Piazza Fuga
di Peppe Fiore
Quando facevamo il liceo nessuno di noi s’azzardava a parlare di rivoluzione, avevamo tutti cose più importanti da fare. Eravamo un gruppetto di sei o sette persone che si erano trovate insieme più che per affinità per una certa strana congruenza a incastro delle reciproche storture caratteriali. Non so perché, ma se oggi ripenso agli anni della mia adolescenza l’impressione è quella di una lunga vacanza non cercata e non richiesta. Una di quelle vacanze senza fine dove si sta costretti a forza in un posto di mare, è sempre senza scampo dopopranzo, e pertanto ogni cosa che si fa sembra sempre la cosa sbagliata.
Sarà che ormai sono vent’anni che mi confronto con la natura intimamente letteraria del posto dove sono nato, sempre uscendone massacrato. In tutti questi anni, la mia città è stato un argomento di conversazione universale. Tutti gli sconosciuti che ho incontrato ovunque – università, lavoro, vacanze, treno, baretto di spacciatori a Monteverde – si sentivano in dovere di entrare in confidenza con me appena sapevano che ero di Napoli. Come se essere di Napoli mi garantisse automaticamente una forma di percezione delle cose più laterale e, in qualche modo, più fina. Perché poi? Boh.
Naturalmente dopo cinque minuti di conversazione sciolta, il commento a mezza bocca dell’interlocutore di turno era sempre lo stesso, e sempre un po’ deluso: – Cazzo però, non ci sembri proprio. Sicuro che sei di Napoli?
Sicuro che sono di Napoli? Ecco, in questo si sintetizza il mio rapporto con la mia città. La città di cui ho invidiato sempre (continuo a invidiare ancora oggi) questa particolare forma di intelligenza collettiva priva di mediazioni, spericolata, primordiale. E onnivora, soprattutto onnivora. Sono nato in un luogo fatto di una realtà più spirituale che geografica. E questa realtà consiste d’una condizione millenaria di non sazietà, una vocazione naturale allo spreco di sé e un’ostilità feroce a qualsiasi forma di risparmio. Diciamo pure un luogo che ha seri problemi a maneggiare il concetto di futuro: ma in fondo se ne fotte, visto che si vive – come poi davvero si vive – nella permanenza.
E invece io, stranamente, sono venuto su con quest’etica quaresimale, questo grigio senso del dovere che mi fa vedere le cose belle sempre come il premio per una rinuncia. Sono cresciuto credendo in cose come il merito, la giustizia, la ricompensa, lo studio, la pazienza: miserabili cose, e in realtà nel profondo continuavo a crederci anche negli anni in cui mi vantavo di essere un pericoloso arrivista. Sì, Dossetti sarebbe fiero di me, eppure io ho sempre avuto il presentimento di essere votato a grandi imprese e non averne la forza. E adesso, guardando l’America Latina tatuata sulla sua schiena, mi viene in mente quella frase di Madame Bovary che per anni ho citato a cazzo di cane, prima di dimenticarmela (a cazzo di cane la cito pure qua): nell’animo di ogni notaio si nascondono i rottami di un poeta.
Ecco, il mio sospetto è sempre stato questo. Che lo scarto tra me e un talento vero stesse precisamente nell’irresponsabilità – meglio: nella regale strafottenza con cui un talento vero asseconda la sua vocazione al suicidio.
– Ok, perfetto. Adesso che dici se ti rimetti la maglietta?
– Ma l’hai vista?
– Sì che l’ho vista. Dài, rivestiti.
– L’hai vista bene?
– Siiine!
Sta di fatto che espletare la mia funzione di adolescente borghese a Napoli nella seconda metà degli anni Novanta, mi dava la netta impressione, e continuamente, di stare nel posto sbagliato al momento sbagliato. Pensandoci col senno di poi, era come se, attorno a noi, la storia si fosse presa una pausa caffè. Oppure, che era passata per Napoli dopo aver letto Luciano De Crescenzo e quindi si era lasciata condizionare, adagiandosi pigramente sulle luci cangianti (marmo, oro, smeraldo o piombo a seconda delle stagioni e del timbro del mare) della riviera di Chiaia.
Il che, a ben vedere, non doveva essere necessariamente vero. Probabilmente non c’era nessun treno che ci eravamo persi per un soffio solo perché eravamo nati nell’81 (sei o sette anni in ritardo per occupare centri sociali e eventualmente abbracciare l’eroina, otto o nove in anticipo per… per cosa? Boh. E’ precisamente questo il problema). E nessun treno stava passando da qualche altra parte verso il sol dell’avvenire tenendosi a schifiltosa distanza dalla Campania. La verità è che cercare conferma nei fatti alla nostra aleatoria sensazione di pennichella generazionale era troppo faticoso. Senza giri di parole, quello che pensavamo era: non abbiamo un nemico, e va bene, è un fatto. Ma chi ce lo fa fare di perdere tempo e sudore per andarcene a scovare uno, che poi magari non è neanche all’altezza? Non volevamo prendere la stessa inculata dei nostri genitori (di alcuni: i miei per esempio il ’68 l’avranno visto giusto in televisione), e cioè di darsi una forma in funzione di un nemico, salvo poi trovarsi da adulti identificati con il nemico stesso.
Per carità, c’era una vasta regione di coetanei che si muoveva, si mobilitava, promuoveva assemblee, istanze, scissioni, ricongiungimenti tra le fronde scisse. Li seguivamo a debita distanza, li rispettavamo, a volte ci lasciavamo coinvolgere: ma in fondo tutto quello che ne ricavavamo ai fini dell’ingegneria profonda di noi stessi come giovani adulti era giusto una tiepida incazzatura nei confronti di Berlusconi. Se su un piatto della bilancia del nostro futuro mettevamo Forza Italia e sull’altro piatto il nostro tormento intimo, tutto interiore, frutto del nostro disperato bisogno di esprimerci, si capisce perché a sedici anni la nostra dichiarazione d’intenti nei confronti degli orrori del mondo si sia sostanziata nella fondazione di un band post-rock intellettuale e perché dopo infinite discussioni il nome scelto risultò essere Le Baccanti. Esprimerci (quasi sempre senza farci capire da nessuno) ci sembrava infinitamente più vero e infinitamente più urgente del nostro stesso paese. Per noi l’Italia, vista in prospettiva cronologica, si risolveva in una cordata di ingegni più o meno notevoli attraverso gli anni (per quanto mi riguardava: Piero Ciampi, Filippo Scozzari, Moravia e pochi altri). E, vista in estensione, in qualche campeggio estivo nel Salento, via Cavour a Roma piena di gente sudata alle manifestazioni della CGIL, Maria de Filippi, e Umberto Bossi che sputava sul tricolore eseguendo il gesto dell’ombrello.
– Facciamoci un’altra botta, va’.
– Fai tu o faccio io?
– Fai tu. L’ho visto che sei esperto.
– E’ bello dopo tutto questo tempo trovare delle cose in comune, no?
– Dài, butta giù.
La differenza tra noi e un gruppo di cazzoni disimpegnati qualsiasi era che noi ci consideravamo consapevolmente disimpegnati. E questo ci catapultava automaticamente un chilometro avanti rispetto a quelli che risolvevano tutta la loro esistenza nel fatto di essere di sinistra. Eravamo quelli che avevano letto più libri di tutti, potevamo pronunciare giudizi in italiano corretto su più o meno qualsiasi ambito dello scibile creativo. Eravamo a nostra volta di sinistra, e sinceramente, e senza nessun tipo di mediazione possibile, ma lo consideravamo un accessorio. Provavamo i pezzi (mai una struttura strofa-ritornello: mai!) in uno scantinato di via Pigna, il sabato sera senza dircelo ci annoiavamo, tenevamo i nostri rapporti continuamente sotto auscultazione perché non scendessero sotto una soglia minima di intelligenza e consapevolezza. Siamo usciti dal diploma col massimo o quasi, i nostri genitori, tutti professionisti, ci hanno sovvenzionato l’interrail. Abbiamo letto Pavese, abbiamo avuto tutti un amorazzo appiccicoso da portarci dietro per tutta l’adolescenza, ci siamo fatti un tatuaggio, abbiamo schifato le feste di diciott’anni in giacca, abbiamo minacciato di andarcene di casa. Siamo rimasti. Abbiamo progettato di comprarci un furgone in società, abbiamo avuto un incidente, abbiamo avuto dei ripensamenti, abbiamo pianto quando con la fidanzata storica, davvero, ma è un peccato, ma non è proprio più possibile, ma rimarrai per sempre tu la prima, ma, abbiamo fatto quadrato, abbiamo suonato ai giardinetti comunali, alle gare di gruppi emergenti nei paesi sfigati del casertano, ci siamo fatti prestare una macchina per portare gli strumenti, abbiamo cambiato gli strumenti, abbiamo fatto un viaggio di notte, abbiamo avuto una donna in due, ci siamo fatti indietro, ci siamo ubriacati e massacrati con un casco di motorino, abbiamo fatto teatro il pomeriggio a scuola, infiniti pomeriggi di primavera sulle versioni di greco, abbiamo comprato un basso nuovo, un multieffetto nuovo, la Soundblaster per registrare, abbiamo fatto una festa su un terrazzo, ci siamo sentiti dei piccoli eroi, abbiamo deciso di partire, abbiamo discusso le scelte, abbiamo scelto di andare a convivere, abbiamo fatto a mazzate con papà ubriachi la notte di capodanno, mamma che urlava, abbiamo pianto di nuovo quando hanno divorziato, di nuovo abbiamo fatto quadrato, abbiamo inciso una demo, siamo andati da Lucio Dalla, abbiamo avuto una cistite, siamo tornati di corsa dalla Polonia in Calabria, due giorni di treno ma lei non c’era più, ci siamo tolti il saluto, ci siamo fatti fottere i soldi, ci siamo prestati i soldi, siamo andati a prendere il fumo a Marianella, il panino di peperoni a Gragnano, i vestiti usati a Resina, abbiamo avuto amici nuovi, non ci piacevano, erano simpatici, ci parlavi di tutto, gente dell’università, non ci piacevano, abbiamo fatto un progetto strumentale, siamo andati a sentire i Karate a Pomigliano D’Arco, ci siamo insonorizzati lo scantinato per la batteria, ci siamo chiavati la cantante, alta, tette piccole, ci siamo fatti un bocchino tra di noi, ci siamo dimenticati i dischi a casa tua, ci siamo persi il fumo, ci siamo sfracellati in motorino, ci siamo fatti una tac, ci saremmo ricordati tutto un giorno, un giorno di colpo tutta questa valanga di cose inconcludenti ci sarebbe sembrata utile, saremmo rimasti insieme per sempre.
– E’ tua, Stè.
– Vado?
– Vai!
– …
– …
– Ok. Tocca a me.
E invece? Invece niente. Dei miei amici del liceo a Napoli sono rimasti quattro gatti: Francesco a Parigi, Marco e Marzio a Boston, Andrea a Roma, Adele e Antonio a Milano (e dopo la laurea anche quei pochi se ne sarebbero andati via, quasi tutti fuori dall’Italia).
Io sono venuto a studiare a Roma, ho smesso di suonare e i primi tempi, c’era sinceramente l’intenzione di tenere i ranghi serrati nonostante la distanza. Eravamo convinti che ce la potevamo fare, e questa convinzione è durata anche tanto, almeno un annetto. Un anno di giri di mail infiniti per organizzare un week end a Napoli, salvo poi ritrovarci in un bar del centro storico, finalmente, insieme di nuovo, senza niente, proprio niente, da dirci. E specialmente senza azzardarci a parlare del gruppo. Un anno di intercity a buffo, nottate sul divano scomodo in una stanza minuscola di una città sconosciuta per farci visita con la scusa di un concerto. E la sensazione che dopo il secondo giorno di sbronze tristi, cominciavamo a essere di troppo in un’esistenza altrui che ormai era un pò troppo altrui. Allora finiva che anticipavamo la partenza.
Poi a un certo punto abbiamo cominciato a diradare le chiamate. Nemmeno ce ne siamo accorti, ma quando era possibile – per risparmiare – invece di una telefonata usavamo un sms. Poi nemmeno più quello.
Rimanevano le feste comandate, Natale, Pasqua e Capodanno. Poi le fidanzate procacciate all’università hanno cominciato a pesare, e lentamente gli amici hanno preso un’altra forma, quella di una specie di impegno da incastrare in mezzo a centomila altri impegni, giusto un gradino sopra ai genitori.
La trama ferroviaria che teneva insieme questi punti distanti della geografia – Roma Milano Pisa Parigi Venezia – si è andata sfilacciando, nelle tratte più deboli si è rotta, siamo diventati ognuno per l’altro dei posti strategici dove dormire all’occorrenza sparsi in giro per l’Italia. Finché a qualcuno non è capitato di trovarsi a Napoli, incrociarsi in una Feltrinelli o un negozio di dischi, riconoscersi e pronunciare con sincero stupore e senza nessuna malizia la fatidica frase: –Ah, mica lo sapevo che eri sceso–. Frase a cui rispondeva un’innocente alzata di spalle, nessuna necessità di giustificazione posticcia (al massimo: –No, sono solo di passaggio, per questo non ti ho chiamato–), come se in quelle parole non fosse racchiusa la catastrofe, la fine della nostra innocenza.
Ormai avevamo venti, ventuno, ventidue anni.
E io, pur rendendomi perfettamente conto di quello che stava succedendo, non mi ponevo più di tanto il problema visto che, concentrato com’ero a nutrire il mio scimmione, cioè il mio progetto di vita, non avrei avuto comunque tempo di cagarmi i miei vecchi amici del liceo. Anzi, immedesimandomi a forza nella condizione di giovane adulto, pensavo che era nell’ordine delle cose che ognuno seguisse la sua strada, anche se la sua strada lo avrebbe portato migliaia di chilometri lontano da casa. In realtà era solo una giustificazione posticcia (così come posticcia e ipocrita era stata anni prima la giustificazione che non stesse succedendo niente di abbastanza grave da spingerci all’impegno, ad unirci ad una qualsiasi comunità di destino). Infatti anche quei due o tre che stavano a Roma puntualmente li ho persi: erano le persone con cui ero cresciuto e adesso non avevo idea di che vita menassero. Andava bene così, mi dicevo: anche se ci fossimo rivisti non avremmo avuto da dirci niente di nuovo, era troppo presto. A dirla tutta, l’idea che accarezzavo segretamente era che ci saremmo rincontrati tra una quindicina d’anni a una grigliata di pesce, ricchi, corrotti, felici, perfettamente integrati nei gangli dell’industria culturale, con una ridda di aneddoti decadenti da raccontarci. E la grigliata sarebbe finita in una gioiosa orgia di pissing.
– E allora Stefanino, com’è?
– E dammi il tempo no
– Ovviamente non è la Bolivia, eh.
– Ovviamente. E ovviamente stai messo male se ci tocca usare una cinque euro di merda. Pure vecchia per giunta.
– Una venti ce l’ho. Però è ancora più vecchia.
– Credici.
– Ha parlato Paperone.
– Ah no, ecco.
– Ecco che?
– Eccola che sale.
Invece quella che si stava consumando era un’emorragia. Nient’altro che questo. Avevamo tutti, separatamente e simultaneamente, maturato la stessa decisione – scapparcene come i conigli – per proiettarci tutti via dalla nostra culla sentimentale (che più o meno coincideva con la friggitoria di Piazza Fuga al Vomero) come schegge di granata. E con quale esito? Quello di andare a condurre da qualche altra parte un’esistenza sciatta e stretta fatta di stanze in affitto, coinquilini con i piedi che puzzano, sottaceti chimici del discount, stage non pagati e genitori rassegnati al peggio. Cioè per andare da nessuna parte. Tutti, nessuno escluso.
E non era un caso se stava succedendo proprio a noi – cioè alla generazione di quelli che nei primi anni del duemila uscivano dal liceo. Io, fedele alla linea, continuavo a non riconoscermi in niente di quello che diceva la vulgata di sinistra in generale e in particolare i giovani di sinistra incazzati oleograficamente da Santoro: l’antipolitica, il precariato, l’antiberlusconismo. Perché mi sembrava tutto ovvio, noioso e intellettualmente poco stimolante. Nello specifico, il mito del precariato che veniva messo in piedi in quegli anni era dal mio punto di vista soltanto l’ultima incarnazione del buon vecchio idolo polemico di sempre. La versione aggiornata del padronato negli anni sessanta, del capitalismo transnazionale nei settanta, dei socialisti negli ottanta e di Tangentopoli negli anni novanta. Io ero estraneo al problema del precariato per tre ordini dei motivi: primo perché ero troppo avanti per sentire il bisogno di un nemico (e questo l’ho già detto), secondo perché riconoscermi parte di un dramma generazionale era da nerd, terzo perché avevo già i miei problemi che si risolvevano nel cercare di dare una forma al mio progetto di vita.
Invece la verità era che stavo creando le condizioni per ritrovarmi a ventisei anni precisamente come sono adesso: solo come un cane e con tutta la discografia di Alva Noto nell’iPod, che per quanto intelligentissimo è un clistere.
– Oh.
– Cosa?
– Sei morto?
– Perché?
– Niente.
– …
– Niente, Stè. E’ la botta.
– …
– …
– Pè?
– Oi.
– Mi dici a che stai pensando?
Faccio un esempio che mi sta a cuore: Stefano.
Anagraficamente coetaneo, era un ragazzone che in quinto ginnasio sembrava mio nonno, e per tutto il tempo della nostra amicizia è sempre rimasto un passo avanti a noi proprio dal punto di vista biologico: quando noi eiaculavamo per la prima volta lui frequentava i cinema porno attorno a Piazza Garibaldi, quando noi registravamo la prima demo lui aveva i primi problemi seri col diabete.
Insomma, con Stefano io mi sono fatto la prima canna, il primo interrail, la prima manifestazione a Roma. Un capodanno non sapevamo che cazzo fare fino alla mezzanotte, e dopo infinti programmi di feste andati a puttane ci mettemmo in macchina con altri tre e ci imboccammo sull’autostrada. Lasciandoci dietro Napoli che come ogni anno andava a fuoco ed era scontato che non sarebbe sopravvissuta al primo gennaio. Così, in questo sentore di apocalisse puntammo a sud senza una meta precisa, per fermarci all’alba in un paesino sperduto della Basilicata, tre case di pietra in croce, sassi, freddo, e zero esseri umani. Mi ricordo l’apparizione improvvisa di un lago minuscolo dietro una gobba di terra erbosa. L’acqua era una sfoglia di allumino che rifrangeva nel gelo, l’idea di Napoli remotissima, remotissima anche l’idea di una vita anteriore e di un altro anno da fronteggiare. E questa era la felicità; poi più niente.
Anzi, no.
Mi ricordo anche un’altra volta nelle tetre campagne del beneventano, eravamo più o meno le stesse persone. Si andava a stare un sabato nella casa di famiglia di Andrea (voce e tastiere del gruppo, l’unico delle Baccanti che ha continuato a suonare rimanendo in Italia). Mi ricordo che eravamo andati a mangiare e ci eravamo ubriacati praticamente già agli antipasti, e Andrea guidava per una strada buia, senza un lampione: Stefano stava fuori, era sul tetto della macchina a braccia spalancate e da dentro lo sentivamo gridare e ridevamo tutti.
Ecco, fine sul serio.
Morale della favola: appena finita l’università Stefano – questa persona a cui ho voluto bene come un fratello – è andato a vivere in Bolivia, a La Paz. Ci siamo persi (ci eravamo già persi negli anni prima), e io non ho idea di che vita fa, se sta con una donna, come campa. Da due anni a questa parte, Stefano è esistito soltanto nelle notizie di circostanza che chiedevo a quei pochi che lo sentivano ancora.
– Niente. Non sto pensando a niente. Guardo le lucette e basta.
– Ce l’hai un’altra birra?
– Finita.
– E se.
– No, Stefano.
– Ma se non mi fai nemmeno parlare.
– Ti ho già risposto: no. Non ho voglia di alzarmi, allacciarmi le scarpe, aprire il garage, chiudere il garage, prendere la macchina, andare al bar, comprare la birra, tornare, aprire il garage, chiudere il garage, salire, stappare, versare in un bicchiere. Proprio nessuna voglia.
– Due bicchieri. E due birre.
– Comunque non mi va.
– …
– …
– Sai cosa?
– Eh.
– Pensandoci, nemmeno a me.
Perlomeno fino all’altro ieri quando via Skype sono stato informato che Stefano tornava in Italia per un mese. La notizia mi è arrivata da Stefano stesso, il quale congiuntamente mi chiedeva appoggio per la notte, per raggiungere Napoli con calma il giorno dopo.
Ci ho pensato un po’ prima di rispondergli. Di tutti i momenti che poteva scegliere per la sua gitarella in Italia, questo era realisticamente il peggiore. Per lo meno dal mio punto di vista. Cioè: la nostra amicizia era – diciamo così – andata in latenza proprio nel periodo in cui io mi accingevo a proiettarmi come un siluro verso il mondo del lavoro: ero un giovane, sfolgorante arrampicatore in piena erezione esistenziale. E dunque questo doveva essere l’ultimo ricordo che Stefano aveva di me. Quello che avrei portato a Fiumicino dentro la scatoletta di una Peugeot 107 nera metallizzata era invece un neo-ventiseienne devastato dalla gastrite, risucchiato nell’agognato mondo del lavoro come in una pozza di sabbie mobili, pesantemente compromesso con l’economia dell’immateriale, del kitsch, del fatuo, del cinismo più cinico, eccetera. E per di più a corto di fregna.
Mentre Stefano era quello che un bel mattino, con la sua laurea in scienze politiche in tasca, aveva deciso che a conti fatti vivere in questo paese gli faceva cacare, aveva preso armi bagagli e si era imbarcato nel primo progetto di cooperazione internazionale che i suoi agganci nella Sinistra Giovanile erano riusciti a procacciargli.
Senza troppe pippe mentali, aveva abbracciato suo padre (un signore simpatico vagamente somigliante ad una tartaruga, che nel mio ricordo è congelato sulla terrazza di un appartamento all’Arenella, congelato nel tempo e nel sole odoroso di maggio con le ginocchia bianche dentro dei bermuda beige) e sua mamma (un monte di donna, intelligente, profumata di cottura, il cui corpo riempiva da solo tutta la cucina del medesimo appartamento), le due sorelle, un cane. Ed era partito.
Non so quanto Stefano ci credesse davvero al suo progetto di cooperazione – che, come mi avrebbe spiegato al ritorno dall’aeroporto, sul raccordo anulare all’altezza dell’uscita Appia, consisteva nella costruzione di una grande diga per alimentare con energia idroelettrica una serie di paesini morti di fame alle porte di La Paz – e quanto invece la scelta di partire fosse mossa dalla sua tradizionale miccia interiore. Miccia che, in una parola, consisteva nel bisogno disperato, divorante, di godere. Godere sempre, comunque, a qualsiasi costo: è con questo spirito che Stefano è sopravvissuto contro ogni previsione a più di un quarto di secolo di vita. Mangiare tutto il mangiabile, bere tutto il bevibile, fumare tutto il fumabile. E – naturalmente – chiavare tutto il chiavabile. Stefano ha chiavato letteralmente qualsiasi cosa in qualsiasi posto: cessi di locali, cinema porno, sedili posteriori di automobili mentre il guidatore, un amico, viene gentilmente invitato a girare in tondo in un parcheggio di cemento fino al completamento dell’opera. Stefano è la persona che, in una vecchia foto del nostro secondo liceo, dorme nudo sul cesso di casa di Andrea con una specie di turbante in testa, le dorsali della schiena, delle braccia, del costato, che s’ammassano nell’ombra sul suo corpo che sembra un blocco di argilla malamente sgrossato.
Se Stefano è arrivato vivo fino in Bolivia è solo per una certa istintiva meridionale scaltrezza che lo ha sempre salvato proprio un attimo prima del disastro (sfiorato, peraltro, milioni di volte). Quando è il tuo stesso corpo che, praticamente da quando sei in fasce, ti educa all’edonismo radicale è naturale che cresci più in fretta degli altri: ed è questa la ragione per cui Stefano ci è sempre sembrato più adulto di noi, e in qualche modo anche più usurato dall’esistenza. Noi ci perdevamo nelle fumisterie delle nostre ansie creative, e intanto Stefano frequentava chiunque, chiavava, affrontava insomma la vita come un’idrovora, saldamente incollato alla terra.
Su questa totale divergenza d’intenti, non si sa come, la nostra amicizia reggeva. E ha retto per cinque anni solidissimamente.
Eppure.
Eppure sull’altro fronte c’era qualcosa di più profondo. Uno strato intimo della sua persona, assurdo e in fin dei conti incongruo, che purtroppo non c’è altro modo per definire se non idealismo. Sì, Stefano ha sempre vissuto la sua fame come una missione: è questa la verità. E’ proprio in virtù di questo idealismo che anche le chiattone che castigava nelle toilette del centro storico diventavano in fondo delle “belle persone”. E un trans con l’occhio di vetro che ormai nei nostri ricordi è fatto di pura sostanza mitologica “l’uomo più femminile che avesse mai visto”. Stefano si innamorava, cornificava, si separava, si imbucava alle feste, leggeva Marquez, insomma si sfamava col pieno spirito di irresponsabilità di chi non ha intenzione di lasciarsi niente alle spalle. In questo senso, senza che me ne rendessi conto, incarnava in pieno il mio ideale di vocazione al suicidio che ho sempre invidiato negli altri napoletani perché me lo sentivo negato. Nessuno come Stefano – ripeto: affamato, paraculo, in certi frangenti pericoloso – era sincero. Sincero nella sua totale incapacità di mentire a se stesso.
Sicché godere era per Stefano un’altra cosa rispetto a quello che era per chiunque altro: diventava un inesauribile esercizio di conoscenza, un’inesauribile esplorazione di se stesso, un’inesauribile risalita all’origine. E perciò gli si perdonava tutto, perché in fondo anche se ci avesse tradito (per fortuna non lo ha mai fatto), non sarebbe stata colpa sua ma del suo appetito.
Per questo quando a vent’anni, stupendo tutti, abbracciò dalla sera alla mattina la militanza attiva (naturalmente dentro Rifondazione, per poi diventare con un coup de theatre assolutamente geniale presidente d’Istituto all’università), nessuno si pose il problema di capire da quale vena fosse sortita la decisione. Era una tattica per estendere a livello intercontinentale il parco macchine delle chiavate potenziali, o semplicemente il nuovo imperativo categorico dei suoi visceri inquieti?
In realtà, avremmo capito più tardi, il groviglio tra la fame e l’idea dentro il ventre di Stefano era e sarebbe rimasto per sempre inestricabile: anche per questo ci eravamo voluti bene finché eravamo rimasti vicini, prima di perderci.
Ed era la medesima ragione per cui non aveva senso nemmeno chiedersi quanto fosse verace la sua passione per i problemi energetici delle comunità rurali in America latina. Non aveva proprio nessun senso: questo pensavo quattro ore fa mentre andavo a prenderlo a Fiumicino in macchina.
Avevo deciso che, in fin dei conti, di presentarmi all’imbarco in una forma non esattamente smagliante, non me ne fregava più di tanto. Ci conosciamo da dieci anni: abbiamo passato la fase in cui rivedersi significava innanzitutto misurarsi reciprocamente il pisello. In fondo, meglio credere che tutto quello che gli serviva stasera era semplicemente un posto per dormire prima di prendere l’intercity domani mattina.
In più, portavo nel cruscotto un regalino offerto dalla casa, viso che dopo due anni in Bolivia, conoscendo i miei polli, i suoi gusti in fatto di sostanze ricreative dovevano essersi affinati – come del resto si erano affinati i miei.
E quindi eccoci qui. Spalmati sul divano in fondo a questo salone che è diventato grande il doppio, e doppiamente risonante. Il sangue che risciacqua sonoramente tra orecchio e orecchio, e un bisogno fortissimo di fare qualcosa, qualsiasi cosa. Bisogno perfettamente pareggiato da quello altrettanto urgente di non fare un cazzo, assolutamente un cazzo, da adesso in poi per tutta la vita. Il naso è di gesso, la lingua pure, appetito annullato per sempre. Un familiare senso di grumoso e dolciastro in fondo ai seni nasali e dietro la gola che si richiama ogni volta che inghiotto. Avrei voglia di parlare (di cosa poi?) ma non m’azzardo ad aprire bocca perché se inizio è certo che non la smetto più e finisco esausto.
La verità è che vorremmo tutti e due andare a letto adesso, ma il regalino della casa rende la cosa assolutamente improponibile. Nella misura di un grammo e mezzo di regalino fatto fuori nel giro di due ore, si può calcolare che abbiamo davanti almeno tre ore di veglia nervosa, nervosissima, da riempire.
Il problema è con cosa.
Quello che ci dovevamo dire ce lo siamo già detti. Due ore sono bastate a scambiarci i trailer dei rispettivi ultimi due anni. La Bolivia, i culi imperiali delle boliviane, una casa con l’amaca in giardino, le facce degli indigeni come radici d’ulivo, le autostrade di bamba, fatte di scaglie giallognole scintillanti e purissime, l’odore materno di putrefazione dell’Amazzonia, l’esperimento di vivere senza il senso del luogo, il sentore di trappola che trovi già ad aspettarti ogni volta che arrivi in un posto, uguale in Bolivia com’era all’Arenella, come se ti seguisse dappertutto, e il conseguente bisogno di ripartire subito, prima possibile, per essere sempre da un’altra parte, due anni sembrano un cazzo e invece sono una vita, un’eternità. E, viceversa, da parte mia, i colloqui di lavoro, gli stage non pagati, i ritmi fordisti del lavoro televisivo, stare nel centro esatto dell’alienazione solo per dire di aver fatto la scelta più furba, ritrovarsi di colpo stipendiati, con una casa comprata dai genitori, una macchina, un abbonamento mensile alla metro, i buoni pasto nel portafoglio, una fidanzata giornalista, un amico regista, un amico sceneggiatore, un amico che è scappato in Giappone, dei libri pubblicati, marchette sui giornali, collaborazioni, contatti, fine settimana, carriera, contatti, know how maturato, le ferie, le pause pranzo, le mense aziendali, l’iphone per gestire i contatti, una recensione su Rolling Stone, le domeniche pomeriggio che arrivano come uno scalpello nel cervelletto, come un trapano, la depressione, due anni sembrano un cazzo e invece.
Insomma, in due ore ci siamo detti tutto.
Anche se, naturalmente non ce lo siamo detti così: ci siamo detti invece che la Bolivia è bellissima e che bisogna viaggiare. Che se non ci siamo presi l’aids stavolta, siamo tranquilli per tutta la vita (risate). Che la televisione è un serbatoio d’intelligenza, bisogna solo scavare un po’. E che essere pagati per scrivere è una ficata, una soddisfazione impagabile eccetera.
Ci siamo detti, in sostanza, che tutti e due abbiamo avuto quello che volevamo: il che tra parentesi è vero. Come due rette parallele siamo andati avanti ognuno verso i propri obiettivi, a chilometri di distanza. Quello che è restato degli anni ottanta siamo noi, e francamente poteva andare peggio.
Naturalmente Stefano non mi ha chiesto com’è che mi sono lasciato con la mia fidanzata se stava andando tutto così bene; né ha voluto indagare sul mio colorito, sulla panzella che s’indovina anche sotto la camicia Volcom da fighetto, sulle occhiaie, sulle mani che tremavano rendendo imprecise le raglie – su tutto quel complesso di cose insomma che in questi due anni ha trasformato il mio corpo in una costellazione di sintomi. E io da parte mia ho glissato sui motivi del suo ritorno in Italia per un mese – che con tutta probabilità diventeranno tre mesi – e la sua decisione di non tornare in Bolivia (c’è una scuola elementare da mettere in piedi urgentemente in una landa sperduta dell’Eritrea).
Non ci siamo chiesti queste cose non perchè non ci interessassero o perché non sentissimo tutti e due puzza di bruciato. La sentiamo benissimo la puzza, visto che nonostante tutto siamo rimasti gli stessi identici di dieci anni fa. Diciamo – ma questa è solo una mia idea – che c’è stato un piccolo, reciproco patto di non belligeranza. Gli ho fatto vedere i miei libri e i giornali con il mio nome sopra, lui mi ha fatto vedere il suo tatuaggio dell’America latina sulla schiena e la foto di una negra bella come un’aurora boreale che tiene nel portafoglio. Certe volte, tra persone felici, è meglio così.
E’ l’una e mezza e siamo sveglissimi. Ora che ci siamo detti tutto, da qualche minuto la stanza ha cominciato a comprimersi.
– Pè.
– Stefano.
– Senti una cosa.
– Dimmi.
– Ma qua in zona puttane ce ne sono?
– Be’. C’è la Colombo. Perché?
– Niente, così.
– Veramente sono più trans che puttane. Però qualche puttanone c’è.
– Ah, pure i trans.
– Non pensarci nemmeno.
– Chi ha detto niente. Era giusto per sapere.
– Sì, come no. Giusto per sapere.
– Senti, piuttosto. Ma Andrea?
– Andrea che?
– Che ne so. Come sta? Vi siete visti? Che combina?
– Prendo le chiavi.
– Come stai a soldi?
– Facciamo bancomat.
– Via.
– Via.
QUESTO RACCONTO FA PARTE DEL VOLUME MISCELLANEO “NAPOLI PER LE STRADE” CURATO DA MASSIMILIANO PALMESE PER LE EDIZIONI AZIMUT. Gli autori inclusi sono:
Alessio Arena, Luigi Romolo Carrino, Stella Cervasio, Fabrizio Coscia, Carla D’Alessio, Maurizio de Giovanni, Luca De Pasquale, Peppe Fiore, Francesco Forlani, Antonio Iorio, Simone Laudiero, Marilena Lucente, Giusi Marchetta, Marco Marsullo, Paolo Mastroianni, Rossella Milone, Davide Morganti, Marco Palasciano, Massimiliano Palmese, Angelo Petrella, Massimiliano Virgilio.
La friggitoria di Piazzetta Fuga, u’aneme d’o criatorie!
(dal film “Così parlò Bellavista”, un po’ rimaneggiato)
Che noia, mamma mia. Ma come si fa a essere così giovanilistici?
Un bel racconto. Bravo Peppe Fiore!
quann’ero surdato ‘e leva,
juorno doppo juorno, me
sentevo e dumannà:
Ma tu, sei
di quella città?
Rispunnevo sempe Si.
Non sembra che vieni da
quella città, dicevano.
Io tenevo sempe la capa aizata.
Papà mio, ca nun aggio cunusciute,
quanno muretto, nun lassaie neanche
‘na lira a mamma…e…’e quattuordece
figli: ‘na mappata ‘e ggente puzzata
‘e famme, ma comme chi sa qualu
tesoro, rimanette a dicere:
Cammenate cu ‘a capa aizata,
specie si nun ve site magnate
neanche ‘e coppole ‘e cazze.
Redite! Facite ll’uocchie doce.
Ma azzannatele ncanne ‘e cane
e squartatele senza pietà: ‘a
famme è ‘na necessita e,
pecchesto, l’avessemo fa
Santa, comme ‘a maronna
nera.
‘Ntanto,
rispondevo ancora
Si.
Io, secondo me,
ero ‘nu poco…scemo ncapa.
Scusate,
uno ca nun ha cunusciuto
‘o pate; ‘nu pate, secondo me,
pur’isso tutto scemo, ca se fa
fottere d’a morte e lascia riebbete,
famme e disperazione comme ‘e ‘na
squadra ‘e pallone senza nu
centrocampo e neanche nu juoco
e cu nu purtiere miezzo cecato…
io, comme si niente fosse, cu ‘a
ggente ca arrubbava pe’ sotto
e pe’ ncoppo, continuavo
a dicere: Si!, comme
nu mongoloide, n’handicappato.
Anche quando non parlavo,
rispondeva il sangue.
(ma ‘o sango è mongoloide;
è handicappato)
E, il sangue, in gola,
bruciava, comme sfaccimmo
bruciava.
Nelle vene. Negli occhi.
Diont’o suonno e dinto
‘e viscere ‘o sango
bruciava.
Il sangue mi sbatteva nelle
tempie. I morti, da quand’ero
venuto al mondo, urlavano.
E i vivi, invece, a chiedermi
se rubavo.
Dissi che ero di quella città,
ma che non rubavo e che
anche sotto tortura, avrei
detto Si.
La mia vita era un si
lei e alla poesie, eppure sapevo
che entrambe sono due puttane.
I morti,
quelli del vicolo, del quartiere,
piangevano come bambini.
Versavano lacrime calde
proveniente dalle sorgenti
del corpo. Ne bevvi, ma
me giraie ‘a capa e me
addurmette forse pe’ cient’anne
ncapa a n’ora ‘e suonno.
Stavo pigliato di collera
per loro: i morti.
Maronna comme chiagnevano.
E gghià, fernitelo,
le dicevo chiagnenno pur’i’;
ma loro vulevo essere
cunsulate; allora io, cu na
santa pacienza ll’accarezzave
e le rattavo ‘e capuzzelle,
e lloro, cu tutte ‘e vocche
sfunnate, s’appaciavano.
Con i morti stavo bene, ma
sapevo di essere vivo. I vivi,
giovani, erano morti di parole
e termini e frasi e pensieri
puzzavano di marcio, cchiù dei
sciori ammuntunate dinto a
munnezza.
I morti che conoscevo,
pure chille cchiù fetiente
‘e mmerda,
non imbrogliavano.
Sapevano ca l’avesse accise
di carocchie. E ppò, i morti
non si appiccicavano cchiù
pecchè era proprrietà privata:
quanno muore,
nun ttiene niente,
neanche ‘o cazzo ca he cacato.
I vivi fanno i furbi: si penzano furbi
e intelligenti e te lo voglionmo mettere
a pitoffio. Ma lo facevano
con verità morte già in partenza.
Ero preoccupato che non rubassi.
Ero di quella città e non rubavo:
la questione era seria: piansi.
Piansi perchè ero ‘nu strunzo.
Ma comme, songo ‘e ccà e nun
arrobbò? O’ pataterno m’addà
fa venì ‘na freva malegna.
ma allora si fino a mmò,
nun m’aggio arrubbato maie
niente e vivo ccà, significa ca
si nun arrobbo nun songo ‘e
sta città ca io difendo comme
Sancho Panza difende
don Chisciotte…
ero lo scuorno del quartiere,
del centro antico e dell’intera
città: la “mia” città, anche senza
avere nessuna casa di proprietà.
pecchè,
aggio sempe penzato,
nzieme a tutti chilli Si,
ca io aggio sempe
vulute bbene
‘a città mia,
pe’ cchesto,
essa,
è…’a mia,
è…’a nosta…
cammina a papà
tuio,
cammina,
sempe sempe,
cu ‘a capa aizata;
e, nun dicere maie:
Me puzzo ‘e famme.
e si nun c’a faie,
nun ‘o dicere,
ma,
a famme.
falla scuppià,
mentre cantammo.
Cammina ncopp’a ll’onna
d’o mare,
cammina cu ‘a capa aizata.
Transit Scarpantibus
Bello, notevole.
Un piacere ed un’emozione nel leggere Peppe Fiore che non conoscevo. Ha subito rievocato in me i ricordi della mia terra natale, Napoli.Un qualcosa effimero quella terra, quella collina e la sua gente, orgogliosa e tanto generosa di animo e bonta’. Conservo come gioielli alcune poesie che scrisse mio padre su la Napoli che malgrado lui non era li’ nato ma l’amava dal profondo del suo cuore. Mi inoltrero’ a conoscere il manifestp di questa publicazione. Grazie e buon lavoro.
Nancy
L’unica frase che mi è piaciuta, perché è l’unica frase che narra, è la seguente: “abbiamo minacciato di andarcene di casa. Siamo rimasti.” Con tutta l’elasticità che una forma come il racconto richiede a un lettore e a un critico, mi domando dove sia, qua, il racconto. A me pare un diario, che può interessare giusto l’autore e qualche suo amico. Il problema che mi pongo allora è il seguente: si può “approfittare” della forma narrativa ad libitum? C’è una linea di demarcazione fra le rimembranze dell’adolescenza e una narrazione (che per me resta un atto creativo, un incremento di vita, un ampliamento della coscienza e dell’immaginazione, un gesto d’insurrezione nei confronti della realtà e del tempo, e non una riproduzione pedissequa dei medesimi) sull’adolescenza? L’adolescenza è argomento insidioso, che va maneggiato con cura, per evitare il rischio di scivolare nello scontato. Un esempio riuscito di trattazione dell’adolescenza è TONIO KROGER. Un altro è LA RECHERCE. Un altro AGOSTINO. Un altro L’ISOLA DI ARTURO. Un altro INFINITE JEST. Un altro CAVALLI SELVAGGI. Un altro IL CIELO E’ DEI VIOLENTI. Un altro DAVID COPPERFIELD. Un altro IL CORPO. Eccetera eccetera. Il modo sbagliato per narrare dell’adolescenza è descriverla, a meno che non si sappia trarre dal particolare l’universale. Tutti abbiamo vissuto molte delle cose che l’autore descrive, anche se non siamo di Napoli. E probabilmente nell’intera classe dell’autore, nell’intero liceo dell’autore, nessuno sarebbe in grado di DESCRIVERE così bene quegli anni passati assieme. Ma DESCRIVERE non è SCRIVERE; occorre un distanziamento per immergersi più in profondità in un argomento; e ogni argomento, sia pure una canna o una storiella o un ricordo, in letteratura è serissimo, ed esige il massimo dell’impegno estetico. Il quale impegno estetico esige a propria volta la fatica dell’elaborazione, del fraintendimento creativo che permetta al narrato di inventare un mondo nel quale tutti possiamo entrare meravigliati (Tolstoj, tanto per dirne uno, parla di cose semplicissime come se fosse il primo uomo sulla terra a vederle, e si finisce per vederle con occhio nuovo e sorpreso assieme a lui). Si può parlare dell’adolescenza ambientandola su un’isola o in uno stabilimento balneare o in un’accademia di tennis o nelle lande del Texas o nella nebbia del ricordo intermittente o nello sbocciare d’una vocazione o nel rammentare vicende orribili; si può farlo in infiniti modi; e questa possibilità infinita boccia, secondo me, l’accontetarsi di ritrarla tale e quale a come è stata. Insisto su questo punto perchè ho l’impressione che oggi vada perso il concetto d’invenzione, che si viva un’afasia creativa preoccupante in ogni campo, non solo letterario, che non si osi. “Sarebbe stata una brava donna, se le avessero sparato ogni cinque minuti” fa dire Flannery O’Connor a un bandito che ha appena ucciso a revolverate una vecchia, al termine del meraviglioso e insensato UN BRAV’UOMO E’ DIFFICILE DA TROVARE. E’ questo slancio “impossibile” ma “credibile” al medesimo tempo che vado cercando quando leggo una storia che non è cronaca, una storia che nessuno avrebbe potuto scrivere se non l’avesse scritta l’autore che l’ha scritta.
Quale’ il nocciolo dell’intento di questa fioritura di parole? Va forse questo autore in cerca di un promettente scrittore da uguagliare un Italo Calvino? Io suppongo che coloro che si donano a scrivere qualcosa in questa pubblicazione non sono tutti dotati di qualita’ letterarie. leggiamo gli scritti senza pretese letterarie ma considerando che gli autori variano di stabilita’ intellettuale e di emozioni. Non vedo cosa abbi contribuito quest’ultimo autore al di fuori di pavoneggiarsi con tante parole, che per me infuse di aria.
Bello.
Per me Napoli è quasi niente.
cafone!!!
Le cose che dice Diamante non sono “infuse di aria” ma sollevano una quesione serissima. Peppe Fiorie non se ne adonti , ne faccia tesoro e continui a scrivere come gli suggeisce l’ispirazione…ma ne faccia umilmente tesoro, affronti un po’ di “narratologia” con tutto quanto ne consegue. Ciò detto, complimenti comunque per la ricerca del ritmo (che c’è e si sente), ma non basta, chi ha parlato di “giovanilismo” ( e credo intendesse un filone lettarario un po’ trito) ha toccato un problema vero del testo presentato. Quanto a Bigna Mino…mah!
Ambiguita’ e pomposita’ e’ un’altra questione seria! Gli viene suggerito di continuare a “scrivere come gli suggerisce l’ispirazione” e, con lo stesso fiato dice che manca la narrazione e di affrontarla. Se si vuole esercitare l’arte da Critico a mia saputa questo non mi sembra il salotto adatto, su questo filo, e datosi che sono appena ore dalla mia scoperta di Nazione Indiana, saro’ molto grata se qualcuno, qualificato, mi dica quali sono i precetti e l’ambizione dei fondatori.
è un buon racconto, a parte un eccessivo dilungarsi qua e là che non sempre giova. Mi sono riconosciuto, però, in alcune scene (essendo nato a giugliano a pochi chilometri) , ho rivisto alcuni amici, riconosciuto alcune scelte, pur essendo nato dieci anni prima.
Grazie
ps: per me napoli è quasi tutto
Peppe Fiore descrive? A me sembra invece che racconti, narri, scriva. Tanto di cappello, una bella storia, ben scritta, nonostante, come abbia già detto qualcuno, a volte l’autore si dilunga un po’, cosa che per altro avviene anche ne “La futura classe dirigente”. Si tratta di piccole imperfezioni che ben presto il giovane napoletano migliorerà, ne sono certo. Il talento di questo ragazzo è indubbio. Considerato che Peppe Fiore non ha nemmeno 30 anni, credo che bisogna incoraggiare, piuttosto che sparare addosso ad una delle più promettenti penne del panorama letterario nazionale.
Ringrazio tutti gli indiani per i commenti e le critiche, che quando vengono motivate sono sempre ben accette. Assolutamente d’accordo con Diamante quando dice che anche le cose piccole, quando si scrive,richiedono un gesto di responsabilità. Usare l’autobiografia come cassetta degli attrezzi (non come oggetto…) è faticoso, è doloroso e non sempre riesce in pieno (non sempre cioè si riesce a uscire da quel sapore di “diario”, anche quando nei fatti si tratta di un diario di cose mai accadute). Fortunatamente, nell’antologia Palmese ha inserito vari racconti molto più belli (e più corti) di questo….
a me Peppe Fiore piace
effeffe
In attesa di leggere ancora tutto che Peppe Fiore scrivera’. Lo vedo tanto promettente l’abilita’ di mantenere l’attenzione del lettore, il talento di descrivere situazioni, la capacita’ di svegliare emozioni. Che e’ napoletano e’un’altra possessione da aggiungere nel suo dossier.
YES YOU CAN PEPE and YOU WILL!
Buon sangue non mente.
Scusate se sono parziale ma la verita’ non si puo’ negare.
P.S.
Gianluca,
ho criticato motivando, secondo il mio (fallace) gusto, e non sparato addosso; l’autore stesso, molto civilmente, ne ha preso atto. Se talvolta mi faccio trascinare dall’impeto, è perchè amo la letteratura; non nutro astio verso nessuno (come su NI alcuni hanno talvolta insinuato, nel momento in cui ho attaccato scrittori affermati); figuriamoci nei confronti d’un ragazzo che, come il sottoscritto, ha tantissimo tempo (a Dio piacendo) per migliorare nell’arte più difficile, nell’arte che più tempo richiede: quella del raccontare.
gentile Diamante, mi consenta: se lei, come ripete ad ogni commento sospinto, ha da imparare e “tantissimo tempo per migliorare”, può spiegare su quale base, poi, critica gli altri e “attacca” (che duro che è lei, o gentile!) “scrittori affermati”?
ma lo sa, gentile giovine, che appena appena mette il nasini (*) fuori dal nick la faranno a pezzettini? o forse no: immagino che lei stia scrivendo un capolavoro, vero?
p.s.
(*) me lo passi, gentile Diamante, è per la rima con “pezzettini”
sìi, mi raccomando, e buono
Non capisco le polemiche in merito alle critiche che alcuni lettori hanno mosso al testo.
Mi spiego. Se la critica è costruttiva (mi è parso che quella di Diamante avesse l’intento di esserlo…), non è astiosa bensì rispettosa, e tende ad esprimere un punto di vista (perchè, mi pare, siamo qui a fare questo…)trovo che sia oltremodo corretta e pure gradita. Altrimenti i blog non avrebbero alcun senso, e i blogger sarebbero una banda di imbecilli melensi solo pronti a tessere elogi e commenti mielosi, con l’intento di non ferire l’orgoglio del lettore di turno.
Detto questo. Io adoro le autobiografie. In questo caso ho adorato Peppe Fiore. Questo brano mi è piaciuto, “è scivolato via veloce” – nonostante le critiche in merito all’eccessiva lunghezza di alcune parti – forse per la ricercatezza dei vocaboli, per la rapidità del ritmo, per la patina malinconica che imbratta sapientemente le parole, per la mancanza quasi totale di punteggiatura di alcuni periodi “descrittivi” (ma per me erano “scritti”, raccontati…), dove la lettura quasi toglie il fiato e corri esasperato ma eccitato alla ricerca del punto, che chiude, finisce, conclude.
L’atteggiamento cervellotico, ansiogeno e problematico dell’autore, mi è, sotto certi aspetti, particolarmente vicino: non vedo una “descrizione”, che io associo quasi sempre ad una fredda analisi oggettiva di fatti, sequenze grigiastre di eventi inodori e insapori. Vedo uno “scritto autobiografico”, raccontato, mi pare, in modo sofferto, sanguigno e ardente, e proprio perchè così sentitamente vissuto, carico di materia, densa e colorata.
Bravo.
ops….”l’orgoglio dello scrittore di turno”
Scrivo da una connessione volante. Non ho ancora letto il racconto, ma appena torno a Milano me lo sbafo: Peppe e’ bravo assaissimo.
(ciao Peppiniello: Machine, machine, machine!)
Biondillo, my love!!! da quando non ho più un tavolo d’antiquariato di 8 metri da dividere con te, i miei pasti non sono una tristezza assoluta…
la capa mia sotto ai piedi vostri.
(laddove “vostri” sottintende anche i piedi di Forlani, il cui racconto che avevo letto su carta e vedo fresco postato è veramente bello)
pieds noirs alla Camus (di Quarto Oggiaro evidemment)
effeffe
@orfeo
Cosa vuoi che me ne freghi se te o qualcun altro mi fa a pezzettini? Fallo pure, se ne avrai modo, e se in coscienza lo riterrai opportuno. Il nasino (chiedo venia: il nasini) fuori dal nick l’ho messo da un pezzo: non esiste solo NI.
Riguardo alle critiche, mi ricordi altri che qui su NI pretendono non si possa criticare se non si è vinto almeno un Pulitzer. E se preciso che anch’io ho da migliorare, non faccio altro che enunciare un principio universalmente valido. Quando ho detto d’aver criticato su NI scrittori affermati, mi riferivo per esempio a Saviano (ragion per cui sono stato lapidato e insultato in ogni modo possibile), Scurati o Siti: che male c’è?
Un’altra cosa: hai un maniera di commentare e scrivere untuosa e appicicaticcia, che mi ricorda da vicino Uriah Heep (uno dei personaggi che ho amato di più, a tal punto mi disgustava); mi dai l’idea, insomma, d’uno di quei tipi con le mani perennemente sudate, anche d’inverno. Però con le rime sei davvero bravo.
@nancy falco
In omaggio a San Vincenzo Ferreri “pomposità” me lo tengo, se è il prezzo da pagare alle “ambiguità” del mezzo elettronico, che inducono spesso al fraintendimento, perchè non possono “trasmettere” la parte più importante della comunicazione, cioè la carne e il sangue, i gesti e i modi del “parlante” ( e non dello scrivente). Ma “ambiguità” e “critico” (come professione) no, li respingo al mittente. Si può esprimere una opinione sincera senza che questo assuma il “tono” dell’insulto agli occhi dei “laudatores” acritici, che fanno più male che bene all’autore?.
Cara Nancy, non confonda “narrazione” con “narratologia”. Le risparmio l’illustrazione della differenza, rischierei di essere tacciato per “pomposo”. Del testo di Peppe Fiore ho apprezzato tantissimo il senso del ritmo, direi anche certa musicalità, ma ho avuto l’impressione che c’è un’eccessivo sbilanciamento sull’ io narrante, che deborda troppo.. io avrei “rappresentato” di più le situazioni “lasciato parlare” di più i personaggi, li avrei fatti crescere sulla pagina da soli… più che lasciare all’io narrante quasi tutte le funzioni narratologiche (descrizione, narrazione, funzione di regia eccetera eccetera). Sa di “narcisismo” letterario, che stona un po’ all’orecchio di chi legge .Mi rendo conto che i brevissimi dialoghi quasi afasici servono a sottolineare e a dare più forza al “flusso di coscienza” dell’io narrante-rievocatore…al senso di paralisi e claustrofobia, tuttavia qualcosa non ha funzionato (alla mia sensibilità, si capisce ed è cosa personalissima)… ma c’è troppo déjà …lu….poche novità…narratologiche e troppo cose (“politicamente” ) significative che rimagono fuori. Questo non vuol dire “diminuire” o schernire il lavoro di Peppe Fiore, tuttaltro. Vuo dire rendergli omaggio, perchè l’ho letto con attenzione, interesse e ho esercitato il diritto di lettore alla schiettezza. Che se ne fa un autore di “laudes” zuccherose ( e (talvolta) interessate? Ma questo Peppe Fiopre lo sa e lo ha detto.
Senza rancore.
In onda successiva a Gianni e a Salvatore,
Per me Napoli è quasi tutto,
come sole interiore,
batticuore,
ritmo d’infanzia,
gli scrittori di Napoli
hanno la lingua poetica
e sacra della vita,
in questa lingua brulicano
altre lingue …
la strizzata autobiografica è diaristica, forse anche volutamente, ma lo stile è pienamente apprezzabile, e se la narrazione sbilancia l’aneddoto tout court con gadget morale annesso, a favore dei sogni dell’adolescenza che disgregandosi si immillano nel pulviscolo maturo amaro dei ricordi condivisi assieme ai vizi è bello comunque no? ma la felicità che cacchio centra? tra una pippata, una chiacchierata e na troia, io sta parola ce la vedo come la cacca d’uccello sulla camicia.
epicureo che non sei altro!
comunque bravo.
@ salvatore: ben vengano le critiche quando sono circostanziate e pertinenti come le tue (soprattutto quando dici che i personaggi dovrebbero essere raccontati e non “fatti parlare”). però, onestà per onestà, le laudes zuccherose mica mi fanno schifo :)
@ metello: grazie! e soprattutto grazie per il verbo immillare, non lo conoscevo. bellissimo.
@ salvatore: ben vengano le critiche quando sono circostanziate e pertinenti come le tue (soprattutto quando dici che i personaggi dovrebbero essere raccontati e non “fatti parlare”). però, onestà per onestà, le laudes zuccherose mica mi fanno schifo :)
@ mtello: grazie! e soprattutto grazie per il verbo immillare, non lo conoscevo. bellissimo.
anche io ho letto con attenzione peppe fiore, a tratti trascinanate e a volte “avvincente”, spesso prevedibile perchè sembrava veder fotografati attimi di vita vissuta da un occhio che non spostava di un millimitro il punto di vista dal conosciuto.
sarà per questo che ho letto con più interesse diamante che chiede uno scarto laterale, un’impennata, un’urgenza?
be’, che dire?
Peppe a quante antologie sei arrivato? :D
io credo chi vuole capire come e cosa scrive Peppe Fiore deve leggere Cagnanza e La futura ecc.. poi ne riparliamo.
l’ho letto quasi tutto, questo racconto, e non rende onore al nostro.
immagino lo schermo bianco e Word aperto, e il pensiero, fisso: ‘n’altro racconto, per ‘n’altra antologia… sempre sì, dico, mannaggia!
‘nu vaso, Peppe.
e.
e…
non si tratta di un’antologia.
dommage
effeffe
si si metello, e pensa che mi han chiamato così non per il romanzo di Pratolini, ma per lo sceneggiato televisivo che la rai trasmetteva nel
’70-’71 (che tempi!). beh, prego. mi verrebbe quasi da dire che il tuo brano potrebbe aspirare al titolo di gherminella letteraria (un pò alla manganelli per intenderci), ma forse, trattandosi di ricordi e sogni adolescenziali, il termine non calza. calzerebbe forse più al romanzo sulla fcdi, li davvero ci sei andato vicino. mi piace come scrivi, anche se non mi piace tutto quello che scrivi (lo dico per onestà e simpatia).
potresti dire al tuo detrattore (quello prezioso) che per indicarti la via dello scrivere un racconto ha citato solo romanzi di formazione (chi ha mai sentito parlare di racconti di formazione? e soprattuto in tedesco come si tradurrebbe?)? tra l’altro, tralasciandone i due che portano l’adolescenza alla più alta universalità microcosmica, il catcher in the ray e il portrait di j.j.
ciao da brescia.
@metello
Hai frainteso. Ho fornito esempi in cui un tema (in tal caso l’adolescenza) è trattato, anche approfonditamente, ma “di traverso”, in modo creativo e non passivo. Ho anche citato un esempio – a mio avviso sommo – di scrittrice di racconti, ovvero Flannery O’Connor. Ciò che soprattutto mi piace della O’Connor è che non ricorre ad alcun artificio, ad alcuna sovrastruttura, pur essendo provocatoria e tendenziosa: lei narra e basta. Magnificamente narra (com’è ovvio e giusto rifacendosi al proprio serbatoio emotivo, culturale, paesaggistico ecc.). E a me pare che oggi la magia del narrare venga in qualche modo meno, che la cronaca o il diario stiano soffocando questa preziosa, indispensabile, magia. Indispensabile alla sopravvivenza, se non ci siamo intesi. Perchè è narrando che l’uomo salva la pelle e l’equilibrio mentale, e conserva la speranza. Un uomo che non narra non inventa, e appassisce, si putrefà. Un uomo che narra crede e va avanti.
ps: certo, come tu dici, anche Joyce e Salinger, ma pure Musil e Conrad e infiniti altri. Il problema non è l’esempio, ma il concetto.
@e.
il solito nichilista… Il racconto è stato scritto con l’impegno e la solerzia che il sottoscritto mette sempre in tutto ciò che fa!!! (meno male che non ho la wecam accesa quando scrivo ste fregnacce…). Boiate a parte, “Napoli per le strade” mi è sembrato da subito un progetto bello, sennó non lo facevo (come non ho fatto varie altre cose…) ci vediamo a firenze per la resa dei conti
@ mtello/metello
In realtà la parte centrale è un b-side del romanzo… Capisco che questo pezzo non ti convinca in pieno: rileggendolo avrei rifatto tutti i dialoghi e tolto vari paragrafi che dicono la stessa cosa con parole diverse. In realtà, ora che ci penso, per certi versi contiene in nuce gli stessi difetti del romanzo (personaggi “dichiarati” e non raccontati, una certa tendenza al piagnisteo, una certa gratuitá della “bella frase” del “bell’aggettivo” ecc). Di questo racconto mi pare che funzioni l’incipit soprattutto. Vabbè. “Grazie per l’attenzione” e saluti dall’intercity RM-TO (altezza civitavecchia)
il concetto è chiaro, e se si butta un occhio al panorama editoriale, forse hai ragione, ma a quanto sembra, questa è la nuova via del mercato editoriale (monotona quanto vuoi, ma la letteratura è l’arte umana per eccellenza, e l’uomo moderno è sempre più povero di spirito). in fondo, a parte il noir, nessun genere letterario è più in cerca dell’innovazione narrativa, poi ci sono gli ibridi alla idp di genna, belli e inquietanti, ma storie che abbiano in se qualcosa di nuovo, di magico hai ragione, non ce ne sono, o meglio i pochi rimasti sono editi da piccole case editrici, vedi madsen alla minimum fax, vedi un colosso letterario come l’end’s of the word news di burgess alla fanucci, ci sono tanti di quei libri che secondo me hanno tanto da dare al lettore in termini emotivi, ma le grandi case preferiscono lo stile cronastico diaristico propagandato abilmente da un certo gruppo letterario.
comunque il tono diaristico usato da fiore nel racconto, che si alterna alla parlata stretta e realista dell’incontro tra amici, non è male, davvero, anche perché lo stile è comunque abbastanza ricco, e se contrasti e perdite e aspirazioni non sono disegnati classicamente ma diagrammati schematicamente è comunque un buon tentativo di togliersi da strade troppo battute, anche perché come vuoi tornare a narrare, come gautier? meno cronaca e meno diario certo, ma anche meno intrusioni dell’autore e meno descrizioni, lasciare spazio al parlato dei protagonisti e infilarci li idee e descrizioni.
questa è la mia opinione.
ciao.
@effeffe
[ciao!]
Fra’: non è un’antologia?
qui su dice: “VOLUME MISCELLANEO”.
comunque: volevo “sfottere” un po’ Peppe, il volume di Azimut sarà sicuramente un bel libro – non lo metto in dubbio.
e volevo dire che – letto il racconto di Peppe e qualche commento – esiste un peppefiore (a mio avviso) migliore di questo qui. e che basarsi solo su questo racconto è limitante.
@Peppe
sì, ci vediamo a Ultra. io però credo di esserci solo il venerdì e il sabato. devo controllare sul programma quando ci sei tu.
… pronto alla resa dei conti [eheheh] – che immagino sia una sfilza di birre offerte da te.
‘n’altro vas’,
e.
Buona rimpatriata! Nell’antologia si sceglie fior da fiore e si pubblicano anche singole pagine (brani) di opere già pubblicate. Per questo ho definito “volume miscellaneo” questo ottimo libro curato da Palmese, costituito da racconti composti on the purpose. Ulteriore punto di merito: tutti i proventi delle vendite saranno devoluti in beneficenza. Infine, in un primo momento avevo scelto come racconto da pubblicare su NI quello dello stesso Palmese, che poi mi ha chiesto di dare spazio a un altro autore. Allora ho puntato sul bravissimo Peppe Fiore, del quale avevo appena letto anche il racconto proposto a Accattone per la serata autunnale di racconti romani.
Non ho ancora letto il racconto in questione, ma Peppe Fiore è un grande.
Ci sono racconti nel suo “Cagnanza e padronanza” che sono fra le più belle pagine scritte da un italiano negli ultimi tempi (e il romanzo “La futura classe dirigente” non è da meno).
Racconti come “L’ultimo purè” o “Deserto rosso è una merda” (mi si stringe il cuore ogni volta che lo scrivo, dato che adoro Antonioni) sono delle autentiche perle.
A mio giudizio è uno dei talenti più cristallini che abbiamo in Italia.
Peppe Fiore è da preservare.
Scrive Rizza, riferendosi a Fiore: “Ci sono racconti nel suo “Cagnanza e padronanza” che sono fra le più belle pagine scritte da un italiano negli ultimi tempi”. Ora, prescindendo da Fiore (ma non da Rizzo), credo che il problema in Italia oggi sia proprio questo: un’allegra, nebbiosa, indeterminata possibilità di dire qualsiasi cosa di chiunque, nell’indistinto paesaggio d’una cultura che non esiste più materialmente, parcellizzata, ritagliata, urlata o bisbigliata nelle centinaia di luoghi più o meno virtuali che non richiedono – né permettono – una verificabilità concreta di quel che si sostiene.
Bello, sembra proprio la vita vera.