Il paese degli esami (a)normali
di Gianluca Monti
L’aggettivo normale è spesso utilizzato in rifermento al nostro paese, quasi sempre (e purtroppo) in proposizioni interrogative. I giornali, i blog, le discussioni nei bar sempre più spesso si chiedono se l’Italia sia un paese normale. Pur in assenza di una risposta definitiva, si invoca, a scanso di equivoci, il ritorno alla normalità. Concetto fumoso quello della normalità.
E il dizionario non aiuta. Con il suo laconico riferibile alla consuetudine o alla generalità non fissa i confini entro i quali misurare la consuetudine, generando così degli equivoci enormi. Limitandosi ai contesti italiani, molte cose possono apparire normali. Come ad esempio i costi delle linee ferroviarie ad alta velocità. La Torino-Milano costerà 62,7 milioni di € a Km, costo del tutto simile a quello della Firenze-Bologna (76,3 milioni di € a Km) e non molto più di quanto sia costata la Roma-Napoli (30,5 milioni di € a Km). Oltrepassando i confini nazionali la presunta normalità si dilegua: la Parigi-Lione è costata 9,7 milioni di € a Km (- 85%), la Tokio-Osaka 8,5 milioni di € a Km (- 87 %) .
E anzi, il dizionario ci confonde perché dice che normale è ciò che è conforme alla norma, fondendo alla anglosassone maniera il concetto di consuetudine con quello di legge. In Italia, con i tempi processuali che corrono sul posto ed i codici più farraginosi d’Europa, né la giurisprudenza né la legge hanno il tempo di stabilire cosa sia la normalità.
I matematici, forse più rigidi, si rifanno al latino: normale è, senza dubbio, la retta perpendicolare al piano. Non è chiaro se questo debba avere implicazioni sulla trasversalità di certi atteggiamenti politici, sempre pronti a trovare accordi su specifici argomenti di particolare interesse. I chimici sono invece più comparativi: normale è la soluzione contenente una quantità di sostanza equivalente ad un’altra di riferimento. Normale può essere, inoltre, il risultato di un esame di laboratorio, sulla base di valori di riferimento. Si ritorna così alla necessità di un modello di riferimento rispetto al quale definire la normalità.
Ora bisogna chiarire che nel nostro paese non tutto ha un prezzo più alto rispetto agli altri paesi europei. Prendiamo, ad esempio, le analisi del sangue: le tariffe, similmente agli altri paesi europei, sono definite dai sistemi sanitari regionali, prendendo a riferimento un tariffario nazionale. Il tempo di protrombina, un esame che 350 mila italiani in terapia anticoagulante eseguono con cadenza anche settimanale e dal quale dipende (drammaticamente) il loro tasso di mortalità, ha una tariffa nella Regione Lazio pari a 2,87 €. In Francia la tariffa è pari a 5,40 €, in Germania 4,08 €, in Svizzera 7,68 €. Si dirà bene, benissimo, considerata la congiuntura difficile per la sanità italiana.
E non proprio. Perché in Italia la consuetudine (il costo) non sempre coincide con la norma giuridica (la tariffa). Nessuno infatti è in grado di stabilire quanto costi, ad una struttura pubblica, eseguire un tempo di protrombina. E questo perché i costi del personale, della struttura, dell’informatizzazione, dello smaltimento rifiuti biologici, dell’energia, delle provette, sono tutti divisi in reparti, competenze, capitoli di bilancio differenti. E questi costi superano di 3 o 4 volte il costo dei reagenti. E, allora, dato che il conto è maledettamente difficile da fare, i bilanci pubblici non riportano mai i costi, ma le valorizzazioni . E cioè il prodotto del numero di esami per la tariffa prevista; così tutto torna. O quasi. Perché ad un certo punto la confusione fra costo e tariffa si è fatta tanto grande che si è pensato di abbassare la tariffa per generare risparmio nella spesa sanitaria. E visto che si è in vena, si decide di riportare in auge il tariffario Bindi del 1996 , già abolito dal Consiglio di Stato nel 2001 per la sua illegittimità . Insensato si dirà.
E non proprio. Perché solo la metà delle analisi si esegue nelle strutture pubbliche. L’altra metà si esegue in strutture private accreditate. E il costo, in questo caso, coincide con la tariffa. Tant’è che la tariffa, prima della ulteriore riduzione, era ferma da molti, molti anni. E tanto per far capire dov’è la ratio, si impone alle strutture private un ulteriore sconto del 20%. Sconto da devolvere non al cittadino, ma al sistema sanitario regionale. Al lordo. Generando così il paradosso del franchigiato: il fanchigiato è in gergo il cittadino che paga interamente per i suoi esami perché non raggiunge la soglia della franchigia prevista . E il 20% dei suoi soldi finiscono nelle casse del Sistema Sanitario Regionale. Non sorprende che il Tar del Lazio, assieme ad altri cinque T.A.R. d’Italia, abbia annullato tutto e sollevato questioni di costituzionalità. La Suprema Corte però ha respinto, motivando in buona sostanza che il mero trascorrere di 13 anni non consente, in linea di principio, di ritenere un tariffario inadeguato. Inoltre se la tariffa è tanto bassa da non coprire i costi, i laboratori accreditati hanno sempre la possibilità di smettere di erogare analisi.
Nel frattempo si prende un bel respiro e si decide di ristrutturare la rete dei laboratori d’analisi, promuovendo la formazione di megalaboratori pubblici, secondo quanto suggerito dal Ministero . Nella Regione Lazio, ad esempio, i circa 550 laboratori d’analisi, che da anni si fanno carico dei pazienti presidiando il territorio, dovrebbero essere soppressi per decretato nanismo e sostituiti da 40 megalaboratori . L’intento dichiarato è il risparmio di scala, basandosi sull’automazione dei processi analitici. Peccato che, come la maggior parte delle attività sanitarie, la porzione automatizzabile del processo generi solo una piccola quota dei costi. Tutto il resto riguarda l’interazione con il paziente e la sua domanda di salute: accettazione, prelievo, gestione, validazione, consulenza. E niente di tutto questo è automatizzabile oltre lo stato attuale, salvo voler rinunciare alla qualità della prestazione. Non a caso alcuni fra i più importanti patologi clinici italiani si sono pronunciati contro simili aberrazioni, evidenziandone i pericoli socio-sanitari.
Non è possibile inoltre chiedere ai pazienti di spostarsi di centinaia di Km per raggiungere il megalaboratorio. Bisogna quindi predisporre una rete di punti prelievo che organizzino trasporti dei campioni a temperatura controllata e consegna garantita entro poche. Nella regione Lazio si dovrebbero trasportare circa 5-10 milioni di provette l’anno con consegne quotidiane, tutte contenenti materiale altamente deperibile e a rischio biologico, fra circa 300 località diverse. Con un costo medio a prestazione fra 3 e 4 €, semplicemente non c’è margine economico per organizzare una simile rete logistica. Tant’è che le regioni che hanno operato una simile ristrutturazione spendono più della Regione Lazio. Solo che non si vede, perché questi costi sono imputati su capitoli di bilancio differenti. Nessuno inoltre sembra percepire che il trasportare materiali biologici non solo è maledettamente costoso, ma costituisce una delle principali fonti d’errore pre-analitico, a causa della estrema deperibilità di questi campioni. Inoltre un centro prelievi per definizione non può fornire le competenze necessarie alla corretta erogazione ed interpretazione dei test. Il laboratorio non più come erogatore di prestazioni sanitarie, ma come erogatore di numeri, che si sperano esatti.
Ma cosa c’entra tutto questo con la normalità del paese? Certo, può apparire anormale chiudere i laboratori sul territorio, liberamente scelti dai pazienti (e remunerati a costo certo e inferiore alle medie europee nel caso dei privati), per sostituirli con 40 megalaboratori pubblici a costo decisamente incerto e avversi alla comunità scientifica. Bisogna però considerare che i megalaboratori implicano mega-strutture, mega-direttori, mega-bilanci, mega-appalti, mega-assunzioni. Le rette parallele finalmente convergono e tutto ritorna alla, italianissima, normalità.
E ancora…
1. Tanto per non sbagliarsi la regione non ci ha ancora pagato la differenza fra tariffario Bindi e tariffario in vigore. Notoriamente se il Tar parla contro la regione non ascolta.
2. Lo sconto del 20% a cui siamo sottoposti (sconto che finisce nelle mani della regione e non dei cittadini) è al giudizio della corte costituzionale, che non ha alcuna intenzione di pronunciarsi rapidamente. E quando lo farà, per non danneggiare le casse delle già disastrate regioni italiane, quasi sicuramente deciderà che anche gli ospedali devono restituire il 20% dei finanziamenti ricevuti (!!!!). Tanto le Asl sono aziende che, a norma di legge, non possono fallire e possono quindi accumulare debiti indefinitamente, specialmente se questi debiti sono nei confronti della Regione. Eventualmente in caso di mancanze di cassa possono non pagare i fornitori. Ad oggi si stima che le pubbliche amministrazioni abbiano debiti pari a circa 70 Miliardi di € (ha letto bene MILIARDI). Buona parte di questi sono debiti delle Asl con i fornitori come noi.
3. Il governo sta elaborando una nuova ipotesi tariffaria che, quasi certamente, comporterà una riduzione delle tariffe, in virtù, naturalmente, delle magiche possibilità di risparmio ottenibili con l’automazione di larga scala. La cosa è ben vista da parte dei grandi gruppi industriali del settore (Assobiomedica). A tariffe ridotte infatti i piccoli e fastidiosi privati muoiono per asfissia, e le prestazioni si fanno tutte in ospedale, dove, a quanto pare, a nessuno importa se si riesce in effetti ad andare in pareggio, semplicemente perché nessuno fa i conti nella maniera adeguata.
4. La regione ci alita sul collo, dicendo che dobbiamo chiuderechiuderechiudere le strutture piccole, ma piccole non si sa quant’è (certo se è 500 mila conteggiati a loro modo siamo tutti morti). Speriamo di riuscire a trovare un accordo che sembra però sempre più lontano. Anche perché metà della dirigenza della regione è stata arrestata per lo scandalo Angelucci e le mani rimaste senza manette sembrano essere cadute come per magilla, nessuno firma più niente.
Il paese degli esami (a)normali è stato pubblicato sulla rivista dell’ordine dei chimici.
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“La Torino-Milano costerà 62,7 milioni di € a Km, costo del tutto simile a quello della Firenze-Bologna (76,3 milioni di € a Km) e non molto più di quanto sia costata la Roma-Napoli (30,5 milioni di € a Km).”
62,7-30,5=32,2 milioni di euro a Km.
A me sembra una grande, enorme differenza e non un costo “non molto più”. Un costo maggiore del doppio. Una enormità.