Se me li sono persi: “Le sillabe della Sibilla”

di Eugenio Lucrezi

TOTI SCIALOJA, Le sillabe della Sibilla, Scheiwiller, Milano, 1988. «Sì, ritengo di essere un pittore che scrive poesie, e non il contrario. Un pittore, perché il mio impegno quasi “sgradevole” nella ricerca della pittura, le lotte che sostengo e che ho sostenuto sono le lotte della mia esistenza. La poesia mi è sempre apparsa come un gioco, anche se è un gioco che può investire dei sentimenti tragici, ma per me resta un gioco». Si direbbe che Scialoja abbia già risposto – l’intervista a Flash Art dalla quale ho citato è dell’88 – a Cesare Garboli, che non molti mesi fa, a proposito del nostro, si domandava: «Versi scritti con la mano sinistra, o compitati con grande attenzione con la destra?… che rapporto c’è tra la morbidezza […] di un poeta che si diverte tenacemente col nonsense e un pittore passato dalla scuola romana all’astrattismo, al geometrismo, all’informale e all’improntismo corporeo?». Scialoja sembra dunque voler relegare il proprio esercizio poetico in una zona laterale, volutamente minore della propria ricerca, e questo coerentemente con la tradizione alla quale si ispira, quella, per intenderci, dei giochi di parole, delle filastrocche e dei doppi sensi dai quali ha sempre tratto alimento (e divertimento) la migliore letteratura per l’infanzia. Sennonché molti critici – in particolare scrittori-critici: Montale, Calvino, Porta, Manganelli, Raboni – hanno rilevato, man mano che il nostro autore veniva pubblicando i suoi libri (a tutt’oggi quattordici; questo di cui scriviamo, che è il penultimo, compreso), che questa marginalità da “genere esiguo” tanto marginale non era; e che anzi Scialoja con i suoi divertimenti poetici andava assestandosi con sempre maggiore chiarezza in una sua posizione di tutto rilievo, al punto da essere oggi, a detta di alcuno dei suddetti (ad es. Raboni) ed a nostro modesto avviso, poeta tra i maggiori viventi in Italia. E questo sicuramente perché, come vuole Renato Barilli, «in quella embrionale ricerca di consonanze, rime interne, allitterazioni e via dicendo, sta la cellula primaria della poesia». Ma anche e soprattutto in virtù della inafferrabilità di uno stile che, ne Le sillabe di Sibilla più che mai, riesce ad agire i registri “bassi”, solari e cantabili del giocoso e quelli “alti”, oscuri e ineffabili della tragedia esistenziale investendoli tutti in operazioni di linguaggio in verità più matematiche che automatiche, ma sempre mirabilmente risolte; operazioni che si rivelano, nella loro esibita evidenza, antidoti e medicamenti efficaci nei confronti dei rischi speculari della scivolata goliardica e della vertigine ascensionale del sublime. Il libro sperimenta ed esplora, accoppiando per lo più agili quartine, le possibilità sonore e di intreccio ritmico-semantico del verso breve: il settenario, qualche volta l’ottonario. E le scoperte, in una poesia costituzionalmente “inventiva” come questa, sorprendono il lettore davvero ad ogni pagina. Così a pag. 11, nella prima quartina: «Ci siamo spersi in Persia / sviati da percorsi / serpeggianti – più impervi / a sera che perversi» le quattro esse simmetriche del primo verso, emblematicamente araldiche e quasi visuali nella loro sinuosità, anticipano percettivamente e quasi chiamano sulla scena la parola serpeggianti, che di lì a poco compare; a pag. 37, ancora nella prima quartina: «Se dal platano al prato / se dal prato al pantano / vanno foglie di scarto / a balzi e a volte planano» la visualizzazione delle foglie secche che cadono dall’albero e vengono spinte dal vento nello specchio d’acque è accompagnata, anzi mimata dallo slittamento che trasforma per allitterazione, assonanza, paronomasia platano in prato, prato in pantano, chiudendo il giro dei quattro versi in omofonica, sdrucciola simmetria (platano – planano); ancora, a pagina 52, la doppia inarcatura intraverbale ele/mosina ele/ganza finge, ancora una volta mima con il suo corpo fatto di lettere e di parole il gesto dell’uomo che si curva per attraversare il verde, frondoso tunnel nel giardino (e insieme il tunnel metaforico della stagione che si spegne, e della vita che fugge): «quando il lutto autunnale / è un tunnel condiviso / chiedo al tuo volto l’ele/mosina di un sorriso. // Piove un pallido sole / – illude chi s’infila / nel folto – è questa l’ele /ganza del nostro viale».

*

(da: “Altri termini”, IV serie, n°1, settembre-novembre 1990)

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.