Il sonno della ruggine

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di Marina Pizzi

1.
la giacca della rupe l’ho messa
accanto alla culla. così si capirà
che non è nascita essere bambini
i ragazzini con le caviglie esangui
le lunghe nuche senza fidanza.
in palio non c’è niente se non vedetta
di vendetta guardarci dritti negli occhi.
un compagno di asilo è stato ammesso
a fischiettare con le rondini. questo il
buono che si staglia tutto fecondo e dotto.
una minaccia di pioggia fa da tara
all’abaco che non conta che sfila
il pallottoliere dentro il pozzo.

2.
in merito alla girandola furbetta
resta la nube imbrattata di sangue.
qui le sanguisughe sono condominiali
i panni stesi non nascondono amori.
i dondolii di cuori reciproci
gemellano i cipressi ben futuri
al prossimo adesso, adesso.
qui sfinito il mosto senza nettare
condanna la fuga fradicia di muschio.
devo restare per un diverbio netto
con le ciliegie spinose sotto la rena
e fingono languori le formiche
operaie. tu in gola al nome
mi chiami febbre tanto per
innamorarmi. ma è tardissimo
il movimento di ancorare i gabbiani.

3.
così cominciò l’estate della frutta
bacanti scrosci di pioggia
rovinarono le polpe.
in autunno arrivò la sciabola del vento
il triste evento di ridacchiare pazzi
una resistenza di teatro di platea.
nessuna voglia di pianto ma la furia
dell’ennesimo giorno la pessima marea
sul sudario del certo. e mi convinse
la viandanza di non tornare
sulla resina del dubbio. andai balorda
dove precipitano i sassi e la pepita
d’oro e con un calcio non la volli.
veggente a tavola vidi le marette
di famigliole morte. tutto un esito
di tagliola e niente più.

4.
resta un nugolo di spaesamenti
il segno, più, croce infissa
dentro l’iride più colorita.
il tempo ruota la ruota dell’infelice
lince cieca. la nuca fa già da cella
alla bellezza dell’esule. le scarpe
sono in palio all’atleta più veloce.
non c’è accetta che possa svergognare
la luce. qui ti sopporti perche sei
un anello in via di ruggini e cipressi.
pensa a piangere di te la norma
dell’addio. la resina votiva che
non ti darà niente e nessuno.
sorridi pazzo e forse sarai salvo
dalle liane della giungla velenose.

5.
in meno di una deriva ho fatto conto
di morire. in mare un abisso che bestemmia
le piscine. le sciabole erette non fanno
paura ai canali. le bollette della luce
non hanno dato illuminazioni. nei cimiteri
monumentali le erbacce fanno brecciame
di vita. in tutto il colonnato dell’entrata
ci sono bambini che giocano a nascondino.
in ogni gingillo di ricordo
la mensola si ritira a dire
vattene da solo che ti verrò appresso.

6.
qui da me innumeri compagni
che tramandano le dacie di poeti
per panchine di endecasillabi dove lo strazio
un’ecumene di sabbia e di polvere.
le giurie di passeri pungenti
inventano le genti compassionevoli
di una briciola soltanto.
invece non basta una ciotola stracolma
a partorire una statua veritiera
una bella femmina come sul dirsi
senza mai darsi a verità conclusa.

7.
attore di conserva sto in balìa
della rondine che non mi vuole
verso l’arabesco del papavero proletario
in un viale di periferia.

8.
allevia il tempo con la venia in mano
batti il tempo con le canzoni in nomade
vetta. dà candore allo sbadiglio con un tic
regale. funziona l’alamaro per un soldato
libero. in biro per l’appunto so sfidare
la preghiera imbalsamata l’amata stasi.
fende il faro la sacrestia del mare
questo bacato cibo di ciliegia
eslege alla punizione della botanica.
tu non trovi che intrugli di catastrofi
le balconate nate per scompiglio.

9.
in tutta una zona di transito si registra
lo strazio della casa o il saluto. qui in erba
smossa trovo un dormiente cavo di fatiche.
le mortalità di chi si fa la minestra
sotto il pilone della sopraelevata
del Prenestino. intorno alla remora del caso
mi chiamo stilema senza successo
o al più una stampante per homeless.
in stima alla cometa di bambini
bivacco la scuola di capire
se finalmente un apice è raggiunto.
è senza panico la svolta della fune
che dà direttive all’abaco del cipresso.
in te vorrò renderti la vita
per amarti di più.

10.
dammi un otre di stallo
pace che sappia d’oltremare
tra le maree che piangono le stelle
allontanando. intruglio d’erba
spuria questo cipresso prestato
per legarti la barba tremolante
del tuo pianto. in pace il mito
della rotta non fiaccola più niente.
le masserie d’accanto ti ledono
la fossa. una manciata di pece
il sudario con la cascata accanto
la burla d’arte che simula la vita.

11.
quale sarà la fossa che ci rincorre
questo zelo salato di darsena
in mano alla nomea di farsi grido
dondolio lo sguardo di piangere.
in apnea la palude della giornata
triste più del membro di giuria.
in giugno raccatterò la paglia del grano
l’urlo del pane che non sarà sedotto
dall’apice del farlo. qui la fretta
della ventola vuol farmi fuori
dalla manciata delle briciole.
voglio il comando dell’aria per gettarmi
dal manico di scopa senza cuore
né reo né buono. in fondo sono un permesso
che non sa placare la carie dell’ammesso.

12.
una giostra di remi canta la litania dell’acqua mossa
il caso a cerchio che non dà padrone
né il portone altezzoso di una casa nobiliare.
le genti qui sono tormento
in mano un cerchio che non potrà rispondere
né cedere un’aureola felice
allo zampino del chiodo in qualche parte
di nostra parte. in urlo alla nomea di stare
affacciati nessun frullo giudica il volo
di stare arresi al davanzale. in pasto al sillabario
che non sa vagare si continua la rete delle fosse
con le lapidi soltanto in tanto spasmo.
mo’ verrà la fodera per le pepite della pece
il male alla stadera della pesa senza desco.

13.
la notte della tasca lo stato infetto
quando al duetto delle voci nere
erra lo scopo di capire l’angolo.
in tutto il miserere della girandola
questo presagio d’arco senza freccia
l’indagine votiva del varco d’acqua.
mutila sembianza resta l’aurora
concatenata al resto che non torna
verso il grumo del cielo senza bene.
le pieghe della pelle dopo il sonno
promettono l’inganno della guarita
sella quasi una gita d’alto bordo in piena.

14.
papavero del crepacuore
la vedova del pane
dover sopire il dotto analfabeta
tra betulle di bene e tulle di bontà.
in un passero di stasi
stare ammessi all’inguine del pozzo
così per crocevia senza rimbalzo.
in un’etica di secoli vedenti
guardare te che moristi pendolo
di un viatico cattivo.

15.
sempre aggiornato il pozzo
di squarciare i mesi
questa milizia gracile di perdita
a menadito come se fosse gesso.
in mano alla fessura del camino
sperdere il sonno in un ciliegio bacato
transennato dalla maestà del giù.
qui non sanno i perentori sogni
né le bufale che scontano le stelle
per residui d’ascia e di cimento.
in un pagliaccio di trampoli vestirsi
virtù del controvento.

16.
ho un sonno apolide un sorriso di scempio
dentro dietro davanti a dire che non fui
che lite di pollice maestro senza insegnamento.
la cicala solare concubina
mi racconta la cantica bambina
allora quando in bilico di curve
tutto restava valore di gran gioia
o al massimo un alamaro da riparare.
oggi la serva è dovunque a vanvera
di sterco, lavatoio con le lucertole
impazzite. qui ti chiamo patrimonio
del patema: i miei resti aspettano
le ceneri assolute del lutto e della festa
di morire. ridi fin da ora, avrai credito!

17.
in un marcito stipendio di Calcutta
la cinta di vivere a piedi nudi.
senza riposo a vanvera la critica
senza potenza niente. di poi le carni
nude e la domanda gelida del dado
miserando dolo di se stesso.
la cheta retata della rondine
non rischiara la cimasa né la mensola
novembrina di ogni morto. qui sono
e sì rimane la morente cinghia di
stringere la vita. è Veronica la pietra
con l’impronta del più povero di Cristo.
sto comunque adesso in un deserto
tutto sedotto dal bavero dell’orto
che non si concede. ceda di me
la rendita del pianto il ciao d’alunno
ben più ligio del fuso di condotta.

18.
è solo morto il bavero del collo
sterminio vero frode d’Ercole.
dal timbro del controllo avrò
crisalide la nenia del dado falso.
di te imbriglierò tutte le stirpi
i piagnistei delle ragioni buone
dove davvero non c’è niente da
salvare. i vicoli di sempre sono
del coma. nessuna cariatide osa
deridere un vulcano. da oggi ammetto
l’ultimo solco servile al senso.

19.
appello sotto teca l’armistizio
quest’amicizia in stima di burrone
foto ottusa che riproduce
il giovane da bello. dove avviene l’alba
non sarà quota di alta quota vita.
anzi un ospedale di periferia
dove l’impero dei sensi si sfa
all’ortica. in panico le guglie
degli ornamenti
gli angeli le sacralità del vuoto.
tu resti andante con la flebo
al plettro del livido. credi di
rifiorire: indurisce il tarlo la cintura
svuota la cintola in una vieta beffa.

20.
in un muso d’aria credo di vivere
la mia agonia di agosto. l’icona
sul computer ha i capelli bianchi.
l’ospizio del vetro della finestra
è nero. niente pulisce questo cimitero
altèro sul tavolo anatomico.
anche le piante grasse muoiono
e non di sete. le giovani avarie
del divieto qui sul polso che
non si rassegna. la frottola del
cerchio diffama lo steccato
del giardino. in mano all’aureola
non so salvarmi. mi spingo in un festino
di note cavalleresche. i crumiri
del rantolo non la scampano. tu riordini
le carte degli avi per la gioia della polvere.
verrà l’America e non potrai toccarla
che sotto i trabiccoli dell’ansia.

Marina Pizzi è nata a Roma, dove vive, il 5-5-1955.

Ha pubblicato i libri di versi: IL GIORNALE DELL’ESULE (Milano, Crocetti, 1986), GLI ANGIOLI PATRIOTI (Milano, Crocetti, 1988), ACQUERUGIOLE (Milano, Crocetti, 1990), “DARSENE IL RESPIRO” (Milano, Fondazione Corrente, 1993), LA DEVOZIONE DI STARE (Verona, Anterem, 1994), LE ARSURE (Faloppio, CO, Lieto Colle, 2004), L’ACCIUGA DELLA SERA I FUOCHI DELLA TARA (Lecce, Luca Pensa, 2006), DALLO STESSO ALTROVE (Roma, La camera verde, 2008), L’INCHINO DEL PREDONE (Piacenza, Blu di Prussia, 2009).

Le plaquettes “L’impresario reo” (Tam Tam 1985) e “Un cartone per la notte” (edizione fuori commercio a cura di Fabrizio Mugnaini, 1998); “Le giostre del delta” (foglio fuori commercio a cura di Elio Grasso nella collezione “Sagittario” 2004).

Numerosi e-book si possono leggere on line.

Sul web cura i seguenti blog di poesia:
Sconforti di consorte
Brindisi e cipressi
Sorprese del pane nero

83 COMMENTS

  1. è una scrittura prodigiosa, nel senso intatto del termine,mina l’ossatura della costruzione comune della parola, ne ordina una nuova COSTITUZIONE, per recapitarsi/ci in una sostanza profonda e contemporaneamente spos(t)ata, in/con altre superfici, in/con altre latitudini, come se il nostro corpo non fosse mai lì, dove si trovano i piedi, o lo fosse re-stando ovunque, ma in un territorio di linfe e vasi che ci permettono di vedere la menzogna a cui siamo assuefatti:” una giostra di remi canta la litania dell’acqua mossa/il caso a cerchio che non dà padrone”. Vivere, qui è davvero R E S I S T E R E, nel coraggio di redigere planisferi, ivi inclusa una dolorosa consapevolezza, un pane amaro che si reimpasta. Per questo ci si dovrebbe aggiungere una T, aquel resistere, là appaiono le terre in cui insceniamo “un festino di note cavalleresche”, per una volontà mietuta tra morti e paludi. Grazie della presentazione, sarei davvero lieta di ospitare l’autrice anche presso cartesensibili.fernanda f.

  2. Non me ne voglia Marina Pizzi. Ma il commento di Fernirosso: e andiamoci più piano! Per la poesia s’è creato come un circolo privato in pubblico, in rete, di scrittori/scrittrici e recensori/recensrici da blog. Lo si riconosce subito dal tono esegetico/ieratico dei commenti. Hanno tutti una fenomenologia comune, vedi l’abuso dell’aggettivo, lo scrivere in via di metafora cercando di fare “poesia” sulla poesia (quando poesia è); sovente l’insopportabile uso del participio (magari non qui), più spesso quello della prosopopea, e del tono, appunto, ieratico (più pretenzioso di quello della stessa poesia recensita) per dire cosa poi? Questi commenti dicono sempre una cosa sola, che la tale poesia ci sprofonda in un’altra dimensione, come sfondasse un velo di maya, che la sua scrittura ricostituisce la parola… Ma quest’altra dimensione come è? Io davvero alla fine non ci capisco un’h. Ho come l’impressione che si voglia compiacere gli autori/autrici con piroette verbali (e più spesso ciò accade anche dall’altra parte), con giri di parole mirabolanti, con *una specie di gocciolio sintattico terribilmente affascinante*, che poi però lasciano solo un senso di vuoto e di sconfitta.

    Mi viene da citare Salinger:

    – Avete due dei migliori professori del paese, nel vostro istituto. Manlius e Esposito. Dio santo, vorrei che li avessimo noi. Cristo, almeno sono dei poeti.
    – Non lo sono, – disse Franny. – Ed è anche per questo che è tutto così odioso. Cioè, non sono dei veri poeti. Sono soltanto gente che scrive poesie che vengono pubblicate e messe in tutte le antologie, ma non sono poeti -. Si fermò, impacciata, e posò la sigaretta. […]
    – Per me a non parlare più ci starei, ne sarei felice. Ma prima devi dirmi che cos’è un
    vero poeta, se non ti rincresce. Mi farebbe molto piacere, davvero.
    C’era un tenue brillio di sudore sulla fronte di Franny. Forse era solo perché la sala era troppo calda, o perché aveva lo stomaco sottosopra, o perché i Martini erano troppo forti. Comunque fosse, Lane non diede segno di accorgersene.
    – Non so cosa sia un vero poeta. Vorrei che la smettessi, Lane, parlo sul serio. Mi sento molto strana, e non posso…
    – D’accordo, d’accordo, va bene. Cerca di star tranquilla, – disse Lane. – Volevo soltanto…
    – Tutto quello che so è questo, – disse Franny. – Se sei un poeta, fai qualcosa di bello. Cioè, la gente s’aspetta che tu lasci qualcosa di bello quando finisci la pagina e così via. La gente di cui parli tu non lascia nulla, non una cosa sola che sia bella. Quelli che magari sono solo un tantino migliori non fanno altro che entrarti in testa e lasciartici dentro qualcosa. Ma solo perché lo fanno, solo perché sanno lasciare qualcosa, non è detto che debba essere una poesia, per amor del cielo. Può darsi che sia soltanto una specie di gocciolio sintattico terribilmente affascinante… scusa l’espressione. Come Manlius e Esposito e tutti quei poveretti.

    J. D. Salinger, Franny e Zooey, Einaudi, Torino 2003, pp. 17-18.

  3. non mi nutro di lettere,né di alfabeti,ma di pane e,spesso, è vecchio di giorni, il resto, l’appunto, il contrappunto,l’esegesi come lei dice Isak, lo lascio a lei. Scrivo come una analfabeta che ha appena avuto il dono della miscelazione delle lettere e ne gode come di un bambino che gioca con la sabbia, come fosse sua,ma senza alcuna volontà di possederla. Lascio ai maestri quali lei è certamente il compito dell’arguzia, della cinica autopsia del testo, del vivisezionamento della mia parola cadavere in confronto a quella dell’autrice e, perché no, anche la sua vivissima che sprizza tutto intorno. Buon lavoro dunque e grazie comunque all’autrice, tutto questo non fa parte che della mia ignoranza, cancelli pure. Godere dei testi, ognuno a proprio modo, appartiene a chi legge, gli altri, i maestri, recensiscano i testi non i lettori.fernanda f.

  4. ma insomma isak, sulla “diversità” – in senso positivo (chiamiamola così) di marina pizzi non c’è nemmeno da discutere. o no? piano con questo mettere tutti nello stesso calderone, citando salinger, poi. dài…

  5. @fk. Non uso calderoni per collettivi. E il mio discorso non era rivolto a Marini Pizzi (che non incontra il mio gusto, ma è solo un problema mio). Non volevo nemmeno offendere fernirosso, solo evidenziare la tendenza che ho evidenziato. Lo ammetterai tu stesso che l’esegesi da commento, che tanto dice ma nulla dice, è cosa tipica. O no? Basta dare un’occhiata a 3/4 dei blog di poesia. E che ci sia una fenomenologia del commento condivisa (consapevolmente o no, poco importa) è altrettanto vero. Leggere per credere.
    E Salinger che problema dà?

  6. La poesia di Marina incontra il mio cuore.
    Per rispondere a Isak, per i commenti:
    i commenti sono scritti in una sensibilità
    immediata di lettura. Lo stile del commento
    risponde alla pulsazione del cuore, non di vanità.
    La sensibilità trabocca in metafora, immagini: non
    per fare uno stilo ( lo stilo è il domare dell’emozione
    in una forma elliptica), ma per svelare il cuore del lettore.

    Trovo invece il commento di Fernirosso interessante,
    perché non si accontenta di un bellissimo senza giustificazione.

  7. Il brano che mi è piaciuto di più è il n. 2, perchè è quello dove la tecnica non soffoca – se non a tratti – l’anima. Per il resto, la scrittura della Pizzi mi sembra abile, a volte molto abile, ma anche vuota; a rileggerla lascia un senso d’incompiutezza, di abbondanza mal riposta. Si percepisce abilità linguistica, un notevole uso della metafora, un uso sapiente delle assonanze, ma è come se tutto ciò non “precipiti” in un senso, non faccia scoccare la fiamma, ma giri attorno, di continuo, a qualcosa che non viene mai (o di rado) raggiunto. Qualcosa che resta là, sotto la cenere.

  8. personalmente penso che sì, ci sia eccedenza,sovrabbondanza, addirittura spreco, ma necessario al fine di trovare, in quel maremoto di sentieri, di percorsi tra il corpo del pensiero e il corpo di un’anima che sembra affogata ben più oltre la palude delle parole,ma viva, capace anche di farsi animalità, come l’eco-logia e l’economia che la vita mostra. Se nominassimo senza filtro ciò che dentro gli occhi ci arriva “add’osso”, fin dentro l’os-so, la bocca direbbe in continuo getto l’ex-cedere e, forse, come in questi labirinti di parole che figurano la fuga, nel doppio movimento, dentro-fuori,senza sosta,nemmeno di notte, non troveremmo quella che chiamiamo logica, ragione, razione di una scarsità dovuta alla elementarietà con cui riusciamo a leggere e reggere il troppo, l’eccedente che ci arriva.f

  9. non capisco perché non si parla di poetica..a chi è vicina la Pizzi?..i suoi probabili maestri?..cosa vuol dire?…vuole scrivere per nascondere? per nascondere cosa?…io leggo parole che non mi comunicano molto senso..scusate la presunzione..insomma metaforizzare all’infinito non fa critica!

  10. Queste poesie mi paiono giocare molto di retorica, in senso linguistico. Io sono un po’ ignorante, ma mi sembra di notare pressoché ovunque l’uso della catacresi (più della metafora o della prosopopea). Gli oggetti sono insomma sempre associati ad attributi (o ad azioni) appartenenti a un’altra sfera di significato. Prendo una poesia a caso e ci vedo *lo strazio della casa*, *un dormiente cavo di fatiche*, una *cometa di bambini*, *l’abaco del cipresso*. Oppure *la girandola furbetta* (ma questa è forse prosopopea), *la nube imbrattata*, *le sanguisughe […] condominiali*, *i dondolii di cuori*, *sfinito il mosto*, *la fuga fradicia*, *le ciliegie spinose*, *in gola al nome*, *il movimento di ancorare i gabbiani*. C’è pressappoco una catacresi per verso. O quel che è. In ogni caso a me dà l’impressione di essere troppo, un sovraccarico, un – come direbbe Verdone o la Gerini di quel film – fàmolo strano. Ma è troppo strano. Le immagini si allontanano sempre più, e in ogni parte, e da ogni parte, che non ci raccapezzo davvero più nessun senso. Celan mi sembra il riferimento madre, come lo è di tutto un gruppo di versificatori (specie qui in rete). Un ermetismo spinto all’eccesso e “unidirezionale”, se ha qualche senso dire così. Uno slittamento semantico abusato e incontrollato, come se il senso fosse sempre rinviato perché il senso è solo altrove. Ma anche nell’ermetismo via via più estremo – lo so che mi esprimo alla cazzo,ma tant’è -, prendi (almeno) l’ultimo Celan, il senso mi pare stare sempre in una immagine ben precisa, potente, che, benché irriconoscibile, benché tracciata con una linea illogica, o apparentemente illogica, conserva comunque una sua coerenza, evidente, o addirittura perspicua.
    L’esempio di queste poesie è al contrario quello di un’esplosione incontrollata dell’immagine, danno l’impressione che pure l’autrice la cerchi col lanternino l’immagine, che la segua bizzarria dietro bizzaria. Una bizzaria che sembra cercata a tutti i costi.

  11. @ ferdinando vino
    Scusa, ma a parte fernirosso, mi sembra che i commenti siano stati tutti piuttosto critici; non capisco dunque perchè te la prendi. Avresti dovuto leggere cosa mi hanno scritto quando ho provato a mettere in discussione Saviano…

  12. @ Marina Pizzi

    Perché vuoi farci sapere che sei nata il 5-5-1955? Ha un significato preciso?

    Grazie.

  13. Non mi piacciono, ‘ste poesie, ma a livello di poetica apprezzo il tentativo di spiazzare, decentrare, mettere tra parentesi e far slittare con effetti stranianti il senso. Senso, significato, contenuto, sentimento a fior di verso: ma il Novecento è passato invano? Forse, se vogliamo il signiifcato bello tondo, ben pasciuto, è più gratificante leggere un volantino.

  14. Non mi sto pronunciando sulla Pizzi. Di cui mi incuriosisce il significato che darebbe alla sua data di nascita. Credo che per lei debba essere importante.

    Solo per ribadire che la lettura di un volantino è una cosa assai complessa.

  15. non capisco macondo cosa devi spiazzare, decentrare, se il fulcro della forma e del significato sfugge…quindi interpreteresti i poeti dello scorso secolo, montale, luzi ecc.. come spargitori casuali di sensazioni muscolari, gastronomiche, olfattive, concettuali?…dietro quelle poesie c’è struttura, significato, ritmo, anche un po’ di caso ma soprattutto invenzione di un metodo che è lo specchio della conoscenza che il poeta ha di se stesso..mi piacerebbe sentire l’autocritica dell’autrice per spiegarmi quello che proprio non riesco a decodificare…e cioè cosa significa, che rappresenta, che cronologia declama insomma cosa è per lei in toto questa soporifera poesia rugginante!

  16. @max: con capisco la tua voglia di capire quando hai già deciso di aver capito o non capito. la poesia non si spiega o vuoi la versione in prosa/riassunto scolastico? gli aggettivi te li lascio tutti.

  17. la poesia è un metodo, uno strumento di conoscenza?

    ah ah ah ah ah

    mi piacerebbe sentire l’autocritica dell’autrice per spiegarmi…

    un vero csc, non c’è che dire

    ronf ronf ronf

  18. mais c’est 3 facile, madame: c.ommentatore s.trappato al b.agaglino

    commentatore…
    commentare…

    commenter:

    comment taire?

  19. avete ragione scusatemi..pensavo di sprofondare tra ottocenteschi romanticoccolosi e non avevo capito di essere tra illuminati dell’alea..perché spiegare un flusso di talento allo stato puro che non deve essere giustificato e criticato?..perché si dovrebbe conoscere se stessi per scrivere poesia?…perchè cercare faticosamente il proprio ritmo..perché Luzi e Pizzi non potrebbero collimare?..che senso ha spiegare una poesia? se non per dei poveri professori delle medie…la critica la scrive chi non sa fare il poeta o la critica è una nuova letteratura della poesia? la critica è un genere letterario? crea significati che man mano inventa?…secondo me è tutto frutto del caso avete ragione…scusatemi..vado a commentare qualche racconto di Borges come so fare io..umoralmente..come mi viene..mica bisogna studiare..tutto è caso…un silence cageiano…..

  20. @max: studiare a vita! e, ti assicuro, la poesia non è la parola analfabeta, anzi, è l’agrammatica, l’antigrammatica, lo sgrammaticato farsi del/dal silenzio alla parola altra, nuova, inedita. umiltà un po’ sapienziale, solo un po’ o tanto, secondo l’identità del poeta. ecc… tanto ecc…! che fatica!

  21. @ max,
    vedi, basta citare i poeti preferiti che vengono al dunque le diferenze di “gusti”, o meglio, di poetiche. I miei, infatti, sono, alla rinfusa, Zanzotto, Sanguineti, Pagliarani, Cacciatore e giù di lì.
    Detto ciò, preciso che quella di Pizzi più che una poesia mi pare una poetica.

  22. se uno vuole invitare un poeta a dire qualcosa del suo fare poesia – e invitarlo non significa certo coccolarlo e blandirlo, anzi – pone domande inerenti i testi, il loro essere, il farsi della scrittura in e attraverso quelle coordinate di ricerca: certamente non se n’esce intimandogli un’autocritica – e di/su che cosa, se è lecito? – oppure anteponendo all’intelligenza di uno scritto le proprie opzioni di gusto, elevate a parametro universale di analisi critica dell’oggetto in questione

    se la nostra conoscenza è ferma agli schemini scolastici da antologia letteraria, niente di male, nessuno impone di conoscere per forza zanzotto e compagni, con tutto ciò che ne segue e ne è seguito. però è davvero strano, a ben vedere, richiamare zanzotto e cacciatore e poi parlare di ‘poetica’ a proposito di questi testi. ma tant’è…

    la critica, anche a livello elementare, tiene sì conto dell’educazione complessiva di chi legge e analizza, ma non può mai prescindere dalle ragioni profonde di un testo. ecco perché è morta, e si risolve ormai nella riesumazione di sterili rituali: perché ha creduto che bastasse calare un’opera nelle coordinate museificate, dall’uso e dal disuso, e, in base alla più o meno piena rispondenza al canone pregresso, elargire patenti, stilare classifiche, cooptare gli aspiranti, laureare gli amici, creare consorterie e scuole…

    quando quelle coordinate si sono, alla resa dei conti, rivelate inadeguate a inquadrare oggetti poetici alieni, sghembi (praticamente, gli unici oggetti ‘vivi’ nel panorama asfittico della produzione degli ultimi decenni), ecco che, piuttosto che mettere in discussione i propri strumenti, e cercare di ridefinirli in funzione della comprensione di scritture altre, il criticume italico – anche quello che si dà patenti di ‘progressismo’ alternativo, e poi finisce inevitabilmente per mestare e rimestare sempre nello stesso brodo amicale: premi, premietti o antologie che siano – li ha letteralmente cancellati: via, non sono mai esistiti. e amen

  23. Senza nessuna pretesa di aver ‘capito’ (serve una certa concentrazione svincolata dai nessi logici/logistici e da una forma mentis grossomodo aristotelica, per iniziare a entrare dentro questi versi: e serve tempo, e spazio), resto molto colpito dall’ “abaco del cipresso”: che innanzitutto mi ha ricordato Amelia Rosselli : “Nell’ombra dei cipressi che sovrastavano riconoscevo / l’alfabeto” (Variazioni belliche), qui con più determinazione e identificazione, ma più in generale la necessità, propria più o meno a tutta la grande poesia, di articolare il proprio linguaggio come diretto a, o proveniente da, quello che chiamerei il ”luogo della negatività”. o i luoghi etc.

    Sarebbe interessante sapere cosa ne pensa l’autrice, e riguardo i suoi rapporti con la Rosselli, e riguardo questa idea di fondamenta grossomodo ”funebri” (e perciò sempre ”comuni”) del linguaggio poetico in generale.

  24. @Fabio Teti:
    sì, i miei versi nascono dal lutto, dalla morte per noia, dal rischio costante del crepacuore. dalla costanza del mio cadavere che dà i numeri. funebre senza lacrime ma con urlo e immensità tragica della veglia senza mai sonno ristoratore. il sonno come piccolo suicidio. ecc. nessun vittimismo o gratuito poetichese che tanto piace anche in Rete.
    in gioventù conobbi Amelia, rapporto difficilissimo, quasi impossibile.
    spesso il suo nome ricorre per stanare i miei versi che, secondo alcuni, sono elevati alla seconda potenza.

  25. la poesia di marina pizzi mi sembra essere schiava di un doppio vincolo, del desiderio di raggiungere due differenti e in qualche modo opposti obiettivi. il primo è quello di fare della poesia
    il luogo della decostruzione e della ricostituzione del senso,
    il secondo è quello di proporre una poesia visionaria, dall’aura sapienziale (naturalmente declinata in senso individualistico, come fedeltà al respiro, al corpo, all’identità più che al divino). dal tentativo di raggiungere il primo obiettivo derivano quei connotati della poesia della pizzi che permettono a un lettore come marco giovenale di apprezzarla, quali l’uniformità formale, il procedere quasi meccanico per moduli omogenei, la ripetitività, la tendenza alla asemanticità. dal tentativo di soddisfare il secondo desiderio derivano invece quei connotati che avvicinano la poesia della pizzi al gusto di lettori come massimo sannelli o francesco marotta, e.g., la forma aforistica, il lemma alto o arcaico, la creazione verbale, gli ossimori espressi in accostamenti preposizionali.

    certo, i due desideri sopra descritti sono desideri che ritroviamo accoppiati in molte delle avanguardie storiche. ciò non ostante sembrano essere desideri che, se spinti all’estremo, sembrano escludersi a vicenda. e questo mi sembra accadere nella poesia di marina pizzi. da un lato, ma un’opera di decostruzione e ricostituzione del senso, che voglia operare a partire dalla sintassi, esercitandosi nell’arte di liberare le parole dalla loro rete di connotazioni, di sviarle nel loro tragitto verso il referente, ci sembra, deve essere estrema.
    non può cioè scendere a compromessi, non può indulgere all’allusività, non può aggrapparsi agli espedienti strutturali del linguaggio come lo conosciamo e tanto meno può appoggiarsi a certe forme trite del linguaggio poetico. d’altra parte, una poesia visionaria, una poesia
    dell’eccesso (di senso) si esprime – tradizionalmente – in costrutti eccessivi, ma che si misurano sempre relativamente alla norma del linguaggio quale è dato nel momento storico in cui opera l’autore, e che pertanto, non possono tendere all’abolizione della norma dalla quale in qualche modo dipendono.

    da una parte possiamo ipotizzare il poeta totalmente ingenuo che chiama “miserere della girandola” il mulinello del lavandino della cucina, perché sente così e non sa dire altrimenti.
    un tale poeta sarebbe come certe scimmie che inventano espressioni composte quali “l’albero delle caramelle” per designare realtà per cui non conoscono un nome. un poeta di questo tipo non sarebbe in grado di parafrasare le proprie creazioni verbali,
    non saprebbe sostituirle con altre descrizioni (per es., “l’albero delle caramelle” con “l’albero di natale”). sembra tra l’altro che marina pizzi propenda proprio per questa “posizione” estetica, cfr. qui sopra: “la poesia non si spiega”. è chiaro però che con una posizione di questo genere siamo a mille miglia dal poeta ingenuo ideale, che non conosce altro modo di dire ciò che dice. siamo invece di fronte a un poeta consapevole dell’operazione che sta tentando. e che sceglie – in sede di poetica – una retorica dell’intuitivo, dell’illogicità dell’effetto estetico, dell’inspiegabilità del fenomeno poetico. ma un poeta consapevole sa per certo che il presupposto dell’efficacia della sua operazione può essere molto debole. sa che l’operazione è estremamente rischiosa.

    ogni parola che usiamo porta con sé un fardello di consonanze. un fardello dal quale il poeta vorrebbe liberare la parola. ma per far ciò non basta un accostamento inedito. perché i vincoli sono fortissimi. e marina pizzi lo sa. e risponde infatti al problema in molti modi. in primo luogo con la sistematicità, ossia con l’istituzione di una forma, con l’esibizione reiterata dell’intento. è una soluzione al problema. ma non convince. non solo per il senso di devastante monotonia che induce nel lettore, ma, più profondamente, perché il sistema messo in piedi dal poeta sembra poggiare su strutture che sono proprie del linguaggio come lo conosciamo, ossia sulle strutture della gabbia dalla quale si vorrebbe liberare la parola. e queste strutture non possono servire a decostruire e ricostituire la parola, la sintassi, la grammatica. possono servire tutt’al più a metter su una sorta di linguaggio privato, un piccolo impossibile sistema autonomo.

    un sistema che, costitutivamente, è strozzato dal doppio vincolo: il sistema si vuole autonomo – questo desiderio, espresso e ribadito nei connotati formali, serve a fondare l’efficacia dell’operazione come operazione di costituzione di un nuovo senso – ma ricorre
    costantemente a strutture e soluzioni ben note alla tradizione poetica.
    la tendenza alla forma sapienziale è un altro tentativo di compensare la perdita di senso (e dunque – almeno in un primo momento – di efficacia) derivante dal recidere i legami di significazione convenzionali. è questa, d’altra parte, una scelta in qualche modo obbligata: laddove io creo un composto verbale per il quale non so fornire (o asserisco di non saper fornire) un sostituto, una parafrasi, e per il quale non so fornire (o asserisco di non saper fornire) neppure un referente, le scelte argomentative per sostenere l’efficacia della mia creazione verbale si restringono drasticamente. è allora una soluzione abbastanza a portata di mano quella di indicare come referente e dunque come fondamento dell’efficacia estetica del composto verbale, un oggetto-limite, anzi una cosa in sé, magari la rimossa inattingibile parola primigenia. e marina pizzi sembra fare proprio questa mossa, in sede di poetica, ma anche non farla, ricorrendo invece all’argomento dell’autonomia dell’opera d’arte (ciò è evidente per esempio nella sostanziale omogeneità tra la poesia dell’autrice e i suoi commenti alla propria poesia). ancora una indecisione, un tentennamento tra due vincoli che sembrano escludersi a vicenda. mettendo sempre a rischio la poesia che ne risulta a vivere in una certa dimensione di insignificanza. un rischio che forse l’autrice non teme. ma un conto è non temere il rischio, un altro è non preoccuparsi del danno.

    saluti,
    lorenzo carlucci

  26. posto questi scritti di massimo sannelli su marina pizzi per far capire il perché termini come eccedenza sovrabbondanza spreco (linguistico) siano quanto di più lontano dall’autrice, che cesella, matematicamente, ogni sua parola-vita. di certo non credo che questo cambi il parere di molti, né pretendo che ciò avvenga… sono fermamente convinta, però, che alla base di tutto questo chiacchiericcio prevalga la pigrizia, per non dire l’inerzia mentale, dei più.
    marta

    domani è il compleanno di Marina Pizzi: di un poeta. ecco alcuni appunti su Marina, i primi che riesco a scrivere – di tentativo in tentativo [per *L’acciuga della sera i fuochi della tara*, Pensa, Cavallino 2006, in particolare]

    1- la donna che si chiama Marina Pizzi è nata il 5 maggio 1955. il poeta che si chiama Marina Pizzi scrive questa data con una serie di numeri: 5-5-55. per il poeta nasce un Simbolo usuale, che toglie i segni diversi (il numero 5 formato da una sola cifra, il mese di *maggio* in sei lettere, il numero 1955 in quattro cifre) e impone una simmetria molto visibile e molto nuda. ora il “calendario da sopportare” (36) è corretto da un controllo scritto: perciò “la trama a grandi passi del sudario / smentisca le cesoie del datario / faccia rivoluzionario l’ultimo lucore” (22).

    2- il figlio *non* influisce sulla data di nascita, di cui *non* è responsabile. nato, vuole addomesticare la data con una serie di numeri uguali: eliminando ciò che sfugge alla simmetria dei quattro 5. la simmetria incorpora la separazione e la sottrazione (il valore del trattino, uguale al segno meno della matematica, è questo), così come le incorpora la vita stessa. d’ora in poi, il trauma della nascita sarà sotto una disciplina: si rinasce al pensiero della *regola d’arte*.

    3- la sottrazione è un motivo continuo: “sottraenti addendi” (1); “nei mostri dell’infanzia il tuo bel viso / scaturiva le rendite del perdere” (5); “Ha un sudario che sembra un coriandolo” (13); “vena da zero / spaccata da zero” (17); “le furie di artista siano rese / al grembiule del macellaio cortese” (29); “Così grande l’aratro di non mangiare / il giro con lo zero del censimento” (62); “La rondine è ridotta a trainar la biga” (64); “Così ne fui gennaio col natale / letargico da sempre in culla al meno / io senza più d’altri” (85); “spoliazione del regno di stradette” (97).

    4- la tradizione elettiva diventa genitoriale e accogliente: enigma devinalh indovinello paragramma calembour magia, e una Dickinson che contiene tutti i giochi, fatti disperando e contestando. dall’altra parte, ci sono i gesti della famiglia naturale “il tatto di tua madre senza amore / il fiuto di tuo padre senza amore” (62); “I figli hanno sempre i calli di tutti / congeniti / nidi d’ape da rifuggirsi in fuga / o da piagarsi in tana” (84).

    5- ogni poeta della poesia non ha, ma *è*, un vocabolario. quello di Marina Pizzi è ripetitivo, perché *solo* la geminazione e la ripetizione creano la storia [una cosa *assolutamente* unica, senza parentele e somiglianze, e irripetibile, non può essere detta]. ecco i primi termini: l’angelo (3, 4, 55), l’angolo (3, 4, 20, 55), l’acciuga (1, 2, 36), la rondine (33, 45, 47, 48, 62, 64, 79), il cipresso (12, 23, 43, 49, 71, 79), la neve (15, 18, 44), l’eremo (1, 82), le muse (56, 64). i termini sono oggetto di variazioni continue, senza noia. La noia spegnerebbe il gioco, che coincide con la vita. la produzione di Marina è enorme e incessante: vive dispera contesta.

    *

    è pazzo chi gioca per disperazione? è pazzo chi *non* gioca [ma non è pazzo chi spera]: a chi non gioca sfugge sempre il valore *filosofale* delle parole; e gli sfugge – è la cosa peggiore – il legame tra un’*infanzia stregata* e una tradizione letteraria. intanto “i pittori e i poeti della domenica / arrotondano convinti” (54) e l’Accademia – che dà o toglie o nega il lavoro – rigetta le cose le esperienze i poeti disintegrati, finché sono cose esperienze poeti *vivi*. le poesie 30 e 80 parlano di questa vergogna, molto nota.

  27. marta campi, che scrivi: “posto questi scritti di massimo sannelli su marina pizzi per far capire il perché termini come eccedenza sovrabbondanza spreco (linguistico) siano quanto di più lontano dall’autrice”: ma la nota di sannelli che proponi conclude così: “la produzione di Marina è enorme e incessante”. c’è molta distanza tra “eccedenza”, ed “enormità”?

    lorenzo

  28. @lorenzo hai bisogno di essere imboccato verso una risposta? è chiaro a quale dei due termini mi riferisco. produzione risultato poetico sono ben lontani dal fondale scelto per la discesa.

  29. Leggere Marina significa aprire i sensi per ospitare il linguaggio, ogni parola è pregna di un’intera storia sua propria, modulata drammaticamente e musicalmente nell’incedere, “andante maestoso”, di versi che riflettono – in un continuum di tensione – la scissione insanabile dell’esistenza tra memoria e presente, laddove tutto appare come presagio inquieto, squarciante e lancinante fino alle ossa, fino all’empirica esperienza del verbo, della parola – che verrà sì curata e ricercata – non per vuoto e ridondante virtuosismo ma – appunto – per drammatica esorcizzante esigenza di dare corporeità e fisicità verbale al dolore.

    ***
    nel frullo di sconfitte ho visto l’alba
    oltre la baraccopoli del senso
    e del verdetto

    M.P.

    bastino questi tre versi, Marina, a sintetizzare tutto e andare avanti.

    a rileggerti presto,

    n.c.

  30. @MarinaPizzi
    “sì, i miei versi nascono dal lutto, dalla morte per noia, dal rischio costante del crepacuore. dalla costanza del mio cadavere che dà i numeri. funebre senza lacrime ma con urlo e immensità tragica della veglia senza mai sonno ristoratore. il sonno come piccolo suicidio.”

    un po’ meno di enfasi auto-centrata ti avrebbe almeno evitato il ridicolo.
    peccato.

  31. @marta campi
    Si può lavorare accanitamente per sottrazione e risultare ugualmente prolissi – ciò in linea generale. In riferimento alla Pizzi, che la poetessa scelga con accuratezza le parole è fin troppo evidente; altro è, però, fulminare le parole stesse, incendiarle per calore eccessivo. Un esempio supremo è la citata (da Sannelli) Dickinson. Il punto è: la ricerca inesausta, lo scavo, vogliono giungere alla sintesi e non vi riescono, oppure non vogliono, oppure ancora la sintesi è già qua, sotto i nostri occhi?
    ps: una grande poesia non è necessariamente sintetica (anche se spesso lo è, e non per forza in un testo breve: la DIVINA COMMEDIA è grandiosamente sintetica), ma insisto su questo punto perchè tu sostieni che l’abbondanza della Pizzi è ottenuta per privazione, dunque con faticoso labor limae e dopo tentativo d’asciugare un surplus che noi ora non leggiamo.

  32. * Poesia non è la messa in scena di una realtà preesistente, esterna all’invenzione linguistica, poesia è nuovo evento. Per questo il poeta da una parte custodisce il valore della parola, lasciando intatto il suo legame col silenzio. E dall’altra favorisce le transizioni fra codici differenti (…) allo scopo di favorire una nuova relazione con la passione della verità. *

    * Non si tratta di assegnare un ruolo eminente e primario alla figura del poeta. Solo di stabilirne la specificità. Su ciò che ancora non si sa, come su ciò che non è più logico, l’uomo suole imprimere una forma e un nuovo linguaggio, per dominarlo. Pretende di gettare una luce completa sulla sua esistenza e sulla realtà. In questo modo vede bene ciò che ha, ma non ciò che è. Ma il linguaggio non è solo una rigida struttura logicizzante, padroneggiata dagli utenti. Contro questo linguaggio la parola poetica è insorta allo scopo di non annullare una parte consistente dell’essere al mondo. *

    * In quel sondaggio dell’inesplorato, in quella noncuranza dei significati e della vita, in quell’entrare nel proibito c’è la disposizione ad accogliere come autentico ciò che è instabile e la volontà di porre nuovi interrogativi all’ora presente. *

    la poesia della Pizzi abita questi territori, dove variamente si intrecciano, in un intrico inestricabile, i percorsi del pensiero, delle arti, delle scienze, della musica etc. – * le transizioni fra codici differenti * – dell’ultimo mezzo secolo. non esserci mai stati, non è grave; ma l’incapacità di uscire dal proprio orticello dovrebbe, almeno, produrre in qualcuno l’astensione volontaria dallo scrivere, e dal continuare a scrivere, un cumulo di cazzate (cumulum cazzatarum).

    ormai è chiaro, e l’insieme dei commenti ai post di poesia degli ultimi mesi su NI lo conferma: la poesia è afflato mistico, lampo che incendia, spirito fatto parola – da una parte; oppure è pura e semplice rappresentazione dell’esistente, del dato reale, cronachismo socio-antropologico, velleitarismo pseudocritico fatto di politicamente corretto e petizioni di principio

    chi si discosta da questo dualismo che, nella migliore delle ipotesi, restituisce a malapena piccoli brandelli di quella tela interminata che è il *reale*, e utilizza il *linguaggio* non come strumento inerte di catalogazione e razionalizzazione della dinamica dei frammenti, ma come materia stessa nelle cui cellule il reale si iscrive e prende voce per manifestarsi, finisce per diventare l’oggetto alieno di cui sopra

    ma sono solo, e proprio, questi *oggetti alieni* che permettono di spostare oltre l’orizzonte plurale di senso nel quale siamo accampati, di porre ogni volta domande nuove all’ora presente, di aprire squarci inaspettati in ciò che quotidianamente trascorre nell’indifferenza del nostro sguardo – unidimensionalmente educato e posizionato, restio ad abbandonare le logiche della rappresentazione, la certezza di ciò che appare, per inoltrarsi nei territori di ciò che è – e che vive, all’insaputa dei nostri occhi, nell’assoluta libertà della sua irriducibile natura

  33. “la notte della tasca lo stato infetto
    quando al duetto delle voci nere
    erra lo scopo di capire l’angolo.”

    grazie marina

    m.

  34. @ orfeo
    Dici: “ormai è chiaro, e l’insieme dei commenti ai post di poesia degli ultimi mesi su NI lo conferma: la poesia è afflato mistico, lampo che incendia, spirito fatto parola – da una parte; oppure è pura e semplice rappresentazione dell’esistente, del dato reale, cronachismo socio-antropologico, velleitarismo pseudocritico fatto di politicamente corretto e petizioni di principio.” E’ chiaro a te, a me no. Come non mi è chiaro perché la poesia della Pizzi sarebbe “oggetto alieno”. Quello che mi è chiaro è che una poesia può parlare di qualunque cosa, quand’è poesia – in fondo, è tremendamente semplice; l’aridità di Montale, ad es., io la trovo, al suo meglio (OSSI DI SEPPIA), molto “spirituale”. La spiritualità di Rimbaud o della Dickinson o di Blake o Leopardi è mostruosamente materiale, corporea. Ciò vale anche in narrativa: un es. mi viene subito in mente: Flannery O’Connor, fervente cattolica i cui racconti brulicano di materia. Eviterei dicotomie spicciole, e rimarrei sul testo in questione. Sul quale, de gustibus non disputandum. Ma fare dei lettori di NI tutt’un fascio mi sembra azzardato.

  35. l’alienità, caro diamante, sta nel fatto che tu non vuoi/puoi capire: che esistono infiniti volti di quel corpo di parole che chiamiamo poesia, e che quello a cui tu fai riferimento è *uno*, uno solo, di quegli infiniti. perciò, laddove scrivi: “quand’è poesia”, tu stai riducendo quella molteplicità inafferrabile ad unità, e l’unità corrisponde, esattamente, a ciò che, *per te*, è poesia. leggere i poeti alla luce di quello che *noi* pensiamo *sia* poesia, è negarne l’esistenza, la necessità che ne fa *quel* corpo e non un altro, i.e., quello che ci è più familiare

    tu scrivi, sicuramente, e non puoi negarlo: ti sei mai chiesto, scrivendo le tue pagine, cos’è il linguaggio, in sé, indipendentemente dal fatto che lo utilizzi come medium per veicolare questo o quest’altro pensiero, questo o quest’altro sentire? ti sei mai provato a fargli dire qualcosa di sé, del suo essere prima delle cose che indica, e ad utilizzare te stesso come ‘strumento’ attraverso il quale è la parola a dirsi?

    ebbene, l’operazione della pizzi, che piaccia o meno, è in buona parte racchiusa in queste due domande. di questo biognerebbe parlare, non del fatto che risponda o meno alla *mia* idea di poesia

    p.s.

    guarda che le domande qua sopra sono retoriche: non sto affatto dicendo che tu quelle operazioni non le fai

    e poi: ho citato NI solo perché, in ogni caso, lo ritengo ancora – anche sotto il profilo della qualità dei commenti -, nettamente superiore a tutto il resto, in rete e in materia. altrove siamo all’avanspettacolo puro, alla chiacchiera da bar sport, al dilettantismo elevato a sistema, al circolo della canasta o alla bocciofila

    en passant:
    guarda tu stesso: è bastato che pinto postasse ceriani o la pizzi, e zac!

    vi saluto, vado a svuotare la cantina, mi hanno sfrattato

  36. la semantica considera il rapporto tra l’espressione e la realtà extralinguistica..giusto? la poesia della Pizzi che in certi momenti (pezzi di poesie) è sicuramente polisemica…ma in toto non cronologica, non ha un percorso ricostruibile non ha consecuzizioni, quindi per me è inspiegabile ma non nel senso della polisemia insita nella poesia stessa ma nel senso della mancanza strutturale di significato, di sintesi..in poche parole sembra che essere così inspiegabile è una vanità che lei rivendica e giustifica..la sua scrittura poi è ricca di simboli..parole scagliate molto significative che il lettore cerca di collegare alle altre…non so..sono sempre aperto alle critiche…comunque questa è a tratti una discussione interessante…socratica…stimolante.

  37. ciò che mi dispiace, in tutto questo, sono le bancarelle…finiscono per essere bancarotte. Se qualcosa c’è da leggere è, a questo punto, solo da leggere senza altro spreco.f

  38. Ringrazio Marina Pizzi della risposta – tutt’altro che ridicola, mi sembra.

    Un saluto

  39. @orfeo
    Che il linguaggio sia il mistero senza fine nel quale viviamo immersi è fuor di dubbio. Ma di questo passo diventa impossibile l’atto stesso di critica (un’evenienza nient’affatto da escludere, anzi una possibilità inquietante, forse l’unica vera possibilità), o addirittura di nominazione. Insomma andiamo dalle parti di Wittgenstein o Heidegger. Dopo di che, rimanendo al di qua dell’intelligibile, devo/posso esprimere un mio parere, altrimenti la Pizzi non avrebbe nemmeno postato l’opera, no? C’è anche la possibilità che l’opera venga postata semplicemente per essere, per esistere in un contesto di ammirazione o rimirazione, similmente a una statua, cionondimeno io tento sempre un approccio, sono autorizzato dal post a tentare un approccio. E, pur con il rispetto che l’opera della Pizzi merita e che ho già sottolineato, mi sembra questa una poesia “abbordabile”, è forse è proprio ciò ai miei occhi il suo difetto: una mancanza d’ambiguità causata dall’accumulo e non dall’elusione, una mancanza di chiarezza che non è oscurità, ma – a tratti – opacità.

  40. diamante, tu dici: “devo/posso esprimere un mio parere…?”

    e chi te lo vieta? infatti l’hai espresso, ma proprio, e solo, di un *parere*, si tratta: tangenziale, periferico, sommativo e sommario

    la critica, ne converrai, è ben altro, sta altrove: necessita di un impianto teorico, scava in profondità, e non può fare a meno della capacità di ascolto, da parte di chi legge/analizza/critica, delle ‘risonanze’ che l’oggetto dell’attenzione irradia – soprattutto quando questo ‘oggetto’ è il frutto di percorsi decennali e il prodotto di una lunga, ininterrotta frequentazione/interrogazione della/intorno alla ‘parola’ poetica

    resta inteso che la ‘capacità di ascolto’, se esiste, non può mai identificarsi con la quantità di citazioni che si è in grado di mettere in campo: a volte sono solo un alibi per mascherare l’incapacità di una elaborazione autonoma – stampelle, insomma, ma prima o poi bisogna pur imparare a camminare senza reggersi

    non ‘parere’, ma analisi critica, ad esempio, è quella proposta dal ‘gentile’ signor Carlucci. personalmente non ne condivido la seconda argomentazione e la conclusione, ma non è questo l’importante: lì c’è, comunque, un pensiero critico in atto, un’analisi radicale che i suoi presupposti li mette in bella mostra, e si espone (senza, apparentemente, assolutizzare – almeno fino alla conclusione, quando l’autore del commento non ha potuto fare a meno di mettere a tacere i testi e sostituire al ‘silenzio conseguito’ il suo ‘parere’)

    ma ha potuto farlo, in ogni caso, solo perché l’immersione in profondità, alle radici dei testi, c’è stata, e anche prolungata

    così, pure, certamente un ‘parere’ non è la ‘risonanza’ che emerge con pienezza dagli scritti di Sannelli postati sopra – anche se qui l’autore parte da intenzioni e presupposti critici divergenti, se non propriamente opposti, rispetto al primo esempio

    e poi tu parli, ancora, a mo’ di cortina fumogena – non si capisce bene per nascondere cosa – di “possibilità che l’opera venga postata semplicemente per essere, per esistere in un contesto di ammirazione o rimirazione” – è questa, se permetti, è un’annotazione abbastanza puerile, te la potevi risparmiare: ti sembra che il ‘gentile’ signor Carlucci si sia speso in un esercizio di ‘ammirazione o rimirazione’?

    a me pare proprio di no. e nessuno dei lettori a cui l’opera della Pizzi piace (quorum ego) l’ha minimamente contestato o bandito. anzi. credo, infatti, che i poeti *veri* – e la Pizzi lo è da sempre – abbiano proprio bisogno di ‘sollecitazioni’ di quel tipo, per continuare la loro interrogazione e il loro percorso con una chiave in più aggiunta al mazzo della consapevolezza – non fosse altro che per aprire un’ulteriore ‘possibilità’ da esplorare

  41. le vere ‘pippe’ sono le sue due domande, gentile signor Aragno – almeno fin quando non spiega di quale poesia sta parlando e quale poesia sta cercando

    anche sandrobbondi scrive poesie, non le risulta?

    quindi, meglio dare almeno qualche tratto del profilo, se non proprio un ritratto, della ‘persona’ versicolare a cui si allude

  42. Mi può dare del ‘tu’, Morfeo.
    Semplicemente noto, con mio sommo rammarico, che vi lambiccate il cervello da giorni perdendovi in vani e loqui intorno ai massimi sistemi poetici ma perdendo di vista la cosa più importante: i testi. Apprezzo molto, invece, la critica del sign. Carlucci. Tutte il resto è solo un esercizio onanistico della propria intelligenza ed uno sfoggio gratuito della propria cultura. Troppa puzza di salotto, insomma.

  43. hai ragione Marco Aragno..siccome da domani pubblicheranno tutti i nostri post nella collana di critica letteraria della Einaudi, o rizzoli, o feltrinelli…dobbiamo essere più coscienti e autocensurarci per scrivere qui…prepararci a scrivere una trimegista critica alla Carlucci (che in effetti è interessante)…e poi sono gli altri che appestano il tuo salotto?…emenda la tua versione di blog!

  44. @orfeo
    Ti rispondo ancora, benché davvero proseguendo troppo a lungo si manchi di rispetto alla Pizzi. Io ho espresso il mio “parere” fin da subito, argomentando; e non credo sia necessario studiare la Pizzi (e chiunque altro) per 20 anni prima di sbilanciarsi sui suoi testi. Ho detto quel che mi piace e quel che mi piace meno, senza pretendere di rivelare alcuna verità assoluta. La stessa cosa che dovresti fare tu. Ho parlato dell’atto del postare in linea generale, e non in riferimento alla Pizzi: leggi meglio. Ho esposto a più riprese cosa intendo, sempre in linea generale, per atto di critica, ma da un orecchio ti è entrato e dall’altro ti è uscito. Più di questo non posso fare.
    @aragno
    Preferisci un post di un rigo: sì bella, no brutta? E ogni discussione è necessariamente sfoggio? Siamo in un blog letterario oppure facciamo come in tv, la parola un minuto a testa così non si capisce un tubo? Se senti puzza di salotto, poi, ti informo: questo E’ un salotto. Che lo vogliamo o no.

  45. ot

    gentile nazione indiana, dovresti provvedere ad attrezzare un’area riservata, ad accesso codificato, per commentatori come massimo, ferdinando, scafista & af-fini

    forse non te ne rendi conto, ma la profondità di pensiero e di cultura che si palesa ogni volta che costoro intervengono, fa sentire noi altri, tutti, ancora più piccoli di quello che siamo

    e questa non è cosa buona e giusta, siamo già consapevoli già di nostro della pochezza che rivestiamo. perché infierire?

  46. gentile diamante, hai perfettamente ragione, più di questo *non puoi* fare

    io, invece, di cose da fare, cioè da scrivere, ne ho altre tre, prima di chiudere: una parola, un mea culpa, un consiglio

    la parola: amèn

    il mea culpa: mi pento di non aver preso nella giusta e dovuta considerazione la lungi-miranza della gentile signora Alcor e del gentile signor Sergio Garufi

    il consiglio: approfondisci la conoscenza della lingua tedesca

  47. @orfeo
    Per carità! Non s’illuda d’eguagliare la sfrenata simpatia di Garufi e l’altissimo ph della Alcor! Quelli sono irraggiungibili, un duo d’attacco devastante, Gullit e Van Basten in rete (webbica). Che le hanno consigliato, di lapidarmi?
    Quanto al suo consiglio sul tedesco, lo seguirò: non c’è mai da imparare abbastanza. Anzi potrei postare direttamente in tedesco, la prossima volta; non è una cattiva idea.
    Tornando alla Pizzi, voglio fare un’altra annotazione: non ho ancora ben capito se l’espediente delle frasi brevi, secche e consecutive ch’ella usa spesso giovi o meno alla poesia in questione. Questa paratassi alle volte perde efficacia, alte ne guadagna. Leggendola ad alta voce, ne sortisce il medesimo dubbio. Il ritmo è incantatorio o monotono? Andrebbe riletta ancora e ancora. Se è vero che ogni poesia va declamata ad alta voce, in questo caso la raccomandazione è d’obbligo. Stanare la poesia della Pizzi, estrarne dalla massa il nocciolo, non è semplice, e questo mi sembra già un valore intrinseco. Benché io ami soprattutto la poesia breve, credo che proverò a leggere altro di questa autrice enigmatica.

  48. “… potrei postare direttamente in tedesco, la prossima volta; non è una cattiva idea…”

    ah gentile diamante, benedetto figliuolo, niente, non c’è praticamente niente che ella non sarebbe in grado di fare. e bene, immagino, sempre al meglio

    guardi, o gentile, la sua modestia la fa pienamente manifesto di questa nobil patria natìo alla quale non potrebbe mai essere molesto. una modestia inversamente proporzionale alla brevità del verso che ella ama

    sìi, gentile diamante, e buono

  49. all’ombra di un Arbre Magique al cianuro:
    rileggere Cattafi

    *

    pensavo fosse dino (o fernando)
    invece è il consigliere personale di Moira Orfei

  50. gentile scafista, e proprio vero, e con le sue accorate parole lei lo conferma in pieno: il primo amore non si scorda mai!

    così immagino che questo cattafi di cui lei parla non possa essere altri che il suo ex datore di lavoro

    che cuore grande che ha lei, altro che ex: chi è stato scafista una volta, lo rimane per tutta la vita

    p.s.

    mi perdoni, ma devo correggerla: consigliere parti-cul-are, non personale

  51. noto con (poco) stupore che
    il Consigliere Ai Party-cool
    di Moira scrive pizzi-ni
    stupefacenti.

    *

    da unexscafista:
    la sua deriva mi
    rallegra.

  52. @ M. Orfeo

    Gentile signore, la Sua considerazione mi lusinga alquanto.
    Temo però, di avere ancora molto da imparare sui messaggini in codice.
    Ah, no, scusi: la sua è cccoici*, gli altri sono csc.
    Il mio “cheppalle”, poco fine, lo ammetto era rivolto più che altro, alle fumisterie critiche e non alle poesie della Sig. Pizzi, che io rispetto come tutte le persone che si mettono in gioco “esibendo” i loro prodotti mentali.

    *Critica Cabbalistica O Chiacchiericcio Informe

  53. @ M. Orfeo

    Mi scuso. Ho messo, nel post precedente, una c e una i in più in ccoci* ma forse può andare bene lo stesso.

    * Critica Corrucciata Cabbalistica O Inutile Chiacchiericcio Informe? (le lascio il beneficio del punto di domanda)

  54. Mondo, sii, e buono;
    esisti buonamente,
    fa’ che, cerca di, tendi a, dimmi tutto,
    ed ecco che io ribaltavo eludevo
    e ogni inclusione era fattiva
    non meno di ogni esclusione;
    su bravo, esisti,
    non accartocciarti in te stesso in me stesso


  55. tende alla
    profondità
    il sub
    maggiordomo
    ma an-nega nella
    mini piscina
    gonfi-abile
    dei ri-bambi-ni
    o
    o
    o
    o
    o
    o
    o
    o
    o
    o
    o
    le bollicine
    o
    la nazione gentile
    o
    o
    o

  56. gentile scafista, c.v.d. lei è un grande p(o)eta, del resto non era difficile intuirlo da *precedenti* indizi & afr-ori, ma grazziaddìo ora abbiamo sotto-nano una magni-fica espressione del suo genio

    in un altro post un gentile signore cerca esempi di poesia speri-mentale e nomi di p(o)eti sperimenta-tori: eccone un ex-empium trans-ce(n)dente che più luminoso non si può

    grz nfnt pr vrc prtcpt l s rt

  57. edizioni cinghiale

    per
    un criti-sciò grande
    occorre
    un p(o)eta grande

    gentil-mente
    claro, no?

  58. “Scuse us, chorley guy! You tollerday donsk? N. You tolkatiff scowegian? Nn.
    You spigotty anglease? Nnnn. You phonio saxo? Nnnn. Clear all so”

    JAMES JOYCE, Finnegans Wake.

  59. “Necessità e finzione:
    ché nulla, nulla dal profondo autunno,
    dall’alto cielo verrà, nessun maestro”

  60. Ai letterati che brandiscono la clava della censura contro i commenti di noi reietti e, contemporaneamente, offendono il loro parimenti illuminato “Sandro Bondi” porgo i miei auguri per una pregoce andropausa.

    Chiedo a “unexscafista” di scrivermi da qualche parte.
    Magari si potrebbe fare un ritrovo di squallidi reietti bisognosi di morte.

    Saluti e libertà
    Ferdinando

  61. “Ai letterati che brandiscono la clava della censura contro i commenti di noi reietti…”

    gentile Ferdinando, mi consenta: se può, beva di meno. lo so che è difficile, visto il retaggio, ma almeno tenti. lei è l’unico a non essersi accorto che si stava simpatica-mente trolleggiando e sim-paticamente prendendosi per i fondelli

    è questo, mi creda, il chiaro sin-tomo di pre-goc(c)e (N)and(r)o-pausa

    e, la prego, gentile Ferdinando, sìi, e buono, col mio amico sandro: che male le fa quella gentile creat-urina?

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.