Estratti: Giorgio Morale
Giorgio Morale, A casadidio, Lecce, Manni Editore, 2009.
36
Aspettavamo l’autobus, pioveva, e sentivo un dolore. Poi ho salutato Ico dal finestrino, lui ha risposto con un cenno sollevando l’ombrello, e l’autobus è partito. Subito dopo ho avvertito una stretta al pube, che si ripercuoteva – come un contraccolpo – sulla vagina. Erano le prime contrazioni, ma non lo sapevo. Me l’ha detto Alba al telefono.
«Vieni subito.»
È scattata la catena telefonica e mi sono trovata in taxi, tra Ico e File. Nella corsa all’ospedale temevo una rottura delle acque a ogni fitta, con Ico che calcolava l’intervallo fra una contrazione e l’altra.
Alba mi ha smontata.
«Hai voglia! Questo è lento. L’unica è camminare e bere. L’alcool aumenta la pressione sanguigna e accelera le contrazioni.»
In un lampo Ico è andato e tornato con una bottiglia. Abbiamo dato il via ai brindisi. Per non disturbare ci siamo trasferiti nel salottino dell’atrio. Dal finestrone s’affacciava il tramonto invernale. Le prime luci perforavano la nebbia.
Anche l’inverno ha la sua bellezza, pensavo, anche nascere d’inverno. Si raccoglie l’energia di un anno e da lì si parte per qualcosa di nuovo. Abbiamo cominciato a cantare – sottovoce, temendo di essere cacciati. Che risate con File, che sapeva le vecchie canzoni italiane meglio di noi. Mi pareva di essere in un film russo, in cui c’è sempre un personaggio che s’alza e dice:
«L’anima ha bisogno di canzoni.»
Intanto gravide e parenti ci ronzavano attorno, chi per guadagnare una poltrona, chi per controllare la prospettiva dal finestrone.
«Offriamo anche a loro?» mi fa Ico, quando si vede circondato. In perfetta sincronia abbiamo alzato io la bottiglia e lui il bicchiere, invitandoli a partecipare. Qualcuno si è avvicinato per essere certo di aver capito, qualcuno è corso a cercare un bicchiere. Come bambini in refettorio sono venuti in fila da me. Quando il vino stava per finire e rimediavo diminuendo le razioni, Ico è apparso con una nuova bottiglia, manco l’avesse pescata dietro l’angolo.
Allora mi sono vista proprio monumentale, una montagna rocciosa che ruscellava vino, a cui tutti venivano ad attingere. Intanto Ico dava i chiarimenti scientifici.
«Non vorrei ci scambiassero per avvinazzati» mi sussurrava.
Assaporare il secondo giro fa salire l’allegria di un gradino. Ma poi “s’ode a destra uno squillo di tromba / a sinistra risponde uno squillo”. Via via tutti si disperdono, a smistare telefonate a raffica. E noi su e giù per il corridoio, come passeggiando in montagna.
Quando si sono rotte le acque, la pancia è diventata a un tratto piccina. Alba mi ha spinta a fare la doccia. Sono andata in sala parto strisciando, mi sembrava che i muri cedessero.
«Se cammini, esce prima» ripeteva Alba.
Poi il dolore delle contrazioni e il mal di pancia del clistere. In quei momenti c’è solo il presente, non vedi un’ora di futuro. Tutto ti ferisce: una mano fredda, un muro scrostato, una macchia sulla porta.
Alle prime urla Alba mi ha bloccata.
«Le urla sottraggono forza» diceva. «Urlare è delegare, è gettare la spugna. Non ti concentri.»
Allora spingere. Sincronizzare il respiro con la spinta del bambino.
Quando lui spinge, espirare.
«Vuoi che esca o vuoi soffocarlo?»
Io non connettevo.
«Non ci riuscirò mai.»
«Non dire stronzate. Qui siete tutte uguali. Escono tutti dallo stesso buco e finiscono tutti sotto la stessa terra.»
E giù una sberla.
«Se non collabori, ti infilano una flebo e ciò che non fai tu, lo fa il farmaco.»
Poi non mi ha detto più niente, vuol dire che ho fatto giusto. File mi stringeva la mano.
Ed ecco che esce, ecco la testa. Paura di strozzarlo, quando la testa è a mezzo.
«Sciocchezze! Dopo la testa, il resto scivola liscio.»
«Ha tutto?»
«Sì, le palle le ha.»
Appena è nato, si ripresenta il tempo. Il futuro. Vedi il bambino già grande, già in piedi. Poi ritorni alla terra, al quotidiano. Devi espellere i coaguli, lavare te, il bambino. La temperatura la regolano loro, altrimenti chissà cosa avrei combinato.
Quando torni in camera non sai se cammini o navighi. Però il dolore non ha conseguenze, e non è stato fine a se stesso. Non temi più un male ignoto. Il nuovo essere è vero, è vivo. Cominci a conoscerlo, subito. Il padre non ha questo privilegio.
In camera tornano i pensieri. Che nome gli do? Io non ho niente di deciso, non ho una dinastia a cui render conto. Poi guardi e ti viene da ridere, non ti capaciti. Quell’affare ti stava dentro la pancia? È uscito tutto da un buco?
Oggi ho aperto gli occhi e l’ho vista: la neve. Scende verticale, tirata giù dal suo peso, o dall’amore per la terra.
***
37
Il Presidente è arrivato in uniforme manageriale al completo: giacca, cravatta, valigetta ventiquattrore.
«Qui la legge sono io e si fa quello che dico io» s’è messo a urlare.
Ha visto uno sulla sua poltrona e l’ha assalito.
«Alzati! Quella è la poltrona del capo. Se vuoi fare il capo, non hai che da dirlo e ti cedo il posto, vedrai che guadagno. Il capo non ha la fortuna del dipendente, che finito l’orario va a casa e manda il cervello in vacanza. Il capo ha solo grane.»
Manco a farlo apposta, viene la figlia con i due nipoti. Il più grande è spigliato come lui e porta il suo nome. Entra caracollando come un ariete, il capo proteso a conquistare spazio. Il Presidente ci si rispecchia. Bisogna sentire questo bambinetto.
«È vero, nonno, che qui tu sei il capo di tutti?»
Il Presidente si squaglia.
«Sì, certo» risponde. È proprio vero che tutti hanno le loro debolezze.
«Allora posso salire su questa sedia e sporcarla?» fa il bambino.
E il popolo a lodarne l’intelligenza.
Dopo il capo furioso arriva il capo previdente.
«Dobbiamo conquistare il centro» dice.
Propone di trasferire la sede in una zona meno periferica, ne ha adocchiata una in un’area dismessa di via Salomone. A Teresa suona strano. Non andrebbe mai in uno spazio pubblico, perché, se ci fossero da fare migliorie, non caccerebbe di tasca una lira. Sì, invece, coi soldi dell’ente pubblico, ristrutturare spazi della curia, così il benfatto va a maggior gloria di Dio. Una volontaria abbocca e gli chiede:
«Come mai proprio lì?»
È la domanda che il Presidente si aspettava.
«Possibile che non capiate? Perché lì c’è il forno incenerimento rifiuti. Abbiamo gli stranieri, avremo il forno crematorio – che vogliamo di più?»
E tutti a ridere.
«Come fanno a venirti certe idee?» gli domandano.
Il Presidente ha pronto un ragionamento politico per nobilitare la battuta.
«Siamo o non siamo quelli che fanno soldi con gli sfigati?» dice.
Prima andavano forte i tossici, adesso non più. Idem per i malati di Aids – a che scopo costruire case per loro? Anche gli stranieri ormai non tirano, li bruceranno tutti. Bisogna pensare alla nuova frontiera del volontariato: i ragazzi di strada, gli anziani, le donne maltrattate.
Martina fa finta di niente, fa prediche a Teresa e continua a riproporre se stessa.
«Se uno, come noi, pensa di aver incontrato la verità, non può viverla quando è coi suoi e accantonarla quando è con gli altri. Mostrare la sua gioia in certi momenti, nasconderla in altri.»
“Quale gioia, vorrei sapere, quale?” pensa Teresa.
Chissà come pregano, si domanda Teresa. Ma sì, come pregano, cosa dicono? Dicono ancora “Padre nostro che sei nei cieli”? Cosa pregano, che sia fatta la sua oppure la loro volontà? E glielo chiedono, “non c’indurre in tentazione”? E “liberaci dal male”?
“O forse è ancora peggio, pregano come prima e fanno finta di niente.”
Per Martina l’amore umano non esiste – lei ti aiuta ma crea dipendenza, ti accoglie e ti mette in gabbia, ti tiene in un purgatorio perenne. Qui si oscilla tra vis polemica e cadaverica compostezza. Se è per propagandare il quia absurdum, ci riesce benissimo. Altro che gioia e leggerezza. Piattume. Falsa serietà della loro cupezza. E poi quest’aria di mistero… come se tutto fosse fatto per missione. Niente si salva, se non tirato per i capelli da Dio. Ma lei, lei ti prende alla gola. Mai che s’accenda per un’allegria improvvisa o il ricordo di un gioco o una cortesia istintiva. Sembra nata adulta, con la maschia quadratura delle spalle e la lanugine sul mento.
«Ma Martina» le fa Teresa «la vita non è un ghetto, lo vuoi capire?».
Lei ha pronta la risposta solita:
«La fede cos’è, il dopolavoro? Se uno crede in Dio, gli deve bastare.»
E Teresa:
«Volete essere voi stessi dappertutto. E gli altri? Voi sul carro armato. E gli altri, li fate fuori tutti?»
«Con te è impossibile dialogare» fa Martina.
«Se non ci riesci con me, che sono totalmente disponibile, non ci riesci con nessuno.»
Martina non ci ha visto più.
«Per un’ora almeno lasciami con le mie carte.»
Teresa stava andando nel suo ufficio. Si è girata e le ha detto:
«Tu puoi dialogare solo con le tue carte – e il tragico è che ne sei contenta. Il bene ti serve solo per i tuoi inventari.»
Martina si è alzata in piedi, tutta rossa, non sapeva cosa fare. Teresa è diventata calma calma.
«Prima che me lo dica tu, lo decido io. Me ne vado e qui non ci metto più piede.»
«Non farai sul serio?» le ha chiesto Ico. «Hai pensato al futuro?»
«Ci avessi pensato, forse avrei subìto» dice Teresa. «Tu sai già tutto, ti dai tutte le risposte, e rimani frustrato comunque. A che serve? Io rimango frustrata, ma un po’ ci rimangono anche gli altri. Non mi serve che si minimizzi, lo fanno in tanti. “Non è niente” dicono, e pensano di aiutarti. Solo se non si minimizza sento che mi si capisce. Quante volte, viola dalla rabbia, sono andata da Martina a chiederle qualcosa e sono tornata perdente. Una bambina davanti alla maestra.»
Nessuno è intervenuto. Un silenzio opprimente, nessuno che apriva bocca. Solo il traffico sulla tangenziale che non si ferma. Comunicazioni mute, a sguardi, a cenni. Mai lavoro fu fissato con tanta intensità. Ilio davanti al computer. Ombretta a colloquio con due donne.
Quando Teresa è uscita Martina si è messa a urlare. Lettere dell’alfabeto una accanto all’altra. Solo Dora si è allontanata come per pulire in corridoio ed è venuta a salutarla. Mentre Teresa raccoglieva la sua roba le ha detto che telefonerà, verrà ad aiutarla.
***
Nota di effeffe
Con questa inauguro una nuova serie, su suggerimento del poeta barbuto Francesco Marotta
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Ho il libro in fase di lettura, sono contento per Giorgio. Ha questi due piani narrativi, le pagine in corsivo, di una prima persona narrante, e le pagine in tondo, più oggettive, descrittive della Milano che ritrae. Apprezzo soprattutto la qualità della scrittura, davvero curata.
Lo sto leggendo (strana coincidenza, Mauro – beh, del resto è appena uscito). E mi sembra necessario un libro laddove fa un’operazione direi nietzscheana, riportando il pietismo di certo volontariato cattolico (e il riferimento alla Compagnia delle Opere è palese nel libro) ai suoi piedi di fango. Al suo essere macchina da soldi da un punto di vista generale, implicato nelle maglie di un più vasto sistema di potere; al suo essere composto da tante piccole esistenze, ognuna infradiciata da meschinità personali che si servono della pietà come stampella per nascondere la loro piccola mostruosità. E di questi tempi, un libro che conduce quest’operazione con questa precisione merita davvero d’esser letto.
«Volete essere voi stessi dappertutto. E gli altri? Voi sul carro armato. E gli altri, li fate fuori tutti?»
Caro Giorgio ci stanno provando.
Un saluto.
mi avete invogliato, lo leggerò sicuramente
Caro Giorgio, accolgo con molto piacere la notizia di questa tua nuova fatica letteraria, ancora edita dall’ottimo Manni. Mi sembra che il tema, dopo la rivisitazione dei luoghi e degli echi dell’infanzia con Paulu Piulu, riguardi il rapporto con le nuove radici.
Un saluto e un caro abbraccio.
Carlo Capone
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