Miraggi (ovvero, contrappunti ironici) di Sicilia

foto Totò Bongiorno
foto Totò Bongiorno

Carlo Levi: «L’uomo è uno e libero solo se non respinge da sé una parte di sé» (aprile 1960, «Convegno sulle condizioni di vita e di salute in zone arretrate delle Sicilia occidentale», organizzato da Danilo Dolci)

di Evelina Santangelo

«Gli alberi! ci sono gli alberi!». È questo il grido che si leva dalla prima carrozza quando, nel Gattopardo, il Principe di Salina con la famiglia sta per entrare nelle terre del suo feudo di Donnafugata. Un entusiasmo spropositato… Quegli «alberi» erano soltanto tre, «i più sbilenchi figli di Madre Natura» dirà subito dopo Tomasi di Lampedusa, tre creature stralunate che «si sbracciavano» in un paesaggio di «colline avvampanti di giallo sotto il sole», il paesaggio estivo di un paese che nella realtà si chiama Palma di Montechiaro, un pezzo di provincia agrigentina che per molti oggi è un miraggio appunto, «la terra! la terra!» cui approdare su barconi di fortuna salpati dalle coste nordafricane inseguendo un qualche sogno o fuggendo via da un qualche incubo. E «la terra!» verso cui annaspano centinaia di uomini donne bambini quando, come spesso accade, si ritrovano in balia delle onde, della salsedine e del sole, è proprio quella «terra arsa che alla fine di agosto aspetta invano la pioggia» di cui racconta Lampedusa, una terra che d’inverno, quando i più impavidi, o forse i più disperati, affrontano il mare grosso, ammanta colline e dirupi di un verde talmente fitto e selvaggio da ricordare l’Irlanda o certe scogliere a picco sul mare della Bretagna, con tanto di castello e torre d’avvistamento.

Vorrei cominciare da qui, da questa insospettabile mutazione del paesaggio nel naturale ciclo delle stagioni, per raccontarvi questo pezzo di Sicilia remota, eppure al centro di molte contraddizioni del nostro tempo. Un crocevia di uomini, eventi, contesti (naturali e innaturali) in cui ciò che dovrebbe collidere e deflagrare, o comunque negarsi a vicenda, finisce invece per assestarsi in un equilibrio impensabile. E questo perché molte cose, qui, convivono con il loro contrario in solidale antitesi.

Così dunque, mentre tu – viaggiatore capitato lì per caso o clandestino approdato lì non meno per caso – ti guardi intorno con la sensazione di aver scoperto un qualche angolo di Nuovo Mondo (costoni rocciosi selvaggi bianchi a picco su unghie di spiaggia, dorsi di colline gialle o verdi o calve, dove il terreno argilloso si spacca in fessure lunghe e profonde), poco più insù o più in là ti aspetta un paesaggio diverso, più nuovo, anzi moderno.

Modernità di serre sconfinate che dilagano nella campagna come un mare finto, luccicante, ed evocano, o dovrebbero evocare, un’economia fatta di produzioni intensive, di export, affrancamento dal lavoro ingrato di una terra troppo avara e asciutta. Modernità in cui, quasi in un’assurda nostalgia del passato, certe sere d’estate vedi levarsi di tanto in tanto fumi neri, pestiferi, in cui sembra rivivere l’antica usanza di bruciare le stoppie nei campi di grano. Solo che qua, in questa campagna post-agricola, contro ogni ordinanza del sindaco, ogni buon senso, a bruciare non sono le stoppie o la sterpaglia, ma cumuli di plastica: serre dismesse.

Più in là, invece, lungo la costa abitata… modernità di case… palazzine da suburbio, affiancate le une alle altre… modernità di persiane, avvolgibili, portoncini di anodizzato o finto-legno per far fronte compatto contro la salsedine, la spiaggia e il mare, che – oltre lo stradone, oltre i locali notturni febbricitanti di luci, oltre le giostre, oltre i cumuli bruni di alghe – affiora abusivo per poi allungarsi clandestinamente verso l’orizzonte. Sì, perché in questo stradone di lungomare punteggiato di locali stagionali prefabbricati, in questa marina suburbana che d’inverno langue in una squallida solitudine, l’unico abusivo nel paesaggio abusato è proprio il mare.

E tu allora, viaggiatore capitato lì per caso, devi fare qualche passo indietro e guardarlo a distanza, quel mare, per vederlo di nuovo, oltre i frangiflutti, incombere sulla costa come una vertigine azzurra, magnifica, proiettata verso una qualche lontananza.

La lontananza da cui, se si ha un po’ di fortuna (o non troppa sciagura) si arriva clandestini, di notte o alle prime ore dell’alba, fino ad aggrapparsi alla costa e slanciarsi in una corsa concitata, lasciandosi alle spalle un mare pesante e infinito (per chi lo affronta così) e… sulla spiaggia, cumuli informi di abiti zuppi d’acqua, scarpe, sacchetti di plastica… miriadi di sacchetti e bottiglie di plastica disseminati lungo una via di fuga che tra gli sterpi s’inerpica verso le campagne e le serre, mentre il barcone è ormai dileguato lontano o langue a pezzi nell’acqua bassa tra gli scogli: un grosso pesce arenatosi su una spiaggia troppo piccola. Una piccola spiaggia che veglia sugli annegati (decine di annegati ogni anno tra i clandestini che arrivano in Sicilia per mare, decine di lapidi al profugo ignoto in un angolo del cimitero, testimonianza di un culto dei morti incondizionato), dà un attimo di ristoro a quanti saranno rimpatriati, sospinge quelli che hanno un po’ più di fortuna o un po’ meno sventura verso l’unica immediata via di fuga: «le serre! le serre!»

Così tu, viaggiatore capitato lì per caso, ti immagineresti di vederne in quantità, di stranieri, in questo pezzo di provincia. E invece ne vedi pochi, meno che altrove, come se, una volta arrivati dove agognavano arrivare (sapendo poco e fantasticando molto), si perdessero del tutto in quella geometria plastificata di tunnel che scandisce il paesaggio in poligoni regolari ma non sembra mantenere le promesse, se, come accade, insieme a chi arriva clandestino dal mare per perdersi nei labirinti di serre, c’è chi, in un paradossale movimento uguale e contrario, parte – via terra – inseguendo un altro miraggio: un lavoro in Germania. Regione della Ruhr. Essen, Dortmund, Duisburg, Mülheim an der Ruhr.

E di questo movimento uguale e contrario, di questo esodo nostro, te ne accorgi da tanti indizi: certe conversazioni nei bar dove riecheggia puntuale qualche nome di città tedesca, pronunciato magari con un accento puro-agrigentino ma con piglio sicuro, di chi ha dimestichezza con luoghi e lingua; certe tappezzerie di pelliccia che rivestono a volte i sedili delle macchine, anche se si è in piena estate a 40 gradi all’ombra; certi assembramenti umani che si rinnovano a orari precisi, in giorni precisi, in piazza dell’Emigrante, non lontano dalla via Germania.

Toponomastica del viaggio in cerca di fortuna…

«Un’altra delle nostre antiche usanze», si potrebbe dire con una certa dose di autoironia… come quell’altra usanza, propria dei vecchi (vecchi emigranti spesso, rientrati infine in paese), di starsene eternamente seduti davanti ai bar o su qualche panchina in un angolo di piazza, quasi a presidiare ostinati un territorio che si spopola piano di uomini in età da lavoro e si popola rapido di case, palazzine, villette conquistate mattone su mattone con i soldi delle rimesse e quasi sempre lasciate così, non-del-tutto-finite, a presidiare anch’esse il territorio in una disordinata selvaggia disperata occupazione del suolo natìo contro ogni piano urbanistico, ogni principio di salvaguardia del patrimonio architettonico, ogni sforzo dell’amministrazione pubblica che, in un movimento uguale e contrario, ristruttura chiese, monasteri, torri, castelli, palazzi ducali, quel che resta della «Donnafugata prediletta» del Gattopardo, nel tentativo di salvaguardare «la memoria! la memoria!»… e la Storia, con i suoi antichi fasti e i recenti trascorsi ne-fasti: antichità di città santa costruita secondo un’ideale via crucis, con tanto di Golgota e di indulgenza plenaria garantita ai pellegrini; passato anni Sessanta di città-emblema della «tragedia meridionale» nella sua più «negativa perfezione» (come ebbe a dire un esperto di questioni meridionali e mafiose qual era Giuseppe Fava), in puntuale e ironica controtendenza con quel boom economico che intanto lanciava l’Italia verso il primo assaggio di benessere post-bellico.

Un benessere che oggi, a suo modo, almeno nei suoi aspetti più esteriori è arrivato fin qui: tra i capannelli di ragazzi e ragazze in sella ai motorini davanti alle sale gioco, ai locali febbricitanti di luci, ai bar… una birra o un long drink in una mano, un cellulare o una sigaretta nell’altra… le cuffiette dell’iPod in un orecchio, due, tre piercing sul labbro, sul sopracciglio, o dovunque vada di moda farlo… Come se, quei ragazzi, fossero tutti, o quasi tutti, appena saltati fuori da un videoclip o da qualche angolo, qualche provincia, qualche sottoprovincia virtuale di Second Life, in cui magari si parla dialetto o si mastica un italiano gergale, ridotto all’osso, mentre ci si veste in una sorta di global style, che a volte sa addirittura di drag queen, di trasgressività transgender divertita o frustrata, e più spesso, di voglia di fuga… verso qualcosa che non sia, che non debba necessariamente essere, la Germania dei padri, ma piuttosto «il mondo! il mondo! nella sua globale modernità!»

Forse per questo, chi ha i mezzi, appena può, se ne va (da qualsiasi altra parte). Forse per questo c’è chi invece si è ostinato a realizzare proprio qui, in quest’angolo remoto d’Italia, una delle più belle biblioteche multimediali della regione.

Così tu, viaggiatore capitato lì per caso, alla fine, non riesci a far combaciare più nulla: immigrati che arrivano; emigranti che vanno; vecchi mummificati nei loro riti sociali fatti di giocate a carte e chiacchiere al bar; giovani transnazional-mediatici proiettati verso un qualche surrogato di modernità o in fuga verso un qualche futuro; biblioteche che tentano il più possibile di colmare distanze culturali; sistemi di produzione all’avanguardia forieri di uno sviluppo economico che non c’è; pratiche agricole ataviche rivedute e corrette a costo di appestare campi e colture; architetture monumentali che evocano antichi fasti e recenti scempi; agglomerati, coaguli, sfilze di case nuove che, nell’insieme, hanno tutta l’aria di un improbabile monumento all’incompiuto o alla casualità; scorci di eden; scorci di spiagge-purgatorio; scorci di Nuovo Mondo; scorci di cimiteri di profughi ignoti , di culto dei morti incondizionato, di civiltà antica; scorci di vite da fantasmi; scorci di esistenze da emigranti; scorci di inquietudini giovanili; scorci di «antichi riti» e illegalità radicate; scorci di mafia; scorci di «terre promesse!», di «serre!», di «germania!», di «memoria!», di «mondo!», di «modernità!» dove l’esclamativo si porta dietro sempre una coda, un contrappunto ironico, amaro… Come quegli «alberi!» del Gattopardo avvistati dalla prima carrozza, «i più sbilenchi figli di Madre Natura»… Come quel cielo superbo rossazzurodorato, in cui si stagliano i profili delle facciate di cemento grezzo che ti lasci alle spalle mentre tu, viaggiatore arrivato lì per caso, ti allontani da quell’agglomerato spettrale che, a distanza, ha tutta l’aria di un miraggio assurdo, improbabile: un paese fantasma intrappolato, come per un bizzarro incantesimo, nell’euforia del cielo.

8 COMMENTS

  1. Sarebbe interessante riprendere gli atti di quel convegno di Danilo Dolci citato all’inizio. E poi chiedersi: che cos’è la modernità? E ancora: che cos’è la modernità in Sicilia?

  2. Ho trovato questo testo splendide, sotto cielo remoto del Gattopardo, la melanconia dell’isola è diventata disperazione, mare impossibile a amare,
    dolore sbattuto, il viaggiatore vede tutta la tragedia del mondo arenata, è la realtà spogliata contro l’illusione poetico della letteratura. La luce triste del Gattopardo aveva la bellezza del sogno, senza vera tragedia, solo le anime erano ferite. Oggi è la fame che mangia l’isola, la paura degli immigranti che forse non toccano mai la sabbia; oggi è il corpo dell’isola che è toccata.

  3. E’ che in Sicilia la modernità si è presentata sotto le vesti di sommovimento: aggressiva, di superficie, imposta quasi a forza a un tessuto che non voleva (non vuole) saperne. Basta vedere il moderno post-terremoto dei paesi del Belice, ne sono l’esempio più lampante: pale eoliche accanto al cretto di Burri di Gibellina, assurde tangenziali per uscire ed entrare da paesi piccolissimi, case enormi spesso abbandonate per andare in Germaniao nel Nordest, appunto. Viene da pensare che prima o poi queste propaggini di una modernità nata esausta verrano inghiottite da altri definitivi sommovimenti – diventeranno resti.

  4. marilena, magari i problemi della sicilia fossero le pale eoliche vicino la cretto di burri.
    a gibellina “nuova” la splendida chiesa di Quaroni si è aperta in due prima ancora di essere consacrata, non che io sia particolarmente religiosa, ma almeno un po’ di decenza e di cemento a norma ci poteva stare….
    il “sistema delle piazze” (sulla carta bella idea di agorà) ha crepe, dopo pochi anni, che neanche una città bombardata.
    il cretto credo che sia ancora incompiuto e sicuramente già coperto di erbacce.
    le nuove insediazioni urbane sono state edificate sulle terre dei soliti noti, e le promesse di lavoro e cultura (laboratori culturali ed artigianali per i giovani, botteghe di scenografia, ceramica e via blaterando) parole al vento da sogni, se si è in buona fede, o da campagna elettorale, se si è realisti.
    fin quando c’era la prima donna corrao, sindaco della ricostruzione e del sogno (mediamente colto ed appassionato) qualcosa sembrava andare per il giusto verso, qualcosa si muoveva, con tutte le critiche che gli si potevano muovere (discrso troppo lungo). ora, con il nuovo che avanza a passo di granchio, quella sicilia che dal 61 a 0 non si è più ripresa, quegli embrioni di “cultura” (penso alle preistoriche orestiadi di gibellina) sono lontani anni luce.
    baciamo le mani!

  5. A Giacomo.
    Esiste un documento anche filmico su quel convegno. È impressionante vedere cos’era Palma, non diversamente dai Sassi di Matera o da tante altre «vergogne d’Italia».
    La Palma di adesso è infinitamente più integrata nel tessuto economico, sociale e culturale dell’italia, ma, allo stesso tempo, è ancora infinatemente lontana da un senso moderno di convivenza civile condiviso. Non che non ci siano singoli casi o singole esperieze di straordinario impegno civile e culturale, o avanposti di una sensibilità moderna, ma non mi sembra che tutto ciò riesca a penetrare in modo capillare e significativo sul territorio.
    Certo, sulla modernità così come è percepita e sperimentata in zone o strati socio-economici marginali non solo del sud o nelle retrovie delle province profonde d’Italia (del sud, del centro così come del nord) si dovrebbe parlare a lungo. E credo che, per certi versi, troveremmo molti tratti simili…

    A Marilena Renda.
    Credo che il caso del Belice abbia dei tratti suoi propri, sia il frutto di una concezione urbanistica aberrante, di una cecità che ha creato cittadine anonime o inospitali, come Gibellina…
    In genere, non credo tanto che il problema stia nell’imposizione della modernità «a forza su un tessuto che non vuole saperne». Credo che
    1) sul piano del Pubblico ci sia stato spesso un cortocircuito tra interessi privatistici più o meno collusi (di grande portata o di piccolo calibro) e un altissimo tasso di improvvisazione e noncuranza.
    2) sul piano del Privato sia prevalso troppo spesso un sentimento distorto in cui il bene pubblico, il territorio, il patrimonio architettonico, gli spazi urbani condivisi o sono stati trattati con somma indifferenza o sono stati considerati terre di nessuno o terre di conquista di cui appropriarsi senza dover rendere conto a nessuno. Tutte cose che hanno anche a che vedere con una visione distorta di cittadinanza, una visione che ha avuto (e ancora ha) conseguenze in molti ambiti della vita civile.
    A Vèronique Vergé.
    Sì, ho provato a raccontare un corpo ferito in tutta la sua ineludibile evidenza, cercando di toccare con lo sguardo però (seppure solo per accenni) anche rigurgiti nascosti di pietà umana che mi hanno commosso, come quel culto dei morti, di tutti i morti, che resiste tenace come traccia ineludibile di civiltà: le lapidi del cimitero dedicate ai profughi ignoti…

  6. Stalker,
    sì, il Belice ha avuto un’involuzione sul piano delle «manfestazioni culturali» che fa paura, però… però… quelle orestiadi che ho apprezzato moltissimo, quel fermento, quell’idea di coniugare piani urbanistici e intuizioni architettoniche moderne (il sistema delle piazze), quell’idea di far abitare l’arte nelle cittadine più remote, come è accaduto nel caso appunto di Gibellina, cos’ha generato, se non uno spaesamento terribile?
    Tutto ciò è accaduto nella totale noncuranza di quello che era Gibellina prima del terremoto, una comunità essenzialmente agricola in cui la gente viveva del lavoro nelle terre (terre, da cui quella comunità è stata portata lontanissimo).

    A mio parere proprio il Belice è l’esempio più drammatico di quel che spesso accade ed è accaduto (non solo in Sicilia).
    Troppo spesso si dimentica infatti che la cultura è qualcosa che non può vivere in modo decontestualizzato, deve incarnarsi nei mondi che tocca, deve sollecitare e chiamare in causa il più possibile quei mondi, i suoi giovani, se no, rischia di produrre nient’altro che eventi su eventi su eventi, magari meravigliosi ma destinati a non lasciare segni duraturi.

    Gibellina credo che oggi paghi le conseguenze anche del fatto di essere stata trattata (direi addirittura «rifondata») come un palcoscenico, una scenografia suggestiva… non come un luogo vivo e ferito.

    Ci vado ogni anno d’estate, come a un appuntamento cui non è dato mancare.
    Non ho mai visto un gruppo di vecchi o di giovani fare capannello o stare a chiacchierare in quello spettrale sistema delle piazze… Che razza di spazio urbano è un luogo che non è abitato!?

    (Certo Corrao, il sindaco della ricostruzione, è uomo mediamente colto e appassionato, ha avuto intuizioni interessanti, ha cercato di portare Gibellina sulla ribalta internazionale, però ho come l’impressione che abbia preferito navigare in solitario guardando solo verso la sua personalissima meta… lo dico tra parentesi, perché so che, di sindaci così, anche se con tutti i suoi limiti, ce ne sono pochissimi in giro, e ce n’erano ancora meno allora).

  7. Evelina, d’accordo con te sulle contraddizioni di Gibellina e sulla figura di Corrao, se poi penso che a pochi chilometri da dove Corrao inseguiva un sogno (per altri un incubo), ora c’è Sgarbi con tutta la sua paccottaglia e tutta la sua fuffa di nani e ballerine…..
    ps ripenso a Le Troiane di Thierry Salmon, e a quanto ne sia valsa la pena, quella notte, arrampicarmi per tornanti bui fino al cretto…

  8. Certo certo! Condivido. Il problema che ponevo ha più a che vedere con il futuro a partire da quel che è stato fatto da chi ha avuto una visione (per quanto non esente da limiti) della gestione della cosa pubblica! Di Sgarbi, non voglio nemmeno parlare. Non ne vale la pena. Di Corrao invece sì, perché serve molto a capire come ripensare il Sud.

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