CINQUE POESIE D’AMORE DEL DUEMILA

di Marco Palasciano
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ANTIMATERIA

Mio puntino di luce colmaspazio,
mia bellezza scolpita nel topazio
della mente, che manchi alle mie mani –
e avvento il desiderio in spazi vani,
vuoti di te, del tuo incredibile essere
che mi riempie con la sua assenza
come il silenzio un bosco, e che frantuma o-
gni povera pretesa di una scienza
dell’accoppiarsi e del disaccoppiarsi…

Mio piccolo armageddon, mia catarsi
che giungi al fine d’una lunga èra
d’ignoranza, mia primavera al mezzo
d’ogni futuro inverno, mia speranza
timida d’un eterno – piglia, agiscimi,
costruiscimi un po’ col tuo sorriso,
rimetti in me il mio io decostruito…

Mia antimateria, esplodimi il diluvio,
a spazzar via il pattume dell’accidia
ammassato a marcire sulle strade
di questa barocchissima cittade
dell’anima, e ad arcobalenarla
per la festa del cuore – reinnescato
palpitante bijou di cui la cassa
toracica sentiva la mancanza,
né era gradita massa il surrogato
di Coppelius, metronomo glaciale…

Sí, mio finale – qui tramonta il tempo
della misura –, entra – mia aria pura.

2005
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ELEGIA

Morto ti penserò senza pensiero,
non piú col cuore, con l’ombra d’un cuore,
in cui scorrerà un nulla ma omeopatico,
con l’impronta o memoria dell’amore
che mi teneva in vita – e intanto passo
come una foglia secca sopra l’acqua,
cosí lontano dai tuoi occhi e mani,
per queste stanze, in prova generale
del mio futuro stato fantasmatico –
io movimento in cui s’inclina un’ala,
io aerea sospensione, anima mossa
dal vento lento e uguale dell’Amore –
lui fanciullo suicida ma per gioia,
usignolo gettato sugli spini
per cantare piú alto, piú spaziale,
che mi trascinerà nel suo disastro –
un movimento senza fine – Fine.

2003
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SESTINA I

Tu che disti da me come la luna
dall’oscurato globo della terra
cui da distante fa commuover l’acqua –
appari, e ecco in mio petto ferma l’aria
e il cuore che si scioglie come in fuoco
e quasi esplode e si trasforma in sole.

Tu di mia vita diventato il sole
ch’ogni altro amor degrada a fioca luna
che si parte invidiando il tuo alto fuoco –
se prima mi pareva questa terra
deserto, è ora giardino dove l’aria
va fresca di bei fiori e giochi d’acqua.

Tu gnoseogemma della piú bell’acqua
in cui scintilla il vero come un sole
che scaccia il nero e ricolora l’aria –
s’aggira intorno a te come una luna
ipnotizzata a una splendente terra
l’occhio, e il mondo scompar, te messo a fuoco.

Tu cui mia anima tende come al fuoco
un corpo intirizzito per molt’acqua
e vento che percuotano la terra –
se ti fisso, addio spazio e tempo, e il sole
ecco farsi tutt’un con stelle e luna,
e il cielo par star sotto e il suolo in aria.

Tu che la mia felicità per l’aria
sollevi come un padre un bimbo, o il fuoco
l’astronave diretta sulla luna –
lascia ch’io anneghi nell’azzurra acqua
dei tuoi occhi e, spegnendosi ai miei il sole,
t’abbracci come il naufrago la terra.

Tu che s’io rivoltassi cielo e terra
non troverei un piú puro amore, aria
che il mio ’mpiagato cor risani, sole
che non ferisci mai con il tuo fuoco –
io beva il tuo sorriso come l’acqua
dell’Eunoè chi ascese indi alla luna.

Io azzeri la distanza terra-luna
e traversata l’acqua e l’aria e il fuoco
congiunga me con te, il nato dal sole.

2006
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SESTINA II

L’Alta Poesia che mi conquide e libera,
la verità che è volo e non è vólto,
a sé mi chiama senza levar voce.
Cosí debella il mio star giú di tono.
E il pensier mio, ancor triste e di già dolce,
te in sé ricerca come in cielo stella.

(Come in Dante Dio insfera in sé ogni stella,
che in armonia con l’altre effonde libera
suoi suoni, ch’ora inaspra ed ora addolce –
e come a un comun centro ogni astro è vòlto,
ch’è quel Dio stesso, a un tempo ipo e ipertono –
sí esterna e interna a chi ama è amata voce.)

Vorrei trarre la mia piú vera voce
dal limbo ov’è a sé stessa unica stella,
e alla tua armonizzarla tono a tono,
cosí come sul piano mi si libera
tra le mani la musica – e sul volto
la lacrima – d’amore piú ebbra e dolce.

Presto. Ché il tempo inaltra ciò ch’è dolce
in altro gusto, altra cromía, altra voce;
diviene rughe, vermi, osso ogni volto
e caòsso la collassata stella;
il mio cor ch’ora tanti accordi libera
tra un niente sarà corda senza tono.

Integro è piú del tuo, però, oggi; il tono
ch’ascondo al fondo è al mondo, anzi, il piú dolce,
dici. E d’amarmi il tuo pensier delibera,
sapendo – ë stupendo di – che voce
sia in me, lucida qual neonata stella,
pur se l’udibil voce ha matto volto.

La maschera resínea che ho sul volto,
e ostacola la bocca, e storce il tono,
la stillò antico buio senza stella.
Al sole del fraterno amor tuo dolce
può liquefarsi. E, libera, la voce
mia alla tua insegnerà ad esser piú libera.

Ma or che dall’ambra d’ombra già si libera
il mio volto, la voce mia è al tuo tono
che il suo nascendo intona, o dolce stella.

2007
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DELIRIO/DESIDERIO, ALBA, INFINITO

La mia debolezza è stata l’amore.
La bellezza pura, che non trova riscontro
negli archetipi, nelle fole, nei riverberi della fama,
la bellezza che è di tutti e che a tratti lampa
in uno, senza un senso, in uno tra infiniti,
mi prende come un daino preso da fucilata,
mi atterra sul sottobosco felice della tristezza
d’amore. Cosa ci fa piú grandi, piú soli,
di questo insensibile microbo, che tutta l’umanità
percorre e nessuno risparmia
fuori dei morti dal cuore disseccato?
Io non ho amato mai se non invano:
questo ti renda forte della tua debolezza,
imparare a patire con gli altri pazienti –
nosocomio infinito, bufera di astri sconvolti
è questo tuo passaggio sulla terra, sospeso
tra concepimento e morte clinica. Io non so
se un pensiero d’amore continui anche dopo la morte,
eco di un corpo, gioia che sé ingioia,
come una coda di lucertola che non sa
di essere ormai attaccata al nulla. Solo
io so che a troppi nulla ci si sente attaccati quest’oggi
ma al vero, bello, grande tutto che è l’amore
nulla ci attacca, solo un sogno inerme,
enorme nella sua stupidità:
che amare implichi l’essere anche amati.
Non è questa la via, né il suo contrario.
Questo solo volevo dirti: che niente
è da dire, io non ho che questo mare
in cui non so nuotare ma che spingo,
dentro la coppa del mio cuore, avanti
verso non so che angelico orizzonte.

2000
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NOTE

Sono queste le cinque sole mie poesie d’amore del periodo 2000-2007 da me accettate nel canone del canzoniere in progress, da pubblicare probabilmente postumo. Su Elegia – che sulla carta suona un po’ peggio che declamata – resta qualche dubbio, che il severo lettore o lettrice di questa pagina web contribuirà a estirpare del tutto o a rincalzare nel terriccio. D’altro canto Delirio/desiderio, alba, infinito era da me considerata un irrecuperabile scarto, finché non l’ha letta e salvata dal fuoco il caro Gino Carrino. Sulle altre tre qui in anteprima offerte c’è, intanto, da dare un minimo di spiego. I due esperimenti di sestina sono dedicati a una medesima persona, il cui nome è criptato a chiusa di ambedue i congedi; e in Antimateria, dove il nome è celato in altro luogo, «il surrogato / di Coppelius, metronomo glaciale» è riferimento ad almeno due poesie del 1995: In un lago di sangue e d’ingranaggi e, piú esplicitamente, Come avvenne che la figlia di lord x ebbe il cuore sostituito da un meccanismo a orologeria affinché il padre potesse controllarne meglio i sentimenti.

83 COMMENTS

  1. Quasi un détournement di archeologie semantiche, puro barocco che teatralizza in serpentine involute,.elegia la salverei…un abbraccio marco, V.

  2. Anch’io salverei elegia (la più sincera e misurata, senza “gnagnà” letterari).Il resto lo ha detto con negativa eleganza Viola, con cui concordo. Ma Marco P. non si offenda, il mio non è un “tranciante giudizio di valore”, ma solo una impressione di “sensibilità di lettura”, un commento, implicitamente richiesto al lettore. Insomma , caro Marco, per me c’è troppa “scuola”, troppi ricordi montaliani e di altri sparsi un po’ qua un po’ là. Piuttosto, sfrutti quella inconscia (?) vena grottesca, parodistica; se è inconsapevole, la faccia venire a galla; se è consapevole, la imbrigli, la depuri da una possibile deriva narcisa e vi lavori su per dei brani da “neoarcadia post moderna”. lo dico senza ironia..sarebbe un efficace ( e divertente) strumento di critica all’esistente (establishment d’ogni genere: politico, letterario, religioso eccetera eccetera). Secondo me, per questo neogenere, lei ha le corde giuste, mi creda.
    Rispettosamente

  3. Solo per precisare che personalmente amo molto la ricchezza e lo splendore linguistico di Marco, che indubbiamente si espone specie in sestine “amorose” a confronti sin troppo letterari. Vorrei comunque rassicurare Salvatore che ha visto *giusto* : la vena grottesca e parodistica di Marco è decisamente consapevole e dà il meglio di sè nelle tematiche *civili* e nel confronto al mondo, un saluto a entrambi, Viola

  4. “A un terzo del mio secolo di vita”, proposto da Domenico Pinto, mi ha confermato che Marco Palasciano ha le corde giuste per lavorare in quella direzione. Un incipit molto bello. Ma poi, vi ha proseguito su quel sentiero?…se no, è un peccato. Non si abbatta o non si impighrisca o non si distragga dietro ad altro. Lavori in quella direzione, mi creda.
    A proposito, conosce Giorgio Manganelli? Glielo consiglio vivamente. P

  5. un assemplo paleopalascianesco par odiar i ‘critici neoborbonici’ tratto appunto dalla nota finale di “prove tecniche di un romanzo storico”:

    “Tredici anni e mezzo fa, nel direttorio ostruso di farraggine dell’euristico mio intelletto sedeva regina l’Ignoranza, con le sue vesti stracciate a grossa imitatio della boezia Filosofia, reggendo per scettro una coscia di pollo che ammiccante smangiucchiava, ben sbilenco sul cranio lendinoso il vasetto rovesciato ch’essa tien per corona; e fu al suo la sopra le righe, essa squittendolo a ogni morsicchio a mo’ di soprano ubriaco, che accordai il mio cembalo scrivano; e se n’ebbe, io in tali modi né frigi né lidii avendolo composto, un inno carnascialesco senza pari nel catalogo delle disordinerie, ancorché meraviglioso per fioriture fantastiche; né simile rigoglio di virtù poteva aversi senza il concime di cotanto errore, in così concetta opera; tale che se da un lato mi impose alle accademie come principe dell’immaginario, dall’altro mi espone a tutte le critiche immaginabili.”

  6. “Se non mi premurai di visualizzare, allora, le vicende della Real Casa di Borbone che per il filtro aberrante di poche fonti, talora meno inclini a Clio che a Momo, vogliate però credere per certo – perdonando benignamente la leggerezza di quel me più giovane (la cui creazione infine non mi sento di sottoporre a braghettonatura, perché, com’è “per legame musaico armonizzata”, perderebbe tutta la sua armonia) – che tutta la tractatio o narratio racchiusa nel presente volumetto ha da essere intesa, dall’incipit all’excipit, come discorso ironico nel quale non si vuole esporre *ciò che fu*, ma *ciò che alcuni dicono che fosse *; vi si irridono insomma non l’oggetto delle storiografie, ma gli storiografi. E non bastasse l’Ironia a far fede dell’assenza, qui, d’alcun movente antiborbonico, vi è l’Iperbole, con tante e tali reductiones ad absurdum – su ogni tema e a ogni minima occasione – da solvere ogni nebula di dubbio.”

    […]

    http://www.lavieri.it/Catalogo/A-libri/arno/prove.htm

  7. Salve :) Apprezzo sia i disinteressati gentili consigli dell’uno, sia le opere di selectio e transcriptio degli altri tese a smacchiarmi dall’«accusa» di iperneoclassicismo. Chiarisco l’evoluzione del canzoniere dai 17 anni ai 40 (tralasciando i puerilia, datanti dal 1976):

    1986. Imitazione cieca dei classici, in ispecie di Foscolo e Leopardi, con linguaggio follemente anacronistico.

    1987-1994. Svecchiamento.

    1995. Impennata espressionistica con poemetti grotteschi e meravigliosi costruiti secondo un metodo «dialettico» o «sintetico» (L’INSECTARIUM DEI BURATTINI).

    1996-2002. Prosecuzione dello sperimentalismo più o meno ludico (fino a STORIA DI UN UMANESIMO NEGATO ovvero UN SONETTO ED I SUOI ANAGRAMMI).

    2003-2007. «Regressione» lirico-sentimentale, fino alle spudoratamente neoclassiche sestine (inoltre almeno dal 2005 non riesco, pare, a scrivere in altro che in endecasillabi e settenari; e già del 2002 è il poema, tutto pseudodantesco sebben per goliardia, HYPNEROTOMACHIA PALASCIANI).

    2008. Recupero della vena grottesca, ma in sovrapposizione al neoclassicismo (sempre del 2008 è il sonetto filosofico, con apocopi da brivido, «L’alta Poesia, il fiore luminoso»), vertice l’IPERSONETTO DE’ MESI, miscuglio di diaristica mitizzata e di ludolinguistica acrobatica.

  8. per quelli che non posson leggere l’ipersonetto su fb lo copincollo qui:

    Vetrinetta lirica n. 2: IPERSONETTO DE’ MESI, X (2008)
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    mercoledì 15 aprile 2009 alle ore 16.34
    A chiusa di ogni verso dell’Ipersonetto de’ mesi si trova – integra o scissa, separata o fusa – la parola a chiusa del verso corrispondente nei Sonetti de’ mesi di Folgóre da San Gimignano (dei quali ricorrerà nel 2009, to’, il 700° anniversario); vincolo che si aggiunge a quello di scrivere i sonetti dal II al XIII in tempo reale, cioè nei mesi stessi ai quali sono dedicati. (Inoltre all’interno di ciascuno dei quattordici sonetti si cela una parola ricorrente – di cinque lettere, salvo abbreviazioni – atta ad indicare quell’oggetto desueto, e dalla forma irregolare, e mòtile, nel quale il presente ipersonetto è radicato.)

    FOLGÓRE DA SAN GIMIGNANO
    X. Di settembre
    Di settembre vi do diletti tanti:
    falconi, astori, smerletti, sparvieri;
    lunghe, gherbegli, geti con carnieri,
    bracchetti con sonagli, pasti e guanti;

    bolz’e balestre dritt’e ben portanti,
    archi, strali, pallotte e pallottieri;
    sianvi mudati girfalchi ed astieri
    nidaci e di tutt’altri ucce’ volanti,

    che fosser buoni da snidar e prendere:
    e l’un all’altro tuttavia donando,
    e possasi rubar e non contendere;

    quando con altra gente rincontrando,
    le vostre borse sempre aconce a spendere,
    e tutti abbiate l’avarizia in bando.

  9. Ma Teq!!!!!!! hai copiato solo il sonetto di Folgóre, e ti sei scordato il mio. Che teqsta, che teqsta… Ora provvedo:

    MARCO PALASCIANO

    X. Dove parla ad Abele
    Osiride nel regno delle ombre

    Caini pazzi ne ho veduti tanti
    (Seth embri): di fuor passeri, sparvieri
    nel cuore; bracconieri coi carnieri
    pieni di tue zooincarnazioni, e i guanti

    lesti ai rimesti visceroasportanti;
    pallisti salottieri (pallottieri)
    mò belli a paruluni furastieri,
    mò bestie sbattipugni sui volanti

    se non han piú argomenti… e tu a comprendere,
    ogni volta, e ad andare perdonando,
    scordando fin l’oggetto del contendere,

    e ogni volta di nuovo rincontrando
    tradimento e empietà: a che valse spendere
    cosí la vita, amor morte incubando?

    10 settembre 2008

    Note
    ● SETH: nome del fratello fratricida di Osiride.
    ● EMBRI: variante medievale di «ebbri».
    ● AMOR MORTE INCUBANDO: se l’amore incuba la morte.

  10. Effettivamente avevo intuito giusto, caro Marco, lei ha una vena parodistica straordinaria. Chapeau! (Amo molto la forma sonetto. A proposito, li ha pubblicati? e se sì, dove, con chi?). Inoltre lei ha uno sviscerato amore per le “lettere”, il che non guasta. Comunque, vuole un “non paterno” consiglio? Lei ha ha ben digerito i classici… se ne allontani di corsa e cammini sulle sue gambe. Che sono ben salde, glielo assicuro. A proposito, ha letto Giorgio Manganelli? Se non lo ha fatto, non se lo perda.
    I miei complimenti.

  11. @ marco

    che provvedi tu divin provvidente alla di vin teqstanca ved’io or ora, ma sai com’è l’oste della malora d’infero s’inferma e improvvidente: ratto gli fu il ratto d’una perente perizia o da folgore che folgora

    un abbraccio a tutti i commensali

  12. @marco palasciano
    Sì, si capisce. E’ l’incipt fatto di quella sorta di “ablativo assoluto” (morto ti penserò…), giustapposto a quel “che mi teneva in vita” a segnalare che il “morto” è il poeta, io narrante. A me, inoltre, piace, quella sorta di gioco di specchi dato da “io” “lui” e “ti”.
    Se mi è consentito per ragioni di metrica , per mantenere più puro e fluido il ritmo dell’endecasillabo, proporrei al verso 3 questa variante :” in cui fluirà un nulla omeopatico” e al verso 9 “d’un futuro stato fantasmatico”.
    Chiudo facendole omaggio di questo sonetto :

    ANIMALI DI SILENZIO, NEI COVI

    Su una locuzione estratta da un verso
    dei SONETTI A ORFEO di R .M .Rilke

    Animali di silenzio nei covi
    miscredenti e miscreduti rovi
    ardenti di passioni dalle tane
    risorgenti e ceneri d’insane

    isterie sottratte al dubbio e vane
    allo sguardo ubiquo dell’inane..
    piangenti non al dio venduti nuovi
    idoli il cui stigma non rimuovi

    a noi tu dici è dato sapere
    tutto ciò che in morte ci allontana :
    è festa e salvezza e dovere

    sconosciuto non oblio e potere
    tendere le labbra a quest’umana
    attesa riconoscerne il piacere..

    S. D. A. , 14 . 3 . 2008

  13. Ehm… sì, grazie, ma… continuo a preferire «in cui scorrerà un nulla ma omeopatico», per ragioni semantiche: «scorrere» può sollecitare nel cervello con immediatezza, contrappunto subliminale, lo scorrere del tempo, ma «fluire» no; e il «ma» serve, perché ha un sapore di consolazione. Quanto a «d’un futuro stato fantasmatico», non è certamente un endecasillabo dal ritmo più puro e fluido, dato che manca una sillaba. Anche nel sonetto gentile omaggio ci sono endecasillabi che in realtà, inequivocabilmente, sono dei decasillabi («a noi tu dici è dato sapere», «tendere le labbra a quest’umana»); e altri il cui ritmo è piuttosto impuro e influido («Animali di silenzio nei covi», «sconosciuto non oblio e potere»), né a maiore né a minore…; e altri ancora che possono considerarsi endecasillabi, e non decasillabi, solo a prezzo di dialefi più o meno forzose (massime «tutto ciò che in morte ci allontana»).

  14. @marco palasciano

    com’è giusto che sia, l’autore ha sempre una motivazione più articolata rispetto all’osservazione del lettore, a lui appartiene l’ultima parola, come il copyright dell’opera. Mi creda, la mia era solo una innocente osservazione alquanto priva di malizia, perchè, avendo il vizio d’origine d’una formazione classica, i ricordi di scuola affiorano e la tentazione dell’accademia prima o poi finisce col prevalere. Che posso fare, trovandomi nell’ACCADEMIA PALASCIANIA? Non mi rimane che percorrere questo terreno e rimanerne…impaniato. Allora, se non sembrerà troppo noioso ai lettori e a lei (che intuisco essere persona di spirito), provo a indossare i panni di “scuola” e a motivare le mie osservazioni, al di là delle sue scelte per motivi semantici.
    Il metro, dunque:

    Verso 3 di ELEGIA : “in- cui- scor-re-rà- un- nul-la-// ma- o-meo-pa-ti-co : 14 sillabe. Ora, applicando la figura metrica della sinalefe (nonché sincrasi ritmica) tra “scor-rer’un/nul-la” e tra “m’o-meò-pa-ti-co”, ne vien fuori : “in-cui-scor-re-run-nul-la-m’ò-meò-pa-ti-co” : cosa che tra l’altro risulterebbe arbitraria alla luce delle sue motivazione di carattere semantico, in quanto, preferendo lei il permanere del sema “ma” a sottolineare la volontà consolatoria – e ciò presuppone, ritmicamente, una pausa o iato ritmico: dunque cadrebbe la sincrasi ritmica e di conseguenza la sinalefe. Ma accettando la pura applicazione letterale della doppia sinalefe e sincrasi ritmica, sono sempre 12 sillabe, dunque non più un endecasillabo, ma un dodecasillabo.

    A meno che “in-cui” diventi, per sincrasi, “incù”. Ma a questo punto come si fa a unire due vocali accentate, quali” ìn-cùi”,appartenenti a due diverse parole-sillabe e che non risultano in fin di parola né all’inizio della successiva? Dovrebbe, invece, applicarsi la figura metrica opposta, cioè la dialefe ( e allora risiamo a due sillabe). Prendendo ciò per buono, e applicando la ritmica non più italiana, ma classica (quella greca), considerando ancipite l’inizio del verso, come una sorta di anapesto (“incù” quale sequenza di accento breve lungo ˇ ˉ e troncamento dell’i, ne verrà fuori “incù-scorrerùn-nullàm’òmeò-pàtico”: ritmicamente saremmo a 11 sillabe, ma cadrebbero le motivazioni semantiche, che suonano, nel contesto da lei dato, pleonastiche – mi perdoni –

    Infatti lesi scrive “in cui scorrerà un nulla// ma omeopatico” La cosa sarebbe coerente e nient’affatto pleonastica se il verso fosse “in cui scorrerà il nulla (pausa) ma omeopatico”.L’ aggettivo indeterminativo “un” davanti al sostantivo “nulla” , nel contesto semantico dato presuppone “naturalmente” di essere seguito dal qualificativo “omeopatico”, proprio per le ragioni semantiche (consolatorie) da lei addotte. Diversamernte quel “ma” suona pleonastico . Senza contare ( e tornando alla metrica) che saremmo all’”invasione di campo” tra metrica italiana e metrica greca antica: il che –per stare al gioco- sarebbe “poco accademico”.

    Verso 9 di ELEGIA : “del- mio- fu-tu-ro- sta-to- fan-ta-sma-ti-co – “: 12 sillabe. E qui non so che figura metrica o crasi ritmica applicare per ridurre a endecasillabo il verso, non potendo applicare la figura della sinalefe, non essendovi vocali in fin di parola seguite da altrettante all’inizio della successiva A meno che non applichiamo un “fiorentinismo” attraverso una apocope grafica a “mio” e lo trasformiamo in mi’ sì che ne possa venir fuori “delmì- fu-tu-ro-sta-to-fan-ta-sma-ti-co”. Ma se poi leggo l’ELEGIA, secondo questo rigido schema accademico, poi non viene più fuori un ritmo e/o un tono elegiaco, ma una sorta di “foxtrot” saltellante. (Oddio, somma intuizione! Che stia in “questo” ritmo da “foxtrot saltellante” lo stile parodistico dell’accademico palasciano?…e questa, mi creda, davvero è venuta fuori “in progress”, nel corso dello sviluppo del ragionamento. Il che l’assolverebbe e ricondurrebbe il tutto alla sua vena giocosa e parodistica; insomma , saremmo di fronte alla parodia dell’elegia. E non c’è nulla di male. Anzi.).
    “ D’UN-FU-TU-RO-STA-TO-FAN-TA-SMA-TI-CO : 11 sillabe, endecasillabo perfetto. Perché dice manca una sillaba?

    Infine , il sonetto omaggio. Lungi da me un qualsiasi auto giudizio di valore. Essendo un semplice dilettante, avevo fatto un esperimento. Per amore del sonetto e delle sue infinite possibilità e duttilità, nonostante la apparente struttura conchiusa. Urge, alla luce di quanto da lei osservato, fare delle precisazioni .

    Avrà notato, sospensivi e i due punti a parte, l’assenza di punteggiatura . Con ciò ho inteso fare un esperimento “ritmico”, tutto poggiato sulla “recitazione” e “dizione” : potremmo definirlo un sonetto “verbo-visuale.” . Infatti, si presta a tre, quattro e cinque diverse impostazioni di lettura, con dilatazione e /o contrazione del ritmo interno e dei tempi. E’ tutto giocato sull’ uso delle figure tradizionali delle sineresi, sinalefi , dialefi e sincrasi che diventano “nuove” (ma non troppo) in virtù dell’assenza di punteggiatura , sostituita da “iato ritmico” o dal suo contrario.

    Vengo alle sue osservazioni metriche:
    A – NOI- // tu- dici- // è – da-to- sa-pe-re : 11 sillabe, dove il doppio segno // indica una doppia pausa nella dizione “a noi , tu dici, è dato sapere, con una inflessione ironico/sarcastica/ tra l’interrogativo e l’esclamativo.

    “Ten-de-re- le lab-bra- // a/ que- st’u-ma-na” ….11 sillabe, essendovi uno iato ritmico nella dizione tra la parola “labbra” e la successiva preposizione vocalica “a”, che forma battuta ritmica a sé.
    “Tut-to-ciò- che – IN – MOR-TE – ci al-lon-ta-na : 11 sillabe, applicandosi la sinalefe o crasi ritmica nella dizione solo a “c’allontana”. Dica “ci allontana”: chi ascolta percepisce una “naturale “sinalefe” tra “a” e “i” . Mentre IN MORTE, si stacca, nel corso della dizione, per mettere in rilievo il valore “semantico” della locuzione.
    Lungi da me ogni intenzione di “purezza e fluidità” intesa dal punto di vista “accademico”.L’ho detto, il mio è un esperimento. Ma poiché mi trovo nell’ACCADEMIA PALASCIANIA, meglio puntualizzare :

    A-ni-ma-li- di- si-len-zio- nei- co-vi : 11 sillabe
    mi-scre-den-ti-// e – mi-scre-du-ti- ro-vi : 11 sillabe
    ar-den-ti- di- pas-sio-ni- dal-le- ta-ne : 11 sillabe
    ri-sor-gen-ti-// e- ce-ne-ri- d’in-sa-ne : 11 sillabe
    i-ste-rie- sot-trat-te al- dub-bio//- e- va-ne : 11 sillabe, dialefe/crasi ritmica in “sottratt’al “
    al-lo- sguar-do-// u-bi-quo-// del -l’i -na-ne.. : 11 sillabe, dove UBIQUO è accentato da doppio iato.
    pian-gen-ti- non- al- dio- ven-du-ti- nuo-vi : 11 SILLABE , dove NON è accentuato da iato doppio
    //i-do-li-// il- cui –sti-gma- non- ri-muo-vi : 11 sillabe, dove IDOLI è tra due iati ritmici
    a –noi- // tu- di-ci-// è – da-to- sa-pe-re : 11 sillabe, TU DICI tra due iati ritmici
    tut-to- ciò- che-// in- mor-te // ci al-lon-ta-na : 11 , IN MORTE , due iati e sinalefe ritmica in “ci-al”
    è –fe-sta-// e- sal-vez-za //e –do-ve-re-: 11, doppi iati, con ritmo “in calando”
    sco-no-sciu-to-// non-// ob-lio// e- po-te-re:11, doppi iati, con ritmo “in calando”
    ten-de-re- le- lab-bra-// a –que-st’u-ma-na : 11 , iato, con ritmo “in calando”e enjambement con:
    at-te-sa-// ri-co-no-scer-ne- il- pia-ce-re.. : 11, sia che si consideri l’enjambement tra “uman’at-tesa” oppure, viceversa , dialefe ritmica tra eri conoscer-n-il- piacere. Ad estro del “recitante”.
    Dunque classico sonetto, con schema metrico abbastanza nuovo, scandito da rimatura a schema AABB-BBAA-CDC-CDC. Che, nelle mie intenzioni, dovrebbe consentire al “recitante” di dilatare e/o comprimere i tempi della “recitazione”, con un ritmo scandito e incalzante nelle due quartine e andante e “in calando” nelle due terzine, classicamente “petrarchesche” nella rimatura c-d-c-c-d-c.

    Ma tutte queste sono chiacchiere d’accademia.

    Spero di non avere annoiato i lettori e lei. E non se la prenda, sia sempre giocoso come appare nel suo blog. Ma infine : avrò superato l’esame per essere ammesso quale “genio minore” nell’ACCADEMIA PALASCIANIA?

    (PS Ordinerò immantinente a LAVIERI il libro suggeritomi da Domenico PINTO, e sono certo che mi divertirò).

    Ad maiora. E, ricascandoci, le faccio omaggio d’un ulteriore sonetto :

    SINTAGMI FONEMI SENSO CON SUONO

    sintagmi fonemi //senso con suono
    salmastro grido lunare// con tuono
    sanguinante di silenzio// sognante
    grido velare// pensiero vibrante

    di segni// persino poema con fante
    ferito e cavallo// pasto fumante//
    lessema// turno// notturno frastuono
    cielo di trama di luce// di buono

    ecco re e regine// ecco i fiumi
    in teorie ecco l’oro// meltemi
    in fluide spire e cori e profumi

    festivi// figli di forme e problemi//
    sintagmi fonemi// colti consumi
    in corpore vili // vuoti teoremi..

    S.D.A. , 31 . 3 . 2008

  15. Oh mio dio ho creato un mostro!!! O_O Non mi sogno nemmeno di avviare analisi metrica del nuovo sonetto… finiremmo nell’abisso. Credevo di essere un maniaco delle esposizioni dettagliate, ma ella mi supera :))))) perciò è ovvio che la reclutiamo all’istante come Socio Ornamentale dell’Accademia Palasciania, con tutti gli onori.

    Quanto al sonetto «Animali di silenzio nei covi», certamente tutti i versi possono essere intesi come endecasillabi, ma a prezzo di forzature dialefiche che personalmente trovo innaturali e antiestetiche; gusto personale, però, appunto. Come pure la mia fobia di quegli endecasillabi che non abbiano accento né sulla quarta né sulla sesta sillaba.

    Tornando a «Elegia», il concetto che avevo in mente al verso 3 resta ben espresso da «un nulla ma omeopatico», poiché intendevo qualcosa come «un fluido buio ma contenente in sé, disciolta infinitamente, della luce, che non si nota e c’è». Quanto alla presunta perdita di «ma», che per la sinalefe diventerebbe «m», davvero non mi sembra che ciò accada, dato che quando leggo la poesia quel «ma», anche sinalefato, si distingue benissimo.

    Poi, riguardo sia al verso 3 sia al verso 9, da ciò che ella dice risulta evidente che c’è un fraintendimento alla base di tutta la sua concezione dell’endecasillabo!!!!!!! infatti quelli sono endecasillabi sdruccioli; che ovviamente hanno dodici sillabe; ma sono assolutamente endecasillabi, e non dodecasillabi, poiché (e mi sembra veramente strano che non lo sappia!) nella metrica italiana la classificazione si basa sulla sillaba dove cade l’ultimo accento: se cade sulla sillaba 10, il verso è endecasillabo, anche se si compone di un numero di sillabe diverso da 11:

    Nel mezzo del cammin di nostro vip
    Nel mezzo del cammin di nostra vita
    Nel mezzo del cammin di nostro Vìtolo

    sono tutti e tre endecasillabi, e NON un decasillabo e un endecasillabo e un dodecasillabo. Per la stessa ragione, «D’un futuro stato fantasmatico» non è non potrà mai essere spacciato per un endecasillabo, perché non è nient’altro che un decasillabo sdrucciolo.

    Ma, in compenso, io non so assolutamente nulla di metrica greca né di quella latina. :)))))))

  16. Esempio di variazione metrica, secondo il mio gusto, del sonetto «Animali di silenzio nei covi», però badando solo alla sonorità e non tanto alla felicità dei vocaboli:

    Di silenzio animali dentro i covi
    tra miscredenti e miscreduti rovi
    ardenti di passioni dalle tane
    risorgenti e tra ceneri d’insane

    isterie trafugate al dubbio e vane
    al panoptico sguardo dell’inane…
    piangenti non al dio venduti nuovi
    idoli cui lo stigma non rimuovi

    a noi tu dici è dato di sapere
    tutto quello che in morte ci allontana:
    è festa ed è salvezza ed è dovere

    misconosciuto non oblio e potere
    protendere le labbra a quest’umana
    attesa riconoscerne il piacere…

  17. un helzappoppin sonoro, un’orgia metroprosodica nell’agnizione di due..folli..!! O-O..!! Un abbraccio, sapevo che vi sareste piaciuti, Viola

  18. @ a marco p.

    Evviva sono un SOAP! Accetto tessera e titolo…. ma sempre da “genio minore”, si capisce! Ubi maior, minor cessat! Chapeau per la splendida parodia del mio sonetto ! Nel biennio 2006-2008, non so perchè, in una sorta di coazione a ripetere, o di sindrome complusiva, ne ho scritti circa 230… se sua Signoria Accademica volesse favorire a parodizzarli, ne sarei davvero umilmente onorato.
    @viola
    sempre dolce e signorile! Le sono in debito di un reading!

  19. @ marco p.

    …ah, dimenticavo: i dilettanti li hanno fatti apposta per inquietare gli accademici… e stanno lì proprio per imbrogliare le grammatiche e le…metriche. O no?

  20. («parodia» non so se si possa usare come sinonimo neutro di «riscrittura», neutro cioè senza componente caricaturale.)

    230 in 2 anni!!!!!!!?… O_O

    Oh mio dio, e io che in 33 anni di carriera ne ho scritti solo 2 (decenti)…

  21. @ marco p. @viola (angelo custode)

    Cadùto sulle sdrùcciole, m’affòsso
    in parodìa, la qual – per sua natùra
    altro sem’ hà dal nèutro “riscrittùra”.
    Cosissìa: che fíën l’ erròr rimòsso!

    Umilmente il suo SOAP
    Socio Ornamentale Accademia Palasciania

    Scherzi a parte, caro amico la riscrittura neutra di “animali di silenzio nei covi”, dal punto di visto di una nuova sonorità secondo il suo gusto, oltre ad essere una bella prova della sua -di lei- indubbia abilità tecnica, dimostra la riuscita dell’ “esperimento” (ché di questo si tratta): saggiare le diverse possibili sonorità e soluzioni metriche (e dunque ritmiche), nonostante l’apparente struttura conchiusa del “mezzo”.

    Lo avevo detto, esso si presta a quattro cinque diverse letture ritmiche, in virtù di “quella” struttura, elastica, flessibile : un sonetto aperto, insomma. La riscrittura a suo gusto non fa che darne (autorevole) dimostrazione, avendo lei rimodellato una materia duttile. Le riattesto il sincero apprezzamento- e gli accenti ritmici “regimental”; tuttavia preferisco l’originale, per quanto appena detto. Mi astengo dal farne un’esegesi, fuori luogo nello spazio dei commenti a un post contenente SUOI versi.

    Qui giusto una noterella.

    So benissimo ( anzi no) so per incerto ricordo di scuola che l’endecasillabo deve aver minimo quattro battute ( o accenti) ritmici, di cui l’ultima sulla decima sillaba. Questa è la regola – non scritta- delle accademie. Ma le regole sono fatte per essere infrante, altrimenti non si potrebbe “riscriverle” né riformarle, né vi sarebbe evoluzione di una forma .Le sillabe sdrucciole, a una lettura ritmica, costituiscono comunque “fonemi” o “segmenti minimi di fonemi”- e dunque entità sillabica, da annoverar nel calcolo delle unità fonematiche. Ma , ahimè, sono già sconfitto in partenza: che! vengo a dire ‘ste cose in ACCADEMIA? ma che, so’ pazzo?! Sicuramente lei avrà di che addurre a controprova E a ragion veduta.

    Pertanto caro Marco, scherziamoci su, e mi perdoni se posso suonar canzonatorio, il guaio è che ho questo difetto d’origine (liceo classico), aggravato dall’averlo frequentato negli anni 1968-1974; si: sono stato bocciato un anno): “lei d’angelo mi cade sempre sulle sdrucciole!” diceva – lo giuro!- il vecchio zitellone d’italiano, con un lampo di ritorsione e di perfidia nella voce quand’affrontavamo la metrica, avendomi interrogato –toh!- giusto dopo avermi beccato a pomiciare sotto lo scale del liceo; “ahé d’angelo, tu vuoi fare l’ improvvisatore!…col latino e greco non s’improvvisa, una regola è una regola!” mi soffiava in faccia, complice (per la comune origine campana, eravamo entrambi in altra regione), ma canzonatorio, il giovane professore fresco d’incarico (23 anni, un genio!).. e io che cercavo di dare un “senso meno pedestre” alle traduzioni… o che cercavo di riscrivere a modo mio passi dalle Bucoliche, fottendomene delle regole e della “lettera”.. e quello: “su ripeti: Tìtire, tù patulé recubàns sub tègmine fàgi” e m’invitava a battere le mani a scandire ritmicamente l’esametro, davanti ai compagni di classe PERFIDAMENTE IN DELIQUIO (eravamo in sette: quaranta interrogazioni ciascuno a quadrimestre, quattordici compiti in classe!) “Sesé, mo’ ve le faccio vedere io , le regole!” dicevo tra me meditando vendetta… Insomma, capisce? …

    Ma poi ho imparato che è sempre meglio non prendere e non prendersi troppo sul serio…sempre col massimo rispetto, s’intende!

    Sì, ho scritto 230 sonetti ( di pessima qualità e di tutte le risme : acrostici, petrarcheschi, danteschi, shakespeariani, bembeschi, alla john donne, ceccheschi (angiolieri!), filosofici, simbolici, enigmatici, verbovisuali, elegiaci, amorosi, erotici, in inglese, francese, spagnolo, vernacolari…surreali!..dozzinali, occasionali, encomiastici, celebrativi. e poi carmi figurati, centoni.. ma, ripeto a rassicurare i lettori, rigorosamente di pessima qualità, sicché, qualora volesse riscrivermeli…. Potrebbe venirne fuori un sollazzo, uno scherzo a doppia faccia o a doppia lettura per i “patuti” del genere, chi lo sa!
    In ultimo l’essere assurto a SOAP me ne sta facendo frullare un tre o quattro per la testa ..ma è meglio tacere!

    Chiudo omaggiando lei, la sua vena barocca, nonché la squisita Viola con questo florilegio d’autori DOC :

    ma Palasciàn n’avea lasciati scemi
    di sé, Palasciàn dolcissimo patre, (lei ha detto..”oh dio, ho creato un mostro!” sicché l’adotto)
    Palasciàn a cui per mia salute die’mi;
    né quantunque perdeo l’antica matre,
    valse alle guance nette di rugiada
    che, lacrimando, non tornasser atre.

    Dante, Purgatorio, XXX, 49-54 (guardi, la equiparo a Virgilio)

    ROMEO- O amore attaccabrighe, odio amoroso – o tutto,
    fatto di nulla. O serietà vanesia! O seria vanità! Deforme caos
    di forme leggiadre –piuma di piombo- lucida caligine-fuoco
    di gelo-inferma sanità-insonne sonno che non è quello che è.
    Questo amore sento io, senza sentire amore in tutto questo.

    William Shakespeare, Romeo e Giulietta, atto primo scena prima

    Colui che ingrato m’abbandona, lo voglio amante,
    colui che amante m’insegue, lo lascio ingrata,
    cocciuta adoro chi l’amore mio maltratta,
    maltratto chi il mio amor, cocciuto, cerca.

    Colui a cui devolvo amor si fa diamante,
    fie’mi diamante per colui che mi devolve amor
    trionfante voglio veder colui che m’uccide
    e uccido colui che mi vuol veder trionfante.

    Suor Juana Inés de la Cruz, poetessa messicana di fine Seicento

    Ma sovr’ogni augellin vago e gentile
    che più spieghi leggiadro il canto e ‘l volo
    versa il suo spirto tremulo e sottile
    la sirena de’ boschi, il rosignuolo;
    e tempra in guisa il peregrino stile
    che par maestro d’alato stuolo.
    In mille fogge il suo cantar distingue
    e trasforma una lingua in mille lingue

    Gian Battista Marino, L’Adone, canto VII, ottava 32 ( poteva mancare l’incubo del mio liceo?)

    Che dice, dopo cotanto dire, posso sperar o ambire, o anche ascendere da SOAP a SOAP? (da Socio Ornamentale, a Socio Onorario dell’Accademia Palasciania?)

    Cazzimmosamente suo
    Salvatore D’Angelo

    NOTA.
    Tutte le citazioni, rivedute e adattate, sono tratte da Dacia Maraini, Amata scrittura, Rizzoli 2002,
    tranne la pessima quartina d’incipit, creazione occasionale dell’ umilmente suo Salvatore D’Angelo.

  22. Proprio ELEGIA, la poesia che lascia l’autore più dubbioso, è a mio avviso di gran lunga la migliore, libera dalla morsa della retorica. In questa lirica il sentimento, anzi il sentire, scorre libero, precipita felice a un finale esteticamente inevitabile e a un senso sensato; e quando si percepisce, in un testo, l’inevitabilità, quello è sicuro segno d’ispirazione autentica. Gli altri brani invece suonano davvero soltanto come rifacimenti, esercizi, scimmiottamenti d’illustri e obsoleti modelli. Talora un notevole carico di cultura può nuocere, se non è accompagnato da un’originalità di pensiero capace d’emanciparsene. Lo stesso Leopardi, prima dell’INFINITO, gioca a mimare e rifare, scaltrito, erudito ma pesante e pedante; e L’INFINITO compie uno scarto che nessuno, partendo dai pur stupefacenti puerilia sino al 1819, avrebbe potuto prevedere o immaginare. Credo che la poesia autentica si crei laddove l’autore non pecca assolutamente, nemmeno in minima parte, di posa; quando si mette a nudo, inchiodato al muro della vita; ma ciò non consiste in un atteggiamento esteriore, e nemmeno della volontà cosciente; si tratta d’una caduta, o ascesa, ad altro, che si può corteggiare con l’allenamento anche strenuo ma che è, in definitiva, uno sperare nel miracolo; di una concentrazione nei propri più intimi e cosmici risucchi, laddove ciò che si è letto e studiato decanta magicamente in aiuto, forgia, ritocco minimo ma aureo. Ciò che, nelle altre quattro poesie di Palasciano, secondo me non accade. Di conseguenza le discussioni stilistiche, anche approfondite e particolareggiate, perdono significato: giacché si sta vestendo un corpo che non esiste.

  23. Nooooooooooooooooo!!!!!!! non è possibile… «Antimateria», a parte che è nata da un’ispirazione che più autentica di così nessuno può, ha commosso vagoni di lettori e di ascoltatori i più raffinati! E la sestina II, è un condensato di vissuto e di pensato tale che non ha eguali in tutta la mia produzione poetica, tanto che da ogni suo segmento si può dipartire un raggio perpendicolare che porta a un semiocculto lampadario di epifanie e apofanie… Quale “corpo che non esiste”???

    Perché farsi influenzare nel giudizio dallo stile “obsoleto”? e perché considerare obsoleti dei modelli solo perché appartengono a un tempo passato? Che cos’è un paio di secoli se non un battito di ciglia?

    Io sono per una riforma stravolgente dell’italiano, acché accolga tutti i registri di tutte le epoche: così che lo scrivente disponga, a morte il giornalistico a cinquecento parole, di un’orchestra immensa da far sonare.

    Questi suoni mi piacciono da pazzi, e li uso: perché impedirmelo? GODO smisuratamente a far rotolare il ritmo dell’endecasillabo nella mia bocca e sulla carta, e quanto più l’endecasillabo è filigranato di classicheria tanto più alta è la mia voluttà… Non mi castrerò in nome di un contemporaneismo di facciata!

    Non si può neanche dire che io non mi metta a nudo, scrivendo come scrivo; perché io, dentro, sono esattamente così; ribollo di musica stratificata, le mie passioni danzano secondo quei ritmi là, quelle voci inzuppate di dantesco ecc.; ma so, so bene, che c’è chi soffre di apocopofobia…

    Ebbene, essi si curino; rinuncino all’insano pregiudizio; cessino di confondere il panstilismo palascianesco con l’ingenuità dei poetucoli che non hanno mai letto il Novecento. Il Novecento io l’ho letto tutto quanto e, ciononostante, il mio ultimo approdo, nel Duemila, è il resuscitìo delle parole che si credevano morte, ma che dentro le tombe loro saltellavano facendo trallallà; e ora saltellano all’aria del mio giardino, in compagnia delle parole che si credevano le sole vive, senza contare gli hapax che m’invento.

    Tutte insieme cantano e ballano, e ce la ridiamo dei compassati snudaccioni basso-poeticanti che non sanno cantar che noie estreme, che si credono furbe e sono sceme; e noi, che facciamo gli scemi per non andare alla guerra, noiosissima guerra dei battoni, non abbiamo la menoma tentazione di menomarci per andare incontro al gusto disgustoso dell’essercito molto dei dappoco, che siccome non sanno gestire un semanticario di ottocento anni vogliono farci credere che la nostra virtù sia un vizio, e che il loro difetto sia ‘a meglia cosa.

    Non lei, gentilissimo/a Diamante; ma quegli altri, che hanno corrotto il suo giudizio con la loro pressione moltitudinaria, abitudinaria, disabituata allo splendore del disabitato. Sì! essi l’accerchiano, con la loro presenza presenzialista presentista; ed è come quando si ha la disgrazia di nascere in un paese ipercattolico, talché i memi della grande psicofogna intridono i tessuti a fondo e per purificarli ce ne vuole, e meno male che dentro me medesimo ho un alto sole che dissecca il putrido, sebbene tante nubi me l’abbiano accerchiato lungo tempo.

    Si liberi Ella dunque di quei cani, il cui abbaìo l’abbaglia; e si getti fiducioso/a nell’abisso del palascianesimo; che se non cambierà il mondo, sarà un peccato per il mondo, misero mondo lineare che non sa e non vuole attorcersi all’indietro per meglio guardare avanti. Eppure basterebbe un goccio di non dico follia, né iper-ratio, ma la sintesi dialettica delle due, o insomma qualsiasi cosa ma non – per favore – la pedissequa condanna del pedissequo.

    (Cmq, più va avanti questa discussione e più mi convinco che «Elegia» è una merda: ma che bastiancontrari che SIETE!)

  24. Pala, Lei è talmente *fuori* che, al suo confronto, un balcone fiorito ci fa la figura di un muffo ricettacolo irragnatelato nelle cantine di una bettola di angiporto…

    … ma, mi creda, davvero: la sua *fuoritudine* è uno dei rarissimi lampi di intelligenza e di genialità pura che, di tanto in tanto, sempre più raramente, attraversano il campo sterpaglioso delle lettere, in questo paese di tristi cantores dediti alla masturbatio grillorum, quando non completamente infognati e castrati nello spirito.

    Complimenti.

  25. Scordavo di precisare intanto al M° D’Angelo (che quanto a fuoritudine pure non scherza) che «Socio Ornamentale» e «Socio Onorario» vogliono dire esattamente la stessa cosa, e si usa l’una o l’altra espressione a seconda della seriosità del tizio: se è serioso, farà un sacco di storie noiose davanti a «Socio Ornamentale», e quindi per farlo stare zitto ci toccherà usare «Socio Onorario». Per non fare capire se è serioso o no, in ispecie se c’è da celarne l’identità per qualche gioco, si può dire neutramente «un nostro accademico». Vedasi il blog dell’Accademia, divertendosi a sgamare i seriosoni…

  26. Premetto dicendo che sono d’accordissimo con il buon Dott Baudo; “Antimateria”, secondo il mio modestissimo parere, è quella che colpisce di più, immergendo il lettore fino in fondo nello stile palascianista: uno stile singolare, umoristico e profondo. Un modo di scrivere che distorce la realtà, per poi ricrearla secondo canoni propri che però non la stravolgono del tutto.
    Caro Marco tranquilliza la tua anima: si capisce in “Elegia la morte del poeta.
    Infine ti consiglio di dare un bacio al sig Carrino per aver salvato “Delirio/desiderio, alba, infinito” dai ceppi ardenti del camino

  27. “noiosissima guerra dei battoni” , è un incanto ..cmq lasciami elegia..anche il composto organico ha la sua innocente e feconda origo…sua Accademica, ahimè, al momento poco Ornamentale, V.

  28. Come!!! ella Viola è l’Ornamento supremo, è il pennacchino sul berretto dell’Accademia. (Ah! di «Elegia» ho finora dimenticato di narrare la genesi parzialmente parassitaria; più tardi lo farò; ora sfuggo.) Ossequi.

  29. l’annichiliazione tra materia e antimateria sprigiona un energia enorme…. come la tua poesia…. hahaha la verità è che non sono per niente un intenditore di poesie…pero’ mi piacciono molto. Solo questo so dire.

  30. @palasciano
    Non metto in discussione la Sua autenticità, ma parlo dell’effetto che le Sue liriche hanno operato su di me – con tutti i limiti della mia interpretazione. Nessuno, comunque, dei precedenti post m’ha condizionato. Quanto alla vera poesia, quella è certamente senza tempo, eterna come l’eternità, non catalogabile in epoche o correnti. E però, se Lei ha letto UNA MAPPA DELLA DISLETTURA o L’ANGOSCIA DELL’INFLUENZA di Harold Bloom (critico peraltro spesso fallace, ma in tal caso a mio avviso attendibile), converrà forse che dati modelli sono pericolosi da imitare, senza che se ne venga schiacciati e direi obnubilati seduta stante (anche se io sono per una infinita spericolatezza, altrimenti meglio tacere). Per me, la poesia è un linguaggio che aderisca allo spirito del tempo, che ne tenga un diario valido per oggi, domani, dopodomani, che indichi i “fiumi a nord del futuro” di Celan; in tal senso persino Dante m’appare, rispetto ai problemi dell’uomo d’oggi, talora (non sempre) “semplicemente” grandezza estetica, semplicemente oramai-non-più-dopodomani; e la grandezza estetica non può bastare apriori, non può dall’orecchio giungere tutte le volte al cuore, per quanto straboccante sia. Grandezza estetica che, mi permetto, non ho riscontrato nei Suoi giochi linguistici – ché giochi alle volte, non ad ogni rigo beninteso, mi sono parsi, un indugiare sopra certa abilità d’accostamento rapido, di assonanza, di fratellanza fonica, di rete semantica che non significa però automaticamente senso profondo, scavo animico. Ripeto: ELEGIA delle cinque liriche è la più vicina al lampo, la più prossima a quella zona franca dello spirito dove, se la cultura e la memoria letteraria e la perizia linguistica arrivano lo fanno dilavate, pallide, in una sorta d’alba dello spirito, da primo giorno dell’esistenza, anzi della creazione, una volta ancora, commosse e commoventi.

  31. Caro, caro, caro, e poi ancora caro Palasciano, la sua stupefatta e virginea dichiarazione d’intenti, e di intendimenti, mi sommuove a una altrettale sincera inarrestabile effusione – come se Ella, et Ella solum, con la sua parola humìlde e ardìta, avesse acceso al moto, entro un immobile alfabeto catartico, scariche di accenti ancestrali aprioristicamente in attesa sulle labbra di un àuting primigenio. Sì, Glielo confesso, Glielo debbo: sono felicemente, irreversibilmente, irrecuperabilmente lesbico.

  32. @Portinaia
    Dal ridere??? uhm… e che siamo, qua, i pagliaccetti abbecedati del teatrino filologico??? Cmq! signora Portinaia, le conviene cambiar padrone, giacché la Crusca sta per esser soppiantata da tutt’altra Accademia ;) http://palasciania.splinder.com/post/20581679 Venga, venga a portinaiar a noi, ché la Crusca – buon diavolo – va tutta in crusca! Quanto agl’altri cortesi interloquenti,

    @Baudo
    ;) Ella NON somiglia a Pippo Baudo, vero?

    @Danilo
    ;)

    @Diamante
    Ma come!!!!! non si vede il senso profondo e lo scavo animico??????? oh mmio ddio, ora non ho la forza (sono pure sotto antibiotico) di stilare tutte le chiose che la sestina II meriterebbe, ma la prego di credermi sulla parola se le dico che è d’una densità che manco gli elementi transuranici; è pure passata attraverso più di trenta versioni, né c’è una poesia più limata per tutto il Parnaso; contiene in cifra più o meno cifrata tutto il bene e le pene della mia esistenza, il riflesso di cose alte e abissali di cui mò – pensandoci – sotto gli occhi della Portinaia predisposta all’irrisione universale non potrei aver cuore di trattare… quindi basti dire che… de gustibus non.

    Di «Elegia», come già dissi a madame V., tratterò magari più avanti, geneticamente; cmq è decisamente una poesia ruffiana, la più sfondata: e mi spiace funzioni così tanto.

    A proposito, mi viene in mente la poetessa laziale C. Carità: qualcuno di voi ha già avuto sott’occhio le seguenti poesie? ecco, non parli se non chi le legge per la prima volta; e ditemi qua un po’ che ne pensate. Poi riprendiamo tutt’il gran discorso…
    ________________________________________________

    PASSATO

    Nostalgie
    da scordare nel vento

    Tradimenti
    d’un cuore che si colora
    al richiamo
    d’una bimba perduta

    Rispose la mia anima
    con ali silenziose di fantasia

    Tra i palpiti
    guardavo la magia di quella rosa ferita
    ________________________________________________

    VITA

    Ho racchiuso
    i sussurri del destino
    in me
    nascondendoli
    dietro una pioggia di parole

    Non ho paura di morire
    ________________________________________________

    RIBELLE

    Solo chi conosce gli usignoli
    sa dove cercare le stelle
    viaggiando in un riflesso

    Eccolo
    il ribelle delle nuvole
    _______________________________________________

    CONSOLATIO

    La favola è passata
    ma resta la luna
    la mia vita baciata
    dal canto della notte
    ________________________________________________

    PIANTO

    Un singhiozzo balugina

    Dico addio ai sogni
    e mi addormento
    ________________________________________________

    VEGLIA

    Assorta
    nell’attesa dell’alba
    suggo brina di ricordi
    dal mare del dolore

  33. Caro Palasciano, lei mi sta mettendo veramente in crisi, dal momento che, òr òr, mi costringe, nevvèr, ad autingàrmi ancòr…

    Ed eccomi, completamente nudo: in verità, in verità Le dico che il nome mio nel vèr è G. Baud, humìle rappresentante di cinture di castrità, in Italia per rendere visita al vecchio genitore (il prode “robivecchi: magari lo ricorda).

    La “o l’ho aggiunta, venendo qui in Natione, per somigliare a Lui, e darmi vanto di fine intenditore, intellettual di nobiltate e rango…

    Ma, ahimè, me misero, alfin son disvelato: anore non perdona, giammai giammai perdona!

    p.s.

    1) Fremo già, dall’alluce al capello, sol’all’idea della trattazione genetica dell’«Elegia»;

    2) ma faccia presto, la priego!!!: la Carità mi lascia senza fiato e il mio destin, lasciato qui in apnea, è il tubo de lo gas, a cui in cucina tendo…

  34. Come avrebbe convenuto il convoluto Eraclito di via San Simpliciano.

    “I doppioni li voglio, tutti, per mania di possesso e per cupidigia di ricchezze: e voglio anche i triploni, e i quadruploni, sebbene il Re Cattolico non li abbia ancora monetati: e tutti i sinonimi, usati nelle loro variegate accezioni e sfumature, d’uso corrente, o d’uso raro rarissimo. Sicché dò palla nera alla proposta del sommo e venerato Alessandro, che vorrebbe nientedimeno potare, ecc. ecc.: per unificare e codificare: “dentro le leggi, trassi il troppo e ‘l vano”. Non esistono il troppo né il vano, per una lingua.

    Le variazioni lessicali (sinonimi) e le varianti ortoepiche (riescire e riuscire, adacquare e dacquare, in aferesi) mi vengono buone secondo collocazione per varare al meglio o per varare all’ottimo la clausola prosodica. Fra l’altro. Così al vetturino e al cavallante vengon buoni i di molti fagotti e valigie di vario formato, onde riesce a inzeppare lo spazio del bagagliaio, a colmare i vuoti.
    L’Omero è pieno di zeppe monosillabiche, se non esclusivamente ascritte a ragioni di misura. E in lingua nostra, che la parola si può stirare, contrarre e metastare (palude, padule: femminile e maschile) secondo libidine, come la fusse una pasticca tra i denti, ecco qua: si potrebb’essere Omero senza zeppe.”

    Non è per piaggeria se uso il Sommo per chiamare “Omero senza zeppe” Marco Palasciano.

    E per tutto ringraziamento degli scambi con cui ci ha allietato in questi giorni, ripropongo lo scambio gentile tra due appartenenti ad altra accademia: lo Studio Fiorentino, che allietò a suo tempo gli amanti di poesia, e senza la quale io non sarei qui, lodando il Palasciano, a trilodare i Sommi:

    Così scriveva il Varchi:

    “ Sacre muse toscane, o voi mi date
    un dolce stil quale ha il mio Bernia, od io
    tacerò sempre e frenarò il disio
    di lodar lui, che voi sì forte amate.
    Le pure rime sue, senza arte ornate,
    non lungi molto a quelle van che ‘l dio
    di Cinto canta ad Euterpe e Clio,
    onde ben puonno al mondo esser lodate.
    E se pur solo a lui concesso avete
    sì raro don, sospesa a questo pino
    muta sempre starà la mia sampogna”.
    Così come uom che le sue voglie sogna,
    dicea Damon, quasi invidiando Elpino.
    Or tace, e del tacer bel frutto miete.

    E così rispondeva il Berni:

    Varchi, quanto più lode voi mi date
    tanto più l’aborrisco e rifiuto io,
    che so che vinto da gentil disio
    altri più che voi stesso a torto amate.
    Le rime mie, senza arte e non ornate,
    assai lontan da quelle van che ‘l dio
    di Cinto canta ad Euterpe e Clio
    e dalle vostre, a gran ragion lodate;
    da quelle che d’altrui diverse avete
    quanto l’umil ginebro all’alto pino,
    da stridol canna nobile sampogna,
    quanto dall’uom ch’è desto a quel che sogna.
    Or canti il buon Damone e taccia Elpino,
    ch’ei sol del suo bel dir buon frutto miete.

    Naturalmente le poesie andrebbero lette a voce alta, accompagnate, effeffianamente, da questa musica:

    http://www.youtube.com/watch?v=FcFyl8amoEE

  35. @palasciano
    Delle poesie da Lei proposte di Carità, soltanto RIBELLE e VEGLIA mi sembrano avere un qualche valore, dato che baluginano espressioni d’una certa originalità; sono, in effetti, poesie contrarie, antonimiche alle Sue; ma la loro brevità non equivale a lampo e profondità; restano in superficie, sugheri sul mare del senso. E come sugheri restano a galla, invece occorre esser palombari.

  36. Palasciano,
    Lei allora dice che faccio meglio a seguir la sua Accademia invece che la mia?
    Ecco, la contento, fo come i’ Hapezzone (=Capezzone), mi trasformo.

    Portinaia della Novissima Accademia Palasciana

    PS: io un ti honosco, io un so chi seiiii (Mina), ma tu sei matto forte. Mantieniti hosì, per harità!

  37. Imperdonabile refuso! (si vede che non lavoro già più per la Crusca) Palasciania.

  38. Della Carità icché ti dico… (da ignorante): e si legge. In ogni haso e mi pare che ella abbia un certo coraggio… (di’ anche i’ nome per esteso… oltre a i’ cognome, grazie).

  39. *In ogni haso e mi pare che ella abbia un certo coraggio…*

    Anche chi legge – se è per questo… E in dosi massicce.

  40. Cristiana Carità è nata a Pantano Borghese (RM) nel 1948. Tenutaria di un negozietto di animali impagliati e souvenir, scrive poesie dall’età di 10 anni. I suoi versi hanno conseguito il plauso e la segnalazione di numerose giurie letterarie regionali e nazionali, oltre a un notevole successo di critica specialmente grazie alla costante attenzione riservata alla sua produzione artistica dall’Avv. Orazio Del Podice e dalla Dott.ssa Clara Belladonna rispettivamente scriventi sulle testate «Il Corriere di Frascati» e «L’Eco dei Castelli Romani». Tra le sue numerose pubblicazioni spiccano le sillogi Tramonti e ricordi, L’odore del vento, Parola di luna, Il silenzio delle sirene e la recente Dopo la notte, con cui è stata insignita a Roccasecca (FR) del Premio Amedeo Massimo Candelaio 2008.

  41. Caro Palasciano, La ringrazio per la sua hostante attenzione all’arte che vale davvero e che è destinata, nonostante gli ostracismi e le preclusioni, a rimanere per sempre: Lei è unico anche in questo, mi creda, e glielo dico a hosto di apparire un adulatore e di attirarmi i fulmini dello staff di “Pordenone legge” (hosa?).

    Tra monti e ricordi è un libro prodigioso: non sono mai riuscito a leggerlo e ho dovuto occultarlo subito dopo averlo comprato, visto che mi procurava orgasmi prolungati solo a fissarne la copertina…

    Ecco, poiché Ella è hosì attento alla poesia hontemporanea, mi aggradirebbe assàje se potesse intercedere per me presso il Dottor Pinto e mi aiutasse a realizzare il sogno che coltivo fin dai tempi della scissione & reastaurazione: pubblicare qui qualcuno dei miei capolavori. Ci ho provato anche col Biondillo, per la verità, ma poi non abbiamo combinato perché è letteralmente obesato di richieste… Mi aiuti, Cavo, Lei è la mia ultima speranza.

    Non per vantarmi, poi, ma anch’io avrei il mio consistente medagliere da mostrare; mi limito soltanto all’ultimo ambitissimo riconoscimento: primo premio assoluto al concorso “Poesia è/e condominio”!!! E scusate se è poco! Provate voi a sbaragliare la concorrenza di poeti come Luigina Aspettapesce, Ambrogio Sbadiglia, Oronzo Piattaro, per non parlare di Turi Capefierro che miete successi a iosa fin dai tempi dell’INA-Casa.

    Se Lei fosse d’accordo, vi manderei proprio un estratto (va bene qualsiasi ruota, purché mi pubblichiate) della sillogia con cui (modestamente) ho vinto il sopradetto ambitissimo premio: Dopo il mattino, il pomeriggio

    p.s.

    Di me ha parlato con commozione anche il prevosto durante la predica e hanno fatto risuonare a festa le campane della chiesa del mio rione per ore e ore.

  42. Che giocherellone che sei! Ti chiamerò il Mozart della Rete.

  43. Ah ah ah! Dottor Baudo, la leggo ora… Ma lei – hosì – mi uccide! Ancora, ancora, ancora… Conosce la canzone?

    Vorrei, se lei mi honsente, intercedere io, presso il Dottor Palasciano (lasciamo libero il Dottor Pinto…) giacché – sa? – son divenuta proprio oggi la Portinaia della Novissima Accademia Palasciania.
    Se lei mi lascia fare col Dottore…

  44. Dottor sottile (ed elastico, talché fascia a meraviglia; il che non vuol essere apologia del fascismo), vedo che lei e sua cugina la portinaia accademica (e ambedue siete inver molto accademici, complimenti!, giacché molto usate l’acca) intendeste perfettamente il messaggio della Cristiana Carità; in ispecie ella che addirittura possiede l’introvabile Tram onti e ricordi, che ahimè appunto io non riuscii mai a trovare, soprattutto perché non uscii mai a cercarlo.

    Quanto a lei, estragga, estragga; farò quanto è possibile, tuttavia non so fino a che punto le convenga correre il rischio di suscitare l’attenzione, per dirne una, della Einaudi; se sventuratamente ella venisse pubblicato, la sua pace sarebbe finita. Io stesso, dovendo scegliere tra cassetti e casse di risonanza, lasciò più volentieri i miei versicoli a vermicolare nella lettiera della cassettiera. Non so che m’abbia spinto a far di Pinto, a un punto, il ponte tra i miei spenti appunti e il ponto procelloso dei nazi-indiani, e me ne pento; ma già lo so che poi mi pentirò del pentimento.

    D’altro canto, volessi far carriera, sono svantaggiato dal fatto di non essere né gran traduttore (se non de’ traduttor d’Omero), né critico; oddio, critico lo sono, ma nel senso che sono sempre in crisi; più speranze credo abbia cmq monsieur o madame Diamante, che già seppe vedere come in talune poesie della Carità «baluginano espressioni d’una certa originalità», mentre altri, meno visionari, le hanno sbrigativamente sbrigate con un «Si direbbero costruite tirando fuori le parole a caso da un sacchetto». Quanto a me, non vedo l’ora di guadagnarmi il titolo di Palasciano Palombaro; onde per ora tutti vi saluto, e vado fare un poco d’immersione nell’abisso della mia anima, solo illuminata da qualche pesce mostruoso.

  45. Palasciano, eh, però! Prima di questo e m’ero già accorta di un altro paio di “casi” (hasi) tra lei e me. Io però toglierei la foto d’i’ povero Salieri…

    Senta, ma la data de’ i’ su’ compleanno, su’ i’ blogghe, che gli è reale? No, perché da lei c’è da aspettarsi di tutto… In ogni haso auguri!

    PS: ma il Dottor Baudo lo prenderà in considerazione o no? I’ mi’ cugino? Magari… Sai che risate e mi farei. Invece… Tra pohino e mi darei foho.

  46. Complicatibus: qui quoque di-pinte frasche ombrose?
    Simpliciter: Complicatibus, lei mi sorprende! no, non vede? solo odorose di-pinte rose
    Complicatibus: invito ricevetti per sanguigna tenzone
    Simpliciter: ma non vede Complicatibus, che costui è fin mattacchione? Della sua arte sa far burla ed affermarla oltre ogni apparenza.
    Complicatibus: Simpliciter lei mi sorprende, sottil sguardo sa gettare su di-pinti e gentil sonetti?
    Simpliciter: giammai! già mi permisi e fatic-osamente ne venni fuori.
    Complicatibus: e che siam venuti a fare?
    Simpliciter: ad omaggiare del Campi Magnus l’amico e con riverente inchino di scena uscire …

    Complimenti Palasciano, per il carattere e la forma che sprizza da ogni sua esternazione. (saluti Teq.)

    natàlia castaldi.

  47. @natàlia castaldi
    :-)))))

    (quando posso ti leggo sul tuo blog, spesso con incanto)

    buona continuazione con le dieci poesie.

    ps sintetizzando ed assemblando i due vasi in/cominicanti, le cinque+cinque poesie, ho fatto di moby dick la mia bibbia solo dopo averlo letto con la traduzione di pavese.

  48. Hara, hara, hara, e poi ancora hara, hara, hara Porty (delle 17:23 – una bella posizione anche quella!), scusi la latipanza ma oggi ho avuto una digestione molto laboriosa. Ma eccomi, alfìn, commosso fino alla lacrima! Ma lo sa che *ancora, ancora, ancòooora* è una delle canzoni preferite dalle mie partners? Anche la mia, in verità, tranne un verso che, mi creda, non ho mai cantato in vita mia. Provi a indovinare quale…

    Che dirle? Davanti ai suoi commenti, mi sento come la prima volta davanti a Tra monti e ricordi, che in suo onore ho già ribattezzato: “Tram, ‘on ti e rihordi?“.
    Sento già di appartenerle, soprattutto ora che ha cambiato sede di esercizio. Eh sì, la Palasciania l’è proprio tutta n’altra hosa!

    Penso proprio che le concederò di sognarmi, stanotte…

    A + t’ardi…

  49. Caro Palasciano, vedo con estremo piacere che finalmente l’ha hapìta. Era ora! Se ne persuada, e definitivamente: il futuro della poesia ha un solo nomen: palombarismo.

    Fu soltanto quando anch’io mi persuadetti di questa verità che partorii quello che, a detta di tutti i maggiori critici che l’hanno avuto in mano (da Nunzio Begonia a Cinzio Girardelli, da Adalfonso De Castratis ad Aureliano Marchetta) è il vertice della mia produzione: è solo allora, infatti, che ho scritto “T’amo sulla sabbia“, il primo e unico libro con pagine in vinile (se vuole gliene mando una copia).

    Mi raccomando, però, la mi stia attento, prima delle immersioni non dimentichi mai il respiratore! Le consiglio di alternare un mese di immersioni hard e un mese in una comunità terateutica, o, meglio ancora, al seguito di un filosofo n(i)uàge.

    Sappia, ad ogni buon conto, che deve sempre completare le “Prove tecniche“: io ho il primo volume del manuale (letto sedici volte in due anni! ma si rende conto?), e aspetto con impazienza il secondo.

    La saluto. Suo Dott G. Baud

  50. @ g. baudo
    Mai dimenticare il respiratore! Ma diffidi dei filosofi n(i)uàge. Faccia da Lei. E’ là il bello. Poi, presa confidenza, butti pure il respiratore. Vedrà che laggiù, a tratti, si respira meglio. Anzi a dirla tutta si respira, per poi poter trattenere il respiro quassù, fra di noi. Buone immersioni!

  51. Ma Dottor Baudo… Certo che e rihordo: la rihonoscerei tra mille.

    Il verso (provo): “se vuoi andare ti capisco”?, “perché ti amo ancora”?

    Un la potrò sognare perché… Come dicono i bei versi di una poetessa laziale ancora poco conosciuta, una certa Cristiana Carità: “Dico addio ai sogni/e mi addormento”…

    PS: La prego la prego la prego, apra un blogghe co i’ Palasciano, tutto hosì, con la Luigina Aspettapesce, e poi Nunzio Begonia, Adalfonso De Castratis, Aureliano Marchetta, eh? E i’ concorso “Poesia è/e condominio”… Lei gli è sprehato hosì!

  52. Mi rendo conto all’improvviso che la discussione è degenerata, e per mia stessa mano: aperte le porte alla Goliardia, da quelle stesse porte se n’è uscita la Poesia.

    Ormai non facciamo che pariare ncuollo alla povera Cristiana Carità (la quale, devo svelarvi, non è in vita) e ai caritisti et similia, in praesentia o in absentia ch’e’ siano; o ci si sgola cmq a goliardare a tutta goliardia ia ò trombettando le pareti del blog con suffumigi comici di tale spessore (non già nel senso di multidimensionalità, bensì di grossolaneria; absit inuria verba volant) che (cfr. Inf. XVIII, 106-108) s’appastano e ingrommano in zuffosensibile muffomorfosi; dalla trina alla latrina il passo è semibreve di clarinetto basso; e più in basso di così non voglio malandare.

    Raccatto sparse piume d’impagliati Pegàsi, le intelaio, ne intrabiccolo un paio d’ali icarie e vedo di levarmi dalla mota, e ascensionare verso lo stellare, con moto realtilineo onirforme; e voi, seguitemi, se volete sopra vivere; «punto» (Inf. XXXIV, 93).

  53. Caro Palasciano, è stato richiamato all’ordine?
    Io non sto pariando su nessuno, ho solo fatto dell’ironia bonaria su dei testi da lei postati in un suo commento e su un diffusissimo malcostume della rete. Raccogliendo, tra l’altro, una sua precisa indicazione in un altro thread. Ma dimenticando, me misero!, che qui stiamo in un sito serio, dove si elabora la cultura del futuro. Dove se qualcuno, malauguratamente, scrive che una proposta fa cagare, è automaticamente out.

    Evviva l'<em<etica del pompino in famiglia!!! Oltretutto, non è qui che è stata teorizzata a suo tempo?

    Saluti e auguri a tutti.

  54. Dottore, nessuno ha osato richiamarmi all’ordine; figuriamoci come avrei reagito: facendo esplodere il disordine mondiale. Neanche mi sono sentito in difetto verso il «sito serio».

    Semplicemente ieri sera ho avuto un esterno motivo di malinconia e nel contempo mi sono ricordato che tra queste cinque poesie ce ne sono tre che sono le più care alla mia vita; e che invece di trattarne, pur con tutta l’autoironia necessaria a controbilanciare l’autoesegesi, mi sono messo a menare il can per gli alba pratalia, tirando fuori fin il vecchio fantoccio da rogo carnevalesco di Cristiana Carità per divertirmi a vedere chi lo scambiasse per una persona reale.

    Sicché mi sono pentito di avere imbinariato verso il cattivo infinito della goliardia telescopica la discussione, e ho sentito l’esigenza di riazionare lo scambio.

    Però non mi aspettavo che ciò avrebbe dato adito a guizzi di retroermeneutica del tipo «pompini in famiglia» e «chi scrive “fa cagare” è out». Non le sembra di aver esagerato con la spinta deduttiva, fino a uscire dall’orbita della ragione?

  55. temo che, per qualcuno, l’orbita della ragione coincida, senza sua colpa, con l’orbita della regione

    subdorando vaghe autoptiche sinergie, in isterografia
    mi permisi un “avviso” tramite “mediterrenea”

    (l’ironia sul ciglio di morte, di coltello)

    e zittiscano gli altri

    niente di più serio di “un pompino in famiglia”

    chi non lo capisce sbaglia, a non ridere davanti all’orrore

  56. a mia discolpa – pensando possa, esso, essere causa dell’assoluta opacità rimproveratami dal Palasciano – mi preme chiarire che, quando scrissi l’ultima riga del mio precedente commento, ero animato dall’intenzione di scrivere: “ridere davanti all’Errore” non “ridere davanti all’Orrore”, come poi venne e che io tenni…

    *

    “Non v’è dubbio che l’uso di un refuso come indizio interpretativo sia, dal punto di vista della corretta filologia, assolutamente mostruoso, ma, nuovamente, che è mai un libro, un testo, un autore?

    […]

    Basta questo esempio per dimostrare come in nessun modo si possa catturare codesto autore. Esso non è che un indizio, una macchia di sangue, un giornale strappato, un urlo nella notte che nessuno ha sentito, eccetto un signore anziano che l’ha scambiato con il fischio di un treno.”

    GIORGIO MANGANELLI, Pinocchio: un libro parallelo. Einaudi 1977, pagg. 30, 31.

  57. “Non correggete i refusi, vi prego, vi prego veramente. Lasciate quegli insetti malinconici e venuti non si sa donde, lasciateli con le loro elitre stonate, allusive ad una musica che non conosciamo.”
    Giorgio Manganelli, Discorso dell’ombra e dello stemma

  58. Palasciano, pure tu un calo pazzesco d’intelligenza? Un ci credo… E comunque e sarà stato un attimo… Io invece e c’ho i’ calo fisso già da quarhe anno.

  59. Che poi, i’ tuo e gli era un calo normale, senza i’ pazzesco.

  60. OK, ricominciamo da capo:

    LA QUESTUA DELLE QUESTIONI.

    Tornando alle poesie: discutere del contenuto, o della forma, o del modo in cui la forma veste il contenuto e il contenuto riempie la forma?…

    E: se n’è discusso già abbastanza, di ciò e dei da-ciò-derivati, o restano questioni da abitare?

    Questionate, ond’io riempio il questionario e, controquestionando, ci scambieremo di tai questionari a gran traffico aereo d’aeroplanini di quèstions.

  61. SONETTO BASTARDO, CON APOCOPE ‘NCORPORATA
    ( A EMMEPÍ, PURISSIMO POETA, ETERNO PUER)

    Palascián ¿qué tál dolcissimo padre!?
    Qual Atteón preso da turba fella
    deh, la veggio gritar “shut up goodfellas!”
    ¿Quién le largó los perros, puta madre!?

    Allez, mon père! Il faut bien vous être flâneur,
    avec du bon esprit – o aver dell’estro
    perch’ io –hélas- graduato sie “maëstro”
    al suo cospetto! Ça, je le dis par coeur!

    Io son “Dottore in Niente” quale Debord
    minore. Niún dolor né Manganelli!
    Sì, gliel giuro sull’onor, lei è ‘l mio nord!

    Qual Viöla, un Effeffe od Henry Ford,
    dei poëti – bien sûr!- tra li più belli,
    here it is my heart: please, come up on board!

    (sonetto a schema metrico abba-cddc-efe-efe)

    S. D. A. , 26. 5. 2009

    Hóla , caro Marco, mi sono assentato un po’ ed è successo tutto ’sto cancan. In fondo in fondo un po’ per colpa mia : per uno “gnagnà” di troppo ? Se così, lo ritiro immantinente, unito alle mie scuse. Lei è persona di spirito sicuramente squisita e degna del massimo rispetto, per quel che scrive e per come scrive. Ça va sans dire, non dia eccessivo peso alla turba dei “nazindiani”; si sa, ve n’è di giocherelloni, di burloni che amano il genere, perché d’un genere si tratta. Niente di personale. Se poi v’è chi va oltre, che dire, “ ‘ a semmenta ‘re fessi nun more mai!”.

    Comunque accolgo il suo invito ad uscir di goliardia e le riformulo con maggiore temperanza le mie impressioni.
    Mille sono i modi di far poesia, le tecniche, gli stili, i contenuti, i ritmi, le forme –anche antiche o antiquate (nel senso primigeno dell’etimo). Dunque, legittimo è anche il suo. Le riattesto l’ indubbia capacità tecnica e le conoscenze ( immani) sulla materia. Ma mi creda, ciò non basta di per sé a rendere un testo perfettamente riuscito, il quale è tale se vi si realizzano le tre condizioni intrinseche : il perfetto equilibrio tra forma, sentimento, struttura, rispetto alle “premesse” e all’ enunciato , nel caso “Cinque poesie “d’amore”.
    Non è importante la “veste”, la “foggia”, lo stile od il linguaggio usato, tuttavia è decisiva, secondo me, l’”affabulazione”, che riguarda anzitutto il “sentimento”, il sentire, che va trasmesso con sincerità e immediatezza al lettore. Nelle cinque poesie proposte è quest’affabulazione che si va perdendo, perché tende a prevalere il “bell’effetto” delle parole, le sue combinazioni, l’eccessivo “innamoramento” sullo stile, a danno dell’equilibrio tra i tre elementi anzi accennati. Lei di certo è un esteta ( seppure accademico), ma – utilizzando un’espressione di Diamante, “la grandezza estetica non può bastare a priori”, per rendere un testo perfetto, equilibrato, comunicativo, riuscito.
    A maggior ragione se il genere proposto è quello della “poesia amorosa” che, contrariamente al pregiudizio, non è uno dei più facili, ma dei più difficili, proprio perché è dei più sfruttati e densi di luoghi comuni. A maggior ragione se lei, poi, sceglie di complicare ancor di più il gioco, con uno stile arcadico, barocco. E qui apro una piccola parentesi : è legittimo quanto lei sostiene, ed io condivido quel che dice “Perché farsi influenzare nel giudizio dallo stile “obsoleto”? e perché considerare obsoleti dei modelli solo perché appartengono a un tempo passato? Che cos’è un paio di secoli se non un battito di ciglia?Io sono per una riforma stravolgente dell’italiano, acché accolga tutti i registri di tutte le epoche: così che lo scrivente disponga, a morte il giornalistico a cinquecento parole, di un’orchestra immensa da far sonare.” Ma poi bisogna fare i conti con la sincerità , “obiettiva”, del testo, con la sua resa e con l’impatto ch’esso ha su chi legge o ascolta. Guardi, ho letto e riletto ancora, ancora e ancora le poesie, e le confermo la mia prima impressione. Anzi, le dirò che , Elegia a parte, degli altri testi, rivaluto questi passaggi, che effettivamente evidenziano, in qualche modo, ciò che sostenevo prima:
    “Io non ho amato mai se non invano:
    questo ti renda forte della tua debolezza,
    imparare a patire con gli altri pazienti –
    nosocomio infinito, bufera di astri sconvolti
    è questo tuo passaggio sulla terra, sospeso
    tra concepimento e morte clinica. Io non so
    se un pensiero d’amore continui anche dopo la morte,
    eco di un corpo, gioia che sé ingioia,
    come una coda di lucertola che non sa
    di essere ormai attaccata al nulla. Solo
    io so che a troppi nulla ci si sente attaccati quest’oggi
    ma al vero, bello, grande tutto che è l’amore
    nulla ci attacca, solo un sogno inerme,
    enorme nella sua stupidità:
    che amare implichi l’essere anche amati.

    (DELIRIO/DESIDERIO, ALBA, INFINITO)

    Qui in me funziona l’”affabulazione”, l’incantamento del testo, non perché esso sia unico quanto ad argomento, ma perché vi sento vibrare, sotto la “ferrea cotta” dello stile, la sincerità di quanto dice e del “sofferto”, accoppiato ad immagini indovinate e calzanti (“nosocomio infinito”; il pensiero d’amore visto come una coda di lucertola che non sa di essere ormai attaccata al nulla, incalzato da quell’ “a troppi nulla ci si sente attaccati oggi, ma al vero, bello, grande tutto che è l’amore nulla ci attacca, solo un sogno inerme, enorme nella sua stupidità: che amare implichi l’essere anche amati.”). Davvero bella sequenza. Ma, appunto, amare, implica anche l’essere amati. Ma se ci si innamora troppo di sé, ( soprattutto nello stile) è poi difficile farlo e goderne.
    E m’è piaciuta anche quest’altra sequenza:

    “Tu che la mia felicità per l’aria
    sollevi come un padre un bimbo, o il fuoco
    l’astronave diretta sulla luna –
    lascia ch’io anneghi nell’azzurra acqua
    dei tuoi occhi e, spegnendosi ai miei il sole,
    t’abbracci come il naufrago la terra.”

    (SESTINA I)

    Mi piace, non c’è di che. Però le ripeto, posso sbagliarmi ed il mio non è “giudizio tranciante”, ma impressione, riflessioni d’un dilettante che di tal si diletta e non irride, – e in tal caso sempre disposto a rivedere quanto ORA è impresso. Le ripeto quanto detto in precedenza, e cioè : “sfrutti la vena grottesca, parodistica: la imbrigli, la depuri da una possibile deriva narcisa e vi lavori su per dei brani da “neoarcadia post moderna”. lo dico senza ironia..sarebbe un efficace ( e divertente) strumento di critica all’esistente (establishment d’ogni genere: politico, letterario, religioso eccetera eccetera). Secondo me, per questo neogenere, lei ha le corde giuste, mi creda. Lei ha ben digerito i classici… se ne allontani di corsa e cammini sulle sue gambe. Che sono ben salde, glielo assicuro”.

    La saluto, infine, con l’Insuperato Padre del Sonetto. Le faccio omaggio di questi due, ché vorrei recitar con lei in dual tenzone: il primo a lei, il secondo a me. Ma con un ton sviato, dolcissimamente tangenziale, dando per inteso che non li riferiamo al Petrarca e alla sua amorosa storia, ma a questa “querel giocosa”; operando picciol ritocchi – ne converrà – anche col Sommo si scherzerà.

    Cantai, or piango; e non men di dolcezza
    Del pianger prendo che del canto presi;
    ch’a la cagion, non a l’effetto intesi
    son i miei sensi vaghi pur d’ altezza.

    Indi e mansuetudine e durezza
    Et atti feri et umili e cortesi,
    porto egualmente, né me gravan pesi,
    né l’arme mie punta di sdegni spezza.

    Tengan dunque ver me l’usato stile
    Amor, persona *, il mondo, e mia fortuna,
    ch’i’ non penso esser mai se non felice.

    Viva o mora o languisca, un più gentile
    Stato del mio non è sotto la luna,
    sì dolce è del mio amaro la radice.

    * madonna, nell’ originale
    Petrarca, RIME, 229

    I’ piansi, or canto; ché ‘l celeste lume
    Quel vivo asole alli occhi miei non cela,
    nel qual onesto amor chiaro revela
    sua dolce forza e suo santo costume:

    onde e? suol trar di lagrime tal fiume,
    per accorciar del mio viver la tela,
    che non pur ponte o guado, o remi o vela,
    ma scampar non potienmi né ali né piume.

    Sì profondo era e di sì larga vena
    il pianger mio e sì lunge la riva,
    ch’i’ v’aggiungeva col penser a pena.

    Non lauro o palma, ma tranquilla oliva
    Pietà mi manda, e ‘l tempo rasserena,
    e ‘l pianto asciuga, e vuol ancor ch’ei*’ viva.

    * ch’ì, nell’ originale
    Petrarca, RIME, 230

    Che dice, mi son guadagnato “nuova palma”, non più SOAP né SOAP, ma SOAP, cioè Socio “Officiante” Accademia Palasciania ?

    Giocosamente ( e rispettosamente) suo

    Salvatore D’Angelo)

  62. ERRATA CORRIGE :

    Il gran caldo ha mandato in tilt anche le tastiere. Please, il SONETTO BASTARDO, suona cosi :

    Palascián ¿qué tál dolcissimo padre!?
    Qual Atteón arreso a turba fella
    deh, la veggio gritar “shut up goodfellas!”
    ¿Quién le largó los perros, puta madre!?

    Allez, mon père! Il faut bien vous être flâneur,
    avec du bon esprit – o aver dell’estro
    perch’ io –hélas- graduato sie “maëstro”
    al suo cospetto! Ça, je le dis par coeur!

    Io son “Dottore in Niente” qual un Debord
    minore. Niún dolor né Manganelli!
    Sì, gliel giuro sull’onor, lei è ‘l mio nord!

    Qual Viöla, un Effeffe od Henry Ford,
    dei poëti – bien sûr!- tra li più belli,
    here is my heart to you: please, come up on board!

    (sonetto a schema metrico abba-cddc-efe-efe)

    S. D. A. , 26. 5. 2009

    ERRATA CORRIGE :

    l’incipit della seconda quartina sonetto 230 del Petrarca suona così :

    onde e’ suol trar di lagrime tal fiume,

    I BEG YOUR PARDON, PLEASE!

  63. Salve ;) apprezzo i magnifici sforzi di salire in grado!, sebbene in realtà TUTTI i Soci dell’Accademia Palasciania siano Ornamentali, e non esista alcun Socio che non sia tale, mé mai potrebbe essere altro, trattandosi di un’accademia fantasma: una pura etichetta che s’attacca alle mie imprese, più o meno leggendarie, dipanantisi sul mondo a trappolarlo in una rete di palascianesimo.

    Come recita l’homepage di http://episteme.forumcommunity.net – il vecchio forum palascianesco -, «L’Accademia Palasciania è un ente di fatto con sede nell’ex Magna Grecia, in Capua, città natale di Marco Palasciano e del suddetto Ferdinando suo prozio. A nome dell’Accademia si producono originali eventi artistici e culturali a costo zero, costruiti generalmente intorno alle idee dell’eclettico pronipote del dottor Palasciano».

    Gli unici Soci effettivi, in effetti, siamo io e il defunto prozio, asceso agli astri nel 1891, sebbene più sotto sia detto, a proposito dell’Amicarium: «el corso di una festa annuale, nella sede dell’Accademia, si distribuiscono premi tra le amicizie attuali. Tutti i premiati e segnalati sono considerati Soci Ornamentali dell’Accademia, se già non ne sono Soci di Fatto per aver contribuito alle sue attività». (Contribuito nel senso di aver recitato in qualche spettacolo, sonato in qualche concerto, essere intervenuti in qualche convegno, e altre partecipazioni dal vivo, incluse fatiche trasportistiche, scenografico-assemblative ecc.)

    [Per ora, stanco, dico solo questo, anzi scritto iersera e che stasera volevo completare ma la giornata è stata intensa…]

  64. Posto qui un commento a un’ opera di Marco Palasciano per rendergli onore e in qualche modo fare ammenda se, mio malgrado, in precedenza “in questo loco” qualcuno abbia potuto eccedere (sottoscritto compreso) nello stile “burlesque”.

    Caro Marco,
    ho appena finito di leggere PROVE TECNICHE DI ROMANZO STORICO, e devo dire che m’è piaciuto molto, davvero senza riserve. La sua apparentemente scarna struttura, con le relative apparentemente scarse 106 pagine, si rivela per essere invece un ricco contenitore di mirabilia.
    Anzitutto la lingua, il linguaggio: ricchissimo, denso, sfavillante, principesco, intriso di ironia e autoironia: una pura gioia dei sensi. Senza dubbio questo registro, in questo codice espressivo ( la prosa, il romanzo, il racconto lungo eccetera, fai tu…OOPS, VA BENE IL TU?) ti è molto congeniale. M’è piaciuta moltissimo la tua capacità di sintesi nel maneggiare una materia irta con una “misura” notevole. Ho apprezzato tantissimo il riferimento allo stile dei cartoni animati , ma soprattutto alle tecniche narrative “ellittiche” di certo cinema fantastico: leggendoti mi veniva continuamente in mente Terry Gilliam, soprattutto quello de “Le avventure del Barone di Munchausen”, per il ritmo, l’amabile ironia e il modo di usare la figura dell'”ellissi” nella narrazione. Davvero i miei più vivi complimenti. Su questo terreno la tua lingua “aulicamente demodé”, utilizzata come critica alla piatta medietas espressiva ( da giornalismo a 500 parole, come dici), mi convince, mi diverte e mi trova d’accordo. Soprattutto non si autospiazza (come forse avviene nelle poesie…ma so che qui non sei d’accordo, lo rispetto e chiudo questa parentesi), perchè è perfettamente “contestualizzata”: insomma è un elemento costitutivo della struttura narrativa funzionale al “genere” che ci proponi. Insomma, bravo bravo bravo. Sotto con altre prove, che ci divertiamo e ci freghiamo le mani.

    Ad maiora! ( Con un pensiero reverente al suo prozio Ferdinando).

    Salvatore D’Angelo

  65. Confuso da tanti complimenti non posso che balbettare grazie più volte, e ritrarmi timidamente nel mio guscio di chiocciola, commosso e stordito per il mescolarsi dei sentimenti nel mio animo talché ne sboccia il fiore della più tronfia modestia; grazie e ancor grazie in eco evanescente.

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.