Sergio Piro, o delle turbolenze in aria chiara

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[Lo scorso anno, alla presentazione del mio “Lavorare uccide” all’Istituto italiano per gli studi filosofici di Napoli, conobbi Sergio Piro. Rimasi colpito dalle sue parole potenti, e dalla “verità” che di quella persona si percepiva. Sergio Piro è morto il 7 gennaio 2009. Il 20 febbraio scorso, nella stessa sala dove l’ho conosciuto, Sergio Piro è stato ricordato da allievi, studiosi, giornalisti, operatori del settore psichatrico, amici. Ho chiesto a Carmen Pellegrino di ricordare la sua figura per tutti i lettori di Nazione Indiana.]  m.r.

di Carmen Pellegrino

Sergio Piro era un uomo in rivolta. Fu lo psichiatra – per quanto nella definizione non si ritrovasse pienamente – che contribuì in maniera decisiva al superamento dei manicomi in Italia, e per primo introdusse al sud le teorie su una psichiatria diversa, il cui nucleo fondante era la terapia alternativa opposta alla costrizione dellistituzione manicomiale, orientando la prassi di cura delle malattie mentali verso forme finalmente non oppressive, democratiche, rispettose in primo luogo della dignità umana. In Campania è suo lo spirito della legge 1/83, legge regionale tra le più avanzate in materia psichiatrica, la cui mancata applicazione ha determinato un vulnus che ha riconsegnato allabbandono progressivo pazienti e famiglie.

Dietro un’apparente gracilità si celava un combattente in lotta contro le sperequazioni sociali, contro le violazioni dei diritti non negoziabili, contro le contraddizioni di una società stretta tra l’ebbrezza di una opulenza invereconda e l’emarginazione impietosa delle sue parti mute. E dalla decodifica del linguaggio di alcune di quelle parti mute iniziò i suoi studi:

“Io sono partito dall’analisi del linguaggio all’inizio degli anni ’50, dall’Empirismo logico e dalla Glottologia, per accostarmi al fatto che i malati mentali “parlino” e non siano considerati solo “produttori di sintomi”. Intorno agli anni ’50, sembrera’ strano, nessuno si preoccupava di interpretare il linguaggio schizofrenico, bensi’ questo veniva soltanto considerato come sintomo (il sintomo della schizofasia, il sintomo della stereotipia, il sintomo del mutacismo…) e poi veniva classificato. Invece io ho tentato di decifrare questo linguaggio, a volte riuscendovi a volte no”.

Era arrivato a Napoli nel 1934, proveniente da Olbia, e la transizione fu di per sé difficile perché la città gli parve “aggressiva, pericolosa, sfacciata”: “Io venivo da un ambiente molto più chiuso, molto più formale […] in quel momento mi sentii gettato in un mondo disordinato […] pieno di trappole, coloritissimo e mutevole”.A Napoli si laureò in Medicina e Chirurgia, nel 1951; fu poi medico volontario presso la Clinica delle malattie nervose e mentali dell’Università degli Studi di Napoli e conseguì la specializzazione in neuropsichiatria a Cagliari, nel 1956, con una tesi sulla Semantica del linguaggio schizofrenico. Dal giugno del 1959 al febbraio del 1969 fu Direttore dell’ospedale psichiatrico Materdomini di Nocera Superiore, dove avviò un esperimento di psichiatria alternativa che diede vita a una comunità terapeutica, la seconda in Italia dopo quella di Basagliaa Gorizia. In seguito fu membro della segreteria nazionale di Psichiatria Democratica e poi del coordinamento nazionale.

In una nota della Cgil-Campania diramata poco dopo la sua morte si legge: “Piro non è stato solo uno psichiatra, ma un costruttore lucido di libertà e democrazia”. E’ proprio così: Piro era un uomo in rivolta, non fermo alla solidarietà “metafisica”, che è già un apprezzabile trascendersi nell’altro, di fronte allo “spettacolo” dell’altrui oppressione, ma un irriducibile costruttore di alternative, di vie praticabili verso la liberazione dell’individuo stretto tra le catene incrociate della discriminazione e della emarginazione. In questo senso Albert Camus, ne L’homme révolté, ha efficacemente scritto: “Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi”. Rifiuto, quindi, ma nello stesso tempo creazione di qualcosa che non esiste ancora, qualcosa da inventare. Sergio Piro determinò “prese di coscienza” in luoghi che tradizionalmente se ne sarebbero detti al riparo, avviò moti di rivolta prima confusi poi via via più consapevoli, intraprendendo quella lunga marcia attraverso le istituzioni che fu il tratto più autentico delle lotte del lungo ’68. Fu proprio contro l’emarginazione della follia, contro il confinamento delle sofferenze psichiche nel campo della marginalità più angusta, che quelle lotte raggiunsero i risultati più convincenti, secondo una linea evolutiva che investiva la medicina nel suo complesso, rilevandone le pratiche e le applicazioni più immediatamente discriminatorie.

Le prime lotte antimanicomiali in Campania furono organizzate proprio al Materdomini di Nocera Superiore, al confine tra le province di Avellino e di Salerno. Era lo stesso periodo dell’esperienza di Basaglia a Gorizia. Da lì derivò un movimento di lotta che si estese ai numerosi manicomi della regione, civili e giudiziari, tutti fittamente popolati.

Le condizioni per laffermazione di una lotta antimanicomiale in Campania non erano le più favorevoli, mancando del tutto i servizi territoriali, per nulla incentivati da un sistema politico che presentava “la maggiore contraddittorietà possibile fra momenti francamente conservatori e clientelari e momenti di innovazione tecnocratica capitalistica”. Inoltre, dei cinque manicomi civili presenti nella regione, due erano privati e uno a gestione di unopera pia; le cliniche psichiatriche private erano copiosamente presenti sul territorio, mentre mancava totalmente un polo ufficiale nel campo della cultura psichiatrica che promuovesse metodi di cura non tradizionali. 

 Al Materdomini Piro trovò ad accoglierlo infermieri che versavano in condizioni molto disagiate: scarsamente istruiti, totalmente privi di tutela sindacale, sottopagati rispetto ai colleghi del servizio pubblico (gli uomini percepivano 32.000 lire al mese, le donne 17.000; queste ultime, nel caso di una gravidanza inattesa, subivano il licenziamento immediato), potevano contare al massimo su una organizzazione sindacale clandestina, tutta da organizzare. All’arrivo del nuovo direttore decisero, prima cautamente poi con sempre maggiore convinzione, di rivolgersi a lui per un aiuto, quale che fosse.

[prima di allora] i miei rapporti con il movimento operaio erano stati in genere quelli tipici dell’intellettuale dell’epoca: posizione sicuramente antifascista, antirazzista, antimilitarista, progressista al massimo e voto ogni cinque anni al partito più avanzato. […] Ma nel presente caso, bisognò rimboccarsi le maniche e scendere in campo. Negli anni 1961-62 il mio più autentico compito di direttore fu quello di proteggere le spalle ai sindacalisti clandestini e agevolare l’organizzazione. I rapporti con gli infermieri divennero sempre più aperti, sinceri e positivi: nell’agosto 1962 un improvviso sciopero “selvaggio”, unanime e compatto, scosse il silenzio feudale dell’ospedale. […] L’amministrazione cedette sull’intera linea: aumento notevolissimo di salario, diritti sindacali, commissione interna. […] Questa nuova situazione avviò un processo di lotta di classe che doveva direttamente coinvolgermi, completamente a fianco dei lavoratori e tuttavia in una difficile situazione in quanto gestore tecnico del potere, fino al 1965, quando la situazione istituzionale […] si pose come fatto principale”.

Nei suoi ripetuti incontri con i lavoratori, egli sosteneva fortemente la necessità che per la classe operaia il riscatto del malato di mente costituisse un comune obiettivo di lotta, in quanto riscatto dallo “sfruttamento padronale”. E fu la strada giusta:

Gli infermieri di Materdomini erano ben consapevoli di tutto questo e essi, più di me e di chiunque altro, hanno fatto, nei limiti che la struttura ha tollerato, tutto il possibile per la liberazione dei ricoverati.Una posizione, quella di Piro, decisamente controcorrente, che faceva di lui un direttore “sovversivo”, inviso a chi aveva antica vocazione alla perpetrazione dell’aureo principio del “ciascuno al suo posto”. Del resto, la strutturazione dei rapporti all’interno delle strutture sanitarie era irriducibilmente verticistica e gerarchizzata:

Era come una piramide – riferiva uninfermiera triestina, descrivendo il clima che regnava nel manicomio prima dellarrivo di Basaglia – al vertice cera il direttore, poi i primari, poi gli infermieri. Il primario era una figura astratta, che passava, faceva il suo giro con la caposala e poi basta. Noi infermieri dovevamo stare sempre zitti. La caposala dava gli ordini e poi se ne andava. Non avevamo un rapporto coi medici. Bisognava eseguire gli ordini senza chiedere niente”.

Tra il ’66 e il ’67, nonostante gli enormi ostacoli frapposti dall’amministrazione ospedaliera, Piro riuscì a promuovere al Materdomini l’operatività di una equipe determinata e moderna, con medici, psicologici, sociologi, assistenti sociali e studenti, e ad avviare i lavori per la costruzione di un nuovo padiglione, creando le premesse perché l’intera assistenza psichiatrica fosse ispirata a principi comunitari.

Nella primavera 1968 il nuovo padiglione era finito. […] I ricoverati furono trasferiti e nello stesso giorno si tenne, senza che ancora vi fossero né le panche né i tavoli, la prima assemblea: i cancelli di questo reparto davano su un ampio spazio interno e finché rimasi a Materdomini non si chiusero mai”.

Il principio ispiratore della comunità terapeutica era il rovesciamento istituzionale, l’eliminazione della violenza addizionale dell’istituzione manicomiale. Il rovesciamento istituzionale doveva necessariamente passare attraverso l’eliminazione dei mezzi di contenzione fisica; la riduzione delle terapie psicofarmacologiche immobilizzanti; la propaganda capillare tra i malati di mente circa l’illiceità di ogni mezzo violento; le assemblee di reparto che confluissero nell’assemblea generale; la liberazione dal ricatto delle punizioni; la libertà d’espressione; l’istituzione di commissioni elette dai ricoverati che controllassero i vari aspetti della vita ospedaliera, e commissioni di ricoverati che venissero autorizzati a vigilare sulle attività dei medici e degli infermieri; le attività creative (teatro, cinema, stampa del giornalino) che favorissero la socializzazione; il ridimensionamento del predominio medico attraverso l’intervento di volontari nello spazio libero.

Anche al Materdomini lo “slegamento” dei ricoverati sottoposti a contenzione avvenne molto prima che si concludesse il periodo prescritto, giustificandolo con lo scopo terapeutico (“il paziente terapeuticamente viene sciolto”); i pazienti legati al Materdomini erano circa 300.

La scomparsa della violenza addizionale (o almeno una sua notevole riduzione) determinò il superamento di un tipo di contraddizione istituzionale di cui le botte e la camicia di forza sono laspetto più vistoso, ma il silenzio, il ricatto morale, lozio, la dipendenza, la mancanza di spazio e movimento, il tragico spreco di tempo rappresentano gli elementi più distruttivi”.

Nel ’69 cominciarono a giungere al Materdomini gruppi di volontari del movimento studentesco, con un’affluenza molto maggiore rispetto agli anni precedenti; proprio l’apertura al movimento studentesco si offrì come pretesto al “padrone” per il licenziamento del direttore, che giunse il 19 febbraio ’69:

la repressione colpì il 19/2/1969 con lettera protocollata 492. In questa lettera si imponeva di limitare l’abolizione della contenzione fisica ai soli soggetti controllabili con psicofarmaci (il che era inutile perché la contenzione fisica era già stata eliminata); richiedeva maggiore oculatezza (sic) nella libertà da concedere agli infermi; impediva l’intervento in ospedale di “visitatori”; allontanava tutti i volontari; stabiliva che l’assunzione del personale medico o di assistenza sociale fosse esclusivo fatto dell’amministrazione; ribadiva l’indispensabilità dell’ordine religioso in ospedale”.

Di fatto, proibendo lafflusso di volontari, che operavano tutti in zona non pericolosa e sotto la diretta responsabilità del direttore, limitando drasticamente gli spazi dei ricoverati e assumendo solo personale gradito al padrone, lamministrazione aveva distrutto la comunità”.

Il valore aggiunto che origina dalle differenze, dalle dissipazioni, dagli sconfinamenti impertinenti, che divengono forza creativa e feconda, raramente determina entusiasmi e approvazioni, e chi emerge per contrasto e non per similitudine e allineamento rischia il confinamento, la sconfessione. E toccato anche a Sergio Piro, poco amato a Napoli anche per la sua feroce opposizione a ogni ipocrisia. Al riguardo, scrive bene Roberta Moscarelli, era in odio al blocco di potere di questa città, ai politici e a molti psichiatri, soprattutto ai tanti pseudodemocratici. Perché lui li conosceva uno per uno, sapeva di ognuno da dove veniva e dove era arrivato e come. Era sulla scena politica fin dalla Resistenza, era una memoria viva di questa città: lo temevano, benché non gestisse ormai da anni alcun potere. E perché non sono riusciti mai, neanche per un momento, a sterilizzare e a museificare la valenza rivoluzionaria dei suoi studi, la sua esperienza di lotta. Non potendo appropriarsene, l’hanno dunque rimossa, tradita, negata, cancellata”.

A tutto questo Sergio reagiva agitando gli strumenti che più gli erano congeniali, ovvero uninnata capacità critica, unintelligenza lucidissima fuori da ogni intruppamento, in grado di leggere dentro le cose oltrepassandole con occhio felino (si definiva “amico dei matti e dei gatti), unincontenibile ironia che era prima di tutto autoriferita, e il sano ottimismo di chi sapeva di essere riuscito a formare intere schiere di intellettuali, di operatori del settore psichiatrico, di compagni che nel suo ricordo porteranno avanti battaglie rumorose e non politicamente corrette.

26 COMMENTS

  1. Un articolo e un ricordo emozionanti, Sergio Piro ha rappresentato per la psichiatria napoletana un momento di apertura alla tolleranza, alla comprensione, all’empatia. Io ricordo anche la sua esperienza al Frullone e non so perchè in questa sede sia stata ignorata. Gli anni erano quelli del famigerato ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa, un esempio deteriore e fosco di cattività manicomiale. Non a caso la storia di quel luogo si intreccia con un certo filone del nappismo campano.

  2. “un‘intelligenza lucidissima fuori da ogni intruppamento, “, e la potenza e la verità del suo *fare*, proprio così,, grazie a Carmen e Marco, V.

  3. Sergio Piro diresse la terza unità del “Leonardo Bianchi” dal ‘74 al ‘75 e, successivamente, lo psichiatrico Frullone; fu anche direttore del centro ricerche sulla psichiatria dall’80 e docente di Psichiatria dall’83 al ‘91.
    In questa sede, tuttavia, si è voluto focolizzare l’attenzione sulla comunità terapeutica di Materdomini, la cui operativà fu pari a quella goriziana. Di tutto ciò, però, fuori dai confini strettamente campani, poco o nulla si sa. Occorrerebbe recuperare memoria, grazie alla quale la dimensione storica si muta in storia, e farne così il fondamento della responsabilità. Occorrerebbe coraggio

  4. E’ vero che un paese non dovrebbe mai avere bisogno di eroi.
    Ma questo significa dire che il nostro non è ancora un paese.

    Oppure che ci manca il termine giusto
    per definire una persona come Sergio Piro.

  5. Sono felice che marco abbia reso questo omaggio attraverso la bella lettura di carmen.Pellegrino. Ero da Marotta il 20 febbraio e la sala gremitissima all’inverosimile esprimeva nei volti e nelle parole il più grande insegnamento che sergio ha dato a tutti. quello dell’arte della vita, in cui amore per la musica, per le persone fragili, e soprattutto per una cultura e politica del fare, innanzitutto, si mescolavano fino a diventare della vita, una vera e propria creazione. ero poco più che ventenne quando gli chiesi di presentare il mio romanzetto, proprio all’istituto, insieme a Nora Puntillo, per una collana che raccoglieva giovanissimi autori (l’editore, Ciro Sabatino aveva venticinque anni, credo) e lui accettò, come un paio d’anni prima aveva accettato di partecipare a un libo che non vide mai la luce, prodotto dada dei saltimbanchi che eravamo (e siamo), il cui titolo era Cosmoetica, (ovvero l’etica del cosmo e della bellezza) e dove per intercessione di Stefania Nardini, avevamo ricevuto un suo scritto, inedito, un racconto, l’invasione dei coccodrilli.
    Lo rividi poi a Parigi una quindicina d’anni dopo. l’avevo invitato per una tre giorni che l’allora direttore dell’istituto di cultura mi aveva dato l’occasione di organizzare, Lettres de Naples. Su Nazione Indiana c’è la sua relazione https://www.nazioneindiana.com/2006/09/28/lettres-de-naples-sergio-piro/
    un abbraccio e grazie ancora a marco.
    effeffe

  6. Un articolo che svela una magnifica anima: proteggere le personne che hanno perduto la tranquillità, perché la mente è ferita. Allora il mondo diventa acuto, tremato, con colori dell’angoscia. C’è un’isola di solitudine
    nel cuore dei feriti della mente.
    Bellissimo anche il brano offerto da effeffe che ha la luminosità di vedere il cuore umano nella sua bellezza e fragilità.
    Ho potuto sentire oggi questa bontà.

    Anche Leggendo il post mi è venuto il ricordo di un matematica napoletano, film che mostra il dolore di un uomo intelligente che vive una frattura nel cuore della sua città.

  7. Una bella penna, quella di Carmen Pellegrino, che coglie in spirito e in lettera il tratto di una personalità come quella di Piro. Della stessa autrice ho letto recentemente il libro “’68 napoletano”, nel quale il capitolo con il suggestivo titolo “qualcuno volò sul nido del cuculo” è tutto a dedicato a Sergio, mio fraterno amico e compagno. Spero di leggere ancora di questa giovane autrice, e grazie a Marco Rovelli per aver chiesto questo ricordo.

  8. Bella penna, quella di Carmen Pellegrino. Che coglie in spirito e in lettera il tratto di una personalità come quella di Piro. Bella anche la definizione di “uomo in rivolta”, che forse meglio si attaglia a Sergio. Ho letto recentemente della stessa autrice il libro “’68 napoletano”, nel quale il capitolo col titolo “Qualcuno volò sul nido del cuculo” è interamente dedicato a Sergio, che è stato mio amico e compagno. Spero di leggere ancora di questa giovane autrice, e ringrazio Marco Rovelli per aver chiesto questo ricordo.

  9. Bisognerebbe ricordare che è il padre delle Antropologie trasformazionali, autore di 2-3 poderosi volumi che in sostanza vertono sull’epistemologia della mutazione. Le implicazioni sulla conoscenza e il linguaggio sono moltissime, ma temo che i tempi non siano maturi per il loro salto in avanti, data la tendenza post-moderna a “doversi fare capire” in maniera semplice e didascalica come si pretende oggi in era mediatica, dominata da Internet con il suo linguaggio pre-alfabetico e afasico

  10. Perché un contenuto arrivi a tutti, senza discriminazioni derivanti da limiti personali e culturali, è necessaria la semplificazione, che usata da chi non ha bisogno di ostentare cultura, non c’entra niente con il semplicismo. Bene dunque il “farsi capire” opposto alla settorialità dell’accademismo, che è un infido mezzo di esclusione omnes alios. brava Carmen, bravo Marco

  11. @agnese. Se la pensi così è meglio che neanche ci provi a odorare le copertine dei libri di Sergio Piro. Non è così che la pensava Piro e io sono d’accordo con lui per molteplici ragioni. Motivarlo è per me ormai ragione di noia. Il punto non è farsi capire ma esprimere pensiero e linguaggio adeguato alla complessità attuale, da non confondere con ermetismo, ambiguità o cripticità o con attribuzioni di eruditismo inteso come narcisismo e potere ma piuttosto come rispetto della complessità ed emancipazione intellettuale e pedagogica sostanziale e formale. Il punto è che capire è funzione attiva dell’ascoltatore o lettore, è un processo attivo che vuole una tensione che quando viene tolta da chi semplifica elimina la realtà della complessità e la possibilità all’ascoltatore di emanciparsi per davvero.

    “Il continuo fluttuare e mutare dei termini disciplinari e operazionali attribuito a un osservato così magmatico come quello costituito dagli eventi umani da parte di un osservatore anch’esso mutevole ed instabile, è un artefatto necessario per evitare cristallizzazioni linguistiche che, già dannose nelle scienze della natura, sono completamente falsanti nelle scienze umane” (sergio Piro, Antropologia della trasformazione)

    “Un’antropologia trasformazionale prende di mira la costituitiva ambiguità aletica di ogni tipo di linguaggio inimagginabile: la consapevolezza semantica deve essere intesa come un’esercitazione interiore – che non ha mai sosta nel duplice presentarsi del linguaggio umano quale strumento d’informazione e di artificializzazione, di espressione e di convenzione, di denotazione e di connotazione, di verità e di inganno, di presentazione e di nascondimento. La consapevolezza semantica viene anche intesa come un’esercitazione interiore sull’agguato perenne dell’essenzialismo, della reificazione, dell’introiezione della logica cosale.” (sergio piro)

    “Il riconoscimento della frammentazione propria e altrui, della deconessione conoscitiva, della prevalente intensionalità linguistica: l’antagonizzazione attraverso le esercitazioni connessionali e l’abito linguistico dell’estensionalità crescente, attraverso la tensione ininterrota – nella vita personale, così come nell’agire professionale e nella ricerca scientifica – verso una connessionalità operazionale e un’estensionalità linguistica” (Sergio Piro).

    D’altra parte Adorno in Minima moralia nell’aforisma 64 ha detto che “… tener d’occhio, nell’espressione, la cosa, anziché la comunicazione, è sospetto: lo specifico, ciò che è tolto a prestito dallo schematismo, appare irriguardoso, quasi sintomo di astruseria e di confusione.
    La logica attuale che fa tanto conto della propria chiarezza, ha ingenuamente collocato questa perversione nella categoria del linguaggio quotidiano. L’espressione generica consente all’ascoltatore d’intendere a un dipresso quel che preferisce e che pensa già per conto suo. L’espressione rigorosa strappa un’accezione univoca, impone lo sforzo del concetto, a cui gli uomini vengono espressamente disabituati, e richiede da loro, prima di ogni contenuto, una sospensione dei giudizi correnti, e quindi il coraggio di isolarsi, a cui resistono accanitamente. Solo ciò che ha bisogno di essere compreso passa per comprensibile; solo ciò che, in realtà, è estraniato, la parola segnata dal commercio, li colpisce come familiare. Nulla contribuisce altrettanto alla demoralizzazione degli intellettuali. Chi vuole sottrarsi a questa demoralizzazione, deve respingere ogni consiglio a tener conto della comunicazione, come un tradimento all’oggetto della comunicazione (adorno).

    La semplificazione, la semplicità, la riduzione dell’astrazione si configurano ormai come non-lavoro di un vero apprendimento, un non-apprendimento, perchè è più facile credere di aver imparato qualcosa se c’è qualcuno che ci spiega la fisica alla maniera dello Zichichi di turno piuttosto che passare le nottate sui libri.
    Trattasi di una malattia dei media, da cui derivano poi una molteplicità di disordini psichici. Una deformazione della partecipazione al medium.

  12. luminamenti, le tue sono discriminazioni ab origine. Non sei tu a poter dire a chicchesia cosa può o non può leggere. Concordo pienamente con il pensiero di Piro e di Adorno, ma la tua originalità dov’è? Sinceramente le emulazioni del pensiero altrui nulla apportano alla conoscenza. Emulare è un vizio dei nostri tempi, più della semplificazione.

  13. Io credo che ci sia differenza fra l’usare un linguaggio rigoroso ma allo stesso tempo comprensibile e il semplificare brutalmente i concetti. E francamente diffido molto di chi, pur sostenendo il contrario, mi pare sia più amante di un linguaggio astruso e forbito che dei concetti, anche di difficile comprensione, che vi sono a volte sottesi. Mi sembra un modo un pò logoro di riaffermare il potere dell’accademia. E le persone che luminamenti cita, specie Sergio, tutto volevano fuorché questo. Per il resto, sono molto d’accordo con Agnese: emulare è vizio ancora più grave di una semplificazione eccessiva.

  14. Io credo che ci sia differenza fra l’usare un linguaggio rigoroso ma allo stesso tempo comprensibile e il semplificare brutalmente i concetti. E francamente diffido molto di chi, pur sostenendo il contrario, mi pare sia più amante di un linguaggio astruso e forbito che dei concetti, anche di difficile comprensione, che vi sono a volte sottesi. Mi sembra un modo un pò logoro di riaffermare il potere dell’accademia. E le persone che luminamenti cita, specie Sergio, tutto volevano fuorché questo. Per il resto, sono molto d’accordo con Agnese: emulare è vizio ancora più grave di una semplificazione eccessiva.

  15. Perché, per rispondere a te dovevo cercare l’originalità a tutti i costi?
    Ho detto che Piro non amava il linguaggio semplice, lo considerava inadeguato. Basta leggere Antropologia trasformazione, o Diadromica (il titologià annuncia un programma), o Introduzione alle Antropologie Trasformazionali per capirlo.
    Eh sì, dire “capirlo” è proprio il caso – di dirlo.
    No, tu non concordi cara agnese che con il partito preso, perchè sulla semplificazione Piro non concordava.
    In quanto a Gianmaria rispecchia perfetta quello che dicevo prima sulla comprensibilità.
    Per quanto poi le osservazioni di carattere personale non replico perchè le trovo banali anche se legittime.
    Certo è che proprio i tre libri citati non li avete proprio neanche aperti (ammesso che li conoscevate), se no avreste saputo delle esercitazioni connessionali sull’emulazione, dei suoi metodi. Del resto questi tre libri, ma soprautto il primo è una continua emulazione di Piro di molti autori.
    E lo dico naturalmente in senso positivo e nel senso aperto ed esplicito di Piro. Che poi certo, non occorre solo l’emulazione. Ma questa, mi sembra un’ovvietà scontata. In genere queste sono le difese reattive di chi ha difficoltà ad affrontare i testi

  16. direi di sorvolare sulla ridda caotica e cumulativa di accuse e controaccuse, citazioni e rilanci. Qui si è cercato di “storicizzare”, per quanto possibile”, l’operato di un uomo straodinario ed eccentrico (lontano da ogni centro), considerandolo in un determinato periodo di tempo. L’approccio alle diverse discipline è, per fortuna, proteiforme, si giova di strumenti e statuti disciplinari specifici…insomma, chi fa lo storico utilizza taluni strumenti e non altri, sottolinea taluni aspetti del suo oggetto di ricerca e non altri. Se tutti si concentrassero su tutto non vi sarebbero specificità di sorta, e si confluirebbe foscamente in un inquietante groviglio remoto di approssimazioni, riduzionismi e suggestioni maldestre. A ciascuno il suo (mestiere). cordialità

  17. Caro luminamenti, il punto non credo sia la nostra capacità di comprensione di testi semplici o complessi, che ti prego di non mettere in dubbio. Né la conoscenza perfetta e l’adesione entusiatica e – detto
    senza astio – a volte acritica, che hai nei confronti delle tesi di altri. Sergio è stato un mio caro amico, non un mio professore (mi occupo di tutt’altro). Ma questo non mi impedisce, nonostante la complessità del suo scrivere su cui tanto insisti, di comprenderne l’opera e di conoscerne le convinzioni. Certo, non con il grado di profonda comprensione e interiorizzazione di altri! In sostanza, mi spiace deluderti: non possiedi il monopolio della conoscenza dell’opera omnia di Piro, che è stato letto, ammirato e studiato da tanti. Anche da chi, a tuo avviso, date le sue inclinazioni (da te arbitariamente dedotte) non sarebbe degno neanche di odorare le copertine dei suoi testi. Infine, ti faccio notare una cosa: “ovvietà scontata”, oltre che cacofonico, è tautologico. E’ proprio questo che a me non piace, questo modo di scrivere ridondante e spesso involuto. E l’arroganza di sentirsi depositari della conoscenza.

  18. Sono molto d’accordo con Carmen. A proposito del mestiere dello storico, trovo convincente quello che dice Edward H. Carr nelle sue ‘Sei lezioni di storia’: “In realtà i fatti storici non si possono minimamente paragonare a pesci allineati sul banco del pescivendolo. Piuttosto, li potremmo paragonare a pesci che nuotano in un oceano immenso e talvolta inaccessibile: e la preda dello storico dipende in parte dal caso, ma soprattutto dalla zona dell’oceano in cui egli ha deciso di pescare e dagli arnesi che adopera. Va da sé che questi due elementi dipendono a loro volta dal genere di pesci che si vuole acchiappare. In complesso, lo storico s’impadronisce del tipo di fatti che ha deciso di cercare. La storia è essenzialmente interpretazione”.

  19. Gentile Gianamaria lei scrive: “Ma questo non mi impedisce, nonostante la complessità del suo scrivere…”

    E io solo di questo avevo parlato, come infatti avevo scritto, che riporto nuovamente qui sotto. Ogni altra osservazione come monopolio eccetera eccetera io non ne ho parlato nè mai pensato nè mi sono vantato di essergli “amico” , né ho fatto valutazioni sulla scrittura involuta o meno di lei Gianmaria e via di seguito. Parlavo di un linguaggio di Piro che si esprimeva in direzione opposta alla semplificazione postmoderna (e questo persino se rimaenessimo al campo ristretto della psichiatria che leggendo i libri di Piro si capisce bene che gli stava ristretto). Come riscritto qui sotto e come lei finalmente riconosce qui sopra, Piro si esprimeva con un linguaggio ESTREMAMENTE complesso (e non ho mica detto che non era per lei comprensibile) e che auspicava una complessificazione linguistica e corticale della comunicazione e dell’erudizione, perchè i suoi libri grondano per fortuna di erudizione nei più svariati campi, dalla linguistica agli scacchi al teatro alla letteratura. E’ scritto e ripetuto a tempesta nei suoi libri. Quindi a che pro agitarsi? così si manca la lucidità necessaria.

    “Bisognerebbe ricordare che è il padre delle Antropologie trasformazionali, autore di 2-3 poderosi volumi che in sostanza vertono sull’epistemologia della mutazione. Le implicazioni sulla conoscenza e il linguaggio sono moltissime, ma temo che i tempi non siano maturi per il loro salto in avanti, data la tendenza post-moderna a “doversi fare capire” in maniera semplice e didascalica come si pretende oggi in era mediatica, dominata da Internet con il suo linguaggio pre-alfabetico e afasico”

  20. Conoscevo Sergio abbastanza bene da poter avere un’immagine abbastanza diversa da quella che purtroppo traspare in questo prolisso articolo.
    Sergio era soprattutto un uomo, semplice.
    Visto che si è aperta una piccola quarrel e il soggetto mi è caro, mi permetto di dire che lo “storico” (parola grande, si contano sulle dita della mano in Italia) dovrebbe conoscere e analizzare molti aspetti del suo argomento e trattarli con spirito quanto più obiettivo ed estraneo possibile. Lasciarsi trasportare da emozioni, passioni,giudizi celati, che sempre più spesso sono presenti nei lavori dei giovani che si avvicinano alla scrittura, porta la stesura molto più vicina ad una critica storica e abitua il lettore a confonderla con l'”arte di fare storia”.
    Mi permetto di dire… perchè è il mio (mestiere) e lo amo troppo per poterlo vedere così tante volte confuso con la buona capacità di tener in mano una penna.
    Non me ne voglia Carmen, ma era solo per chiarire alcune cose spesso confuse.
    Anzi ringrazio Carmen che ha comunque contribuito, a modo suo, a ricordare una grande persona.

  21. chi dice di fare il mestiere dello storico dovrebbe sapere che tra lo storico dichiaramente di parte, schierato e perciò stretto nella morsa dei propri sentimenti, dei propri sensi, e lo storico tabula rasa sul quale si iscrivono i fatti puri, non contaminati dalle emozioni personali, la condizione migliore è quella dello storico che insieme alle proprie fonti e alle proprie ipotesi interpretative, verificate con gli strumenti disciplinari, mette anche se stesso nella narrazione; “quando leggiamo un libro di storia -ha scritto Edward Carr- dobbiamo occuparci anzitutto dello storico che l’ha scritto; dobbiamo sempre stare con le orecchie tese per sentire che cosa frulla nella testa dello storico. se non sentiamo niente, o siamo sordi o lo storico in questione non ha nulla da dirci”. Questo è fondamentale, altrimenti si sconfina nella cronaca. E gli storici che in Italia, è vero, si contano sulle dita lo sanno bene. Giovanni De Luna, uno dei maggiori storici contemporaneisti, insiste molto su questo aspetto nel suo imprescindibile libro “la passione e la ragione. il mestiere dello storico contemporaneo”. Poi ovviamnete in questa sede si è trattato di scrivere un articolo, e in un articolo si può essere per definizione più “di parte” che altrove. Nel mio libro sul ’68, il capitolo dedicato a Sergio non ha le “notazioni” militanti a margine su l’uomo in rivolta e sull’ostilità da lui incontrata a Napoli, ovviamente. Occorre sempre contestualizzare, e Luca T. dovrebbe saperlo. Grazie comunque. cordialità

  22. Sono senza parole. Innanzitutto, la buona capacità di tener in mano una penna già di per sé non è da tutti.
    Dopo di ciò, Luca T. mi può spiegare – e lui che si dice storico dovrebbe ben saperlo – quale nesso abbia
    il suo ricordo di Piro con l’articolo di Carmen Pellegrino? Soprattutto, che valore dovrebbe essere attribuito
    alla discrasia che Luca rinviene fra il suo ricordo (la sua memoria!) e “l’immagine abbastanza diversa da quella che – secondo lui –
    purtroppo traspare in questo articolo”? Che poi prolisso non è per nulla (cita, anzi, ampiamente scritti dello
    stesso Piro). Anche io, lo dicevo a luminamenti qualche giorno fa, conoscevo bene Sergio. E il mio ricordo collima
    con l’immagine che traggo dall’articolo. Ma non ho la presunzione di dare giudizi sulla base di questo. Uno
    storico infine mai professerebbe – da quanto so – la necessità di annullarsi nella narrazione. Di farsi cronista degli
    eventi.

  23. A me l’articolo di Carmen Pellegrino è piaciuto e non comprendo le critiche che gli sono state rivolte. a questo punto dato che l’ho conosciuto anche io mi spiace dire che era sì semplice ma anche molto complesso. Non capisco questi riduzionismi a una sola dimensione. E’ evidente che poi l’articolo di Carmen Pellegrino storicizza a una fase il pensiero e il visssuto di Piro, ma credo che tutti possano riconoscere che Piro rispetto a molte altre figure storiche della psichiatra non era solo certo uno psichiatra.

  24. A me l’articolo di Carmen Pellegrino è piaciuto e non comprendo le critiche che le sono state rivolte. a questo punto dato che l’ho conosciuto anche io mi spiace dire che era sì semplice ma anche molto complesso. Non capisco questi riduzionismi a una sola dimensione. E’ evidente che poi l’articolo di Carmen Pellegrino storicizza a una fase il pensiero e il visssuto di Piro, ma credo che tutti possano riconoscere che Piro rispetto a molte altre figure storiche della psichiatra non era solo certo uno psichiatra.

  25. Stavolta concordo con luminamenti. Sergio Piro era uomo dalla personalità poliedrica, non può esistere ‘reductio ad unum’. E l’articolo di Carmen Pellegrino è piaciuto moltissimo anche a me.

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marco rovelli
marco rovelli
Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.