaiono nelle cose “invecchiate”, al proposito penso anche al saggio di Gianni Celati, il bazar archeologico…).
    Anche su Schwitters ovviamente concordo.

  384. @ cortellessa
    l’alternativa sono scritture con cui si entra in un rapporto dinamico (ovvero che presupponga una finalità, un punto di sviluppo), esposto, trasfusivo, disfunzionale e sovversivo come dici ma negli strati profondi degli schemi percettivi, della costruzione di valori, spazializzazione ecc., scritture che dissestino o eccitino, sconvolgano ecc…scritture fatte per essere utilizzate (in senso erotico, economico o che si vuole) mai ammirate e servite, mai misurate, mai ineccepibili in qualsivoglia canone… esempi o modelli da una parte i veri scrittori e narratori di stati del 900, levinas o renè thom o bataille per dire, nel romanzo handke che produce altre logiche emotive, spaziali e temporali…magrelli che scompone il quotidiano in piani metafisici… novarina ma come teorico…o che dire, i film di herzog e debord e le foto di hiroshi sugimoto…fra i nuovi non mi sbilancio…arminio la cui scrittura è tanto aliena da vanità quanto non lo è lui… macello di ferrari (là il sangue è tutt’altro)… i misticismi vertiginosi della gualtieri… qualcosa di aldo nove, di andrea inglese… saviano che parla al corpo, al senso gregario e biologico …ma chiaramente sono elenchi un po’ come vengono…l’idea è una però, non sono nomi disparati…

  385. @chabert

    dici scritture da essere utilizzate, sì questo lo capisco ma quando dici sovversive pensi che la scrittura riesca a sovvertire? Me lo chiedo, mi piacerebbe vedere svolgere questo concetto. E in chiave politica che intendi sovvertire? Alla maniera di Fortini per esempio? Ma poi, abbiamo esempi che possano assomigliare a prove che la letteratura cambi le persone? come saprai George Steiner ne ha dubitato tante volte ma lui insiste per continuare a scommettere sulla scrittura.
    Non è che la sovversione oggi avvenga in altri campi e noi ci illudiamo?
    thom, bataille, herzog, handke,arminio, saviano, andrea inglese, magrelli, questi che hai detto mi ci ritrovo.
    Houllebecq?

  386. @ Gianni
    E lo vedi che in una precedente vita siamo stati fratelli!!!
    @ Cortellessa e FabianLloyd
    come scrivevo sopra, è importante chiarire le posizioni. Io continuo a pensare (e l’ho scritto più volte) che, ad esempio, in Ammaniti sono messe in scena le rovine lasciate dalla conclusione dei conflitti di classe – dunque per me le sue sono davvero rovine, Cortellessa che quelle di Ammaniti siano accorte produzioni industriali con la patina polverosa aggiunta ad hoc. Va bene così (lo dico senza la minima ironia), che ciascuno continui a scavare nella propria direzione, giudicheremo dai risultati.
    PS: Cortellessa, il suo aneddoto mi chiarisce il perché Orlando non mi ha mai risposto quando, letto il suo capolavoro, gli scrissi una lettera nella quale, giovane e ingenuo come il Guccini dell’Avvelenata, gli spiegavo che stavo incrociando la sua ricerca con i testi benjaminiani…

  387. @ Girolamo
    Apprezzo l’intenzione di un’epoché. Però su Ammaniti proprio non ci sto. Si informi, la prego (non faccio ironia!), su come vengono prodotti i romanzoni dell’Ammaniti, su come vengono “aggiustati” nella batteria industriale. Non ne faccio neppure una questione di qualità di scrittura (che escluderebbe Ammaniti da qualsiasi discussione); proprio di deontologia professionale. (E l’analisi stilistica rientra allora dalla finestra; perché potrebbe servire, à la Spitzer, a riconoscere le differenti “mani” all’opera in Io non ho paura e in Come dio comanda).
    Certo, immagino che uno come Genna sarebbe pronto a dire che questa produzione tayloristica del romanzo di successo sia una dimostrazione della natura “epica” del risultato. Qualche giorno fa sul “manifesto” (o segnùr, sul “manifesto”!) i miei occhi avventurati hanno letto, dalla sua penna, il racconto di come i romanzoni spionistici di Robert Ludlum (li conosco bene perché a tredici anni me li leggevo avidamente), dopo la sua morte, siano stati continuati da altre mani. Perfetto esempio, secondo il Genna, di anonimato “epico”: un po’ alla maniera delle anonime mani del popolo che realizzano, generazione dopo generazione, le cattedrali gotiche. Ma è una follia! Questa è semplicemente normale, collaudatissima, cinica pratica di batteria editoriale: morta la gallina dalle uova d’oro, si allestisce una squadra di artigiani, o piuttosto di bassosalariati del lumpen-proletariat intellettuale, e così si completano (o si realizzano di sana pianta) nuove uova. Come si faceva, per es., dopo la morte di Ian Fleming. Una visione da incubo alla Matrix, altro che “epica”! Una forza epica, ci vorrebbe davvero, per smascherare e disinnescare un sistema del genere!

  388. @cortellessa
    io non voglio togliere niente a nessuno, ci mancherebbe
    ho solo detto la mia affacciandomi in questa stanza
    in cui da giorni rimbombano parole di molti che si parlano addosso
    chiedo scusa per l’intrusione e la rassicuro
    la mia intromissione non si è avvalsa di più nik
    non vorrei che si partisse con una disamina sui noir del web
    tolgo il disturbo ed esco all’aria aperta

  389. Bisognerebbe prendere i testi di Ammaniti e esaminarli con i metodi della ricerca caro Girolamo e si vedrebbe che Cortellessa ha ragione, almeno secondo una mia griglia.

    Suggerisco una serie di autori per avere una griglia metodologica per esaminarli (per come la vedo io e per quelli che conosco meglio). Andriga, Bortolussi, Dixon, Goetz, Graesser, Halàsz, Hayward, Kreuz, Kuiken, Larsen, Làszlò, Miall, Roberts, Sadoski, Schmidt, Seilman, Totosy de Zepetnek, Whitten.

    Non è discorso che si può fare neanche in 6 mesi.

    Tanto poi la maggioranza dei lettori si trova in quello stato dell’Apprendere che per Fitche significava sottomettersi a una cura magnetica intellettuale nell’anfiteatro per poter scambiare come i sonnambuli di Puységur, in uno stato di estasi attenta, la coscienza del sé volgare in una lucida illuminazione del sé nella quale l’Io si concepisca come l’organo di Dio nel mondo; che poi secondo il metodo di Fitche, significherebbe – ma lui è uno dei pochi che se lo poteva permettere – lasciarsi andare a una libera costruzione retorica e logica, nel lavoro di Dio (nella versione secolarizzata leggi: Mondo).
    L’esploratore o scrittore dotato del linguaggio dell’assoluto nel mondo dei fenomeni, utilizzerebbe la parola quale elemento di trasmissione intellettuale; per cui per lo scrittore la strada maestra sarebbe esprimere e costruire ciò che è più complicato nel farlo divenire semplice. Così la parola susciterebbe alcune immagini nello stato di dedizione; e il resto verrebbe da sé. Si compirebbe così tutto come in un training autogeno dell’entusiasmo suscitato da ciò che vi è da dire: essi – gli scrittori – informerebbero sul presente virtuale della ragione facendo capire subito a tutti quello che tutti subito non possono capire. Ma va da sé che proprio lì dove tutti capiscoono tutto che lì nessuno ha capito veramente niente perchè non è nel senso la comprensione.
    La transazione del non incantato all’incantato, dall’individuale verso la fusione, della dispersione verso uno stato di ascolto incondizionato è sicuramente provocato da tecniche e media diversi; ma dipende in tutti i casi dalla capacità della parte passiva di alienarsi totalmente nella relazione col polo attivo. La differenza tra il discorso di Fitche e le possibilità della maggioranza degli scrittori italiani contemporanei sta che per gli scrittori – col grande supporto del potere editoriale – le cure mesmeriche suppongono una illimitata propensione del paziente a sottomettersi al fluido del medico, mentre per Fitche il discorso, sempre nel punto precario tra la chiamata e la prova, per potersi sviluppare esigeva la propensione dell’udito intelligente a seguire. Quindi l’erotomagia, il magnetismo e l’ipnoretorica filosofica-letteraria producono dunque essi stessi, quando vengono esercitati, primariamente, e in ultima istanza il cerchio incantato dentro il quale, solamente, si trovano nel luogo ottimale (così non fu infatti per molti scrittori poi, solo da postumi, divenuti classici)
    Direi che è piuttosto recente la comparsa di attitudini critiche negli adepti lettori che non esigono più dai loro magister scrittori di sbarazzarsi del proprio Io e di morire, in certa misura, per entrare insieme nel cerchio del vero.
    Ancora intorno al 1810, il rettore del liceo di Norimberga Hegel, giudicava cosa giusta giusta esporre ai suoi allievi del secondo livello l’idea che dovessero prima di tutto perdere radicalmente l’udito e la vista, come nel caso dei futuri iniziati delle antiche culture del mistero.
    Per questo ci sta pensando dai tempi di Adorno il potere editoriale delle grandi, e con grande ricalco deleuziano – tutt’altro che rizomatico – si espande come grande cerchio sull’acqua nel nuovo territorio di coqnuista: il web, internet.

  390. @ cortellessa @ luminamenti
    ma rispetto alla tua domanda, l’anti babsi jones è handke. il lettore di b.j. ( e pizzuto) si mette lì davanti, e dice: che densità linguistica, e che sprezzo delle convenzioni! questa è una intellligentona, questa ha 1,5 sinapsi al millisecondo (cazzo, il nuovo record indoor regionale), che CAMPIONE, che megaopera! poi se la va a attaccare sull’album di figurine…(ripeto, sto dicendo dello stile, il libro magari è ottimo e attagliato comunque lo stile alla guerra…e leggerò prima o poi questo Duca di mantova)…è proprio un gonzo – peraltro al Sistema (che nostalgia!) va benissimo…
    il lettore di handke, si “abbandona” con vero coraggio a una lingua, sintassi e struttura normali, non perde energia a stupirsi e a giocare con le figurine, ma si ritrova in una nuova ipotesi percettiva, dove il delitto del portiere vale mezza riga, e 2 pagine la parata, dove la sintassi (come in proust, per dire) corrisponde a un nuovo, coerente assetto dei neurotrasmettirori…qui è impossibile votare berlusconi, tutti trovano ridicolo IL PONTE DI MESSINA…

  391. @Andrea Cortellessa

    Felice che abbia apprezzato Su tutte le vette è pace. Dovrebbe vedere Oh Uomo oppure Uomini anni vita. Dal polo all’equatore, ovviamente… se desidera, posso procurarglieli.
    Una domanda (piuttosto ingenua, lo ammetto): perché nella sua collana Fuori Formato non pubblica i Carnets di Joseph Joubert? :-)

    Dimenticavo il libro + dvd di Corrado Costa: ottimo. Ci sono altri progetti di questo tipo in cantiere?

  392. @emanuele: quale critica letteraria?
    appunto: quella che ti da dell’incompetente appena provi ad aprir bocca per dire quello che pensi, senza tanta prosopopea, o quella che tempo venti minuti passa subito al sarcasmo e agli attacchi personali. ma per piacere.
    eh sì, m’han pagato per intervenire qua dire come la vedo da lettore. sono colpevole e lo confesso. eheheheh.

  393. @emanuele: quale critica letteraria?
    appunto: quella che ti da dell’incompetente appena provi ad aprir bocca per dire quello che pensi, senza tanta prosopopea, o quella che tempo venti minuti passa subito al sarcasmo e agli attacchi personali. ma per piacere.
    eh sì, m’han pagato per intervenire qua dire come la vedo da lettore. sono colpevole e lo confesso. eheheheh. e poi alla critica preferisco la bresaola, che mi da più proteine.

  394. chiedo scusa, mi è scappato l’invio prima di finire il mio profondo pensiero ed è uscito un doppio e uggioso intervento. saluti.

  395. @ FabianLloyd
    Ho da parte Oh uomo che devo ancora vedere. Ma altri frammenti ho visto grazie a Fuoriorario, direi, comunque nottetempo.
    Purtroppo la mia proposta fff (fuoriformatoforeign) non è passata per il momento (gravosità delle traduzioni); avevo per partire un’idea formidabile che ora è in corso di realizzazione (ma non stupenda come l’avevamo pensata Mimmo Scarpa e io) in un’altra collana di qualità che andrebbe più premiata dal pubblico, Compagnia Extra di Quodlibet.
    Dopo Costa sarà la volta di Patrizia Vicinelli, a cura di Cecilia Bello Minciacchi (già restauratrice dell’opus di Vittorio Reta) e sempre con dvd a cura di Daniela Rossi. Dovrebbe uscire a fine aprile. E l’anno prossimo dovremmo concludere il ciclo Fantasmi Emiliani con un’analoga antologia di Adriano Spatola. Se ci riusciamo. Purtroppo sono molto impegnativi sul piano economico e organizzativo, questi libri: considerando che appunto in libreria non arrivano e le vendite online sono ancora timidissime. Ma invito tutti a fare una visita al sito dell’editore Le Lettere, dove ci sono anche ricchi sconti e cotillons. (Una volta decisa la strada della pubblicità, non si può più avere ritegno.)

  396. @ FabianLloyd
    Inoltre Joubert non era uscito nella NUE, un secolo fa?
    (quando c’era ancora la NUE, cioè; la famosa antinomia NIE-NUE, già).
    Va sans dire che se mi potesse far avere il dvd delle Vette meravigliose, o di altro GRL a suo giudizio altrettanto verticale, lei sarei infinitamente grato.

  397. @ Chabert
    Non ho capito bene l’ultimo messaggio. L’unica cosa che mi pare di poter recisamente negare è che Babsi Jones o Pizzuto (fra i quali proprio non vedo punti di contatto stilistici) rientrino in qualsiasi accezione di “sistema”. Forse l’unica cosa che li accomuna è il solenne insuccesso di vendite che li ha salutati, nelle epoche rispettive come ora. Solo che negli anni Sessanta e Settanta Roberto Lerici e Alberto Mondadori un Pizzuto se lo tenevano stretto; ora invece Rcs, prima di far fare un altro libro a Babsi Jones, se lo va a scovare piuttosto su Plutone, il suo nuovo scrittore.

  398. Ecco… mi spiace, ma dissento da quanto scrive Stefania Scateni sull’Unità, che accosta, avvicina il piano di azione di Wu Ming alle riflessioni sul contemporaneo di Giorgio Agamben. E credo che anche lo stesso Agamben, sarebbe perplesso.

    Stefania Scateni:

    «Quello che la critica non vede – perché porta occhiali inadeguati per i nostri tempi complicati e fuggenti – è un’esperienza, anzi la ricerca di un’esperienza. Quella della contemporaneità. C’è un’affascinante lezione che Giorgio Agamben tenne all’Università di Venezia nel 2006, pubblicata in un “Sasso” Nottetempo e ora inserita nella raccolta Nudità (Nottetempo). Che cos’è il contemporaneo?, chiede Agamben. Il tentativo di risposta è complesso e affascinante, ma un nocciolo della questione emerge: il contemporaneo è colui o ciò che non si fa accecare dalle luci del presente e riesce a guardare nel buio del presente come fosse una luce che è diretta verso di noi ma non può raggiungerci, come una stella che si allontana velocissimamente dalla Terra ma la cui luce viaggia verso di noi. Il contemporaneo è anacronismo e ha una speciale relazione del passato perché sta negli interstizi. Per questo riesce a vedere quello che la moltitudine non è in grado di vedere.
    Rarissimi sono i contemporanei, c’è chi almeno ci prova. E i romanzi che Wu Ming 1 ha raccolto nella galassia Nie hanno un tratto in comune, il punto di vista sbieco, lo sguardo da un interstizio della realtà (o di se stessi che è la stessa cosa). Ecco, i nostri critici potrebbero provare a mettersi in contatto con questa galassia, a decodificarne il linguaggio, invece di limitarsi a guardare con gli occhi dritti al loro panorama preferito, che peraltro sta svanendo.»

    Contemporaneo è, scrive Agamben (credo pensando a Benjamin e allo Jetztzeit) «colui che, dividendo e interpolando il tempo, è in grado di trasformarlo e di metterlo in relazione con gli altri tempi, di leggerne in modo inedito la storia, di “citarla” secondo una necessità CHE NON PROVIENE IN ALCUN MODO DAL SUO ARBITRIO, MA DA UN’ESIGENZA A CUI EGLI NON PUO’ NON RISPONDERE».

    Infatti, tra l’altro cita una poesia di Osip Mandel’stam… non Salgari (per fare un esempio).

  399. “… Wu Ming 1 elenca una serie di caratteristiche comuni a questi libri, asserendo che tutti presentano la prima e almeno la metà delle altre. Le caratteristiche, in estrema sintesi, sono: 1. Non ci si pone più il problema della contaminazione: si contamina senza ritegno 2. Sguardo obliquo (punti di vista inattesi) 3. Libri complessi e popolari allo stesso tempo 4. Storie alternative (ucronie) 5. Sovversione di linguaggio e stile, ma nascosta 6. Sono degli Ufo, nel senso che non si riesce a identificarli o etichettarli (stessa cosa del punto 1, quindi) 7. Tendono alla transmedialità (a passare in altri media, tipo con colonne sonore, siti web, giochi da tavolo ecc.) L’impostazione di partenza è opinabile, secondo noi, perché è come se Wu Ming 1 dicesse: troviamo le 7 caratteristiche fondamentali degli uomini (essere esseri viventi, razionali, dotati di due gambe, due braccia, una testa, un pene e in grado di parlare) e poi diciamo che per essere etichettati come uomini bisogna avere la prima di queste caratteristiche e almeno la metà delle altre. Secondo questa logica, però, dovremmo chiamare uomini anche le donne (che hanno 6 caratteristiche su 7 visto che mancano solo del pene), i cani e perfino le oche. Le oche sono uomini, quindi. Wu Ming 1 fa la stessa cosa coi libri usciti in Italia negli ultimi anni: elenca una serie di caratteristiche e poi dice che per rientrare sotto l’etichetta di New Italian Epic bisogna averne almeno la metà. Non si accorge, il primo dei Wu Ming, che però in questo modo metà della letteratura mondiale degli ultimi anni può essere chiamata New Italian Epic. Trovare legami in questo modo è non solo troppo semplice, ma perfino comico (anche se la copertina del libro pubblicato da Einaudi ci pare abbastanza seriosa e quindi l’ipotesi di una colossale presa in giro da parte del collettivo ci sembra sia da scartare). Dicevamo: portiamo qualche prova a supporto del nostro discorso. Lo facciamo perché anche Libero, il quotidiano, è stato piuttosto critico verso il NIE e un po’ ci vergognamo di essere accomunati a Libero; quindi, ecco le nostre prove per dimostrare che non siamo faziosi e agiamo in perfetta buona fede (anche se con una punta di gusto polemico, lo concediamo). Quello che contestiamo non è che Genna, Lucarelli, Evangelisti e compagnia abbiano le caratteristiche per rientrare nel NIE, quanto piuttosto che queste caratteristiche siano valide, in quanto sono talmente ampie da farci rientrare qualsiasi cosa. Prendiamo ad esempio un libro straniero come ‘Febbre a 90°’ di Nick Hornby e vediamo se ha le qualità per essere definito NIE: 1) più che contaminato lo è di sicuro, visto che mescola giornalismo sportivo, romanzo comico e memorie autobiografiche come se fosse roba normalissima. Se fosse italiano, Wu Ming 1 lo definirebbe probabilmente il Gomorra del calcio 2) Il punto di vista è inconsueto? Diremmo di sì: è raro sentir parlare di calcio dalla prospettiva prima di un bambino e poi di un tifoso triste 3) È complesso e insieme popular? Complesso lo è di sicuro, perché la scelta di raccontare una vita a partire da alcune partite di calcio rende tutto meno scorrevole e convenzionale; ma dev’essere per forza anche popular, a giudicare dalle vendite (molto più popular di molti NIE elencati da Wu Ming 1) 4) In fondo è un po’ anche romanzo storico, perché si fa la storia del calcio inglese. Di ucronie, però, non c’è traccia 5) Uso di linguaggio e stile nascostamente sovversivi: ne abbiamo parlato all’inizio, l’impostazione è molto originale. È questo che s’intende con sovversivo, no? (se invece la connotazione è politica, avrei da criticare l’attribuzione di questa specificità a molti dei libri citati nel saggio) 6) È un ufo? Certo, più ufo di Gomorra, quantomeno. Il libro di Saviano è molto più reportage di quanto questo sia un romanzo 7) È transmediale? Sì, parla di calcio, qualcosa che di solito con la letteratura non c’entra ed è invece terreno privilegiato della tv. Il calcio è uno show, è una sorta di cinema più movimentato. Se poi non si considera il calcio un media, basta ricordare che il libro è stato tradotto due volte in film (una in Inghilterra, una in America): più transmediale di così… Insomma, a parte l’ucronia, ‘Febbre a 90°’ le ha proprio tutte. È più New Italian Epic lui dei libri di Wu Ming. Ed è un libro inglese. Ma prendiamo un altro esempio, sempre straniero: ‘La ragazza dai capelli strani’ di David Foster Wallace… ”
    (Da http://www.iadunps.com/Saggi/Oche.txt )

  400. cioè, il collettivo Iadunps (che significa?) critica il saggio di Wu Ming e poi lo usa per analizzare libri stranieri?! Direi che l’operazione ha del “parabolico”… :)

  401. Rileggi la frase sui parametri talmente ampi e generici che metà della letteratura MONDIALE ci rietrerebbe. (Il mio esempio è stato l’ultimo libro di Nico Orengo – Islabonita – con il mondo visto attraverso gli occhi di un’anguilla).

  402. @ cortellessa, e pro chabert
    babsi jones e pizzuto. ognuno sta nel suo corpo e di conseguenza ognuno nel suo stile, certo. il comune denominatore, detto nella maniera più semplice, è questo: sono dei virtuosi.
    prelevo un esempio da un altro virtuoso, sanguineti, bisbidis: “satana, scamiciato scacciasanti,/setticemizza i sessi serpeggianti:/seduce il selenita sifilitico,/sitofobo sgorbioso & superstitico:”. questi versi, eccellenti e euforizzanti peraltro, sono un esempio estremo di poesia ludica, virtuosa, o in altri termini asemantica, poesia cioè in cui il carico semantico di ciascun componente è bassissimo, addirittura inferiore a quello del dizionario: se qua il sifilitico in questione godesse di ottima salute, non cambierebbe nulla, o meglio cambierebbe molto, ma irrelatamente alla volontà dell’autore: in modo preterintenzionale, diciamo. in questi versi, e in tutti quelli che in una percentuale variabile ma perlopiù minore, partecipano di questo codice, in realtà il senso segue la lingua. o in altri termini, in essi il termine è dissociato dal paradigma.
    Se consideriamo un testo di magrelli, che pure è partito dal dadaismo, troviamo inclusa l’accezione astratta, metatestuale della parola, in un discorso significante, parzialmente ad es. in questo fantaendecasillabo: “goal, quiz, clip, news, spot, film, blob, flash, scoop, E.T.”, o più chiaramente in “e glissano a lungo estenuati/esclusi, solidali/nel mélos del loro teppismo”: per riconoscere un melos nel teppismo, bisogna aver già compiuto il passaggio psicologico che porta a dissociare il termine dal paradigma; e così per infilare 3 aggettivi come “estenuati, esclusi, solidali”, del tutto incongrui fra loro, e nello stesso tempo necessari.
    Il punto fondamentale, tuttavia, è che il significato di questi termini, nel senso wittgesteiniano di uso, non è quello di costruire un oggetto letterario eccellente dagli altri o eccezionale, ma quello di comunicare, cioè di compiere quell’operazione precipua del linguaggio, che è il trasferimento di un assetto e stato corporeo, di una percezione privata, di un quid singolare e indicibile, fuori dal corpo, in un altro corpo, attraverso il ponte di certe tracce di suono o inchiostro. questa operazione produce un effetto nell’altro corpo, che non è solo di ammirazione, poichè riproduce e trasborda in esso un’altra singolarità, non un linguaggio. è secondo me in questo cortocircuito la vera comunicazione. certo, il processo avviene anche in pizzuto e babsi jones, ma in senso inverso (si trasferisce il prodotto di un processo selettivo testuale, avvenuto sul testo) .
    e senza questa comunicazione, non c’è interazione. saviano agisce sul mondo più efficacemente di pizzuto, ma lo stesso sarà per renè thom quando sarà letto da altrettanti lettori.
    il virtuoso è sempre ben tollerato dal “sistema”. edgard varese (come può esserlo peraltro qualunque musicista, essendo la musica appunto asemantica) è suonato nelle messe papali. mike bongiorno istituisce gare fra i viruosi. nessun virtuoso parla come scrive: la sua lingua è solo teorica, cartacea, calligrafica, feticistica, , inutilizzabile da egli stesso. in genere i novissimi hanno espresso il loro impegno sociale fuori testo, negli interventi critici e teorici. nessuno li ha mai odiati, forse nemmeno amati. la loro lingua è inerte, defluisce negli intestizi sociali e finisce nella sacca della letteratura.
    ovviamente il discorso è lungo.

  403. L’intelligenza individuale non necessariamente degrada la sacralità dello Spirito universale, il quale altro non è che l’intenzione alla quale la manifestazione della realtà relativa deve la sua possibilità di essere. Quando l’intelligenza individuale, figlia divisa dell’Intelletto universale, conosce i principi universali che legiferano la realtà, e li vede in modo intuitivo, quindi non mediato dalla mente e non relativo, allora questo vedere capisce immediatamente cosa significa il termine “Sacro”, e vede che attraverso il sacrificio di sé si staglia la via individuale e sempre singolarmente diversa dalle altre analoghe, che replica il modo nel quale ogni centralità si sacrifica con l’espandersi nella differenziazione molteplice della propria unità.

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