Oggi “va”. E domani?
di Mauro Baldrati
Forse a qualcuno è capitato di spedire un manoscritto a un editore e sentirsi rispondere – quando l’editore risponde, il che non accade sempre – che è “un genere che non va.” Oppure che è l’argomento che non va.
A me è accaduto. Ho inviato il file di un romanzo breve a due editori, che sono anche amici. Mi hanno risposto dopo un paio di settimane, con due giudizi articolati che mi hanno sorpreso perché identici, benché i due editori non si conoscano, appartengano a generazioni diverse e abitino in città lontane l’una dall’altra.
Il testo era valido, dicevano, e uno, il più anziano, affermava di averlo “bevuto”, di non riuscire più a smettere. Non ho dubitato della sua sincerità. Non aveva alcun interesse a mentire. Però, hanno detto entrambi, purtroppo era impubblicabile perché “troppo datato” (testuale nelle due mail).
Personalmente questa definizione, “datato”, era per me un complimento. E’ una storia ambientata in tempi antichi, ma non antichissimi, inserita negli stili dell’epoca. Il fatto che sia così datata significa che sono riuscito a raccontare una favola nel tempo perduto, con personaggi quasi da sogno, che era il mio obiettivo.
Ma non è questo il punto. Anche perché è irrilevante la mia opinione, se il testo viene rifiutato perché impubblicabile, e quindi non commerciabile.
Sono soddisfatto e me lo tengo nel cassetto, anzi, nella memoria del pc. Una soddisfazione magra e frustrante. La soddisfazione della sconfitta, il mito dei “belli e perdenti” di cui molti della mia generazione hanno subito il fascino perverso.
Intanto ho sospeso le proposte. In questo momento “non va”, ma può darsi che fra tre anni vada. Oggi sappiamo che, in barba alla demagogia sul liberismo e la concorrenza, la qualità del prodotto in sé non costituisce un plusvalore assoluto. Il fotografo Endre Ernő Friedmann a Parigi non batteva chiodo, nessuno gli comprava le foto e faceva la fame. Poi la sua compagna, una ragazza molto sveglia, un giorno disse: è il tuo nome che non va. Nessuno lo ricorda. Ora lo cambiamo. Da questo momento tu sei: Robert Capa. E diventò uno dei fotoreporter più famosi di tutti i tempi.
Invece un altro romanzo, di taglio del tutto diverso, ha appena avuto la risposta di tre editori. Questo funziona, è dunque un genere che in questo momento “va”. Uno dei tre ha detto che contiene “un’idea” vincente.
Sto cercando di capire cosa funziona in questo testo secondo il trend della “filiera” editoriale. Come sto ancora cercando di capire cosa non funziona nell’altro.
Ma credo che rinuncerò. Non ho gli strumenti per questo tipo analisi.
E poi, ancora una volta, non è questo il punto.
Qualcuno può obiettare – e di fatto obietta – che questo concetto di letteratura come parte di una catena, di un segmento di filiera, equivale a svilire l’opera, e a fare del libro un “prodotto” da supermarket dell’immaginario, dell’intrattenimento. E minaccia, a lungo andare, la stessa creatività.
Anche una critica letteraria come Carla Benedetti ha parlato, sull’Espresso (ripreso dal primo amore qui) in termini critici, del confezionamento dei romanzi come prodotti di un’editoria che ormai è quasi del tutto industriale. E come tale deve puntare alla produzione, all’occupazione degli spazi produttivi attraverso i cataloghi. Il pericolo per la creatività starebbe anche nell’interiorizzazione più o meno consapevole da parte degli autori della figura dell’editor (cioè un ibrido di nuova generazione tra scrittore ed editor), un segmento dell’evoluzione editoriale che in questo momento è soprattutto privato (cioè agenzie letterarie che propongono forme di packaging invasive ai romanzi), ma che ha “propaggini nelle case editrici e radicine sparse fin dentro alle scuole di scrittura”.
Sull’argomento interviene (qui) anche uno scrittore che si chiama Vincenzo Latronico, autore di un libro per Bompiani dal titolo Ginnastica e rivoluzione, che scrive (dopo avere portato la sua personale esperienza – positiva – con l’editing): “Ho sentito di autori che si consultano con gli editor (o gli agenti) addirittura sulla trama di ciò che scrivono, così abdicando persino al ruolo, già mesto e ridotto di suo, di fornitori di idee da scrivere in uno stile altrui. In questo caso la metafora industriale trova il suo compimento perfetto”.
Una volta un critico della vecchia guardia, da alcuni giudicato “un trombone”, che andai a trovare nella sua villa in Versilia, mi disse che la letteratura è sempre stata ostaggio dell’industria editoriale. Dostoevskij, disse, era schiavo del mercato, eppure ha scritto I Demoni.
Però l’anziano critico non era del tutto consapevole, credo, di questa faccenda del “genere che non va” che oggi sembra di pesatura così elevata. Forse il mercato è cambiato, si è come indurito, e oggi si cerca l’idea, la trovata che spacca, il riferimento ai gusti del pubblico che legge, l’attualità, le mode.
Se questa è una regola, o quanto meno una tendenza maggioritaria, un pensiero si fa strada, un dubbio: non saremo di fronte all’estinzione di un concetto letterario novecentesco, in cui molti di noi hanno creduto, quello della letteratura senza tempo?
Si credeva nell’esistenza di una interiorità per così dire interclassista e transculturale, sepolta dalle regole sovraordinate, dalle diverse morali, dai vari tipi di Super IO Territoriali indotti e costruiti; questa interiorità è l’IO Non Territoriale, che può venire toccato dalla creazione artistica, e quindi letteraria, quando l’autore riesce a ripulire la sua opera da tutte le scorie generate dalla società, dai pregiudizi, dall’aggressività ecc. Quando questo accade, pensavamo, un’opera letteraria può essere letta e apprezzata da persone molto diverse per cultura, per storia. E quindi non può esistere letteratura “datata”, perché oggi possiamo leggere La certosa di Parma, che è ambientata durante il periodo napoleonico, come se fosse un libro scritto oggi, perché il personaggio di jeune homme creato da Stendhal è senza tempo, viene riconosciuto dagli jeune hommes che sono dentro di noi, uomini e donne del XXI secolo.
Ci abbiamo creduto, ma è vero?
Oggi questo concetto sembrerebbe in via di superamento. La letteratura si lega al periodo, ai generi, alle manifestazioni esteriori e temporanee del costume e della storia.
Forse è questo il punto. Al di là delle considerazioni sul mercimonio letterario, che sono in qualche modo superflue, perché è il sistema che sta a monte – una società post capitalista segnata dalla retorica della meritocrazia – a segnare ogni aspetto della nostra vita, compresa la letteratura, trovo interessante – e inquietante – questo superamento della condivisione di sensazioni espresse dall’IO Non Territoriale. L’immaginario, oggi, sembra spezzettato e diviso in settori, in bande, in subculture dominate dalla pubblicità e dalla retorica; sembra segnato da una ricerca di conferme, di ri-letture, di ri-visioni, di ri-ascolti; cerchiamo libri già letti, film già visti, che ci rassicurino, che ci confermino che le nostre abitudini e i nostri stili sono salvi, protetti e confermati. E questi editor di seconda generazione, tecnici della “fecondazione assistita”, sono lì per confezionare questi prodotti.
Insomma, saremmo di fronte a un transito dell’IO nel Super Io; l’umanità ancestrale espressa dalla letteratura, che tutto unisce, viene frammentata, temporalizzata.
Saremmo di fronte al tramonto dell’idea – o la speranza – che non è sempre la società a generare Edipo, e quindi la sovrastruttura che condanna l’individuo a sottostare fin dalla nascita alle sue regole e alle sue follie, ma può avvenire il contrario: con un processo rivoluzionario sarà il sociale a essere generato da Edipo.
Ma se tutto questo è perduto, a chi apparterrà il futuro?
“Però l’anziano critico non era del tutto consapevole, credo, di questa faccenda del “genere che non va” che oggi sembra di pesatura così elevata.”
Son sicura che il vecchio critico era consapevole.
Leggiti, se non le conosci, le lettere editoriali di Calvino che Einaudi ha pubblicato con il titolo I libri degli altri.
io HO spedito un manoscritto a tre editori un anno fa e non HO MAI ricevuto risposta :-(
[…] Vai a vedere articolo: Oggi “va”. E domani? – Nazione Indiana […]
Mozart, in alcuni periodi della propria vita, era costretto a scrivere musica popolare, e a dedicarsi nei ritagli a quel che lui sentiva davvero profondamente. Ma in linea di massima credo che il discorso di Baldrati sia giusto, e cioè che oggi il potere del mercato sia aumentato sino a trasformarsi in prepotenza. E’ altrettanto chiaro che, sul breve, una certa idea di letteratura, per così dire assoluta, rischi di venirne danneggiata. Il problema è capire se questo possa verificarsi anche sul lungo periodo, e se la mercificazione riesca a disseccare le fonti della creatività. Un’ultima osservazione: LA CERTOSA DI PARMA è un romanzo “passato”, poiché l’ambientazione, i dialoghi, l’atmosfera lo collocano nettamente lontano da noi (dunque anche un capolavoro può risentire del passare del tempo); ma conserva la forza creatrice di Del Dongo e delle donne innamorate di lui, e ciò è eternamente presente, specie come emozione e incantamento. Intendo dire che sebbene oggigiorno l’amore, il corteggiamento, l’erotismo siano rimescolati e rivoluzionati anch’essi, le emozioni, se ben narrate e descritte, non hanno età.
ps: ho la sensazione che esistano anche opere assolute, che il tempo non scalfisce minimamente; me quelle di Stendhal non sono tra queste.
mi veniva in mente, anche se yourcenar parla di libri editi (e parte dal suo alexis), che certi libri appartengono all’aria di un certo tempo e non possono essere stati scritti ne’ prima ne’ dopo. io non ne sono mai stata convinta anche se ho sempre raccolto controesempi.
mah. editoria calendarizzata.
Io penso che gli editor bravi, se ci sono, siano importanti. Io rimpiango il mancato intervento di un editor bravo su una certa mia pubblicazione. Penso che nelle mani di un editor bravo un libro possa migliorare, perfezionarsi addirittura, o nel peggiore dei casi avvicinarsi al pubblico preservando quasi del tutto il proprio valore e la propria bellezza. Del resto, un libro che non finisce nelle mani di un pubblico, per quanto esiguo, manca il suo obiettivo ultimo. Se poi il libro si afferma, ci sarà tempo e occasione anche di parlare della versione “originale”. Non riesco a dimenticare che l’affermazione di Svevo passò per la traduzione francese della Coscienza di Zeno, e che quell’edizione aveva un centinaio di pagine in meno dell’originale. Certo, oggi noi leggiamo, in italiano, la versione integrale; ma l’avremmo mai letta senza prima quell’edizione tradotta e accorciata? Certo, i tempi sono cambiati; ma è possibile che di editor bravi, capaci di armonizzare il valore intrinseco di un’opera con gli inevitabili trend editoriali, non ce ne siano davvero più?
E a proposito, vogliamo parlare di Gomorra di Saviano? Di come in quel caso si siano incontrati in una fortunata coincidenza un buon editing, e pesante, con la volontà di fare un best seller?
Harzie, l’editing di Gomorra NON E’ STATO PESANTE per nulla! Se non credi a chi ha seguito il libro – tu come chiunque altro si attacchi a questa leggenda falsissima- c’è la versione originale che lo dimostra. E nessuno si sognava di farne un bestseller. Prima tiratura 4.500 copie.
Helena, scusa, non intendevo essere offensivo, né mi richiamavo a leggenda alcuna; mi pare anzi che se ne sia parlato in privato, per iscritto, una volta. Lungi dunque da me rivangare polemiche sul libro di Saviano! Solo mi pare di ricordare, dimmi se sbaglio, che rispetto alla mole originale sia stato molto ridimensionato, un po’ come accadde allo Schmidt se non di più. Quanto alla tiratura, francamente non so se sia un indizio assoluto come me lo presenti. Suppongo tuttavia, da esterno, che la potente macchina promozionale di Mondadori si sia messa in moto fin da subito, non dopo la fine della prima edizione. O no?
Ma forse è meglio che si riporti l’attenzione sul discorso generale, onde evitare davvero nuove discussioni inutili e sgradevoli.
schmitz
E’ nella norma che l’editore dica “troppo datato” o “genere che non va”. Non mi indigno se l’editor cerca di “normalizzare” un testo. Ciò appartiene esclusivamente alla storia del gusto e segue le oscillazioni e i pregiudizi delle varie epoche.
Tuttavia fino a quando l’autore, sotto sua responsabilità, è libero di partorire indenne un’opera d’arte e, quindi, di scegliere di essere: autore popolare e di opere “amabili”; oppure autore che viene a patti con la comunità di cui fa parte, ma non troppo, ed è lieto di esserne il portavoce; oppure autore nato postumo, la letteratura è viva.
Credo che oggi, grazie alla tecnologia, la letteratura è viva più di ieri, giacché il gusto dettato dal mercato è meno potente, per esempio, della censura ai tempi di Augusto o nel medioevo.
francesco
Certo l’aria che tira, non è delle migliori. La storia poi dell’ideuzza buona, per ricamarci sopra uno straccio di plot… ne vediamo gli effetti: banalità, costruzioni a tavolino, letteratura pret à porter, prosettine liscie liscie, acque tranquille per lettori rilassati. Così nascono e muoiono libri del momento, libri in cui non sai fin dove s’arrischi l’autore e dove intervenga la mannaia normalizzatrice dell’editing… belle storielline minimaliste di terrazze su Largo Argentina, location prestigiose e improbabili come certe trame da bignamino carveriano, o proustiano, come, qualche tempo addietro, i viaggetti nei nonluoghi, le traversate in aereo Milano-New York, per darsi un tono, paninaretto internazional chic…
ma la questione più grave, ben oltre il fatto che ormai nelle case editrici si parli più di bilanci da far quadrare, quote di mercato, nomi potenziali da rivendere a un mercato internazionale, la questione è linguistica: la semplicità a cui viene ridotta all’osso la sintassi italiana, l’impossibilità di accogliere elementi nuovi, allotri, in qualche modo destabilizzanti, l’irreversibile assestamento verso il basso (non di sermo merus) della semplicità, dei lucchetti sui ponti di Roma, dei pensierini che ronzano intorno al proprio ombelico… immagino che un editore oggi difficilmente pubblicherebbe ‘Corporale’ di Volponi, Horcinus Orca di D’Arrigo, o i versi poco commestibili di Franco Fortini
ognuno scrive perchè sente
ed è il principio da rispettare nello scambio tra lettore e scrittore
ciò che da origine alla “diversità”
il tutto in un passaggio di tempo in cui c’è tantissima offerta e pochissima domanda profonda vera
allora in questo istante nascono le figure che assumono un pò come le nuvole forme e diciture varie fantasiose in una zona morta dove non c’è temperatura e il grado è molto vicino allo zero
tra la testardaggine di chi scrive e quella di chi presume di saper scrivere o intercettare gli umori le disperazioni gli incanti preferisco la prima calda immediata
che non ha tempo nè distanza da caldeggiare
solo scrittura a cui lo scorrere della storia porterà sole o pioggia
c.
Un editing pesante per me è un editing che riguarda la lingua e/o la struttura di un libro. Nessuna di queste sono state toccate nel caso di Gomorra. Nel caso di Gomorra si è trattato di rimarcare le ripetizioni eccessive (nel senso che mi sembrava il caso di conservare un certo tipo di ridondanze laddove sottolineano dei nodi centrali del discorso e anche l’ossessività di fondo che contradistingue il libro). Altro aspetto importante: i tagli proposti riguardavano quasi sempre le due-cinque righe, quando erano dieci erano già tante. Per un totale di una trentina di pagine sulle attuali 330 e passa.
Questo non per voler essere tignosa e tantomeno polemica, ma giusto per cogliere l’occasione di dire come sono andate le cose.
Sulla potente macchina promozionale: per un libro stampato in un simile numero di copie (ossia prenotato poco dai librai) l’unica cosa che può cercare di mettersi in moto – in Mondadori come altrove- è l’ufficio stampa. Zero pubblicità, zero ogni altro tipo di investimenti del vero e proprio marketing. Dopodicché Gomorra di stampa ne ha avuta molta e ottima. Ma quello era l’unico tipo di successo in cui ragionevolemente l’editore poteva sperare.
Colgo l’occasione per allargare il ragionamento. L’editoria, anche quella più di mercato, non è che punta o al bestseller e quindi scatena la “macchina promozionale” o ciccia. Ci sono libri da cui un editore spera di ottenere un successo qualitativo, anche oggi. Canti del Caos di Moresco, Walter Siti (e, appunto, in origine pure Gomorra) o tutti i grandi autori stranieri di Einaudi rientrano in questo genere di logica non aliena alla considerazione che esiste un pubblico per la letteratura “alta”, ma per raggiungerlo bisogna che la stampa accorra per ratificarne la rilevanza.
dimenticavo: son d’accordo due volte con la janeczek.(Ci sono libri da cui un editore spera di ottenere un successo qualitativo, anche oggi) e su Gomorra le faccio addirittura un inchino per il lavoro svolto.
grazie
c.
Un po’ di cose sparse sulla questione editing. Mi sembra difficilissimo parlarne in astratto e non lo dico per paraculismo. Dire ad esempio che l’editing buono è quello che migliora un testo senza snaturarlo, che magari lo avvicina a un pubblico senza renderlo banale o piatto, mi pare una serie di verità lapalissiane che restano campate in aria se non si può concretamente vedere il lavoro fatto. O dire che ci voglia empatia, capacità maieutiche ecc. E’ vero, ma con che criterio le misuro?
Per conto mio so che esistono delle persone della cui sensibilità e infine cultura (perché per contemplare che determinati lavori possono/devono restare in parte “sbilenchi” o sporchi o cmq non messi a norma, bisogna averne- avere una visione e conoscenza della letteratura ampia) mi fido, e altre che magari così duttili e rispettose non mi sembrano.
Se c’è da osare una generalizzazione: particolarmente problematici mi sembrano gli interventi di riscrittura quando non si tratta delle solite inezie affidate in genere a un bravo redattore (ripetizioni, stecche palesi di registro, frasi involute). Specie quando si tratta di libri volutamente letterari. In questo senso la vicenda Lish/Carver è un esempio sommo di dialettica servo/padrone che non ha nulla a che fare con le logiche commerciali e invece si gioca tutto nella perversione di un rapporto di potere e rivalità.
Vengo infine alla questione posta da Mauro. E’ evidente che l’editoria cerca di intercettare e assecondare delle tendenze, ossia detto semplicemente andare incontro alla sensibilità del pubblico. O meglio: di pubblici diversi. E che quindi la produzione libraria rispecchia in qualche modo la frastagliata configurazione della società.
Poi avviene quasi sempre che “funziona” il tale libro, ma non la imbroccano i suoi mezzi cloni e derivati, perché evidentemente le ragioni per cui un certo libro piace sta in qualche regione più misteriosa e oserei dire “sostanziale” dei singoli elementi più visibili e in qualche modo sociologici che ne decretano il successo. E questo è uno di quei punti che fanno pensare che persino in tempi di produzione di massa, i libri- belli o brutti- un’anima ancora c’e l’abbiano.
La discussione non verte su Gomorra. Grazie. Per me resta un libro kitsch con una tesi di fondo sostanzialmente errata. Per molti altri un lavoro fondante. Di sicuro il successo di Gomorra è sintomatico della profonda crisi sociale e culturale italiana. Questa la sua principale denuncia. Col suo clamore. Almeno secondo il mio marginale parere.
Tornando in topic…
Non so quali siano le tendenze in Italia. Probabilmente orecchiano quelle internazionali, nonostante gli scrittori stranieri continuino a non leggere gli autori italiani. Nonostante gli scrittori continuino a non leggere autori contemporanei. Probabilmente non interessa a nessuno quali siano le sorti della letteratura contemporanea. Di cui forse non resteranno tracce significative. Sono certo che anche le future generazioni di scrittori continueranno a leggere i grandi classici.
E le future generazioni di scrittori italiani, probabilmente continueranno a leggere Italo Svevo. Non certo i successi editoriali degli ultimi decenni. Non sono neanche certo che continueranno a citare a sproposito Calvino e Pasolini.
Gentile *,
ho letto con attenzione e interesse il romanzo ****, che ** mi ha premurosamente inoltrato in quanto mi occupo di valutare tutte le proposte editoriali di narrativa, e mi dispiace non poterle dare buone notizie. Sia chiaro, sono molte le cose che ho apprezzato del suo lavoro, a cominciare dal mood malinconico che segna questa sorta di congedo dalla giovinezza (e in un certo senso, dagli anni ‘70) e dalla sua capacità di mettere in scena personaggi a tutto tondo, compiuti e empatici. Purtroppo, però il romanzo non mi ha convinto del tutto, apparendomi – scusi se sono così diretto – troppo sbilanciato a favore dell’analisi psicologica, e dunque troppo lento e riflessivo e, soprattutto, informato da una scrittura troppo letteraria e retrò per la “linea” Rizzoli. Per questo motivo mi vedo costretto a declinare la sua gentile offerta.
Grazie comunque per aver pensato a noi e buona fortuna per il suo lavoro,
**
Rizzoli Narrativa
Gentile *,
grazie a lei per il tempo che ha voluto dedicarmi e per l’onestà del giudizio.
Capisco bene cosa intende dire. Le confesso che il sospetto era venuto anche a me. D’una certa letterarietà del romanzo. Benché, di questi tempi in cui si pubblica di tutto e di più, io non riesca ancora a capacitarmi di essere così demodè.
Il paradosso è che anni fa le case editrici mi rispondevano che ciò che scrivevo aveva poco spessore letterario. Adesso invece il contrario. Mi sa che mi sono perso, per distrazione o chissà che altro, il tempo di mezzo: quello giusto, diciamo.
In ogni caso capisco le esigenze legate alle nuove linee editoriali di Rizzoli. E’ bene anche svecchiare, sperando che qualcosa di quella roba nuova riesca a durare nel tempo. Se non suona troppo offensivo, però mi permetto di dubitarne.
Lo stile “troppo letterario” non era altro, nelle intenzioni, se non il tentativo di introdurre uno “scarto linguistico” (da questo nasce l’ironia, no?) tra scrittura e velleità dei personaggi rappresentati (il Don Chisciotte ne è un esempio formidabile, mi pare).
Quanto alla preponderanza dello psicologico, devo darle ragione anche su questo. Ma c’è anche altro nel libro, mi pare, personaggi che spero siano sembrati ‘vivi’, qualcosa che succede, un po’ di movimento anche fisico, scenari diversi e così via. Magari, è questo è il mio parere obiettivo – ammesso possa chiamarsi tale – è che probabilmente questa vicenda e questi personaggi possano essere un pelino periferici rispetto ad altri movimenti continentali più attuali. Ma è un parere personale, mi rendo conto, si rischia di non uscirne più.
Pertanto le rinnovo la mia gratitudine per l’attenzione e rimando entrambi – sperando che ci sia – a una migliore occasione.
Cordiali saluti.
**
Nota a margine:
Così è se ci pare, anche se non ci piace.
Vorrei chiedere ad Helena Janeczek che percentuale di scrittori, fra quelli editi da Mondadori e non in qualche modo VIP, riesce almeno a pareggiare le spese con le semplici vendite librarie in due-tre-cinque anni. Grazie.
@AMA
Concordo con quanto dici su Gomorra, mentre non mi è chiaro il tuo discorso sulle letture delle future generazioni. Noi, oggi, leggiamo i classici E gli autori contemporanei, almeno in parte (vista la profluvie di pubblicazioni); o no? Non mi è chiaro nemmeno il riferimento a Calvino e Pasolini: è dispregiativo? Intanto dico la mia: non li ritengo affatto, per motivi diversi, autori decisivi nello sviluppo letterario italiano. E Calvino in particolare per me è sopravvalutato.
Non si parla dei conti della Mondadori. Ma dei criteri con i quali si stabilisce cosa va e cosa non va. Della ideologia che li sottende. Di sicuro non credo che si pubblichino testi dalla forte impronta letteraria. E non si capisce perché alcuni autori di successo, con tanti meriti oggettivi, si ostinino a volersi accreditare come letterati.
@Diamante
Le future generazioni leggeranno i Grandi Classici e forse i loro autori contemporanei di maggiore successo. Dubito che leggeranno gli autori oggi a noi contemporanei.
Le future generazioni di scrittori, per accreditarsi, continueranno a rifarsi ai Grandi Classici della Letteratura. Non ai nostri autori contemporanei.
Calvino e Pasolini non sono certo che diventeranno dei Classici della Letteratura. Saranno ricordati per tante altre ragioni. Anche di rilievo. Italo Svevo resterà un Classico della Letteratura.
«Tutti dicono che pubblicare è difficile, che gli editori sono schizzinosi, che ci sono più scrittori che lettori o, se mi consentite la metafora, “più santi che nicchie”. E allora spiegatemi perché, per me, le cose sono state così facili: non faccio in tempo a completare la mia prima “fatica letteraria” (“Come farsi pubblicare al primo colpo da un grosso editore”) che subito ricevo una proposta di pubblicazione da un grosso editore. Sarà solo fortuna o magari anche genio? C’è chi deve aspettare decenni prima di trovare uno straccio di editore. Io invece, al mio primo tentativo, ho subito trovato un grosso editore. Vi pare poco? Correte, dunque, festosi ad acquistare il mio primo lavoro. Si intitola “Come farsi pubblicare al primo colpo da un grosso editore”, Grosso Editore.»
(Da http://www.lucioangelini.splinder.com/post/15629071/PUBBLICARE+CON+UN+GROSSO+EDITO )
Insomma, andrà come andrà (rispetto alla domanda epocale che chiude il post).
Vorrei dire una cosa molto impopolare, per me uno scrittore che fa leggere quello che ha scritto a un paio di lettori di fiducia e magari ne tiene conto è uno scrittore, uno che si fa mettere le mani sul libro da un editor scelto dall’editore non è uno scrittore, ma un confezionatore di testi per l’editoria, che possono avere magari anche uno straordinario successo.
Uno scrittore che si rispetti per me è uno che ha riflettuto sulla forma e non ha mollato il suo testo finchè non è arrivato dove voleva, e una volta arrivato lì, non cambia, al massimo gli si fanno notare i refusi, le piccole incongruenze, ma tagliarlo, cucirlo, fargli una pince qua e un orlo là, no.
Lo so che moltissimi pensano che l’editor possa levargli le castagne dal fuoco e il mondo chiama scrittori anche quelli, non io, però:-)
Del caso Lish/Carver ha detto bene helena, è un rapporto patologico che attiene alla soggezione e al potere.
Molto di patologico (scusate, ma non riesco a trattenermi dal rendermi più invisa del solito) vedo anche in questa mania di voler pubblicare a ogni costo. Cosa deve medicare, la pubblicazione? Quale ferita dell’ego? Non si potrebbe guarire in modo diverso?
Si è consapevoli di aver scritto una ciofeca e si spera che altri la rendono meno ciofeca? Si pensa che una volta pubblicata magicamente la ciofeca si trasformi in principessa? beh, meglio non illudersi, se ciofeca è, ciofeca resta.
la rendAno
Trovo molto bizzarro che la persona che si firma “AMA” scriva cose del tipo: “Le future generazioni di scrittori italiani, probabilmente continueranno a leggere Italo Svevo. Non certo i successi editoriali degli ultimi decenni” ecc., “Le future generazioni leggeranno i Grandi Classici e forse i loro autori contemporanei di maggiore successo. Dubito che leggeranno gli autori oggi a noi contemporanei” ecc. Trovo la cosa così bizzarra che mi azzardo a domandare ad “AMA”: possiede forse Ella una Macchina del Tempo?
(In altri termini: una qualunque proposizione che affermi la verità o la probabilità di eventi futuri basandosi su argomenti qualitativi – ad esempio un giudizio di valore – è di per sé insensata. Così come è di per sé insensata una qualunque proposizione che affermi un qualunque contenuto basandosi sulla constatazione – impossibile – di eventi futuri).
(In parole povere: “AMA”, scrivendo del futuro, ha scritto – ahimè – solo sciocchezze).
(Facendone un fatto personale: ebbene sì, gli argomenti ipotetici sono troppo irritanti).
Alcor, se in linea di principio condivido quello che dici, poi nella pratica vado in crisi. Il fatto è che c’è chi, scrittore affermato e (secondo me) bravo, mi ha parlato dell’utilità di un buon editing, di come lui stesso abbia capito meglio i propri libri grazie al lavoro di un buon editor, il quale non gli avrà cambiato il libro, però magari gli ha suggerito dei ritocchi significativi. E l’effetto potrebbe essere stato qualcosa come: “Accidenti, come ho fatto a non accorgermene da me? Così è davvero meglio!” – dove per “meglio” è da intendersi meglio per l’opera, poiché l’opera ha una propria logica esigente, una coerenza interna che non sempre l’autore riesce a sviluppare compiutamente, ingannato magari da qualche residuo egotico o autobiografico poco pertinente. Oddio, forse idealmente confondo un po’ il buon editor con l’amico di cui parli tu, ma chi l’ha detto che tra gli editor non possa nascondersi un lettore bravo come un amico? Non so, alla fine mi pare molto una questione di umiltà. Sarà che da giovane ne ho avuta poca, e forse adesso mi sbilancio troppo dall’altra parte e la fraintendo, confondendola con l’insicurezza.
Mi rendo conto, del resto, di parlare di una situazione-tipo nella quale si è già stati risucchiati nel Betrieb dell’editoria, dove quindi un autore può permettersi solo in parte di far riposare i suoi testi, e questo, si sa, non fa bene. E forse a questo livello il buon editing che ho appena vagheggiato è davvero poco frequente.
A questo proposito, tuttavia, non riesco a non pensare al cinema, a come perfino i migliori registi di sempre abbiano finito per mandare in sala dei film tagliati anche di molto, pena l’esclusione dai circuiti. E anche se sono un mondo e un’arte diversi, quel mondo e quell’arte mi affascinano per come, vista la quantità di gente che lavora a un’unica opera, il singolo artista debba continuamente scendere a patti, o almeno in dialogo, con gli altri “attori” (in senso lato), mettendo in discussione perfino la propria autoconsapevolezza. E lì, si sa, la legge del “va o non va” è ancora più spietata. Ma stento a credere che questa legge impedisca completamente la realizzazione di opere belle, importanti, a volte anche proprio decisive. Magari è raro, ma succede.
Mutatis mutandis, vorrei portare l’esempio la casa editrice “grossa” con cui collaboro come traduttore. Fin dal primo libro scelsi di fidarmi molto della collega che rivedeva i miei testi, e non mi sbagliai: il 95% delle correzioni, per quanto minime, migliorava la traduzione, qualitativamente proprio. A questo punto, o io sono un cattivo traduttore, o una buona traduzione, come un buon libro, non si fa da soli. Non nego di poter essere un cattivo traduttore, ma…
@Alcor
Vengo dalla lettura dei ”Cristi polverizzati” di Luigi Di Ruscio (l’ultimo “fuoriformato”). Ma vengo, soprattutto, dalla lettura dell’introduzione di Andrea Cortellessa che mi avvisa: ”Bisognava insomma, metterci le mani, nei ‘Cristi’. Porre un freno al rigoglio scatenato delle digressioni compiaciute e della madornale instabilità morfologica e sintattica […] Fatto sta che c’è voluto un altro anno e mezzo per arrivare alla soluzione qui proposta”.
Un anno e mezzo di editing, su un testo capolavoro. Ma capolavoro in quanto testo ”deforme” (nelle parole dello stesso Cortellessa) riconsegnato dall’editing alla sua leggibilità, o capolavoro nonostante quell’editing ”di un anno e mezzo” che lo ha reso altro da sè e però al tempo stesso gli ha permesso di essere libro, di poter essere letto?
@giusco, non lo so nemmeno se si tratta dei miei libri, figuriamoci nel caso di altri se ho “pareggiato le spese”. E scusa, non capisco bene il senso della tua domanda
A me sembra cruciale quest’affermazione che Helena Janeczek fa a proposito di «Gomorra»: «Sulla potente macchina promozionale: per un libro stampato in un simile numero di copie (ossia prenotato poco dai librai) l’unica cosa che può cercare di mettersi in moto – in Mondadori come altrove – è l’ufficio stampa. Zero pubblicità, zero ogni altro tipo di investimenti del vero e proprio marketing».
Da una parte è un argomento consolante, perché autorizza la supposizione che per avere «stampa molta e ottima» sia sufficiente avere a che fare con un bravo ufficio stampa; dall’altra consola assai meno, perché basta molto poco – un ufficio stampa non bravo, o non motivato, o avvertito dalla proprietà (per motivi suoi e insondabili) di lasciare a se stesso un libro – per non avere stampa del tutto.
Naturalmente, so che le cose sono più sfumate e complesse.
Ma è bello, finalmente, leggere che l’ufficio stampa, le sue relazioni e le sue reti di radicamento nel milieu giornalistico sono un fattore significativo per le fortune di un testo.
Mi piace che venga riconosciuta questa responsabilità, troppo spesso dimenticata.
Forse scrivo male:
“uno che si fa mettere le mani sul libro da un editor scelto dall’editore non è uno scrittore”
Nel caso Cortellessa/Di Ruscio – bellissimo libro, tra l’altro – le cose a mio parere stanno un po’ diversamente. Cortellessa non è un editor scelto dall’editore, è un interlocutore da leccarsi le dita e Di Ruscio non è un romanziere, è un poeta e uno scrittore monstre.
Si è fatto mettere le mani nel testo, dicendo fai tu e quel che esce esce?
Quali sia stato il materiale originario, quali i rapporti tra i due, quanta la voglia di pubblicarlo comunque – da parte di Cortellessa che già lo avrebbe pubblicato quando gli era capitato in mano dieci anni fa – in un tempo poco adatto (per le ragioni che sappiamo) alla lettura di testi fuoriformato, oltre che estranei allo zeitgeist, io non posso saperlo.
Per giudicare una situazione eccezionale bisognerebbe essere più informati.
E non è detto (mi pare difficile:-) ma non è detto) che un giorno Di Ruscio non possa essere pubblicato tal quale.
Ma qui si parla di una pratica che a quanto pare sta diventando invasiva e di gente che abbozza un’opera e accetta di farsela manipolare pur di pubblicarla.
Diverso è il caso di chi lavora nell’editoria, devono fare libri, e un numero dato, e devono funzionare, francamente apprezzo più l’editor che riesce a tirar fuori qualcosa dallo “scrittore” che lo “scrittore” che produce un lavoro raffazzonato e non pensato, nel primo caso si tratta di un lavoratore competente che risponde al suo datore di lavoro che vuole un prodotto, nel secondo di uno sciattone. IMHO, naturalmente.
@harzie, il cinema funziona diversamente, però anche lì si distingue (-eva) tra prodotti commerciali e film d’autore. E anche se a volte il confine è poroso, nessun regista commerciale si monta la testa, sanno quello che fanno, mi pare che abbiano ben chiara l’idea che un film ha bisogno di molte competenze e che ci sono film di intrattenimento e film che pongono problemi.
Poi io trovo deliziose certe commedie ecc.
Posso dire anche che trovo un po’ schizofrenica questa discussione rispetto ad altre qui in cui ci si lamenta tanto dello strapotere del pensiero economico?
Scrive “harzie” a un certo punto di un suo intervento qui sopra: “Mi rendo conto, del resto, di parlare di una situazione-tipo nella quale si è già stati risucchiati nel Betrieb dell’editoria, dove quindi un autore può permettersi solo in parte di far riposare i suoi testi, e questo, si sa, non fa bene”.
Ma: a me pare che un “autore” possa permettersi di “far riposare i suoi testi” quanto vuole. Basta non avere smanie di presenza, basta non vincolarsi con contratti inopportuni, basta non mettersi nelle condizioni di dover pubblicare per campare, e così via.
L’editore è il primo nemico dell’autore, perché tenta di coinvolgerlo nei propri scopi – che sono di tutt’altra natura degli scopi dell’autore. Espressioni del tipo: “Tizio è un autore Einaudi, Caio è un autore Mondadori”, se vengono accettate da Tizio e da Caio, significano: “Tizio è un servo dell’azienda Einaudi, Caio è un servo dell’azienda Mondadori”.
In questa servitù si può peraltro non cadere.
@Alcor
La casistica, dunque, è varia e complessa e le affermazioni apodittiche vanno sempre arricchite di mille sottocategorie, eccezioni, casi particolari, casi-limite, come, appunto, il Di Ruscio Cortellessa: quando leggo, ad esempio, a p. 8: ”domandai una volta se il Re fosse fascista, non perché il Re è al di sopra dei partiti e questa fu la prima volta che udii il plurale di partito”, quel ”non” così ambiguo (dovrebbe essere ”no”, seguito dalla risposta in cui l’io narrante dice di aver sentito per la prima volta il plurale di partiti, altrimenti il senso non torna) è un errore dell’autore, dell’editore-editor, del tipografo? è un esempio minimo, materia, probabilmente, dei filologi di domani. ma il lettore, pure avvertito (o proprio perché avvertito), non può non chiedersi, di fronte a situazioni come questa (esempio minimo, ma ne farei cento altri): ma chi sto leggendo? Io me lo chiedo, ma forse perchè sono schizofrenica, per citarti.
E non c’è solo il mercato, c’è anche il mito di rendere leggibili autori di per loro ”illeggibili”, nel senso della complessità e della non immediatezza (vedi la guida alla lettura apposta al ”Fucino” di Ottonieri, un esempio…interno…): ma perchè? Libri per tutti, editati come tali, e libri per pochi (forse per gli studiosi e i lettori di domani), non editati o minimamente editati: utopia?
Condivido totalmente quanto scirve Mauro.
Di editing si parla anche qui:
http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2009/07/27/di-cosa-parliamo-quando-parliamo-di-editing/
p.
@harzie
a proposito del cinema, in un libretto pubblicato da Einaudi, J-M. Frodon, Conversazioni con Woody Allen, c’è una sezione interessante dedicata alla produzione, e di produzione parla anche Rossellini in un altro libretto, di e/o intitolato Il mio dopoguerra.
Scrive Alcor (qui): “Cortellessa non è un editor scelto dall’editore, è un interlocutore da leccarsi le dita e Di Ruscio non è un romanziere, è un poeta e uno scrittore monstre”. Che è come dire che certi comportamenti sono leciti quando ad attuarli sono certe persone, e non sono leciti quando ad attuarli sono altre persone: il che mi pare discutibile. Ho l’impressione che per difendere la rispettabilissima e difendibilissima operazione compiuta da Cortellessa sul testo di Di Ruscio (Alcor sintetizza molto bene qui) bisognerebbe trovare argomenti migliori.
Un argomento potrebbe essere questo: immaginate Luigi Di Ruscio nella sua solitudine (vive a Oslo da un sacco di anni). Che scrive e scrive, pubblica pochissimo eccetera. Proprio la solitudine, la scarsità di scambi con altre persone, può produrre degli eccessi nella sua scrittura: le “digressioni compiaciute” eccetera di cui parla Cortellessa. E l’incontro con una persona che finalmente legge a fondo il testo, che finalmente diventa interlocutore, finisce col cambiare anche il testo.
Peraltro Cortellessa è esattamente “un editor scelto dall’editore”: un editore, infatti, Le Lettere, lo ha “scelto” come “editor” della collana FuoriFormato, e lo paga per occuparsene.
Helena: mi sembrava interessante capire quanti autori -mediamente, in grande casa editrice- ripagano l’investimento materiale e quanti invece solo quello simbolico/letterario.
Mi sembra che questo post sia parallelo a quello sulle universita’, nel senso che c’e’ tutta una moltitudine di aspiranti senza mercato, tanta domanda generica e poca offerta mirata, per cui si cavilla sulle modalita’ dell’offerta invece che sondare mercati piu’ ampi.
Per la serie: confezionatevi il packaging, fatevi tradurre il vostro capolavoro in inglese, spagnolo e cinese, quindi saltate la filiera nostrana; il che non e’ tanto difficile e darebbe buon lavoro “a chiamata” a tutto un indotto, a prezzi anche abbordabili per il singolo autore.
@ Mozzi
io ho detto: “Per giudicare una situazione eccezionale bisognerebbe essere più informati.” Non lo sono.
Non so se c’è stata volontà di potenza da una parte e cedimento su tutta la linea dall’altra, per l’idea che mi sono fatta di entrambi leggendoli non è questo il caso. Cortellessa non ha bisogno di essere difeso da me né io ho bisogno di difendere Cortellessa.
E’ più probabile che Di Ruscio abbia finalmente trovato un interlocutore alla sua altezza, anche per le ragioni che tu dici, solitudine, isolamento eccetera.
E non considero Cortellessa un editor, ma una figura complessa, il direttore della collana che in questo caso ha editato, un critico, uno che pensa la letteratura, un interlocutore di prima qualità. A volte posso condividere i suoi giudizi e altre no, ma la sua competenza, intelligenza delle cose e dei testi, passione, desiderio di dar voce ad autori eccentrici al mondo editoriale commerciale, non sono quelle dell’editor di cui si parla qui.
Di Ruscio ha certamente visto tutto questo, non credo che avrebbe permesso alla signorina o signorino tal dei tali che gli cassava le parole desuete a intervenire sul suo testo.
E di conseguenza, sì: certi comportamenti sono leciti quando ad attuarli sono certe persone, o meglio, quando certe persone, di qualità fuori dal comune, si incontrano non per confezionare un prodotto con materiali deboli, ma per liberare un’opera che gronda di materiali persino troppo ricchi, che possono far velo alla sua struttura ideale, non stravolgendola. In questo caso io giudico diversamente sia l’operazione che il prodotto. In questo caso non parlo di editing, come non mi verrebbe mai in mente di parlare di editing nel caso Pound Eliot. Si può discutere il proprio lavoro per anni e mesi con un interlocutore del quale ci si fida, queste discussioni possono portare a dei mutamenti, o a nessuno, ma non hanno niente a che fare con quello di cui si parla qui.
Ma insomma, io credo che capiate benissimo tutti di cosa parlo, se volete polemizzare con me per il piacere della discussione, ricambio il piacere, ma appunto, è puro e frizzante piacere di discussione.
Nel ringraziare e salutare (sto per mettere il piede sul predellino del camper), vorrei fare qualche ulteriore osservazione. Cerco di ragionare sui tempi, i nostri, e sull’attuale sistema. Cioè il libro come “opera” soggetta a una produzione, come i film, e i dischi. La produzione comprende un packaging, una promozione, un’ottimizzazione detta editing, che può essere di qualità, come l’ha descritta Helena, oppure più invasiva, come altri l’hanno descritta. In questo senso l’editing è importante, e per certi tipi di testo molto importante. Io per esempio in questo periodo leggo parecchia fiction (troppa, forse), e se mi capitano dei particolari fuori posto (esempio: spense la sigaretta nel posacenere – che è un artificio prezioso per creare una breve pausa nel ritmo narrativo – ma quando l’aveva accesa? Oppure un personaggio che ripone la pistola nel fodero, ma quando l’aveva tirata fuori?) provo fastidio. E questo vale anche per testi non strettamente di fiction. Per questo, se potrei essere d’accordo con le osservazioni novecentesche di alcor delle 9.10, non credo siano valide, oggi. Uno scrittore può chiedere pareri, come no; e decidere se tenerne conto. Perché se vuole pubblicare deve accettare la logica paraprofessionale (qui andrebbe aperta una macro, cioè sull’interiorizzazione di questa logica, ma sarà per un’altra volta), cioè del libro oggetto di produzione ecc. Perché questo sembra essere il concetto attuale di letteratura, che permette – e in che misura lo permetta è questione assai delicata – l’esistenza di una border line tra enterteinment e creazione letteraria secondo un equilibrio che nel mio pezzo vedo minacciato, per uno sbilanciamento dovuto soprattutto alle esigenze di mercato. Dario Voltolini, in un commento a un post sull’editing su LPELS citato da Paolo Cacciolati (e da lui curato), riporta gli esempi di svarioni proustiani e dostoevskijani dovuti proprio alla mancanza di editing (o alla mancata correzione delle bozze); aggiungo che Kafka quasi non correggeva i testi, le sue sono praticamente prime versioni. Ma, come mi chiedo nel pezzo, tutto questo è ancora possibile oggi? E’ ancora possibile questo tipo di scrittura?
Poi l’osservazione di giusCo: “questo post (…) Per la serie: confezionatevi il packaging, fatevi tradurre il vostro capolavoro in inglese, spagnolo e cinese, quindi saltate la filiera nostrana; il che non e’ tanto difficile e darebbe buon lavoro “a chiamata” a tutto un indotto, a prezzi anche abbordabili per il singolo autore.” Non mi sembra di avere scritto o alluso a nulla del genere. Mi interessa il rapporto tra letteratura e l’attuale sistema socio-economico, la sua dipendenza o interazione da esso, di quanta libertà può ancora disporre la scrittura, e se è avvenuta, o sta avvenendo, una mutazione nel concetto stesso di romanzo; se è possibile concepire una letteratura estranea al sistema mercantile/produttivo, e all’attuale concetto di qualità: concetto che peraltro io riconosco in gran parte come mio, perché voglio leggere libri belli, con una bella cover, editati bene ecc.
Però vorrei capire se si può cambiare, se si può superare, ma temo che dovrebbe cambiare la nostra idea di vita, di società, di consumo, di libertà, di amore, di amicizia, di successo, ecc. E questa è un’altra storia, maledettamente complicata.
strong>Mozzi, io non prevedo il futuro e non scrivo poi così tante sciocchezze… Credo però nelle tendenze.
Hai capito benissimo cosa ho scritto. Comunque mi viene di linkarti uno dei tanti articoletti che oggi ho trovato a caso su Google…
http://archiviostorico.corriere.it/2007/febbraio/25/Gli_scrittori_stranieri_non_leggono_co_9_070225013.shtml
Mozzi, io non prevedo il futuro e non scrivo poi così tante sciocchezze… Credo però nelle tendenze.
Hai capito benissimo cosa ho scritto. Comunque mi viene di linkarti uno dei tanti articoletti che oggi ho trovato a caso su Google…
http://archiviostorico.corriere.it/2007/febbraio/25/Gli_scrittori_stranieri_non_leggono_co_9_070225013.shtml
E aggiungo solo che il Signor Mozzi è estramente ingenuo o accecato non si capisce bene da quale furore, se pensa che tutta la merda di successo che si pubblica oggi sarà letta dagli scrittori di domani. Probabilmente leggeranno qualcosina, ma non andranno a dire in giro che sono state letture fondanti, non essendo neanche state concepite per questo. La Letteratura contemporanea è per solleticare l’Ego dei contemporanei. Non per i posteri. Non sono sicuro che sopravviveranno neanche autori generazionali oggi considerati dei Mostri Sacri. La mia è una analisi a lungo termine.
E comunque sono libero di vivere delle mie certezze. Tutti noi abbiamo bisogno di illusioni. Non solo la ggènte come il Signor Mozzi.
novecentesche?
può essere, resterò novecentesca e certamente continuerò a leggere poca fiction, a meno che non si tratti di bei polpettoni
E da adesso in eterno continueranno a farmi ridere i poveretti che sfoglieranno, concentrati e accigliati, in treno, un bestseller Mondadori, pensando di leggere un’opera dallo spessore letterario.
Ognuno si diverte come crede. Devo forse dar conto al Signor Mozzi?
A proposito di ‘900
Vicenza, 13-10-1950
Caro signor Pozza,
in riscontro alla Sua del 7 ottobre, le dichiaro che dopo matura riflessione e dopo maturo esame dei Suoi consigli e delle Sue esortazioni (consigli ed esortazioni delle quali ho cercato di tener conto e di cui gliene sono grato), sono rimasto fermo nella mia determinazione di veder pubblicato il mio lavoro senza ulteriore modifica e quindi anche con le acerbità e storture, inevitabili del resto per chi come me s’accinge per la prima volta ad entrare nel campo letterario.
Ua tale mia determinazione è giustificata, a mio modesto avviso, dalla circostanza che le modifiche da Lei prospettatemi verrebbero a toccare il libro proprio nella sua sostanza; significherebbero quindi per me un abbandono o quanto meno una deviazione dal carattere che m’ero proposto di dare al libro stesso.
Deve capire quindi che non una cieca superbia mi spinge a mantenere inalterata la mia opera e neanche una cieca ostinazione, ma soltanto l’amore verso il mio libro così come l’ho ideato e riprodotto, perché solo così come è attualmente mi pare e lo sento quale parte di me stesso.
Gradisca pertanto i sentimenti della mia immutata amicizia.
Suo Goffredo Parise
Sì, ma quanta merda è stata pubblicata anche nel ‘900, con filtri e dinamiche diverse! Quanti autori sono sopravvissuti o sopravviveranno? Pochi.
“AMA”, scrivi: “il Signor Mozzi è estramente ingenuo o accecato non si capisce bene da quale furore, se pensa che tutta la merda di successo che si pubblica oggi sarà letta dagli scrittori di domani”.
Io non ho mai sostenuta un’opinione del genere. E sfido “AMA” a citare dove e come, e con quali parole, secondo lui o lei, l’avrei sostenuta.
Ravviso in “AMA” i sintomi del più idiota dei modi di discutere: quello che consiste nell’attribuire ad altri opinioni cervellotiche, per poi eroicamente trionfare.
Nell’ordine sono contro.
1) Ogni idea di sacralità & intoccabilità del testo, soprattutto se stabilita a priori, cioè come principio.
2) Ogni idea che un testo debba in quanto testo puntare anche ad essere «letteratura» (cioè arte?) senza volersi limitare ad essere, almeno per il momento, «scrittura».
3) Ogni concezione sacrale e intoccabile della figura dell’«Autore» in quanto produce ego-mostri ubriachi di individualismo.
4) Ogni perfezionismo «autoriale», ogni affettazione di intoccabilità delle forma progettata niente è immodificabile (a parte l’isostaticità della poesia): le parole, almeno quelle delle prosa, non sono poi così sacre, esistono i sinonimi, le forbici, il copincolla, eccetera; tutto dipende dal grado di iperstaticità del testo su cui si interviene.
5) Ogni idea che oggi il libro lo faccia il «mercato», mentre è proprio il mercato che consente ad alcune opere, a molte opere, alla maggioranza delle opere, di essere pubblicate vendendo poco o nulla: in sostanza chi vende molto (magari con buoni libri) consente di esistere a chi vende poco (magari con brutti libri et pretenziosi): in libreria i best seller sono pochissimi, i non-best seller moltissimi.
6) Ogni idea che se un editore rifiuta un’opera in base alla sua scarsa vendibilità allora è solo un cinico votato al deo denaro, mentre potrebbe essere solo un accorto programmatore di cataloghi, uno che il tuo libro non gli piace, non rientra nel carattere delle opere che di solito pubblica, non sa in quale collana metterlo…
7) Eccetera.
Io se fossi un editore opererei un editing alla fonte, tipo cedolare secca. Mi spiego. Dai miei sondaggi di mercato vengo a sapere che il tema, che so, dell’idrulico depresso attira molto la platea dei lettori? allora è semplice, chiamo uno degli scrittori della mia scuderia, oppure quello tra i tanti che reputo il migliore per scrivere di un argomento del genere, e gli dico: “l’idraulico depresso tira un fottio, scrivici una storia”. A questo punto il problema di correggere, scomporre, giustapporre, stuprare, masturbare il testo non si pone più. Volete che uno scrittore bravo, che per giunta abbia ricevuto una dritta incentivante di tal genere, debba anche essere rivisto? secondo me no, altrimenti che razza di scrittore è?
@pecoraro
Seppur in parte condivisibili, le tue posizioni mi sembrano troppo nette. Non è sacro l’autore, ma neppure l’editore. E non credo che l’editore (il quale, naturalmente, fa i propri interessi e fa bene a farli) sia sempre immune da giudizi di “mercato”. Quanto al mercato: siamo davvero certi che Faletti piuttosto che Brown o Saviano o Camilleri o Scurati o Mazzantini o King oppure Grisham o Rowling eccetera “aiutino” i piccoli scrittori, quelli sconosciuti? Non sarà invece che li strozzano? Non si verifica una situazione tipo quella del calcio, per cui le poche squadre con più tifosi sono quelle con più diritti tv, e viceversa? E ancora: non c’è, con i best seller (la cui qualità è sovente non alta), un rischio d’imbarbarimento del lettore medio (peraltro già molto avanzato)? Sul tuo punto 2, poi, ho seri dubbi: come e dove stabiliamo il confine fra scrittura e letteratura? E se questo confine ha senso, ha senso stabilirlo dopo un intervento editoriale o comunque esterno, come se quest’intervento legittimasse la sacralizzazione del testo sul quale è intervenuto? Una provocazione, infine: la DIVINA COMMEDIA ha avuto un editore?
http://www.statigeneralidelleditoria.it/
(spero che quando invierò, questo qui sopra si trasformi in link)
Nessuno che non sia un adolescente ignora che l’editoria è un attività industriale, come nessuno ignora, credo, che il mercato dell’arte è un mercato.
Poi, dentro quel mercato e quella industria, c’è di tutto, c’è il talento, se c’è, il pensiero, se c’è, il lavoro certosino, se c’è, la consapevolezza, se c’è, e molti diversi gradi di talento pensiero lavoro e consapevolezza, (e c’è anche l’enorme sciatteria).
Quanto più elevati sono i gradi, tanto meno necessità c’è, di solito, di un lavoro di editing.
Il che non esclude, come ho detto, le eccezioni.
piuttosto che
Molto bella la lettera di Parise, ringrazio alcor per averla trascritta –
@diamante
« …siamo davvero certi che Faletti piuttosto che Brown o Saviano o Camilleri o Scurati o Mazzantini o King oppure Grisham o Rowling eccetera “aiutino” i piccoli scrittori, quelli sconosciuti? Non sarà invece che li strozzano?»
Certo che li strozzano, ma nemmeno tanto: è che sono titoli che penetrano nella testa della gente come garanzia di divertimento, di emozione, di «tutto d’un fiato» eccetera, che è ciò che la gente cerca in un libro, che è esattamente ciò che vi cerco io e forse voi: solo che io lo trovo magari in libri diversi da quelli (e anche in alcuni di quelli citati qui sopra), sempre molto raramente.
Ma vorrei sapere come si fa ad impedire a un libro di vendere molte copie, ad impedirgli di moltiplicare i lettori (per di più le lettrici), come si fa ad impedire il passa-parola che fa vendere «Il cacciatore di aquiloni» piuttosto che i «Canti del caos», ammesso e assolutamente non concesso che questi due libri possano contendersi anche un solo lettore.
Io credo che molti di noi, qui, siano affezionati all’idea novecentesca dell’Opera Letteraria.
Niente di male in questo, ma non si può pretendere che in QUESTA contemporaneità l’opera letteraria sia pure un best seller (talvolta accade): i tempi sono quello che sono, ma non c’è in atto nessun imbarbarimento: solo un cambio di classe dirigente.
Esistono ancora molti editori indipendenti e nemmeno tanto piccoli.
Perché non pubblicare con loro?
Mondadori, Einaudi, Rizzoli non sono obbligatori per nessuno e se molti scrittori anche un sacco comunisti (e un sacco anti-Quello) pubblicano con grandi editori ci avranno il loro torna-conto: siamo tutti abituati a rispettare il torna-conto sopra ogni cosa: o no?
E poi sono sicuro che pure il piccolo editore, soprattutto il piccolo editore, modifiche al testo te le chiede, il libro lo vuole vendere pure lui, possibilmente in centinaia di migliaia di copie.
Il mondo è grande e terribile e per di più è in trasformazione.
La scrittura è letteratura che non si pone il problema di esserlo a tutti i costi, è letteratura de-licealizzata che si accetta come un piccolo quantum in un flusso di comunicazione scritturale che non ha precedenti nella storia e nel quale viaggiano autentiche meraviglie di cui nessuno, o pochi si accorgono: altro che imbarbarimento.
(che fatica…)
“La scrittura è letteratura che non si pone il problema di esserlo a tutti i costi, è letteratura… che si accetta come un piccolo quantum in un flusso di comunicazione scritturale che non ha precedenti nella storia e nel quale viaggiano autentiche meraviglie di cui nessuno, o pochi si accorgono…”
gentile francesco pecoraro, lei ha scritto davvero una gran bella cosa qui sopra…
grz pr vr dt prl nc l m pnsr
@pecoraro
D’accordo su – più o meno – tutto. Io avevo infatti contestato l’assolutezza di certe tue affermazioni, ma avevo anche detto che in sostanza concordavo. Al tempo d’oggi sarebbe imperdonabilmente ingenuo aspirare alla Letteratura Pura e poi bazzicare le grandi case editrici, e lungi da me sostenere una simile fiaba; però il discorso dei best seller resta, e cioè: non tutti come te sanno a cosa vanno incontro, non tutti sono in grado di filtrare e vagliare, e se volete darmi del classista perchè pensate che stia affermando che molti lettori non sanno leggere, ebbene è così che la penso. Dopo di che, l’imbarbarimento del gusto c’è: proprio perchè c’è un cambio di classe dirigente non all’altezza delle trasformazioni epocali che il momento storico impone. E se tu, Pecoraro, trovi le tue gemme (come del resto capita anche a me), ciò non vuol dire che il letamaio non esista. Quanto alle case editrici piccole, ben vengano se operano proprio laddove quelle grandi non possono o non vogliono.
@Alcor, Mozzi
Capisco che la discussione sia andata oltre, e chiedo venia per questa postilla, probabilmente ridondante, ma da quale accusa si dovrebbe/ non si dovrebbe difendere Cortellessa? Il mio riferimento al ”caso” Di Ruscio andava appunto al ”caso”, non ai suoi protagonisti. Dove per ”caso” intendo proprio un ”caso-limite” di editing: che tale mi pare, al di là della meritoria opera di riemersione e di proposta editoriale di quello che non ho esitato a definire ”comunque un capolavoro”. Del resto il ”caso” è posto come tale da Cortellessa stesso nell’introduzione, dove si presenta, dettaglia e motiva l’operazione di ricostruzione materiale del testo (dunque non così pacifica e pacificante per lo stesso editore): e se non editing, cosa? Se c’è un altro termine e me lo si vuol suggerire, sarò solo felice di imparare.
Non capisco, che cosa dovrei dire ancora?
Mi associo al gentile M. Orfeo nel condividere le parole del sig. F. Pecoraro.
@baldrati
ti piacerà anche questa:-)
Milano, 20 aprile 1950
Caro Pozza,
sono molto contento che le mie storie, o almeno una parte di esse, le siano piaciute. Onestamente posso dire che sono del tutto sincere e non scritte gratuitamente, tanto che non pensavo di pubblicarle mai.
Lei mi domanda se si potrebbe insistere sull’argomento (guerra) trovando nuovi motivi. No, non si può insistere. Se questi miei scritti possono avere qualche pregio, è che, come le ho detto, sono stati scritti con una estrema spontaneità, quasi come una confessione a se stessi. Guai se mi mettessi in mente di scriverne degli altri su questa o quella intonazione e con l’idea di pubblicarli, ne verrebbero fuori fatalmente delle cose false. Non le pare?
[…]
Dino Buzzati
Neri Pozza ci prova sempre, (anche le sue lettere sono belle), l’unico che gli dice un sì, ma piccolo, è Gadda:-)
Senta, Signor Mozzi, io non ho capito cosa vuole da me, forse editarmi? Mi trova bizzarro e cervellotico? Quindi? Sa, c’è posto anche per quelli come me…
Mi diverto a leggere che tutti adesso recitano la parte dei consapevoli, perfettamente inseriti nella realtà contemporanea, a discapito di quelli che – poverini – avrebbe una visione ancora novecentesca della Letteratura.
La realtà è che oggi non si pubblicano testi dalla forte letterarietà. Il testo letterario non interessa a nessuno: deve avere altre qualità. Gli editori sono restii a ripubblicare i Grandi Classici, figurati se editano qualche pazzo a loro contemporaneo con velleità squisitamente letterarie. Quindi, quando comprate un libro, toglietevi dalla testa che abbia un grande valore letterario . Avrà sicuramente tante altre qualità. Comunica, informa, intrattiene. Trovo di un provincialismo assoluto e tipicamente italiano pensare che uno scritto debba avere necessariamente, in qualche modo, anche un valore artistico.
Certo, ci sono ancora degli autori, pubblicati da editori di rilievo, che lavorano anche sulla scrittura, ma non devono superare certi limiti. Ideologici. Dubito che oggi sarebbe pubblicato un autore rivoluzionario. Di quelli che attraverso il linguaggio squarciano e illuminano sulla condizione della contemporaneità.
Cosa c’entra poi il mercato dell’arte con l’editoria non l’ho mai capito. L’editoria ha a che fare con la produzione industriale e della comunicazione di massa, non con quella artistica. E nel mercato dell’arte, nonostante le speculazioni, c’è ancora ampio spazio per la sperimentazione. Nonostante l’esigenza della fruibilità, non si rivolge ancora al gusto dominate delle masse.
Alcor, certo, l’editore ci prova sempre, anche se nel Novecento i testi erano editati diversamente da oggi. I testi stessi erano diversi. Due mondi molto diversi. E comunque una forma di editing, anche blanda, era e resta necessaria. Non è l’editing che mina l’impronta letteraria di un testo. Almeno se non lo snatura.
“AMA”, non voglio nulla da te. Però, vedi, quando scrivi: “Gli editori sono restii a ripubblicare i Grandi Classici”, neghi l’evidenza.
@AMA
anche nel 900 si editava uguale, almeno che tu il 900 non lo faccia terminare molto prima che termini, in fondo è finito nove anni fa.
Se per forma di editing tu intendi una lettura attenta che scopra piccole incongruenze e altre minutaglie, certo che ci vuole, ma quando si comincia a tagliare e cucire mi va bene nella varia, mi va bene quando si progetta un testo di saggistica o si mette insieme una serie di racconti, ma – ECCEZIONI A PARTE – (lo metto in maiuscolo, per non dover ripeterlo all’infinito, di eccezioni è fatta la vita, anche quella libraria) quando entra nelle teste che si possa offrire un semilavorato perché tanto si rifinisce in fabbrica, o quando gli editor possono dire quel libro lo ho fatto io, penso che non mi interessa leggerlo. Quelli che offrono un semilavorato per me non sono scrittori, non hanno voce e personalità tali che mi possano interessare.
E’ ovvio che agli editori (ce ne sono tanti e di tanti tipi) possa interessare, devono pubblicare libri, e tanti scrittori quanti libri servono non ce ne sono, ma a me, che importa?
Sopra Mozzi diceva:
“L’editore è il primo nemico dell’autore, perché tenta di coinvolgerlo nei propri scopi – che sono di tutt’altra natura degli scopi dell’autore.”
Sono d’accordo, sono due volontà divergenti che a volte si incontrano, ma che hanno (se lo scrittore è quello che io intendo per scrittore) intenzioni diverse, benché non sempre ortogonali.
Nel caso di quelle due lettere che ho citato, c’era un editore che faceva la sua parte, e due scrittori sapevano quel che facevano, avevano le idee chiare, e non gli interessava pubblicare a ogni costo, ma solo alle loro condizioni. Avevano una personalità forte di scrittore, che è l’unica che a me interessi, altrimenti ho tante altre cose da fare più interessanti che leggere, come curare i fiori.
Ma non faccio l’editore, se lo facessi, probabilmente ci proverei sempre anch’io, come neri Pozza.
Alcor, come puoi solo pensare che un testo editato nel 1950 oggi lo sarebbe con gli stessi criteri! Certo, se ti piace crederlo…
Offrire un semilavorato perché gli editor possano finirlo è necessario per il confezionamento di un buon libro commerciale. La cui maggiore qualità deve essere la vendibilità. Anche se poi qualcuno tenta di dargli una certa valenza letteraria. Non si capisce bene il perché.
Comunque non solo la scrittura, ma anche i contenuti danno valore letterario a un testo. Oggi si pubblicano al massimo ideuzze.
Ama:-)
quanto mi leggi prevenuto dalla tua idea che il 900 sia finito negli anni ’50, lo so che è un’idea alla moda, ma non si è obbligati a condividerla, il secolo breve è una definizione efficace, ma alle cesure nette io credo poco.
Guarda, sei stata tu ad aver postato un Buzzati del 1950. E poi come posso sembrarti alla moda, suvvia!
Allora aspetto con ansia una lettera che un autore ha indirizzato a qualche editore nel 1980.
In ogni caso non cambio idea. Un libro editato nel 1980 oggi lo sarebbe diversamente.
Volentieri, bisogna però che prima le pubblichino, io posto quelle di Neri Pozza perché è uscito il libro, non perché le tengo nel cassetto.
Mi dai una grande delusione.
Dolente:-)
gentile AMA, la prego, ma con un nome così come fa a dolersi?
goda, goda, oh gentile, e lasci la lipperatura odierna al suo d/c/estino
“AMA”, scrivi: “Offrire un semilavorato perché gli editor possano finirlo è necessario per il confezionamento di un buon libro commerciale”. Che sciocchezza! Gli editor cercano libri commerciabili fatti e finiti. Mettere un editor a “finire” e “confezionare” un “semilavorato” costa troppo.
Il lavoro di “confezionamento” si fa solo in casi eccezionali: solitamente quando l’autore dispone di una fama tutta sua, considerata garanzia di future vendite; e allora piuttosto che di editing è il caso di parlare di ghosting.
In questi ultimi dieci o vent’anni di editoria è avvenuto che i testi andanti destinati però ad essere venduti a centinaia di migliaia di copie erano anche visivamente, matericamente, identificabili per il tipo di collana che li ospitava che per alcuni autori di particolare successo era stata creata appositamente e solo per loro: un certo tipo di copertina, un certo tipo di carta, il costo, il luogo di vendita (spesso bancarelle di stazione, edicole) relegava questi libri a una fruizione «bassa» (mai abbastanza le virgolette per questo aggettivo) e li rendeva immediatamente identificabili: chi voleva leggere quel tipo di libri (degnissimi) sapeva esattamente quali erano e cosa aspettarsi: molti autori importanti come Dick o Simenon o Chandler o Bradbury e molti altri pubblicarono dapprima in queste collane.
Quello che poi è successo è che autori di quel «tipo», artigiani maestri dell’intrattenimento, grandi venditori di copie, perfetti gestori del ritmo scrittorio, ma assolutamente dimenticabili, sono finiti in collane di prestigio di editori di prestigio, metti di Einaudi et Mondatori et Bompiani et cetera, metti di Adelphi.
Ora io mi ero abituato, soprattutto con Einaudi, a considerare certe collane (oltre che esteticamente irresistibili) una garanzia di qualità del contenuto: mi fidavo degli editor Einaudi e di quelli di qualche altra casa editrice.
Oggi non posso più farlo, perché la sòla si acquatta anche nelle collane più stimate e prestigiose e questa cosa mi fa un novecentesco et obsoleto effetto di profanazione, come se i barbari (forse Diamante ha ragione, tutto sommato) fossero entrati in città e la stessero saccheggiando e modificando alla radice in modo che non possa più riconoscerla, come se avessero sfondato la porta del tempio e ne avessero profanato il culto, eccetera.
L’effetto per quelli come me?: spaesamento e niente più riferimenti garantiti, nessuna garanzia, navigazione a vista.
E soprattutto lo sforzo continuo e faticosissimo di capire cosa sta accadendo e perché.
Come dicevo sopra e come tutto sommato è ormai noto, sta accadendo che la cultura della classe che oggi dirige il paese è cambiata.
Se vogliamo si è «abbassata» e però l’ha fatto senza alcun complesso di inferiorità nei confronti della cultura di cui erano depositarie non solo le precedenti borghesie, colte et dominanti, ma anche le precedenti classi operaie e subalterne con le loro culture politiche e popolari fortemente rivendicate: non esistono più i borghesi, non esitono più gli operai, come non esistono più libri che si «devono» leggere (per fortuna) anche a costo di annoiarsi mortalmente, i libri servono ad intrattenere il Grande Ripieno e questo le case editrici che vogliono/debbono sopravvivere lo sanno bene.
Ma la complessità del presente lascia anche spazio per molte altre cose, altre scritture, altre forme di comunicazione, altri libri, altre case editrici, eccetera: non siamo autorizzati a letture schematiche, unidirezionali.
Tutto può ancora accadere, anche se non la vedo rosea.
Per esempio gli intellettuali sono davvero scomparsi, nel senso che non hanno più alcun ruolo riconosciuto e questa cosa non è senza conseguenze.
Per l’editoria come per la politica, eccetera.
Cercherei di evitare termini quali imbarbarimento e letamaio, visto che disponiamo di analisi piu’ sofisticate; considererei ad esempio che lo spazio mitopoietico nel quale inserire la Letteratura Pura (diciamo quello dei grandi personaggi & delle grandi storie fondanti una comunita’) e’ oggi e in occidente appannaggio di altre forme d’arte: cinema su tutte. Film recentissimi come “There will be blood” o “Schindler’s List”, tra tanti altri, sono gli equivalenti moderni del teatro greco, della narrazione in versi e poi eroicomica del trecento/quattrocento italiano, e cosi’ via.
Come gia’ nell’altro post sull’universita’, mi pare che la difesa di elettivita’ antiquate (la purezza del quattrocentista, l’analisi sociale dell’impatto del mercato sul modello culturale gentilesco-crociano) impedisca di vedere che cio’ che apparve fondante e’ oggi stagnante, in via di estinzione. E che dunque di tutta una serie di saperi si fara’ tranquillamente a meno, senza che per effetto di tale archiviazione si perda la massa mitopoietica condivisa dal genere umano.
ho smesso una decina di anni fa di struzzare: oggi scopro, in un misto di felicità e di rabbia, che non mi sono perso niente
passo in rassegna i circa duemila (e)inauditi che posseggo, ne tiro fuori uno a caso, e una lacrima futtiva fa capolino dal ciglio: oggi scopro, finalmente!, che non sono grave
n.b.
struzzare (dal nuovissimo P.U.S.: comprare un libro recante il marchio dello struzzo
futtivo/a: aggettivo quali-fica-tivo di derivazione dialettale (dal sicili-ano: futtìri</em): sta per che ti fotte e ti spinge a chiederti impietosamente dove o cosa hai/abbiamo sbagliato
chiosavo il commento del gentile francesco pecoraro
aggiusto l’ultima parte, sballonzolante in gra-fica
futtivo/a: aggettivo quali-fica-tivo di derivazione dialettale (dal sicili-ano: futtìri): sta per: che ti fotte e ti spinge a chiederti impietosamente dove o cosa hai/abbiamo sbagliato
Quel che mi piace, dei rapporti umani ed editoriali novecenteschi, e dopo questo lungo thread ho deciso di eleggere definitivamente il 900 a mio tempo ideale di riferimento, benché gli stia sopravvivendo, è l’onesta durezza di cui vi offro un esempio qui:
A Lucio Mastronardi, 19 aprile 1966
Caro Lucio,
m’hai scritto una lettera ben balorda, tutta menando il can per l’aia.
T’ho fatto delle critiche per le cadute di tipo tradizionale, crepuscolare del tuo racconto e mi scrivi che e me “piacciono i soliti romanzetti di tipo moderato”. Ma oh? A chi credi di prendere per fesso? E cosa c’entra tutto questo sfoggio di cultura musicale? Se ci tieni che io legga i tuoi racconti, leggi le critiche che ti faccio (con tutta chiarezza) e discutile per quel che c’è scritto, non per quello che ti piacerebbe che io ti avessi scritto per potermi scrivere una lettera come quella che volevi scrivermi (cioè proprio tutto l’incontrario). Io t’ho criticato non per aver scelto ‘una forma nuova’, ma per ‘non’ averla scelta, anzi avere ripiegato su formule vecchie, linguistiche e concettuali, dove fortunatamente non ci sai fare, perché in realtà non ti interessano così come non interessano a me. Ma per riuscire, bisogna guardare in faccia i problemi – e le critiche che ti si fanno – non girarci intorno parlando di musica o di canzonette.
Ciao
(Italo calvino)
gentile Alcor, lei sta rendendo un ser-vizio all’intelligenza, non v’è dubbio al cor, per me
ma, ahinòi, temo che qui non la ripagherà ness’uno
Se siete scrittori, perché non utilizzate la vostra arte per produrre opere che non risultino datate? L'”idea” buona rilevata da uno sei due editori doveva per forza essere scritta ambientandola in un passato ora poco interessante?
E mi domando spesso, leggendo McCarthy, quanti scrittori ci sono al mondo in grado di produrre romanzi superbi come i suoi eppure venduti, commercializzati, filmati. Forse è la mediocrità ad essere datata. O postdatata.
Ciao, ho letto gli interventi di Helena Janeczek e a proposito dei racconti di “chi sta dentro” (nella “macchina”, nella “stanza dei bottoni”, “dietro le quinte”) alla fine mi chiedo sempre questo: ma se e’ cosi’ “difficile” sapere che cosa determina un successo, se le ragioni sono cosi’ “misteriose” e non sono comunque “mai” quelle ipotizzate da “chi sta fuori” (curioso che una ipotesi su cio’ che comunque rimane “misterioso” venga considerata sbagliata o lontana dalla verita’), allora, mi chiedo, a che cosa serve raccontare, chiarire?
@Giusco
Non è affatto vero che oggi è solamente il cinema a produrre nuove mitopoiesi. Mi basta un titolo letterario per smentirti: INFINITE JEST (ma si potrebbero citare Pynchon, Delillo, Roth, McCarthy soltanto per restare ai viventi; e poi ci sarebbero un sacco di scrittori defunti ma comunque contemporanei che hanno potenziato l’immaginario collettivo). In Italia la vedo già più morta, ma non è che il cinema se la passi meglio della letteratura. Un’altra cosa non condivido: è vero che i tempi cambiano, e con essi il serbatoio immaginativo; ma ritengo che il cinema non possa sostituire la letteratura – che forse nessuna arte possa sostituire la funzione fabulatoria, catartica, mitica, creatrice, autoconoscitiva, spirituale e sociale della letteratura. Affermare, come fai tu, che “di tutta una serie di saperi si farà tranquillamente a meno” è quanto meno azzardato. Anche perchè non vedo tutto questo Croce e Gentile nella discussione; vedo invece una interrogazione priva di etichette sul valore letterario d’un certo tipo di mercato. Nessun delirio di Letteratura Pura, come ho già detto a Pecoraro. Poi non capisco perchè un film di Spielberg debba sostituire – e non magari, al limite, affiancare – i classici greci. In arte non si è nel campo delle scienze esatte, dove la progressione cronologica va di pari passo con quella del sapere e della qualità. Alcuni valori restano, e basta. Per fortuna.
Per fortuna che ci sono i classici che vengono ristampati.
Il problema, Marco, non riguarda solo chi sta fuori, ma pure chi sta dentro. Ovviamente mi riferisco a libri di autori non ancora coronati dal successo, sennò e facile (ma quasi mai un secondo titolo dell’autore di un bestseller uguaglia il successo del primo). Proporre un’autore nuovo, scomettere sul libro di uno sconosciuto è sempre un azzardo. Poi è ovvio che un editore questo faccia, talvolta si fa pure impegnando delle risorse di marketing strettamente dette. Ma ti saprei elencare molti casi in cui questo azzardi e investimenti non hanno funzionato e altri dove le cose sono andate non male, ma senza che il libro diventasse a tutti gli effetti un bestseller. Quel che mi premeva dire, al dilà di ogni atteggiamento da “iniziata ai misteri”, è che non esiste nessuna macchina in grado di promuovere a colpo sicuro quel che le pare e piace. E se ragionassi solo nell’ottica del business, direi: purtroppo
Esistono, tuttavia, macchine in grado di promuovere ciò che pare vendibile, poi può funzionare o no, nessuno ha la sfera di cristallo per prevedere gli effetti di una propaganda sul pubblico ma la propaganda si può fare, basta avere i mezzi e i contatti giusti….
i testi andanti. a cosa serve raccontare, chiarire. lucio mastronardi. calvino oh caro. bill si proprio io. giusco regulare curretto. ser-vizio all’intelligenza. pynchon, de lillo, roth. ed editoriali novecenteschi. pecoraro scalpo. un buzzati-minghi del 1950. la sòla si acquatta anche nelle collane.
se non le conosci, le lettere editoriali di calvino che einaudi ha pubblicato con il titolo.grado di promuovere.(nella “macchina”, nella “stanza dei bottoni”, “dietro le quinte”).funzione fabulatoria, catartica, mitica, creatrice, autoconoscitiva, spirituale e sociale della letteratura. la difesa di elettivita’ antiquate (la purezza del quattrocentista, l’analisi sociale dell’impatto del mercato sul modello culturale gentilesco-crociano)una fruizione «bassa» (mai abbastanza le virgolette per questo aggettivo) e li rendeva immediatamente identificabili: chi voleva leggere quel tipo di libri (degnissimi).il lavoro di “confezionamento” si fa solo in casi eccezionali: solitamente quando l’autore dispone di una fama. tutta. ma da quale accusa si dovrebbe/ non si dovrebbe difendere cortellessa? il mio riferimento al ”caso” di ruscio andava appunto al ”caso”, non ai suoi protagonisti. dove per ”caso” intendo proprio un ”caso-limite” di editing: che tale mi pare,che tale mi pare, che tale mi pare, che tale mi pare. la scrittura è letteratura che non si pone il problema di esserlo a tutti i costi, è letteratura de-licealizzata che si accetta come un piccolo quantum in un flusso di comunicazione scritturale che non ha precedenti nella storia.
Mozzi ha scritto:
Gli editor cercano libri commerciabili fatti e finiti. Mettere un editor a “finire” e “confezionare” un “semilavorato” costa troppo.
Lei afferma il falso. Sto parlando di autori pilotatissimi. Anche nelle vendite. Al momento mi viene in mente l’ultimo Ammanniti. Ma solo perché non ho tempo da perdere.
@franz
solo una precisazione: un buzzati-minghi del 1945, non del ’50.
Mozzi ha scritto:Il lavoro di “confezionamento” si fa solo in casi eccezionali: solitamente quando l’autore dispone di una fama tutta sua, considerata garanzia di future vendite; e allora piuttosto che di editing è il caso di parlare di ghosting.
Infatti. Vedi Ammanniti sopra. Anche se le vendite devono essere pilotate per tener su la fama del marchio.
Certo, se non sei un marchio, ma un giovanotto di buone speranze, meglio spedire un libricino bello e finito. Nessun canovaccio. Che non abbia contenuti però. E nessuna velleità stilistica.
Inutile sottolineare che ho molto apprezzato gli ultimi due commenti di Franz Krauspenhaar.
Mozzi ha scritto:
Il lavoro di “confezionamento” si fa solo in casi eccezionali: solitamente quando l’autore dispone di una fama tutta sua, considerata garanzia di future vendite; e allora piuttosto che di editing è il caso di parlare di ghosting.
Infatti. Vedi Ammanniti sopra. Anche se le vendite devono essere pilotate per tener su la fama del marchio.
Certo, se non sei un marchio, ma un giovanotto di buone speranze, meglio spedire un libricino bello e finito. Nessun canovaccio. Che non abbia contenuti però. E nessuna velleità stilistica.
@ M. Orfeo: una piccola correzione sull’accento…
si dice Fùttiri, non futtìri
il resto è perfetto….
Sì, mi è piaciuto anche M. Orfeo.
tash, minghi=1950. capito, no?
gentile pecoraro, scusi se la correggo ma il gentile krauspenhaar ha proprio ragione: trattasi di un buzzati/d. – minghi/a. del 1950
http://www.youtube.com/watch?v=ed5Yf1mtTc0
Evviva la gazzarra!
grazie, gentile lucifero, quando ho scritto stavo ascoltando l’ultimo cd(u) di minghi/a. e mi è scappato il re fuso
non si preoccupassi, gentile M. Orfeo, Minghi/a ed il suo cd/u giustificano ampiamente la sua distrazione …. cose che càpitano sòno!
a(h), che ambientaccio, gentile d. amante
Resta il fatto che mi viene da ridere se qualcuno si sente un colto letterato perché legge i libricini della Einaudi. O si nutre di tutte le cazzatine più o meno di successo che vengono pubblicate da editori più o meno importanti. Questa gente dovrebbe solo avere la consapevolezza che si sta intrattenendo. Bisogna in qualche modo impegnare il tempo. Senza tante pretese però. Sono davvero divertito da tutta l’aria fritta che si scrive su testi picccoli piccoli.
a(h), gentile d. amante, che ambientaccio, mi chiedo cosa ci faccia qui uno studioso par suo
AMA ti amo (anche Franz, ovviamente:-))
Gli editori fanno propaganda. Non solo affari attraverso l’intrattenimento. Quale ingenuità sarebbe non tenerne conto.
Prima ancora che la spendibilità sul mercato, un’opera deve essere funzionale al sistema. O innocua.
Vi riconoscete nelle istituzioni sociali italiane di oggi? Bene, allora godetevi le opere che pubblicizza.
gentile AMA, mi scusi se mi permetto, ma debbo correggere anche lei: quelli della einaudi ultimamente non sono libricini, come lei afferma, ma veri e propri liberculi
Alcor, odio e amore…
Grazie per le letterine che hai postato. Tu lo sai, se non ci sei tu, qua nessuno si infervora più del dovuto.
M. Orfeo, se continui così stanotte nel sonno mi insegue lo struzzo.
Comunque i tuoi commenti ce li stiamo godendo tutti. Appassionatamente. Almeno spero.
gentile AMA, la prego, non così, non in pubblico, mi sento una vampata unica di ross’ore
la prego, come non bastasse già lo scombiccheramento che mi ha provocato vedere sullo schermo che eravamo venuti all’uni-sòno all’ore 23 punto 44
Mon Dieu… M.Orfeo, lei con l’AMA mi tradisce!?!
cose …. cose einaudite!
a(h), gentile lucifero, che meravigliose, straordinarie creature i poeti…
se lo ricorda il tizio? è proprio vero quello che scriveva, e mai luogo fu più adatto della ri-serva per confermarlo sul campo:
am’or a nullo amato amar per dona
la saluto, o gentile, sto per infilarmi nel camper, ho già un piede sul predellino (i preliminari, diciamo…)
Caro Orfeo,
l’abbiamo capito che sei bravo coi giochini della quinta elementare, e che t’hanno promosso alle medie. Ma mi domando: se il tema di un post non interessa, perchè intervenire ancora e ancora? Vai piuttosto a fare i compiti estivi, Cuore e Pinocchio (un libro, quest’ultimo, da non sottovalutare mai) t’aspettano.
“AMA”, sei proprio un caso curioso. Citi il mio ultimo intervento qui e commenti: “Lei afferma il falso”. Poi lo ri-citi e commenti “Infatti”. Ovvero, in due distinti momenti, tra oro assai poco distanti, ciò che io ho detto è secondo te “falso” e così condivisibile da metterci sotto un “infatti”.
E allora, benedetto uomo o benedetta donna che tu sia, cerca di metterti d’accordo con te stesso o con te stessa.
O, in alternativa: rénditi conto che per fare bene le parole in libertà bisogna rinunciare del tutto al senso (come ha fatto qui, con gran garbo, Krauspenhaar).
Addio.
http://www.markelo.net/2009/07/30/frammenti-di-un-discorso-tragico-sulleditoria-italiana-contemporanea/
gentile Diamante, lei ha citato ‘Pinocchio’, uno dei pochi grandi libri della letteratura italiana, e la ringrazio davvero della fiducia, visto che mi ritiene in grado di approcciare un libro di cotale complessità
un libro che, a quanto posso capire, deve stare a ‘Cuore’ molto anche a lei, non fosse altro che per la presenza del suo méntore in qualità di guest star
immagino stiate preparando il ‘botto’. dico bene? le faccio i miei auguri, allora…
Sì, Signor Mozzi, lei mi irrita e mi fa incasinare tutto perfino nel solo semplice invio dei messaggini. Nel loro complesso montaggio. Il dramma è che non ci si può editare qua sopra.
Comunque… Non si capicse perché le parole in libertà un senso non dovrebbero avercelo. Forse solo perché lei non è interessato a coglierlo?
Cerchiamo di ignorarci a vicenda. Probabilmente se ci incrociassimo non ci vedremmo neanche. Resteremmo senza fuoco lontani dal campo visivo.
Su una cosa però Signor Mozzi non mi ha risposto… Lei sarebbe interessato a pubblicare testi con velleità squisitamente letterarie o contenuti troppo destabilizzanti? La prego, non mi risponda.
@orfeo
Scusi la franchezza, ma delle sue allusioni non ho capito una mazza. I suoi auguri invece non li voglio: quelli insinceri portano sempre male. Quanto a Pinocchio, lei ha ragione, è un capolavoro: vede che bei consigli che le do?
ps: lei mi ricorda un po’ i medici che stanno al capezzale del burattino, dopo che è stato impiccato dal gatto e dalla volpe. Rilegga bene il passo.
gentile diamante, sìi, e buono
Diamante, ho il sospetto invece che Orfeo sia molto interessato all’argomento.
Oggi la voglio fare io una citazione. Di Kafka. Strabusata ma mai ascoltata. Come si potrebbe mai farlo! Il dramma è che il passo non c’era tutto intero su Wikiquote, quindi ho dovuto spulciare in giro…
Se il libro che stiamo leggendo non ci sveglia con un pugno in testa, perché mai lo leggiamo? Perché ci renda felici? […] Mio Dio, saremmo felici lo stesso, anche senza libri, e i libri che rendono felici, quelli all’occorrenza potremmo scriverli da soli […] Un libro dev’essere un’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi. Di questo sono convinto.
(F. Kafka, da una lettera a Oskar Pollack)
Bene, io tutti questi colpi di ascia non li ho ricevuti negli ultimi anni dai libricini di propaganda letterati dal mercato. A volte pilotato. Altro che inattesi successi come misteri della fede! Ho il sospetto che qualche speculazione ci sia anche nel piccolo mondo dell’editoria. E tante, tantissime bolle. Di sapone. La filosofia soltanto mi ha concesso qualche timido orgasmo. Prima che si tentasse di estirparla. Definitivamente. Quando il mare ghiacciato dentro di me grida, sfoglio qualche Grande Classico. Certo, ancora mi solletica. Mi becca ma non incide sulla mia condizione attuale. Così miserabile. La mia, la mia, non la tua.
Ma io non sono neanche una nicchia di mercato!
Certo, continuo a leggere qualcosina di propaganda letterata dal mercato, ma senza grandi aspettative.
E ho rinunciato perfino ad attendere lo sbarco degli Alieni.
Però faccio tanto sesso.
“i libri di cui abbiamo bisogno sono del tipo che agiscono su di noi come una disgrazia, che ci fanno soffrire come la morte di qualcuno che amiamo più di noi stessi, che ci fanno sembrare di essere sul punto di suicidarci, o perduti in una foresta lontana da ogni consorzio umano – un libro dovrebbe servire come un’accetta per rompere il mare gelato che è dentro di noi ” Franz Kafka, da una lettera a Oscar Pollack
p.s. per me,lettore che non ha seguito la discussione fin qui tenuta,un libro deve farti evadere dal cervello nell’accezione meno superficiale dell’espressione.Se fossi uno scrittore invece punterei sull’invasione dello stesso,non necessariamente pacifica
Secondo me nell’operazione di editing vi è pure una certa illeicità, non di carattere penale, ovviamente, ma culturale.
Ne accennai qui il 19 luglio:
http://www.bartolomeodimonaco.it/online/?p=5627
Leggasi: illiceità
Perché, perché debbo scoprir, oh Orfeo, che sei nient’altro che MORGILLO? (monteverdi-style, mooolto barocco)
vale le pene, o gentile euri dice, scendere in-fino all’ade per cercar di trarne fora un* sì mirabil coglion*?
Non sono M. Orfeo. Ovvio.
illiceità. ne accennai. monaco 74. franz kafka. orgasmo. bolle. di sapone. franz ti ama. lei mi irrita. curioso. ammanniti. pilotate.
euri, dice. ovvio, gentile. a(h)! leggasi. non di carattere. le pene. penale? per me, lettore, vai più tosto a fare i compiti al capezzale. capezzoli? pinocchio! ma no, amisci, il predellino, la licealità, m’infilo nel camper. dalle elementari alle medie? sì, una mazza. augùri
Ciao, Franz.
Non metto in dubbio che la mitopoiesi creata finora, in forme poi “defunte”, sopravviva e sopravvivera’; stavo cercando di dire che i mezzi si sono evoluti nella direzione di una multimedialita’ piu’ accessibile -e piu’ conveniente dal punto di vista mercantile, nonche’ dell’impatto sociale- del tomone da 1200 pagine.
Nel settore caldo del game development informatico, il singolo artista -concept, scrittore, visual, programmatore o tutto insieme- ha a disposizione pacchetti di “creazione mondi” molto potenti e personalizzabili nei qual far valere la propria voce, se l’ha. Si chiamano engine, come ad esempio http://unity3d.com/unity/ , che non richiede alcuna conoscenza tecnica pregressa e nella versione base costa 200 dollari.
Se fino a 30 anni fa avevi carta e penna, oggi in occidente i dolori del giovane artista al passo coi tempi si esperiscono su questa roba. Non che sia male non essere al passo coi tempi, ma individuare le debolezze sostanziali del moloch (la Casa Editrice, meglio se Grande) aiuterebbe a prenderlo per quello che e’: un carrettone a somma zero.
@giusco
Quello che mi preoccupa, pur riconoscendo a internet un’importanza assolutamente cruciale, paragonabile alla scoperta della ruota o del fuoco, è la velocità di fruzione dei nuovi mezzi di espressione, il loro centrifugare la realtà e la fantasia, e il rischio che il tutto si tramuti in epilessia pura. I tempi stanno accelerando vertiginosamente, e stare al passo coi tempi potrebbe non essere un imperativo categorico, stavolta. In fondo, siamo noi umani a dettare i tempi medesimi; per un gatto, per la natura e per la vita, il tempo è qualcosa di molto più omogeneo, di molto meno franto e nevrotico, rispetto a quel che rappresenta per noi. L’arte in tal senso “sconfigge” il tempo, oppure crea un tempo proprio – che può essere anche furiosamente parossistico, vedi I DEMONI di Dostoevskij o tanta grande musica, ma rappresenta comunque un’evasione, una ribellione e un’ “altra” possibilità. L’arte in tal senso “aumenta”, “dilata” la vita. Temo che le nuove frontiere ne rappresentino, invece, un accorciamento.
http://www.cyberhumanitatis.uchile.cl/AlasbimnImages/image002xxx.jpg
ciao bart. (titolo.)
carla benedetticarla benedetticarla benedetticarla benedetticarla benedetticarla benedetticarla benedetticarla benedetticarla benedetticarla carla benedetticarla benedettibenedetticarla benedetticarla benedetticarla benedetticarla benedetti:
come se le barricate del maggio francese
fossero state erette
dall’ufficio presidenziale
del Generale De Gaulle.
che intonava assieme ai suoi collaboratori:
Même si le mois de mai
Ne vous a guère touché;
Même s’il n’y a pas eu
De manif dans votre rue;
Même si votre voiture
N’a pas été incendiée;
Même si vous vous en foutez!
Chacun de vous est concerné.
Même si vous avez feint
De croire qu’il ne se passait rien,
Quand dans le pays entier
Les usines s’arrêtaient;
Même si vous n’avez rien fait
Pour aider ceux qui luttaient;
Même si vous vous en foutez!
Chacun de vous est concerné.
Même si vous avez fermé
Votre porte à notre nez,
Une nuit que nous avions
Les Céhèresses aux talons;
Si vous nous avez laissés
Matraquer sur le palier;
Même si vous vous en foutez!
Chacun de vous est concerné.
Même si dans votre ville
Tout est resté bien tranquille;
Sans pavés, sans barricades,
Sans blessés et sans granades,
Même si vous avez gobé
Ce que disait la télé;
Même si vous vous en foutez!
Chacun de vous est concerné.
Même si vous croyez maint’nant
Que tout est bien comm’ avant,
Parce que vous avez voté
L’Ordre et la sécurité,
Même si vous ne voulez pas
Que bientôt on remett’ ça;
Même si vous vous en foutez!
Chacun de vous est concerné.
Madonna santa