8.9.1943 – 8.9.2009

“Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza”.

L’8 Settembre in Italia
di Giaime Pintor

… Le giornate che seguirono l’8 settembre furono le più gravi che l’Italia abbia attraversato da quando esiste come paese unito. Caduto Mussolini, Badoglio non aveva voluto andare oltre a rompere l’alleanza nazista per timore di sviluppi che non avrebbe saputo dominare. I suoi seguaci rappresentavano allora le terribili conseguenze di un gesto così temerario: Torino e Milano distrutte, l’Italia del Nord invasa, un ritorno di elementi fascisti con programma vendicativo. Per evitare questi mali il governo aveva obbligato gli italiani a reprimere il loro primo slancio rivoluzionario e trasformato quella che sarebbe stata una sincera esplosione di popolo in una ambigua manovra diplomatica. I capi militari avevano avuto quaranta giorni di tempo per predisporre la resistenza e ancora cinque giorni dopo la conclusione dell’armistizio per dare gli ultimi ritocchi alla loro sapiente opera. E questo era il risultato di tante precauzioni: Torino e Milano veramente distrutte, non dai bombardamenti tedeschi ma da quelli alleati, l’Italia occupata dai tedeschi non fino alla valle del Po ma fino al Mezzogiorno, Mussolini liberato, i fascisti al potere.
In una guerra che aveva visto la tragedia della Polonia, il crollo della Francia e della Jugoslavia, nessuno spettacolo fu più tragico del disfacimento della compagine italiana.
Delle forze armate, la sola marina eseguì ordini precisi e raggiunse in gran parte i porti alleati; l’aviazione praticamente non esisteva più l’esercito entrò nel caos. In tre giorni la resistenza organizzata fu soffocata quasi dovunque.
Roma, intorno a cui Badoglio aveva concentrato cinque divisioni, si arrese a due divisioni tedesche; abbandonata all’arbitrio dei comandanti militari, senza un responsabile politico, senza una voce che la sostenesse, la città visse tre giorni di angoscia e di entusiasmo, ma la volontà di resistere della popolazione non servì contro gli intrighi dei generali. Nelle altre città manifestazione d’inettitudine, viltà, aperti tradimenti dei capi sabotarono la resistenza. L’armata dei Balcani, forte di quasi trenta divisioni, si sfasciò come un frutto marcio: immense colonne di fuggiaschi raggiunsero la costa sotto la protezione dei patrioti jugoslavi i quali si limitarono a toglier loro armi e vestiario. Tutte le strade d’Italia si coprirono di sbandati che portarono da un capo all’altro della penisola l’immagine vivente dell’umiliazione e della sconfitta.
Le responsabilità dirette di questi avvenimenti, le ragioni dei singoli episodi saranno discusse ancora per molto tempo. Certo il re e i capi militari ne portano il peso maggiore: la loro viltà e la loro inettitudine sono costati all’Italia quasi quanto i delitti dei fascisti. Certo un intervento più generoso, soprattutto più fiducioso, degli alleati avrebbe modificato notevolmente la situazione: Roma, per esempio, si poteva tenere ed evitare così il senso della catastrofe totale. Ma le responsabilità storiche che confluiscono in questa crisi di pochi giorni superano il gruppetto di uomini che si trovavano momentaneamente in primo piano; e la lezione diretta che noi possiamo trarne, oltre a un generico sdegno, è la certezza del fallimento della classe dirigente italiana: questo fatto, mascherato per anni dietro ogni sorta di equilibrismi, oggi scoperto e evidente come una piaga incurabile.
I soldati che nel settembre scorso traversavano l’Italia affamati e seminudi, volevano soprattutto tornare a casa, non sentire più parlare di guerra e di fatiche. Erano un popolo vinto; ma portavano dentro di sé il germe di un’oscura ripresa: il senso delle offese inflitte e subite, il disgusto per l’ingiustizia in cui erano vissuti. Ma coloro che per anni li avevano comandati e diretti, i profittatori e i complici del fascismo, gli ufficiali abituati a servire e a farsi servire ma incapaci di assumere una responsabilità, non erano solo dei vinti, erano un popolo di morti: La caduta dell’impalcatura statale scoprì le miserie che ci affliggevano, scoprì che il fascismo non era stato una parentesi, ma una grave malattia e aveva intaccato quasi dappertutto le fibre della nazione. Poteva scomparire in modo pacifico e i suoi postumi potevano essere curati: le giornate di settembre esclusero questa possibilità e gettarono il paese nelle estreme convulsioni. Tornò il terrore sulle città italiane, appoggiato all’agonizzante potenza hitleriana, e il fantomatico Duce di Verona cancellò il Duce dell’autoambulanza, restituì alla reazione la sua maschera tragica. Ormai l’Italia uscirà da questa crisi attraverso una prova durissima: la distruzione delle sue città, la deportazione dei suoi giovani, le sofferenze, la fame. Questa prova può essere il principio di un risorgimento soltanto se si ha il coraggio di accettarla come impulso a una rigenerazione totale; se ci si persuade che un popolo portato alla rovina da una finta rivoluzione può essere salvato e riscattato soltanto da una vera rivoluzione.

(Giaime Pintor, da “Il sangue d’Europa”, Einaudi, Torino, 1975)

5 COMMENTS

  1. Purtroppo la vera rivoluzione non ci fu, e morimmo annegati dall’amarezza che Comencini raccontò poi in “Tutti a casa”. Dal budello del fascismo nacque la rinnovata speranza nel Salvatore, nella Provvidenza incarnata nel bastone-piano Marshall, nel miraggio delle tasche piene a fare il paio con la panza. Poi, quando l’edonismo ci aveva nauseato, come in un dissoluto tardo impero romano, ci siamo affidati alla luminosa guida morale del Caudillo di Arcore. Ed ora eccoci qui, con le pover’anime di Pintor, Gobetti, Ginzburg, dei fratelli Cervi, e di tutti i martiri di quella che voleva essere a tutti i costi una vera rivoluzione e che fu venduta per chewing gum e cioccolato.
    Scusate lo sfogo, ma sono stato suggestionato dal fatto abbastanza singolare che un’icona del nazionalpopulismo berlusconiano come Mike Bongiorno sia volato in cielo proprio in questa data…

    mdp

  2. La “vera rivoluzione” non doveva esserci ed il PCI di allora fu ben accorto a non fomentarla nei fatti, pur lasciando buona libertà di parola e di modesta illusione ai “compagni”, eppoi ci pensarono tempo ed ineguale benessere a diluire.
    Credo che nessuno vendette alcunché signor Di Pasquale. E’ che ci fu un vincitore e diversi vinti, e tra questi i comunisti. E da vecchio ed ex con tutti i crismi, a volte penso “per fortuna”, ché una cosa altra non puo essere che sé e sulle buone intenzioni tutti sappiamo.
    La moderazione ed una furbizia innocente e meschina sono state e restano la spina dorsale di questo nostro felice paese, almeno sin’ora. Per il futuro anche prossimo che non saprò (coevo di Mike) stento ad illudermi.

    Salutando
    Mario Ardenti

  3. La moderazione (leggi: codardia) e la furbizia sono di solito “doti” di mercanti o di chi dai mercanti è trattato… condivido la valutazione sulla fortuna che abbiamo avuto con un PCI che doveva solo fare da ago della bilancia tra due metà, e faceva comodo a tutti, ad esso per primo, che la rivoluzione rusasse, e pure forte!
    Tuttavia, mio nonno (che ha un paio d’anni più del compianto del giorno), militante deluso, non avrebbe voluto un’Italia anestetizzata dalla DC, forse perché appartenente a quel proletariato affamato e disperato, senza i soldi della ricostruzione. E con lui, tantissimi altri. Ed il tradimento della classe politica l’ha vissuto dal vivo, quando i togliattiani sedavano per primi le rivolte di piazza.
    Ma io parlo così forse perché allora non c’ero, e forse avrei avuto anch’io paura ad espormi, annacquato dai (pochissimi) soldini che mio padre ha fatto facendo l’operaio.
    Per il mio futuro (ho 33 anni, e sono un precario dell’informazione), io non m’illudo: so già purtroppo quale sarà…

    mdp

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francesco forlani
francesco forlani
Vive a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman e Il reportage, ha pubblicato diversi libri, in francese e in italiano. Traduttore dal francese, ma anche poeta, cabarettista e performer, è stato autore e interprete di spettacoli teatrali come Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, con cui sono uscite le due antologie Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Corrispondente e reporter, ora è direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Con Andrea Inglese, Giuseppe Schillaci e Giacomo Sartori, ha fondato Le Cartel, il cui manifesto è stato pubblicato su La Revue Littéraire (Léo Scheer, novembre 2016). Conduttore radiofonico insieme a Marco Fedele del programma Cocina Clandestina, su radio GRP, come autore si definisce prepostumo. Opere pubblicate Métromorphoses, Ed. Nicolas Philippe, Parigi 2002 (diritti disponibili per l’Italia) Autoreverse, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2008 (due edizioni) Blu di Prussia, Edizioni La Camera Verde, Roma Chiunque cerca chiunque, pubblicato in proprio, 2011 Il peso del Ciao, L’Arcolaio, Forlì 2012 Parigi, senza passare dal via, Laterza, Roma-Bari 2013 (due edizioni) Note per un libretto delle assenze, Edizioni Quintadicopertina La classe, Edizioni Quintadicopertina Rosso maniero, Edizioni Quintadicopertina, 2014 Il manifesto del comunista dandy, Edizioni Miraggi, Torino 2015 (riedizione) Peli, nella collana diretta dal filosofo Lucio Saviani per Fefé Editore, Roma 2017