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Storia di Marie e Julien (Jacques Rivette)

di Rinaldo Censi

Le prime sequenze del film scorrono lasciando emergere una strana sensazione, come se qualcosa sfuggisse, si muovesse autonomamente, fuori dai binari canonici di una diligente trama narrativa. I punti enigmatici e opachi vengono subito al pettine: chi è Madame X? E cosa la unisce a questo orso in cattività, fuggito di soppiatto da uno zoo? La struttura ipnagogica delle prime sequenze poi non aiuta. Dove siamo? In un sogno? E poi: chi è che sogna? Marie? Julien? No. L’impressione è che ci sia qualcosa di superiore: ci sia qualcosa insomma che muova i fili della storia, che si diverte ad attorcigliarli, farne risaltare i nodi imprevisti: insomma a creare incidenti. All’inizio del film ogni personaggio sembra muoversi per conto suo, come se stesse monologando con se stesso, emancipato dal resto della scena, impermeabile agli eventi che si susseguono, senza che nulla venga in fondo chiarito. Un po’ come un quartetto d’archi dove ogni esecutore si muove singolarmente, chiedendosi cosa stia suonando il musicista al suo fianco. Eppure questi quattro strumentisti conoscono alla perfezione la composizione musicale sul loro spartito, solo non desiderano essere disturbati. Si divertono restando evasivi, enigmatici: ci voltano la schiena, con semplicità e noncuranza.

Alcuni indizi: una lettera, un lembo di stoffa, una fotografia. Possono aiutare a comprendere lo svolgimento degli eventi? Un ricatto? Appuntamenti mancati. Ma dov’è che ci si incontra? Dov’è che Marie incontra Julien? In sogno? In un bistrò? Storia di Marie e Julien, ottimo film di Jacques Rivette, si muove con grazia felina, scandendo la sua struttura filmica con riserbo. E chi l’ha mai detto che al cinema le cose debbano essere semplici? E’ possibile che dalla dissonanza iniziale delle prime sequenze si riesca a giungere a mettere in scena una struttura infallibile, un intreccio perfetto e preciso come un orologio svizzero? Potete esserne certi. Questo film trova il suo correlativo oggettivo in quella sorta di filosofia dell’arredamento che impegna Marie (Emmanuelle Beart) per buona parte del film. All’ultimo piano della residenza di Julien, nella soffitta, una stanza vuota sta per essere arredata. Ma quanta fatica! Si fatica a trovare la posizione esatta dei mobili, la loro esatta simmetria, il loro equilibrio, così come si fatica a districare la trama del film. Colore del tendaggio, posizione degli specchi, un comodino spostato di pochi centimetri, un mappamondo da alloggiare. Una scala al centro della stanza. Tonalità delle tinte, armonia tra le dimensioni dei mobili, linee rette, linee curve, una lampada, un po’ di polvere si muove controluce: è ciò che resta di un locale buio dall’aria viziata. E’ possibile che in questa volontà arredatrice, in questa attenzione per tonalità di stoffe, in questo spazzare polvere, come se stessimo osservando il pigro movimento delle grandi pulizie primaverili, si nasconda il cuore del film? A cosa serve questa stanza messa a nuovo? Quale la sua utilità? Serve a delimitare un luogo famigliare, “abitato” da un’atmosfera di cui percepiamo la violenta ambivalenza, in un universo che si muove un secondo in ritardo rispetto alla realtà? Mentre Julien dorme o è distratto (è innamorato, dopotutto), Marie prima immagina, definisce, poi costruisce a sua insaputa una stanza che è un maelström temporale, un luogo desueto, perturbante (Storia di Marie e Julien è un film tutto verticale, di una verticalità che risuona in una tensione verso il fuoricampo: dove guarda il malizioso gatto Nevermore, mentre Julien lo accarezza?): è il luogo di elezione, di pertinenza, dove ogni nodo dovrebbe infine giungere a slegarsi. False piste. Un ricatto. Un uomo senza qualità. Una donna malinconica, enigmatica: cosa nasconde? Qual è il suo segreto? Bisogna avere la pazienza di salire in solaio per scoprirlo, infine.

Storia di Marie e Julien: un film costruito a tappe, con le sue stazioni, distribuito su tre piani, mentre all’esterno il mondo continua il suo corso, sonnolento, distratto, quotidiano. E quella carcassa, quello scheletro di ferro, l’anima di un orologio da campanile, lì al primo piano della casa? Lo scatto difettoso della sua meccanica, questo scandire il tempo singhiozzando, stonato, non è la dimostrazione cangiante di un’evidenza: l’eloquente sincope dell’intreccio, o meglio, ciò che lo innesca (il gatto Nevermore si diverte. Si arrampica e si sposta all’interno di questa struttura celibe, una specie di quadro svedese duchampiano. Che sia lui il piccolo demone che si impegna a sabotare la precisione degli ingranaggi, le sue bielle, le sue ruote,  i meccanismi della trama)?

“Scènes de la vie parallèle”, progetto di Rivette cominciato nel 1976 con Duelle, Noroît, prevedeva quattro capitoli, ispirati ad un mito celtico imperniato sulla resurrezione dei morti. Storia di Marie e Julien definiva il terzo capitolo. Rivette aveva anche cominciato a filmarlo, prima di interrompersi per motivi di salute (questo è dunque un film interrotto, defunto e disseppellito). Storia d’amore, storia di fantasmi, di non-morti, Storia di Marie e Julien ci dimostra che una stanza è sufficiente a far venire le vertigini: non servono tanti effetti speciali, e neppure la stupida pedanteria di una fantascienza da playstation. Edgar Allan Poe (Annabel Lee, Il diavolo nella torre), Val Lewton, Mark Robson (La settima vittima), Jacques Tourneur, fantasmi dall’universo RKO: possibile che affollino tutti questa stanza? Si sono riuniti qui, per 150 minuti. Sono i custodi di un universo ormai scaduto. Possiamo osservarne ancora il fulgore e il movimento, per effrazione, dentro quella stanza.

2 COMMENTS

  1. Domenico,

    Dopo avere letto la tua rescensione, ho avuto la voglia di prendere in prestito il dvd alla médiathéque, ma non è disponibile anzi settembre, non sono fortunata.

    Comunque mi hai dato la voglio di vederlo.

  2. Ho visto il film ieri sera, grazie per gli spunti di questo articolo.
    E’ incredibile la tranquillità che mi ha infuso questa visione, i movimenti di macchina lenti e quasi silenziosi (un po’ come i movimenti del gatto), i dialoghi radi, i toni bassi, i non inseguimenti, le non sparatorie,
    il non montaggio sincopato, il lento fluire del tempo ricomposto. Tonificante.

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.