L’indecenza
di Mariasole Ariot
Gli alberi sono degli alfabeti, dicevano i Greci.
(Roland Barthes)
La prima volta, dopo molti anni, l’ho vista arrivare dall’alto. Un cavalcavia e il suo corpo ombra che in lontananza sembrava un arbusto senza foglie, due rami che si allargano al cielo aggrappati tenacemente al manubrio di una bicicletta troppo alta. E quel gesto tipico della vittoria aveva in lei l’ansia della resa, dell’abbandono disperato della vittima che attende il sacrificio: la testa rivolta al cielo, identica ai tempi del liceo, chinava da un lato appoggiata alla nuca, come se pesasse troppo o chiedesse una tregua all’Inferno o a qualche Santo dimenticato.
Arrivava dall’altro lato della salita mantenendo la posizione di fatica anche in discesa, patita, con l’acqua alla gola e senza gola, le gambe rapide, secche, indecenti – come le ha definite la sorella – tremendamente magre, asessuate. Indecenti. Questa parola si ripete, le trapana il cervello fino al punto di non ritorno che chiede una ripetizione per essere digerito, triturato come il cibo frantumato che si nega: Olga é indecente, un corpo indecente, la lingua di una casa indecente, la mia annata indecente.
Mi ferma allungando un braccio e spingendo la bicicletta contra la mia che sale, ruota contro ruota – mi scruta fisso, il tono aspro e incalza:
Ciao. Sai chi sono?
Certo, Professoressa. Lo so bene. Come sta?
Secondo te? Tu come mi vedi? Come mi vedi?
E la sua voce é come l’urlo di allora. Un acuto senza crescendo, che parte e resta altissimo, lacerante, le strilla dei gatti che a primavera sembra stiano per morire da un momento all’altro per azzannarsi.
E invece desiderano notti d’amore. E amore.
Male.
Male, vero? ripete lei.
Si, male, Signora D. E non lo sopporto.
In una frazione di secondo il mio sguardo cambia posizione: non é più la mia professoressa di tedesco, é una donna anziana, livida, una bambina dentro l’utero di una donna che spinge al fuori, tende a quell’Aperto osceno che le ha impedito di vivere e da quell’Aperto rifugge, terrorizzata. I suoi occhi sono un’alterazione mostruosa dell’immaginario e cercano di perforarmi. Non si mangia mai da soli, scriveva Lacan, si mangia sempre alla tavola dell’Altro, e oggi che ritrova me donna, mi chiede questo, di mangiare alla sua tavola. Di sedermi con lei e stare a guardare quell’indecenza. Per mano.
Anche tu avevi il vuoto, vero?
Si, anch’io. C’erano solchi violenti. E lei lo sapeva.
Io ero cattiva. Per questo lo sapevo. Sai da dove vengo?
Da dove, Signora D.?
Dall’Inferno. Sinfonia n. 3 Gorecki
Dalla nuova casa dei profumi. Mia sorella e mio fratello ne hanno aperta una poco più in là, un centinaio di metri. Se non fossi malata, se avessi passato una vita decente, magari anch’io adesso starei lì a distillare i fiori. E le erbe mediche. E invece guardami. Sai cos’ha detto oggi mia sorella? Che le faccio paura. Che sono solo uno scheletro che divora le ossa, che riesco solo a bucare le scarpe camminando avanti e indietro per tutto il tempo che mi rimane e me ne rimane poco, che il tempo è una questione da adulti e che io sono una lattante di sei anni battezzata al seno di mamma, perché il mio é una cavità nel vuoto. Mi vedi? Solo costole e domande, e in realtà non me la faccio più le domande, perché per chiedersi c’è bisogno di una lingua e la mia lingua non ha papille, sono un mostro sottratto al senso, la macchina mangiante per la mamma.
Essen, in tedesco: Mangiare, Essere. E lo sai da quando sono malata, lo sai piccola mia? Non lo so nemmeno io perché senza tempo non c’é neppure più il tempo di mettersi a pensare. Non ci sono ricordi. Non esiste lo spazio se non questo luogo che é un non-corpo. Le lancette del cadavere, i battiti, bradicardici. Solo quelli.
Erano gli anni cinquanta e la mamma mi diceva: Olga guarda che bella che sei, sei la bella Olga della mamma, la più brava di tutte, sei la sola mia gioia, la mia felicità grassa, le mie cosce preferite, guarda il mio angelo, guarda che brava tu che non sei mai cattiva sei la bimba gentile il piccolo cerbiatto.
Moriva una donna nella gabbia delle figlie, e ne restavano i resti, rimasugli organici, caverne.
Io lo sapevo, sai, che anche tu avevi la carne nascosta nelle tasche, quando ti guardavo dalla cattedra. Ma i cani non possono divorare gli avanzi all’infinito. Avrei voluto io, essere quel cane sotto al tuo tavolo appoggiato alle ginocchia, ti avrei detto dammi un morso ancora e dimenticami, sono il cane bastardo della vostra tavola, che mangia e mangia senza conoscere il confine. Lo vedi questo cavalcavia? Un giorno sono scappata per non vederlo più a cercare l’appetito e ripetevo come la filastrocca: via! via! via di qui cavalca la via cavalca la via, con le trecce legate col fiocco bianco credevo ci fosse un fiume e un desiderio d’acqua – e ho trovato un binario morto. In quegli anni non si parlava di anoressia, pensavano che fosse un cuore a destra ad impedire al cibo di raggiungere le parti giuste per finire invece nei polmoni: mi mancava l’aria, questo era. Aria, e la leggerezza dell’acqua. E non lo capivano perché non si può capire, perché non lo capiscono nemmeno adesso, quando i piccoli gendarmi ti dicono di ingoiare l’uovo e la pillola e tutto il guscio. Sai cosa sto facendo da giorni per mia madre? Come le colazioni degli alberghi a Vienna. Riempio la tavola dall’interno, divoro prima di sentire, stendo la tovaglia bella nello stomaco e poso tutto con la meticolosità di un chirurgo, della più brava delle governanti governo il mio corpo e lo preparo al pasto nudo, al punto vuoto di ogni cosa, della Cosa, di quella Cosa perduta che non so neppure io cosa sia, tu lo sai? Col tuo bel nome da brava bambina? Lo sai cos’é che abbiamo perduto, dov’è l’origine di quella assenza di quella mancanza, di quell’errore? A volte mi capita anche di sognarlo.
L’ultima volta era questo: la via di un centro affollato e uomini e donne trampolino che saltavano con un aggeggio appuntito. Per ogni passo un buco nel terreno. E poi dall’alto arrivano i ragazzi-uccello, due giovani amanti col corpo di statua e la pelle d’ambra e alla bocca avevano un enorme becco, alla schiena un paio d’ali. Erano questi uomini alieni che parlavano la lingua più bella della terra, oltre la terra, oltre il sole, un tedesco senza gutturali ma coi veri significanti e io me ne stavo là rannicchiata sotto la cattedra per nascondermi sperando però anche che mi scoprissero, per essere portata via. Lontana. E uno degli amanti becco si avvicina e mi solleva stringendomi per il collo. Nel sogno c’era carne da prendere. Vola verso le carceri , ma la prigione ha il tetto scoperto non è più una prigione, è un luogo d’ombra in cui a restare lo si fa per scelta – e mi lascia lì, tra un muro portante e una sua crepa. Allora io chiedo e urlo e sbraito: perché in questa fessura? Perché qui, proprio in questo spazio cavo, qual é il motivo? E con la lingua più bella e un cenno di capo mi dice semplicemente: perché si. Perché la fessura? perché mi hanno dato una fessura e non un palo con cui conficcare il terreno ad ogni passo? Perché si. L’uomo uccello se ne va e io resto a guardare dall’alto. Il soggetto è la mia opzione. E allora chino il capo, come sempre, ma anziché al cielo, lo chino al fondo dei fondi e vedo una bimba, portata anch’essa per il collo e davanti alla bimba che ora è nuda c’è un vecchio, un nonno e lei dice con la voce stridente delle streghe mettilo qui dentro mettilo qui dentro vieni qui dentro. E fa male, piccola mia. Fa male.
Io non ho mai detto a nessuno, di venire qui dentro. All’inizio arrivavano come la pioggia. E alla fine hanno smesso di venirci tutti. Guardami: sono un animale. E molto peggio dei cani randagi che scelgono di andarsene. Sono una settantenne malata aggrappata al collo di una madre metafora che tutti i giorni, ancora, dalla sua poltrona di novant’anni mi chiede se ho mangiato a sufficienza. Ma la sufficienza non la prendo mai. Ed é assurdo, non credi, che io stia qui in faccia ad una giovane grazia a vomitarle addosso quest’indecenza a lamentarmi di una vecchia a margine che non ne vuol sapere di morire, quando io ne ho quasi settanta e per non sottrarmi alla sua logica non sono mai neppure andata a dormire fuori casa. A volte l’ho desiderato tanto. I campeggi, i baci .
I baci. La pelle dei pesci e l’amore di paglia e gli strumenti. Quando mi dicevano Olga finirai per morire, io all’alba pensavo ma è questo ciò che voglio e non capiscono, la mia morte lenta, l’uscita di scena leggera, senza traccia, uno di quei fiori che a primavera diventano bianchi e col soffio degli innocenti volano via. I fiori su cui d’estate pisciano i cani e dai cani prendono il nome.
E invece no. E’ l’opposto, é come avessi trovato – perversa – la formula a tracciare in sottrazione. Io sono perché assente. E tu, madre, che prima mi guardavi per non vederti, ora mi guardi perché non ci sono più o perché sono sempre in procinto di abdicare. Siedo lì,alla corda del circo. E sto per cadere all’infinito.
Poi chissà, ci sarà pure la questione dell’epoca, dei fantasmi del capitalismo e del troppo che divora, la decisione di un salto che allontana da quell’eccesso, che lo denuncia e se ne separa o che invece lo insegue come oggetto, ci sarà pure un tempo culla di sante anoressiche e un tempo culla di donne manifesto, lo ZeitGeist come si dice in tedesco, ricordi il tedesco che ti ho insegnato, bambina?, ma poi c’é altro. E a me é quest’Altro che interessa. Perché é negli occhi che risiede. E non ci sono manuali né camere di congresso che ne sappiano davvero qualcosa.
I miei ti spaventano? Gli occhi. Lo so, mi detestavi – come io detestavo te. Perché riuscivamo a vedere il corpo interno, sottratto allo sguardo. Diventare pietre. Tentare di sottrarsi alla logica perversa della misurazione, indietreggiare, sottrarre, sottrarsi, svuotare fino al grado zero. Potrei fissarmi per ore ed ore e secoli allo specchio, dritta, a gambe chiuse, spalancata, senza denti, ruvida. Ma se l’Altro arrivasse alle spalle, e toccandole vedesse quel riflesso che io stessa vedo, quella nudità che io sento, quella mostruosità che tormenta me sottopelle, mi ucciderebbe. Occhi agli occhi. E’ diverso. Ma l’altro che può vedere ciò che tu stai vedendo che ti strazia e ti strappa l’anima in sette pezzi, questo no. Non ce la facevo. Per ciò coprivo lo sguardo con le urla. E perdonami, ti prego, per questa lacrima e quelle fiamme, ma se anche dovessi morire così, già morta da decenni di corpo e senza corpo, se anche dovessi andarmene senza bara perché già decomposta, e sarà probabile perché sono troppo vecchia per diventare adulta, voglio però tu sappia che qualcosa è cambiato nell’ultima strada, come se mi si fosse aperta una voragine al centro del petto – e del ventre, capisci, ed é la visione di quella mancanza profonda ed é il bisogno disperato di farci entrare dentro qualcuno che non sia un riflesso. Perdona le urla, perdona la lingua della vecchiaia e questi raggi spezzati, perdona il fango o ricordalo per sempre per non avere il freddo che ho avuto io, ma vieni a mangiare con me almeno una volta.
Al cavalcavia, dove c’é un po’ d’acqua. A soffiare i fiori come gli innocenti – e poi magari, pisciarci anche un po’ sopra. Aprire la cesta del pane. L’ultima cena possibile a primavera, la prima cena vera.
Gli alberi sono alfabeti. I corpi, sono alfabeti. E mentre la guardo allontanarsi nella direzione che porta alla Madre, penso a questo. Alle stagioni sbagliate, alla parola piena e al vuoto delle frasi di campo. Penso ai baci che non ha mai dato e alle sue gambe spalancate al violento. E forse Olga non ha mai parlato, forse é solo rimasta immobile, come un albero piantato a forza nell’asfalto bollente, a fissare il centro delle mie foglie.
un albero non sa di essere miserabile, diceva Pascal.
Bellissimo, il testo sottolinea lo sguardo sul corpo anoressico.
E’ indecente, nella nudità al di là, non c’è più carne, ecco il disegno
del vuoto.
Il corpo scheletro è come albero morto, bruciato, con il
legno solo, ma il tronco ancora tra terra e cielo.
Il corpo anoressico fa rivoluzione, perché affronta l’assenza vitale:
cibo, sesso. Si tiene nella vita con sorgente mentale: l’anima occupa
tutto. Il testo mostra il confronto nella manera di vedere tra l’anoressica
e la sua famiglia.
è un testo molto profondo che condivido in tutto perché sa dare voce alla sfida impossibile di generare un nuovo alfabeto per urlare la propria protesta. Un alfabeto che diventa corpo assente, parola muta, aria che non solo non c’è, ma che volontariamente si rifiuta. Marcel Rufo che lavora da anni sull’anoressia, racconta di ragazze che sussurrano, che dosano le parole, dopo aver raggiunto il controllo assoluto sul cibo e sull’acqua, dosano le parole, perché parlare è anche respirare e respirare è un sentirsi ferire, è un’invasione che si vuole evitare. Molto intenso anche il passaggio sullo sguardo allo specchio: uno specchio, nel caso dell’anoressia, deformante che riflette, appunto, un corpo completamente immaginato.
(maddalena mapelli)
A che cosa possono mirare quei rami spogli e disidratati sospesi tra la terra e il cielo? A staccarsi, a partire, a disincagliarsi, aspirano alla mutilazione delle proprie radici. La propria pars inferior che ti tiene ancorata alla terra.
“Credevo ci fosse un fiume e un desiderio d’acqua – e ho trovato un binario morto”.
Una scrittura che scava e tocca i nervi: complimenti.
Ho capito, con il cuore prima che con l’intelletto: mi è tutto perfettamente chiaro.
Ogni parola di questo testo, un dono.
Grazie.