Sulla linea più avanzata del fronte
di Michele Sisto
La mia generazione ha un trucco buono
Critica tutti per non criticar nessuno
E fa rivoluzioni che non fanno male
Così che poi non cambi mai
Essere innocui insomma ché se no è volgare
(Afterhours, Baby, fiducia)
«…Negli anni che stiamo attraversando, quando una greve cappa di inerzia e di rassegnazione, un clima soffocante di ottusità e di atonia, sembra quasi paralizzare noi stessi e la maggior parte dei nostri conoscenti: al punto da farci desiderare che qualcuno possa tornare […] a destarci dal nostro sonno pesante, a farci sentire la scossa elettrica di una corrente vitale, a risvegliare in noi le energie sopite e la coscienza di ciò che sappiamo e ci sforziamo invano di dimenticare».
Tra i miei coetanei – sono nato nel 1976 – o meglio, tra quelli di loro che come me si sono avviati, e i migliori non senza remore e perplessità, alla carriera «intellettuale» e dedicano gran parte della loro giornata a leggere e scrivere in università, istituti di ricerca, case editrici, redazioni di riviste, il nome di Renato Solmi suscita un misto di curiosità e ammirazione. Insieme a Cesare Cases, Franco Fortini, Sebastiano Timpanaro e non molti altri Solmi, sebbene più giovane di loro, fa parte di quella leva di maestri che in Italia, con particolare efficacia negli anni cinquanta e sessanta, ha dato senso e dignità al ruolo dell’intellettuale, e alla quale la mia generazione guarda con crescente interesse dopo decenni, nel campo culturale, di stanchezza e, come ci capita di sbottare quando parliamo tra noi, di dominio quasi incontrastato della più vacua fuffa. In quei decenni ci è stato insegnato, tra l’altro, che non è di buon gusto, in uno scritto che si pretende scientifico, esprimersi in prima persona, dire “io”. Ma d’altra parte sono persuaso che l’unico modo di rendere giustizia a questo libro di Renato Solmi sia assumerne – o almeno provarci, per lo spazio di una recensione – l’atteggiamento mentale, l’habitus: proprio ciò che, per la sua inattualità, suscita l’interesse dei miei coetanei. Non mi soffermerò molto, dunque, come questa sede richiederebbe, sul Solmi germanista, che peraltro è anche il più noto, poiché le sue introduzioni a Minima moralia di Adorno (1954) e ad Angelus novus di Benjamin (1962) sono state per decenni le porte d’accesso al pensiero di questi due autori. (Meno nota è forse la sua intensa frequentazione con György Lukacs, del quale nel 1957 ha tradotto Il significato attuale del realismo critico e nel 1961 Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, e con Günther Anders, di cui ha tradotto nel 1960 Essere o non essere e nel 1962 La coscienza al bando). Quanto segue è il tentativo di descrivere questo habitus, la sua genesi e ciò che a sua volta ha prodotto, e di ricavarne una serie di indicazioni che possano essere di qualche utilità nell’orientare chi è interessato a dare un senso e una direzione a ciò che sta facendo, e farà.
Già negli Studi e recensioni – la prima delle sette sezioni in cui questa Autobiografia documentaria è suddivisa – dei primissimi anni cinquanta si riconosce la disposizione di Solmi, che proviene da un ambiente borghese e intellettuale (suo padre, com’è noto, è il poeta e saggista Sergio Solmi), a superare i limiti dell’«illusione scolastica» (Pierre Bourdieu), dominante tanto nell’«alta cultura universitaria, del tutto apolitica e disinteressata» quanto in famiglia, nella figura del padre che, come molti intellettuali della sua generazione, «aveva in mente solo una cosa: la poesia, o, in senso più ampio, la letteratura». La critica che Solmi muove alla generazione dei padri, svelando ad esempio il «segreto desiderio di fuga dalla realtà presente» implicito nell’ideale umanistico di un Werner Jaeger, si inserisce a pieno titolo nella resa dei conti avviata nell’immediato dopoguerra tra il vecchio storicismo idealista che faceva capo a Croce e il nuovo storicismo materialista di cui si era fatto interprete Gramsci. Si tratta, in sostanza, di affermare la verità materialistica che non è il pensiero (lo Spirito) a determinare la realtà, ma la realtà («i fenomeni infrastrutturali, l’evoluzione economica e politica») a determinare il pensiero: per questo Solmi trova di grande interesse il tentativo compiuto da Ernesto de Martino nel Mondo magico (e presto rinnegato nel nome dell’ortodossia crociana) di storicizzare le categorie della coscienza moderna, ovvero di dire che non esiste una razionalità innata ma che la stessa razionalità, il nostro modo di pensare (così come il linguaggio, la morale, la sensibilità estetica) è il prodotto storico di determinate condizioni e – questa è l’acquisizione più gravida di conseguenze – come esso è mutato dal passato al presente, così esso potrà mutare in futuro, al determinarsi di nuove condizioni infrastrutturali. E ciascuno è responsabile di decidere se riprodurre le condizioni che ha ereditato o di produrre il cambiamento.
Il riconoscimento di questo principio, dell’ineludibile politicità della cultura, comporta, per l’intellettuale, un’assunzione di responsabilità politica, in altri termini la necessità di «un impegno attivo e volontario».
Non vorrei concedere troppo alla tentazione di disegnare qui un percorso troppo lineare, ma i saggi raccolti nella terza sezione, Il lavoro editoriale, siamo nel 1952-55, appaiono, riletti oggi, proprio come la ricerca di una declinazione pratica di questo «impegno». E da subito questa ricerca è impostata – o si impone – come «compito generazionale». Constatando che «l’isolamento culturale […] è, in questo momento, il destino comune degli intellettuali (e non dei peggiori) delle classi più giovani» Solmi dà il benvenuto alla rivista «Il Mulino», appena fondata, e suggerisce ai giovani che la animano di non indulgere all’indulgenza: «una certa “violenza” del pensiero (che non ha niente a che fare con quella delle parole) è indispensabile – scrive – a dissipare la cortina di nebbia che si riproduce continuamente intorno a noi. Una volontà lucida, una critica intransigente: ecco ciò di cui abbiamo bisogno oggi». Il modello di questa che definirei autocoscienza generazionale è individuato, non a caso, in Giaime Pintor – che questa coscienza aveva molto netta – ed è nel recensire Il sangue d’Europa che Solmi insiste di più sul pronome «noi». Per dire, però, che in dieci anni, dal 1943 al ’53 (Solmi è di soli otto anni più giovane di Pintor), la situazione storica è mutata, i compiti sono altri e il compito è affrontarne «apertamente gli aspetti cruciali». Ora Solmi ha ventisei anni. Ora comincia ad agire. E con una capacità di presa sulla realtà, di individuare gli «aspetti cruciali», che per almeno due decenni appare sbalorditiva, e anche in seguito – nonostante una riconosciuta «stanchezza» – non viene mai meno.
Anziché soffermarmi su alcuni dei temi o dei saggi raccolti nelle altre sezioni – La scuola di Francoforte (4), La contestazione nella scuola (5), La nuova sinistra americana, la guerra del Vietnam e lo sviluppo dei movimenti pacifisti (6) e Sguardi sul passato (7) – vorrei provare a trarne alcune indicazioni pratiche, una sorta di prontuario ad uso di un giovane intellettuale. Sono consapevole della forzatura, ma vorrei avventurarmi ugualmente su questa via confortato dalla disposizione educativa, e in fondo morale, riconoscibile in Solmi e in gran parte dei suoi maestri, da Adorno a Lukács, da Brecht a Delfino Insolera, al quale il volume è dedicato.
E vorrei cominciare da questo: in Solmi la cultura è uno strumento, non un fine. «Raccogliere e neutralizzare nel pantheon culturale, in un biblioteca o in un museo immaginario, le creazioni dell’arte e del pensiero, significa toglier loro la punta, tradirle nell’atto in cui si finge di riconoscerle», sostiene Adorno. E così Adorno stesso viene trattato da Solmi, che nell’introduzione a Minima moralia ne recepisce il pensiero solo nella misura in cui gli fornisce strumenti concettuali per meglio comprendere lo stato delle cose e lo respinge in quanto non dà indicazioni per cambiarlo. Dopo averlo tradotto, interpretato e difeso di fronte ai possibili critici, non esita infatti a concludere che «chi si è formato sui testi dei classici, di Lukács, di Gramsci, e vive in paesi dove la lotta di classe ha ancora un senso, non può condividere il pessimismo di Adorno». Con questa presa di posizione Solmi mostra di aver fatto passi avanti nel liberarsi dall’illusione scolastica, verso la concretezza; e ne farà numerosi altri, sebbene ancora a distanza di anni si senta tenuto a riconoscere la sua ammirazione per chi come Raniero Panzieri né è a tal punto esente da ritenere non solo Adorno «inutile ai fini di un movimento rivoluzionario», ma anche Lukács «idealistico e fumoso».
Se la cultura non è un fine, allora ai maestri si deve rispetto, non venerazione. Si può misurare questo atteggiamento sul caso di Walter Benjamin, di cui Solmi è ad un tempo il primo divulgatore in Italia e il primo critico. Nell’introduzione ad Angelus novus si preoccupa di «guidare l’attenzione sulla parte più positiva e originale del suo pensiero», mettendone in luce tutta la «fragilità teoretica», e di «salvaguardarlo dagli equivoci più grossolani»: che si sono poi puntualmente verificati, con l’affermarsi negli anni ottanta di «una specie di culto esoterico della sua figura». Ma, soprattutto, Angelus novus è una selezione molto orientata, si potrebbe tranquillamente dire “militante”, dei saggi allora editi in Germania: operazione che, per quanto oggi a un giovane della mia generazione possa apparire semplicemente sconsiderata, è molto più coraggiosa e utile, perché impone la responsabilità di una presa di posizione critica, che “farlo tutto”, come si è deciso più tardi. Non importa qui, vorrei sottolineare, il giudizio dato allora su Benjamin o su Adorno, che Solmi stesso più tardi ha in parte corretto: importa invece la disposizione, la libertà con cui il giudizio è stato formulato. Direi da pari a pari.
E anche: nel tentativo di raggiungere una «sintesi tra teoria e pratica, impegno sociale e visione storica complessiva». La prosa di Solmi è fitta di appelli a cogliere la «sostanza della questione», a individuare le «dinamiche latenti» dei processi, a suggerire «orientamenti», una «prospettiva», «germi del futuro», la «direzione giusta», una «risposta adeguata», «indicazioni valide per lo sviluppo di un’azione di rinnovamento e di trasformazione». La ruota del suo argomentare si rifiuta di girare a vuoto, di scivolare sul terreno senza aderirvi. La ricerca di prassi alternative a quelle esistenti è evidente già negli anni del lavoro editoriale, nel «rudimentale tentativo di organizzare i rapporti tra una casa editrice il suo pubblico» attraverso la Settimana del libro Einaudi o nella creazione di una collana orientata alla “pratica” come i Libri bianchi, ma si manifesta pienamente solo dopo il passaggio al mondo della scuola, negli anni della contestazione studentesca e dei tentativi di realizzare una pedagogia progressiva: in particolare nelle cronache dei casi di Luciano Rinero e Margherita Marmiroli. Recalcitrando alla divisione capitalistica del lavoro, che sempre più vuole il pensiero separato dalla prassi, in una drammatica incoerenza appena riscattata dall’ironia con cui l’intellettuale prende le distanze dal prodotto del suo lavoro e si sottrae alla verifica delle sue implicazioni o ricadute, l’argomentazione di Solmi fa appello alla totalità. Non c’è separatezza o autonomia per niente e nessuno. «Non si può pretendere di educare senza educare – scrive nel saggio sulla Marmiroli -; non si può fingere di insegnare evitando di parlare di ciò che è veramente necessario a coloro a cui si insegna».
Se, come scrive Adorno, «nessuna emancipazione è possibile senza l’emancipazione della società», è evidente che anche la cultura dev’essere un’impresa collettiva. È vivissimo, nelle pagine sulla Marmiroli, il senso della lotta, che, a partire dall’ostinata fermezza con cui una professoressa di liceo pretende di attenersi ai principi – ministeriali! – di una scuola rinnovata, arriva a coinvolgere gli studenti, i loro genitori e a costringere la classe dirigente di Cremona e nazionale a prendere posizione, svelando il proprio volto autoritario o lasciando che la prassi dell’insegnamento cambi realmente. Perché il cambiamento è possibile; la lotta collettiva produce risultati. Nel saggio su La nuova sinistra americana possiamo leggere la pacata epopea del movimento dei neri del sud, che in pochi anni non solo ottiene la legislazione sui diritti civili e la sua applicazione, ma accende la miccia del movimento studentesco e di quello antimilitarista che confluiranno nel ’68. Da queste esperienze trae alimento la speranza concreta di Solmi, che lo scorso anno, mentre la sua Autobiografia documentaria andava in stampa, manifestava a Vicenza contro l’allargamento della base Nato.
Non vorrei, con queste parole, trasmettere l’immagine, che sarebbe falsa, di un Solmi intemperante e trascinatore. Se dovessi scegliere tre parole per descrivere cosa si trae da questo libro direi: pazienza; umiltà; fiducia.
Attraverso il trauma del licenziamento dall’Einaudi e la lunga attività di base degli anni successivi Solmi sviluppa una singolare sensibilità per i costi umani dell’impegno. Si sofferma, nelle sue cronache, sulle «conversioni somatiche delle tensioni psichiche» di Rinero, o sulla «pressione fisica che si esercita da parte dell’ambiente circostante» sulla Marmiroli. E nell’87 raccomanda agli studenti: «Pensate anzitutto a voi, anche come singoli individui. Non lasciatevi mai assorbire interamente da una causa»; infatti «bisogna diffidare di chi è disposto a sacrificare se stesso, è molto probabile che sacrifichi se stesso, ma è assolutamente certo che anzitutto sacrifichi qualcun altro». Anche se «nel mondo in cui viviamo sarebbe ridicolo pensare di poter programmare la propria esistenza individuale o quella della propria famiglia o dei propri figli senza porsi, direi, anche solo e semplicemente il problema della sopravvivenza del genere umano, che purtroppo oggi è all’ordine del giorno». Erano gli anni in cui il problema veniva assumendo proporzioni tali – la parola chiave era Cernobyl, ma oggi sarebbe Kyoto – che si è reagito, generalmente, rimuovendolo del tutto (questo è anche un mea culpa). E invece Solmi persiste nel non abdicare alla totalità: suggerisce di accostarla senza impazienza, cominciando dai problemi che si pongono «in termini chiari ed urgenti», come fu per il Vietnam, come è per Vicenza: «l’unità, la totalità verranno dopo».
Una delle caratteristiche più ricorrenti nel volume, soprattutto negli scritti più recenti, è l’ammissione di aver sbagliato. Dagli anni ottanta in poi molti hanno condannato l’ideologia, i limiti di un pensiero portato alle sue conseguenze estreme, prendendone le distanze; pochissimi invece hanno riconosciuto in se stessi gli errori e i limiti che hanno impedito o sviato i tentativi di cambiamento. Ma il riconoscere di aver sbagliato, riconoscere anche la propria cattiva coscienza è, nella modestia autocritica di Solmi, un’arma potentissima, che gli permette di rimanere «in buoni rapporti con la verità», ovvero di non rinunciare alla totalità e di continuare a cercare le vie del cambiamento. La certezza hegeliana che ciò che è razionale è reale non va perduta, e si resta immuni dalle derive irrazionalistiche, dal misticismo religioso all’economicismo liberista, che hanno dominato la fine secolo. Libero dall’incombenza di giustificare (o rimuovere) il proprio passato, Solmi può continuare a guardare al futuro, porsi «il problema di quanto, nella tradizione socialista e marxista, è tuttora pienamente valido, e può fornire ancora i lineamenti essenziali di una concezione complessiva della società e del mondo». La stessa umiltà si manifesta nella disposizione a farsi mediatore: Solmi non è, né pretende di essere, un pensatore originale, rifiutando così quello che è forse il paradigmi dominanti negli ambienti intellettuali. Rinunciando all’originalità a tutti i costi, è libero di cercare nel lavoro altrui e di far conoscere idee buone e spesso già collaudate nella prassi.
La fiducia, terza e ultima parola marcante, è nella Umwälzung, nella rivoluzione: nella tranquilla convinzione che verrà. Si tratta, per Solmi, di capire da dove e di «partecipare […], in uno spirito di solidarietà appassionata e di comprensione attiva, al movimento». In modo non molto dissimile da Sebastiano Timpanaro, portavoce dei limiti naturali dell’uomo (la malattia, la morte, il conflitto «leopardiano» con la natura), che negli anni ottanta prosegue la sua militanza marxista-leninista nel movimento ecologista (si vedano gli scritti de Il rosso e il verde), così Solmi riconosce i germi di una nuova Internazionale nel movimento non-violento. Sebbene si presenti come un neofita, giunto solo tardivamente agli studi sulla pace, la sua attenzione a questi temi data almeno dai primi anni ’60, dagli incontri con Günther Anders, dagli studi sulla Nuova sinistra americana sorta intorno allo Student nonviolent coordinating committee (SNCC), sul pilota di Hiroshima Claude Eatherly, e svariati altri. Proprio nello studio sulla Nuova sinistra americana pubblicato nei «quaderni piacentini» nel 1965 – quanto avrà influenzato il movimento studentesco questo vero e proprio prontuario di prassi politiche alternative, che fornisce «indicazioni» tuttora utilissime tanto ai Social forum quanto ai movimenti No TAV, No base, ecc.? – Solmi constata per la prima volta che «vi è, senza dubbio, un rapporto fra l’ideologia della nonviolenza […] e la tendenza ad elaborare forme nuove ed aperte di organizzazione politica, profondamente diverse dai partiti tradizionali di stampo socialdemocratico o bolscevico» e che «sembra che questa tendenza getti le sue radici in esigenze profonde dello sviluppo e della trasformazione in senso socialista delle società capitalistiche a livello avanzato». E già in quello scritto è messo a fuoco l’obiettivo politico che Solmi ritiene tuttora prioritario: realizzare l’incontro – sul piano pratico come su quello teorico – dei movimenti di orientamento nonviolento con la tradizione e l’ideologia del movimento socialista. La fiducia che questo incontro debba e possa realizzarsi è rimasta inalterata, così come l’idea che ciascuno può fare la sua parte.
Ora, nulla ci impedirebbe di trattare questo libro come qualsiasi altro buon libro, trovandovi molti spunti da approfondire e qualche frase da citare nella nostra prossima monografia; ma significherebbe non afferrarne il senso più profondo. Solmi non è – non è mai stato – un germanista o uno studioso di letteratura tout court, e a volerlo intendere per tale lo si fraintenderebbe. Il suo habitus è quello di chi sconfina, e si ostina a occuparsi di cose che esulano dalle sue strette competenze disciplinari. Assumerlo è pericoloso e salutare ad un tempo: perché da una parte ci espone al rischio di cadere, per inesperienza, in un astratto velleitarismo; dall’altra ci costringe a riflettere senza sosta sui presupposti, sulle condizioni di possibilità del nostro lavoro. Che farcene, allora? Forse si può seguire un suggerimento implicito di Cases, che nelle Confessioni di un ottuagenario assegna a Solmi il ruolo di suo «consigliere in politicis»: sceglierlo come un compagno di viaggio che ci interroga sul senso e lo scopo del nostro andare. Ha una sporta di argomenti, che ha ricavato da un lungo dialogo con Panzieri, Lukács e Adorno, coi “maestri” della «Monthly review» e coi propri studenti a scuola, con Günther Anders e Alexander Langer, con Jonathan Schell. E ci invita a non perdere mai di vista, nel nostro mestiere e fuori di esso, «la linea più avanzata del fronte che separa il passato dal futuro».
[La recensione a Autobiografia documentaria. Scritti 1950-2004 di Renato Solmi è apparsa in «Osservatorio critico della germanistica», a. XI, n. 28 (novembre 2008), pp. 34-39]
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Ha ragione Mourinho a dire che in Italia il calcio venga vissuto in maniera drammatica. Quindici giorni prima a parlare di una partita per rinfocolare la paura di perdere, quindici giorni dopo a discutere dell’inevitabile sconfitta. Un mese da dedicare ad una partita di calcio.
Per quanto lo sport sia importante, divertente, e tante altre belle e sane cose, in Italia è di certo sopravvalutato. Ma la cosa non mi sorprende. Cosa ti puoi aspettare da un paese che non si indigna di fronte ai diritti violati, che non si solleva quando sul tavolo ci sono questioni fondamentali e di un’importanza capitale come per esempio la procreazione assistita, che non si infuria per la pessima informazione costretto a sorbirsi ogni santo giorno a causa di una stampa asservita o fin troppo compiacente, che non si scuote di fronte alle pressioni retrograde e conservatrici che la Chiesa esercita su ogni questione politica, un paese nel quale la maggioranza di governo è nelle mani di un uomo che rastrella potere e denaro ed immunità mentre racconta barzellette, un paese che sorride di fronte alle sue intemperanze internazionali, alle sue gaffe da cafone, al suo esibizionismo da tronista.
In un paese del genere, con gente del genere, non sorprende che il calcio possa diventare per molti una ragione di vita, che si arrivi addirittura ad uccidere, a sporcarsi le mani in nome di una fede che non è altro che la panacea di un vuoto esistenziale e morale senza precedenti.
Mourinho, che è uno straniero al primo anno in Italia, non si è ancora adeguato al comodo conformismo di molti allenatori e calciatori che concedono solo interviste convenzionali.
La sua franchezza caratteriale, che gli fa dire quello che pensa senza alcun filtro di sorta, ci restituisce un’immagine realistica dell’Italia. L’Italia che drammatizza sul “pallone” appare ai suoi occhi in tutta la sua ridicolaggine. Ancor più se confrontata con l’Inghilterra dove invece, al “pallone”, si dedicano solo 90 minuti.
E’ da quest’Italia che il signor B. si ostina a raccattare spunti per le sue storielle, perché, portatore sano di tutti i difetti italici qual è, piuttosto che nasconderli o risolverli preferisce ostentarli.
Restituendo all’estero l’immagine di un’italietta da barzelletta che, ahimè, corrisponde al vero.